Alberto Bentoglio

Teatro per non dimenticare: Il diario di Anna Frank sulle scene italiane del secondo Novecento

“Il Diario di Anna Frank non è propriamente uno spettacolo teatrale: è un atto di fede e di dolore”. Sono passati quasi cinquant’anni da quando, nel 1957, l’adattamento teatrale del Diario è stato rappresentato in Italia dalla Compagnia dei Giovani, per la regia di Giorgio de Lullo. Da allora, artisti più o meno noti, registi più o meno sensibili, si sono confrontati con la vicenda di Anna, ebrea, morta sedicenne nel campo di concentramento di Belsen, dopo due anni di inutile e disumana segregazione all’ultimo piano di un palazzotto di Amsterdam. Interrogarsi oggi sulla necessità di mettere in scena, di rappresentare, di dare voce al Diario di Anna Frank assume, quindi, un significato che valica il puro e semplice evento teatrale per evidenziare il ruolo che il teatro può assumere nella società contemporanea.

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Luca Bernardini

Una verità non artistica su Auschwitz: procedimenti narrativi e della rappresentazione

E’ ancora valida, a 60 anni dalla conclusione della guerra, la frase di Adorno per cui «è un atto di barbarie pensare di scrivere un'opera di poesia dopo Auschwitz»? Se l’interpretazione dell’assunto adorniano vuole essere «barbarico» scrivere poesia senza tener conto del fatto che Auschwitz è stato, e che quindi la poesia deve ‘contenere’ Auschwitz, forse oggi siamo chiamati a riflettere sulla liceità etica della poesia non dopo, ma su Auschwitz: ovvero sulle modalità di rappresentazione della Shoa. Oggi su Auschwitz “si fa poesia”: è lecito e necessario fornire un giudizio sul come. Il medium più a rischio sembra essere il cinema. Il linguaggio cinematografico è stato previsto dallo scrittore polacco T. Borowski nel suo Pozegnanie z Maria, scandito dal montaggio e da diversi piani-prospettiva. D’altra parte, in Schindler’s List Spielberg ha usato procedimenti narrativi impiegati in Indiana Jones, e si è arrogato il diritto di mostrare a tutti ciò di cui non rimane nemmeno una fotografia: l’interno delle camere a gas. «Il n’y a pas eu de photographies de ce qui s’est passé à l’intérieur des crématoires. Seuls les yeux et la main de David Olère restituent la terrible vérité.» Nei disegni del pittore David Olère «il est souvent present lui, le témoin». Il disegno sembra adempiere ai requisiti della testimonianza, e questo rende attendibile l’opera del fumettista Art Spiegelmann, che ‘firma’ Maus col suo ‘volto’. Vale allora forse la pena di adottare il concetto - elaborato dallo scrittore polacco Henryk Grynberg - di «Verità non artistica» come metro di giudizio da impiegare verso opere che rischiano di denegare il tratto fondamentale della Shoa, la sua unicità, la sua esorbitanza, riducendola a una favola

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Silvia Bignami

Counter-monuments: memoria e rappresentazione tra Austria e Germania.

Nel ventesimo secolo il monumento commemorativo tradizionale ha subito una radicale trasformazione, mostrando come la memoria possa perpetuarsi in nuove modalità di intervento artistico, che mettono in discussione quella dimensione apologetica storicamente tipica dei monumenti.
Sotto la definizione di counter-monument, - una sorta di antimonumento (o monumento al contrario) - si possono assimilare alcune opere che, in Germania e in Austria, celebrano il dramma dell’Olocausto e costituiscono una riflessione a posteriori sullo Shoah.
Das Hamburger Mahnmal gegen Fascismus e 2146 Steine dei coniugi Jochen e Easther Shalev Gerz e il memoriale di Rachel Whiteread sono esemplari concretizzazioni di questa nuova tipologia, che parte dal concetto che l’unica memoria “solida e pesante” sia quella personale; invece di lavorare sull’idea di celebrazione, essi pensano che l’artista debba evocare quel terribile vuoto lasciato dallo sterminio.
In Das Hamburger Mahnmal gegen Fascismus (1986-93) - una colonna che a mano mano è stata completamente interrata e nel giro di sette anni è diventata semplicemente una placca per terra - i Gerz, pur usando un materiale solido e concreto come il piombo, costruiscono il loro monumento con un esplicito meccanismo di scomparsa; dunque, ne progettano la fine, il destino effimero.
Con l’aiuto delle comunità ebraiche, in 2146 Steine (1990-93) Gerz incide sul lato inferiore delle pietre da pavimentazione della piazza del Castello di Saarbrücken, i nomi dei 2146 cimiteri ebraici tedeschi: la piazza del Castello acquista così una nuova denominazione, da Schlossplatz a Platz des unsichtbaren Mahnmals (Piazza del monumento invisibile).
Anche il memoriale dedicato all’Olocausto di Rachel Whiteread, che si è inaugurato il 25 ottobre 2000 a Vienna nella Judenplatz, si contrappone al monumento eroico, proponendo un’immagine solida di un’assenza, di un vuoto incolmabile. L’opera è costituita da un parallelepipedo in cemento, sul cui basamento sono incisi i nomi dei campi di concentramento dove perirono gli ebrei viennesi. Il parallelepipedo rappresenta una biblioteca inaccessibile, con la porta chiusa e con il dorso dei libri negli scaffali rivolto allo spazio vuoto all’interno della costruzione: come una sorta di libreria ermetica e invertita, un classico esempio di counter-monument. L’artista ha scelto l’immagine del libro, perché rappresenta il santuario del sapere ebraico e permette il perpetuarsi della tradizione. In questo modo la Whiteread evoca uno spazio impenetrabile di rievocazione pubblica e privata, che coniuga al contempo sperimentazione e memoria.

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Paola Bozzi

Posizionalità e postmemoria. Incontri con la letteratura, la fotografia e l'architettura: Ruth Klüger, Christoph Dahlhausen, Paul Celan, Daniel Libeskind

Attraverso una discussione del concetto femminista di posizionalità, la nozione di lettura autobiografica e l'idea di postmemoria il mio intervento cercherà di esaminare il problema dell'investimento personale nel confronto col tema della Shoah ed in particolare il ruolo che in esso giocano collocazione, memoria personale e culturale ovv. identificazione ed empatia. Analizzerò a tal scopo alcuni esempi particolarmente significativi (Ruth Klüger, Christoph Dahlhausen, Paul Celan, Daniel Libeskind) che attraverso specifiche strategie estetiche - in letteratura, fotografia ed architettura - tendono a complicare e frustrare ogni desiderio di proiezione o ricerca di sé, consentendo così una discussione critica sia dell'opera nel suo rapporto con la Shoah sia della nostra reazione ad essa.

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Giovanna Brogi

I massacri di Babij Jar. Memoria e letteratura in Russia e in Ucraina

A Kiev, nel baratro di Babij Jar, i nazisti effettuarono il primo massacro su grande scala della Shoah (settembre 1941). Nascosto per ragioni politiche, solo temporaneamente risuscitato da alcuni scrittori russi e ucraini, è ancor oggi al centro della tormentata vicenda dei rapporti fra ucraini ed ebrei. Descriverò alcune opere letterarie dedicate a questa tragedia: una poesia di E. Evtushenko, un romanzo di A. Kuznecov, un'antologia di scritti uscita in Ucraina nell 2003. Il tutto sullo sfondo dei documenti raccolti e pubblicati da Al'tman, Erenburg e V. Grossman.

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Luigi Bruti Liberati

Olocausto e guerra fredda attraverso lo specchio di Hollywood, 1945-1960.

Nel mio intervento discuterò l'impatto dell'Olocausto sulla società americana negli anni immediatamente successivi alla guerra, e la rimozione del tema in un periodo in cui lo scontro con l'Unione Sovietica mette in ombra la riflessione sul nazismo e lo sterminio degli ebrei. Dopo un importante film di denuncia sull'antisemitismo come "Odio implacabile" di Dmytryk del 1947 vi è un lungo periodo di silenzio che in pratica viene interrotto solo da "Vincitori e vinti" di Kramer del 1961. Dunque il mio paper verterà essenzialmente su questo silenzio e su questa mancanza di rappresentazione. Solo l'inizio della "era Kennedy" porterà dei cambiamenti.

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Anna Linda Callow

Né in prosa né in poesia. I racconti di Avraham Sutzkever.

Avraham Sutzkever, nato in Bielorussia nel 1913, è il maggior poeta yiddish vivente. Le sue prime opere appaiono negli Anni 30. Sopravvissuto allo sterminio degli ebrei di Vilna ha pubblicato moltissimi volumi di poesia in cui ha affrontato i tema della distruzione dell’ebraismo europeo.

Nelle sue poesie il rigore formale del ritmo e della rima “organizzano” il materiale dell’orrore in uno schema ordinato che porta a una sorta di liberazione, di catarsi; al contrario nei pochi racconti scritti nel corso della sua lunga carriera, tra i quali spicca Griner Akvaryum  (Acquario verde), una raccolta di quindici brani in prosa poetica, l’impressione è quella del sovvertimento violento di ogni tipo di ordine. In essi immagini e metafore si susseguono come in un incubo, si impossessano di ogni cosa senza lasciare scampo, costituendo uno strato così denso e minaccioso da non essere dissipato neanche dall’eventuale “lieto fine” della storia. E’ una prosa difficile in cui l’incertezza formale e lo stravolgimento delle strutture narrative sono usate consapevolmente per esprimere l’angoscia del poeta e ricrearla nel lettore.

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Chiara Cappelletto

Le rotaie di Anselm Kiefer. L’immagine come rovina

L’insieme dell’opera di Anselm Kiefer presenta un arduo lavoro della memoria e sulla memoria in assenza di ricordi. Kiefer, nato nel 1945, non può infatti dare testimonianza diretta di quella storia tedesca, e in particolare del periodo nazista, che è la sua e che egli privilegia nelle diverse realizzazioni dagli anni Sessanta a oggi. L’esigenza di ricordare e di testimoniare la Shoa, per Kiefer inequivocabilmente il male assoluto, confligge dunque con una capacità di esperienza cui manca di necessità il vissuto diretto. Una condizione che è e sarà sempre di più la nostra. Che cosa ricordare e come ricordare sono dunque le questioni in gioco e le domande che l’artista tedesco pone con i suoi lavori.
I suoi quadri, e più in generale le sue diverse realizzazioni, sono tutt’altro che astratti e però, nella loro materialità talvolta decisamente retorica, non si possono propriamente definire figurativi. Essi sono d’altra parte pienamente rappresentativi. Si tratta allora di comprendere di che cosa mai e come siano rappresentativi, quando la loro stessa materia è rotta e bruciata come la storia che vi è narrata da materiali lavorati dal tempo.
Le immagini di Kiefer sono immagini che producono rovine. Raccolgono morti avanzi di macerie abbandonate a se stesse e, in quanto immagini visive, li trasformano in rovine che indicano il cammino per una rappresentazione della storia altrimenti tanto necessaria quanto impossibile. Semi di girasole bruciati e paglia, piombo e stoffa, sabbia e cenere, cuoio e vestiti, argilla e capelli raggiungono così un effetto di iperrealtà della rovina.
Proprio in virtù di questa lucida resa alla caducità degli elementi, Kiefer raggiunge talvolta una sorta di effetto “più vero del vero”. E tuttavia, questa concretezza fisica del tempo rappresentato si realizza attraverso un effetto di straniamento grazie al quale non si aderisce al malinconico ricordo della tragedia passata e si riesce invece a rappresentare ciò che in quanto tragico è inappropiabile ma che, come passato, è invece oggetto di racconto.

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Marco Castellari

Documento e allegoria. Strategie di rappresentazione ne L’istruttoria di Peter Weiss.

Fin dall’annuncio della sua prima rappresentazione, il 19 ottobre 1965 in contemporanea su 15 palcoscenici europei, L'istruttoria di Peter Weiss scatenò un acceso dibattito nell’opinione pubblica e nella critica teatrale e letteraria. La pretesa di autenticità della forma documentaria fu posta in discussione soprattutto per ragioni morali e politiche, in un clima di contrapposizione ideologica cui contribuirono anche le affermazioni dell’autore. Nel corso dei decenni successivi la ricerca ha acribicamente confrontato fonti processuali e testo drammatico, modulando il proprio giudizio sul metro della fedeltà ai fatti ovvero alle dottrine, e ha inserito il dramma nella parabola artistica di Weiss, concentrandosi viepiù sulla prospettiva tarda del romanzo-fiume Estetica della resistenza quale revoca della stagione del teatro documentario. Non sono mancate voci aspramente critiche nei confronti de L‘istruttoria, accusata fra l’altro di non curarsi della specificità ebraica del genocidio perpetrato ad Auschwitz; su un piano più generale, numerosi studiosi, specie d’area anglosassone, non hanno perdonato a Weiss la commistione fra veridicità ed esemplarità, fra poesia e ricostruzione. Le indagini degli ultimi anni, invece, differenziando un’ingenua concezione di documentarismo, invitano a considerare la pluralità delle fonti e il loro composito intreccio intertestuale nel dramma di Weiss, mentre la costituzione e lo scandaglio del Peter-Weiss-Archiv di Berlino sono culminati nella recentissima pubblicazione di un testo inedito, Inferno, appartenente al medesimo progetto di drammatizzazione della Commedia dantesca da cui scaturì anche L'istruttoria. Sulla scorta di queste nuove acquisizioni, l’intervento mira a rivalutare la soluzione di Weiss al problema della rappresentazione della shoah, evidenziando l’ampia gamma di strategie retoriche grazie alle quali il drammaturgo ha forgiato il materiale documentario in un testo di complessa e controversa strutturazione semantica.

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Massimo Ciaravolo:

La voce di Cordelia Edvardson, “bambina bruciata”

Nata nel 1929, tedesca e per tre quarti ebrea, Cordelia vive la persecuzione da bambina, fino all’indelebile esperienza di Auschwitz e di altri campi tra il 1944 e il 1945. Si salva grazie all’intervento della Croce Rossa svedese, che dalla primavera del ’45 conduce in Svezia alcune migliaia di ebrei sopravvissuti all’annientamento. Il trauma che Cordelia deve integrare è doppio; è infatti figlia della scrittrice tedesca Elisabeth Langgässer, ebrea solo per metà e di religione cattolica. Per la tassonomia delle leggi razziali naziste la ragazzina dovette partire, mentre la madre poté restare a casa, ovvero, la ragazzina si sacrificò per salvare la madre e la sua nuova famiglia ariana. Giornalista e scrittrice di lingua svedese dagli anni Cinquanta, e dal 1974 residente in Israele, Cordelia Edvardson ha rappresentato in quattro libri in prosa i suoi ricordi e la sua angoscia. Nel terzo, Bränt barn söker sig till elden (lett. “Bambina bruciata si avvicina al fuoco”) del 1984, è riuscita a intrecciare compiutamente la testimonianza sulla Shoah e la riflessione sulla relazione con la madre, che inevitabilmente comporta una riflessione sul rapporto tra vita e scrittura. Qui la narrazione a frammenti e non cronologica richiama il percorso psicoanalitico, grazie al quale una nuova discesa negli inferi è possibile.

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Alessandro Costazza

La memoria dei posteri: la Shoah nel romanzo e nel film Gebürtig, di Robert Schindel.

Nelle terre dei carnefici vivono ancora le vittime di un tempo: in Austria e in Germania non solo abitano ancora numerosi ebrei, ma i figli e le figlie degli scampati allo sterminio, la cosiddetta “seconda generazione”, ha riscoperto una propria identità ebraica, che pur rimanendo spesso laica, rifiuta l’assimilazione. Negli ultimi vent’anni, questa “seconda generazione” ha prodotto un numero considerevole di giovani scrittori, che nelle loro opere hanno tematizzato i diversi problemi del rapporto tra ebrei e abitanti dell’Austria o della Germania di oggi, smascherando i numerosi miti e pregiudizi, negativi o anche positivi, che lo caratterizzano. Servendosi spesso dell’ironia, questi autori non rifuggono nemmeno dall’autocritica e denunciano dall’altra parte tanto l’antisemitismo che un certo filosemitismo. Per tutti questi autori, il confronto con il passato e in particolare con la Shoah, è assolutamente imprescindibile, avvenga esso pure talvolta nella forma del rifiuto a riconoscere nello sterminio degli ebrei un fondamento della propria identità.
Molti di questi aspetti, il rapporto degli ebrei e in particolare di circoli intellettuali e di scrittori con i tedeschi e soprattutto con gli austriaci, rappresentano anche il tema del romanzo Gebürtig (1992) del poeta austriaco Robert Schindel, che sarà oggetto della mia analisi. Questo romanzo tipicamente postmoderno, in cui il carattere fizionale del racconto viene continuamente e diversamente smascherato, rappresenta per così dire un caleidoscopio dei differenti atteggiamenti tanto degli ebrei austriaci e tedeschi che degli stessi austriaci e dei tedeschi nei confronti del tragico passato che li accomuna e in particolare della Shoah.
Nel film tratto da questo romanzo (2002), a cui ha collaborato lo stesso Schindel, soluzioni diverse e per diversi aspetti anche più radicali di quelle adottate nel romanzo servono a dimostrare quali possono essere oggi per la “seconda generazione” le possibilità di rappresentare in modo più indiretto ma non per questo meno efficace l’irrapresentabile della Shoah.

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Annalisa Di Liddo

Memoria e rappresentazione in Maus di Art Spiegelman

L’intervento prenderà in esame Maus di Art Spiegelman (pubblicato nel 1986), un romanzo a fumetti che ripercorre le vicende vissute dal padre dell’autore, Vladek, un ebreo polacco sopravvissuto ad Auschwitz e successivamente emigrato negli Stati Uniti. La rievocazione della vita di Vladek si fonde con la cronaca del presente degli anni Ottanta, segnato dal difficile rapporto tra il sopravvissuto e il figlio.
L’analisi dei temi principali e di alcune tavole di questo graphic novel cercherà di mettere in luce il complesso impianto narrativo e le peculiari scelte espressive che lo contraddistinguono, con particolare riferimento all’uso della metafora animale, che fa sì che la tradizione favolistica si mescoli a quella dell’autobiografia e del racconto realistico e, non da ultimo, alla stessa tradizione del fumetto statunitense, peraltro da sempre caratterizzata da una forte presenza ebraica.
Ricostruzione storica, memoriale collettivo e romanzo di introspezione si combinano in un testo composito e stratificato, che è innanzitutto un’operazione politica e che esplora i motivi fondamentali dell’urgenza della memoria e della contemporanea percezione dell’impossibilità di rappresentare la Shoah – motivi che, grazie alle modalità espressive del fumetto e alla peculiare cifra stilistica di Spiegelman, vengono affrontati con esiti innovativi e sfociano dunque in una ricca serie di spunti di riflessione.

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Elio Franzini

Rappresentazione e catarsi

La nota affermazione di Adorno sull'impossibilità di scrivere poesia dopo la barbarie dei campi di sterminio, apre un problema che tocca da vicino il tema della Shoà, quello della "rappresentazione dell'irrapresentabile". E' questa, come è noto, sin dalla tragedia classica, e dalla sua teorizzazione aristotelica, una questione nodale, che anche recentemente, sul piano dell'arte filmica, ha trovato variate soluzioni sceniche. Senza entrare nel merito della loro "accettabilità", e tanto meno dei loro esiti "estetici", esse aprono un problema teorico che la rappresentazione "artistica" dello sterminio ha forse, e proprio con la provocazione adorniana, evidenziato: infatti, se è indubbio che la "rappresentazione", anche dell'orrore, ha in sé una dimensione simbolica che attesta il valore etico e memoriale dell'evento, sorge al tempo stesso il dubbio che nello sterminio nazista vi sia un piano di senso in cui il significato simbolico meglio si manifesta se rimane chiuso nello spazio-tempo dell'invisibile. Vi sono dunque eventi che non possono e non debbono essere rappresentati per motivi intrinseci alla natura stessa dei loro contenuti. Il senso simbolico e fondativo di questi eventi è tale perché vi è in essi, senza alcun bisogno di "poesia", una frattura originaria che, all'interno di questo iato, si mantiene e si rinnova. Al contrario, la volontà di porre la frattura sulla "scena", di farla divenire "spettacolo", corre il pericolo di un compimento catartico, che scioglie proprio ciò che vorrebbe tramandare, cioè il senso profondo e disperato di una comunicazione simbolica senza redenzione, in cui la scissione è sempre aperta e che non può dunque essere ridotta a un troppo contingente cronotopo, alla transitoria dimensione di un "piacere estetico".

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Franz Haas

La gaia Carinzia ieri e oggi: Tanzcafè Treblinka di Werner Kofler

In Austria i conti con il nazionalsocialismo sono stati fatti tardi. Per decenni la storiografia ufficiale ha spacciato il Paese quale prima vittima del nazismo. A differenza della Germania dove, nei processi di Francoforte, seppur con venti anni di ritardo, si cercava di fare giustizia, in Austria un serio dibattito sulle proprie colpe è cominciato solo dopo il caso Waldheim nel 1986. Ma nell’Austria di oggi, in particolare nella Carinzia di Jörg Haider, vivono tuttora vecchi nostalgici accanto ad una giovane generazione che non vuole più sentire parlare della Shoa. Nella sua pièce teatrale Tanzcafè Treblinka (2001) l’autore Werner Kofler, nato in Carinzia nel 1947, mette a confronto le due generazioni partendo da un dato di fatto: Ernst Lerch, uno dei responsabili del campo di sterminio di Treblinka, assolto in due processi farsa, ha potuto gestire la nota balera “Tanzcafè Lerch” a Klagenfurt per molti anni. Il testo consiste in due monologhi, in cui un “vecchio” e un “giovane” sintetizzano il dilemma di oggi, l’ossessione del ricordo e il desiderio dell’oblio.

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Rosalba Maletta

«Niemand zeugt für den Zeugen» - Paul Celan e le poetiche dell’assenza

Il presente intervento intende mostrare come la poesia di Celan risulti di ardua interpretazione non perché assimilabile a correnti ermetiche o volutamente criptate, ma in quanto si propone di rappresentare nella lingua tedesca, succhiata con il latte materno e maleficata dai carnefici, l’assenza di rappresentazione di contro al bianco del pensiero scatenato dalla furia di Auschwitz. Il canzoniere celaniano risulta incentrato su un unico nucleo creativo strutturato intorno alla presenza dell’assenza dei morti ammazzati, la cui sorte non può essere pensata se non per via di analogon, costituendo il luogo del testimone la beanza fondante il testo.
Ciò cui codesta opera ci sollecita non è di superare il vuoto lasciato dall’insepoltura e dare sepoltura nella poesia. Incontrare il kolossós nella pietra, nella neve, nel ghiaccio, nella palude significa confrontarsi incessantemente con l’aikía, con l’oltraggio perpetrato sui cadaveri senza che ciò possa ascriversi a una qualche costellazione simbolica.
Pensare il non-mentalizzabile dei campi, delle camere a gas, dei forni crematori significa assumere su di sé una re-sponsabilità che svuota l’uomo e il poeta il quale finirà vampirizzato dal suo stesso prodotto creativo, dacché le premesse si fondano su un progetto impossibile: rappresentarsi quanto non può e non potrà mai essere metabolizzato in una Nachträglichkeit che nulla può concedere alle imprecisioni, ai buchi, alle sbavature della memoria, perché la specie homo sapiens sapiens non può permettersi di parlare di Auschwitz affidandosi alle trappole, necessariamente idealizzanti, della Deckerinnerung.
Questa poesia uscita dallo sterminio, ma che non se ne vuole emancipare, pone il lettore dinanzi al non-percetto dove l’oggetto, insepolto, rimane insignificabile e torna come persecutorio. Codesto salterio composto in causa di Auschwitz esige allora lettori non solo attenti, ma «senza memoria e senza desiderio» nell’accezione di W. R. Bion: incondizionatamente disposti a mettersi in ascolto del testo.

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Maria Mayer Modena

La Shoah nella poesia israeliana

La lettura della poesia israeliana ispirata alla Shoà, opera di testimoni più o meno diretti prima, e della “seconda generazione” poi, suggerisce, fra le possibili interpretazioni, anche quella del verificarsi, a livello estremo, dell’umanissimo conflitto fra la spinta a comunicare, la necessità di ricordare e la paura di esprimere quello che è troppo terribile.
Si tratta dello stesso conflitto che è alla base di fenomeni dell’interdizione linguistica, che dà origine a continue innovazioni lessicali e stilistiche e di cui non si è sempre ravvisato l’importanza in campo letterario.
Il ricorso, nell’affrontare il tema della Shoà, alle lezioni europee dell’espressionismo (in Greenberg), del surrealismo(Gilboa) o del simbolismo (Altermann) da una parte, e a quello della tradizione ebraica, biblica (sacrificio di Isacco) e medievale, sembrano collocarsi su questa stessa linea.
Per contro, nella poesia più strettamente “contemporanea”, assume particolare importanza il “minimalismo”, spesso caratteristico delle poetesse della “seconda generazione (Semel).

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Mariangela Mazzocchi Doglio

Presa di coscienza e funzione taumaturgica nella drammaturgia della Shoah: l'esperienza di Jean Claude Grumberg.

Jean Claude Grumberg,è uno dei maggiori drammaturghi nel panorama del teatro francese contemporaneo. Nato a Parigi nel 1939 in una famiglia ebrea, ha costruito la propria opera ricordando la sua gente e cercando di rappresentare la grande tragedia della shoah. Di particolare importanza una trilogia sull'olocausto: Dreyfus, Zone libre, L'Atelier, caratterizzata da un lato dalla caricatura del mondo contemporaneo e dall'altro dall'attenzione verso la dimensione storica dell'uomo, dalle illusioni spezzate in un teatro costantemente in bilico fra il riso e il pianto.

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Francesca Melzi d’Eril

Sarah Kofman tra silenzio e parola.

Nella mia comunicazione intendo presentare la figura di Sarah Kofman, filosofo francese (1934-1994), docente alla Sorbonne, conosciuta come femminista e rappresentante del decostruzionismo, collaboratrice di Derrida, morta suicida nel 1994. Farò riferimento dapprima a Autobiogriffure (1976), un testo in cui l’identità umana viene decostruita attraverso il rimaneggiamento del genere autobiografico: scomparsa delle maiuscole che suggerisce la scomparsa del nome, scomparsa dell’autore dissimulato sotto la scrittura di un gatto. In un secondo momento volgerò la mia attenzione a Paroles suffoquées ( 1987) e a Rue Ordener Rue Labat,(1994) una breve autobiografia di sole 87 pp. Il titolo indica due strade di Parigi, in cui l’autrice vive la sua esperienza di bambina ebrea durante la Seconda Guerra mondiale. Nel 1942 il padre della Kofman, un rabbino polacco, viene arrestato e mandato a Auschwitz dove morirà di percosse per aver voluto rispettare il Sabato. Sarah viene ospitata da una famiglia francese che la trasforma in una bambina francese, Suzanne, alienandola completamente dalla sua origine. Nel momento in cui Sarah deve ridiventare ebrea, tornare dalla sua vera madre non ritrova più la sua identità. La Kofman sembrava aver dimenticato questa frattura anche se tale trauma infantile giocherà un ruolo fondamentale nella sua opera L’enfance de l’art(1970). Rue Ordener, rue Labat è la storia di una donna che riesce infine a ricordare anche se non riesce a raggiungere un ricongiungimento con la madre, né riesce a sublimare i ricordi, come forse altri hanno tentato di fare. Al pari di molti altri bambini ebrei salvati da famiglie francesi, salvati come persone e al tempo stesso distrutti nella loro identità, Sarah Kofman giunge a ricordare ma non arriva a ricomporre la sua identità. In Primo Levi la ferita aperta e visibile permise la sopravvivenza della sua identità, mentre l’identità della Kofman fu disintegrata.

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Ester Fintz Menascé

“L’esodo degli innocenti”: a proposito del dramma Kindertransport, die Diane Samuels.

In seguito alla catena di pogrom scoppiati in Germania la notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, passata alla storia come “Kristallnacht”, in Gran Bretagna si formò il “Movement for the Care of children from Germany”, che portò nelle Isole Britanniche, a partire dal 10 dicembre fino alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, circa 10.000 bambini ebrei provenienti dai territori allora occupati del Terzo Reich (incluse dunque Austria e Sudetenland, parte della Cecoslovacchia). Bambini che viaggiarono soli, strappati ai genitori o ad altri membri adulti della propria famiglia: un dramma all’interno del più grande dramma che stava per abbattersi sull’Europa e sul mondo. Partendo da precisi dati storici e avvalendosi delle testimonianze di alcuni di quei già “Kinder”, Diane Samuels (nata a Liverpool nel 1960) costruisce la sua pièce, cui dà il titolo tedesco di Kindertransport (prima assoluta: Londra, aprile 1993; prima negli Stati Uniti: New York, maggio 1994; in Italia: nessuna rappresentazione), uno struggente contributo alla letteratura dell’Olocausto.

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Carlo Pagetti

"Outside a German wood": la narrativa di consumo angloamericana e l'Olocausto.

In quanto narrativa di intrattenimento, il romanzo di genere e di consumo ('popolare') non dovrebbe essere in grado di occuparsi dell'Olocausto, oppure ricadrebbe nella categoria del kitsch e del cattivo gusto sensazionalistico individuata da Saul Friedländer in Reflections of Nazism. An Essay on Kitsch and Death (1984). Tuttavia, la narrativa di consumo più vitale non rinuncia al tentativo di definire sia i propri limiti, sia il proprio rapporto con la letteratura 'alta', affrontando gli eventi estremi della Storia, e indagando nello stesso tempo sulla sua (e non solo sua) inadeguatezza di fronte ad essi. Cruciale è stata negli anni '80 del Novecento l'uscita del graphic novel di Art Spiegelman Maus (cfr. intervento Di Liddo). Altri esempi efficaci sono reperibili nella children's literature (cfr. intervento Palusci).
Il presente paper mostra alcune strategie di rappresentazione dell'Olocausto in tre opere diverse: un racconto pubblicato negli anni '50 da Isaac Asimov, lo scrittore ebreo-americano di fantascienza; il romanzo di storia controfattuale di Robert Harris Fatherland (1992); il film televisivo Conspiracy, diretto da Frank Pierson (2001). In questo telefilm i gerarchi nazisti presenti alla riunione di Wansee (20 gennaio, 1942), vengono recitati da attori famosi come l'inglese Kenneth Branagh e l'americano Stanley Tucci, con un esplicito effetto di straniamento che smaschera e drammatizza l'apparente 'normalità' dell'evento.

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Moira Paleari

I percorsi del ricordo nella lirica femminile di lingua tedesca.

Il mio contributo si prefigge di esaminare le diverse rappresentazioni della shoah di alcune poetesse di lingua tedesca a partire dalla concezione della letteratura come luogo della memoria storica ed individuale e dalla tesi di James E. Young (1992), secondo il quale non è possibile ridurre la shoah a mera ed obiettiva descrizione dei fatti, ma la si deve anche esaminare riflettendo su come la realtà viene ricordata, organizzata e riprodotta a livello testuale. In particolare intendo riflettere sui differenti modi impiegati da Hilda Stern Cohen, Rose Ausländer, Hilde Domin, Dagmar Nick e Ulla Hahn nella loro produzione lirica per porsi nei confronti dell’olocausto, per richiamarne alla memoria gli avvenimenti e per rielaborarli alla luce delle proprie prospettive di ricordo e motivazioni di scrittura.
Il corpus testuale su cui si fonda la mia analisi è il seguente: 1) Poesie di Hilda Stern Cohen, una testimone diretta dell’olocausto, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz. 2) Liriche della poetessa ebrea Rose Ausländer, segnata dalla sua esperienza nel ghetto. 3) Testi della “poetessa dell’esilio” Hilde Domin. 4) »Belsen 1954« di Dagmar Nick. 5) Poesie di Ulla Hahn, esponente della “seconda generazione”.

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Oriana Palusci

Le tre Anne: l'Olocausto e la children's literature

La diffusione del Diario di Anne Frank ha paradossalmente mostrato che le narrazioni dell'Olocausto si situano anche all'interno di un discorso che riguarda la children's literature. Infatti Anne Frank utilizza un linguaggio che, pur nella sua condizione, si può accostare a quello di eroine adolescenti, minacciate dal mondo esterno, come la Anna dai capelli rossi di L.M. Montgomery e alcuni personaggi femminili di E. Nesbit.
Nella narrativa in lingua inglese, la necessità di testimoniare l'Olocausto nella prospettiva limitata, ma sicuramente pregnante dello sguardo infantile, è stata manifestata in modo massiccio, soprattutto a partire dagli anni '80 del Novecento, da romanzi che attingono a vari generi letterari: l'autobiografia (Ruth Minsky Sender, The Cage, 1980; Aranka Siegal, Upon the Head of the Goat, 1982); il libro illustrato (Maurice Sendak, Dear Mili, 1988), dalla fairy tale (Jane Yolen, Briar Rose, 1992), il viaggio fantastico a ritroso nel tempo (Jane Yolen, The Devil's Arithmetic, 1988; Han Nolan, If I Should Die before I Wake, 1994), il "documento" collegato a un museo dell'Olocausto (Carol Matas, Daniel's Story,1993; Karen Levine, Hana's Suitcase, 2002).

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Caroline Patey.

Parole per non dire. La Gran Bretagna di fronte alla Shoah

Dopo il diniego politico che segnò in Gran Bretagna gli anni del secondo conflitto mondiale e nonostante l’ineludibilità della catastrofe, i processi di elaborazione storiografica e di rappresentazione stentano a mettersi in moto e ancora di più ad assumere forme riconoscibili ed esplicite. E’ quindi nel segno della disseminazione delle testimonianze che si muove, faticosamente, la cultura britannica; o ancora, nel solco di una parola traslata, che privilegia le forme del silenzio, della farsa e della ‘indirezione’ (Georg Tabori, Martin Esslin, Harold Pinter). Ci si soffermerà anche sul ruolo di protagonisti meno noti ma cruciali nell’orientare le sorti della cultura britannica contemporanea (Rudolph Laban, Walter Neurath), per tentare infine di comprendere il doppio statuto di assenza/presenza della Shoah e della sua memoria nel contesto inglese.

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Gian Piero Piretto

Birobidzhan,: un non-luogo staliniano o una shoa anticipata?

Nel 1928 l’Unione Sovietica Staliniana emanò un decreto con cui si costituiva la prima repubblica autonoma ebraica, in territorio siberiano, in cui gli ebrei di tutto il mondo avrebbero trovato una terra finalmente loro. Il progetto partì con grande successo e attirò migliaia di ebrei da ogni parte del globo. L’intervento prenderà in esame e modalità e strategie dell’operazione per indagarne la reale natura. Migliaia di artigiani, intellettuali, professionisti sarebbero stati trasformati artificialmente in contadini per assecondare le esigenze della collettivizzazione delle terre in corso. Il territorio prescelto si sarebbe rivelato climaticamente e geograficamente inadatto. Le sue caratteristiche di lontananza (Siberia orientale), la mancanza di radici, di storia, di relazione tra uomini e spazio abitativo lo rendono passibile di essere analizzato come non-luogo, secondo la definizione di Marc Augé, ed inserito in una serie più vasta di spazi analoghi, caratteristica della politica culturale staliniana. La migrazione di popoli, di quello ebraico nella fattispecie, rientra in una sorta di estetica dello spostamento e della deportazione, tipica del realismo socialista, facendo ipotizzare una shoa ante litteram. Questi problemi saranno presi in considerazione sulla base di documenti originali per verificarne il funzionamento nell’ambito della cultura popolare degli anni Trenta e Quaranta, tenendo come punto di riferimento un film propagandistico del 1935, Iskateli schastja (I cercatori di felicità) che fu realizzato per diffondere il messaggio positivo e ottimistico secondo stilemi classici dell’opera d’arte totale negli anni staliniani.

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Stefano Raimondi

Edmond Jabès e l’interrogazione dell’assenza

Interrogare l’assenza, interrogarla dal “Libro”, farla diventare parola che trascina la testimonianza dell’essere al cospetto di un Dio scomparso, messo ai margini dell’umano e del divino stesso. Edmond Jabès è il poeta del “Libro”, è l’errante della parola messa alla prova dal bianco della pagina, dalla tentazione dei margini, dall’oscurità del dire. Con la sua poesia ha saputo compiere una sorta di superamento del detto adorniano, incarnandosi egli stesso nella scrittura del “Libro”: diventando il “Libro” e, di conseguenza, votandosi all’irrinunciabilità dell’oblio.
Da questa “sovversione non sospetta” è come se operasse una “seduzione” al silenzio, imponendosi come una domanda: una traccia originaria in assenza di fondamento. Jabès interroga, dunque, il linguaggio prima che sia espressione, prima che possa rientrare nella condivisione umana dell’abbrutimento.
Un’indagine che parte da “Il Libro dell’interrogazione” per giungere alla rarefazione del “detto”, come una delle prove tangibili della resistenza della parola.
Ebreo di “un’ebraicità laica”, poeta del deserto, cantore dell’esilio Jabès è diventato il poeta che, più di altri, ha percorso il tracciato del “Libro”, ripronunciando la Shoah attraverso i volti e la storia di Yukel e Sarah. Personaggi che raccontano il loro rapporto d’amore estirpatogli dalla terribilità della persecuzione e dalla sconfitta umana della morte.
Il silenzio, qui, si accalca tra le parole jabèsiane, diventando poetico, filosofico e profetico, instaurando con esso una ‘interpretazione che non è più ermeneutica ma interrogativo (questio): una vera e propria “interrogazione dell’interrogazione”, lasciando il Dio assente imprigionato nella sua inclemenza e colpito dal suo stesso ritirarsi “nonostante che”.
Un percorso che dice un modo “altro” di rappresentare la Shoah: un modo dove le parole raccolgono il “resto”, quella parte non condivisibile del silenzio.

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Maria Luisa Roli

Documento storico e finzione narrativa in Jakob Littners Aufzeichnungen aus einem Erdloch di Wolfgang Koeppen

Prendendo come punto di partenza obbligato il saggio di Adorno Kulturkritik und Gesellschaft (1949/51), in cui compare la famosa frase sull’impossibilità di fare poesia dopo Ausschwitz, pur successivamente sottoposta a precisazioni, si accennerà a posizioni favorevoli riguardo alla tematizzazione dell’orrore della persecuzione degli ebrei in letteratura (Böll, Ricoeur, Anders). Quello di Koeppen va considerato come uno dei primissimi tentativi di affrontare il problema della rappresentabilità del male e del dolore estremo da parte di un testimone appartenente al “popolo degli assassini” (1948). La risonanza del testo fu tuttavia quasi uguale a zero finché il testo fu pubblicato sotto il nome di Jakob Littner, mentre la riedizione del 1992 da parte dell’editore Suhrkamp che attribuì la paternità del romanzo a Wolfgang Koeppen, scatenò una ridda di polemiche, alimentate dal ritrovamento e dalla pubblicazione del manoscritto originale di Jakob Littner da parte del germanista Reinhard K. Zachau. La discussione verte sulla questione se soltanto i documenti autentici abbiano il diritto di sopravvivere, mentre ogni interpretazione poetica renderebbe non vero ogni resoconto della sofferenza degli ebrei (Klüger). Una discussione che rimane tuttavia su un piano assolutamente astratto perché, nel caso di Koeppen, nessuno avrebbe cercato il manoscritto di Littner, se il libro non fosse stato ripubblicato sotto il nome di uno scrittore noto. Un conto è dunque la posizione del sopravvissuto ebreo che può considerare i documenti autentici come “reliquie intoccabili”, e qui si sconfina in ambito religioso, un altro conto è la posizione dell’intellettuale non ebreo che testimonia non solo per i non sopravvissuti, ma anche per i sopravvissuti sconosciuti come Jakob Littner. L’intervento si chiuderà su un confronto tra il testo di Littner e quello di Koeppen.

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Claudia Rosenzweig

Scrivere per sopravvivere. La letteratura yiddish e lo sterminio del popolo ebraico

È molto difficile parlare della letteratura yiddish di fronte allo sterminio del popolo ebraico. Di fatto sarebbe necessario parlare di tutta la letteratura yiddish moderna, dal momento che la maggior parte delle vittime erano parlanti yiddish e intellettuali (scrittori, storici, linguisti, etc.) che vivevano sia nella vita quotidiana che nella loro attività scientifica principalmente in yiddish.
Per creare dei criteri generali possono essere stabilite tre categorie di testi:
1. quelli degli ebrei che nei ghetti componevano le loro opere, in diretto contatto con la realtà quotidiana della persecuzione e della violenza nazista, primo fra tutti Ringelblum;
2. quelli dei sopravvissuti, come Ka-Tzetnik;
3. le opere degli scrittori ebrei che lontani dai luoghi dello sterminio, in Unione Sovietica o negli Stati Uniti, non potevano restare indifferenti a quello che accadeva ai loro familiari e all’intero popolo ebraico.
In quest’ultima categoria rientrano gli autori che più di tutti scrissero opere di poesia e di prosa che cambiarono drasticamente il modo in cui gli scrittori stessi concepivano la loro opera. Correnti letterarie dominanti all’interno della letteratura yiddish, come quelle moderniste, venivano travolte dagli eventi. L’individuo si trovava coinvolto nel destino del popolo ebraico, l’estetica doveva essere messa al servizio dell’etica e dell’impegno nei confronti di ciò che restava del popolo ebraico e della cultura ebraica europea in generale.
E’ in questa chiave di lettura che verranno presentate la raccolta Kidesh-haShem, curata da Shmuel Niger nel 1948, e poesie di Celia Dropkin, Kadya Molodovsky, Yankev Glatshteyn.

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Gabriella Rovagnati

Non si emigra da se stessi. La persecuzione del ricordo in Die Ausgewanderten di G. W. Sebald.

Anche a chi è riuscito a eludere gli orrori della persecuzione razziale o li ha subiti in maniera indiretta, colpevole esclusivamente del fatto di appartenere, magari anche solo in parte, al popolo ebraico, la memoria non lascia scampo. I quattro anziani protagonisti dei racconti di W. G. Sebald riuniti nel volume "Die Ausgewanderten" dimostrano come sia destinato al fallimento ogni tentativo di dissimulare la propria identità e di insabbiare il passato. Ogni sforzo di rimozione risulta alla fine inutile per il Dr. Selwyn, medico ebreo di origini lituane emigrato in Inghilterra, per il maestro elementare Paul Bereyter, "ariano solo per tre quarti" e incapace di accettare una scuola inquinata dalle direttive del regime hitleriano, per Ambros Adelwarth, maggiordomo presso una famiglia ebrea emigrata a Long Island e infine per il pittore Max Aurach, esule a Manchester dove, invece di trovare pace, viene aggredito dal ricordo e dal fantasma dei genitori deportati e morti in un Lager nazista. Sebald descrive la Shoa senza mai nominarla, affrontando il tema da lontano e con tutta la discrezione di chi, pur non essendo ebreo, vuole contribuire a non lasciare che la barbarie venga rapidamente offuscata da un velo di colpevole dimenticanza.

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Gabriele Scaramuzza

L'inenarrabile e la testimonianza.

Già in Se questo è un uomo si pongono i termini principali della questione che vorrei affrontare: quella della testimonianza come qualcosa che si dibatte tra impossibilità di dimenticare, bisogno di ricordare e impossibilità di una memoria esauriente. Il bisogno di raccontare si lega a profondi bisogni etici ed esistenziali: speranza che il male subito non si ripeta, desiderio di riconoscimento e di giustizia, volontà di ricostituire un senso della propria vita tra l'altro. Ma vi sono anche potenti ostacoli che si oppongono alla memoria: difficoltà interiori dei sopravvissuti stessi (vergogna e senso di colpa, sfiducia nella possibilità di essere ascoltati, divario tra realtà attraversate e loro espressione, rimozioni). E vi sono impedimenti oggettivi al racconto: l'inenarrabilità della materia, il fatto che a parlare sono i sopravvissuti e non i sommersi, l'assenza di una comunità intorno in grado di accogliere e mettere a frutto le ragioni delle vittime, la volontà di cancellare le tracce da parte di carnefici e revisionisti.
La testimonianza non può porsi come narrazione a pieno titolo (nel senso del narrare benjaminiano), ma come frammento, rovina - non perciò comunque priva di significato e di valore.

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Andrzej Zielinski 

“Viaggio ai confini di una certa morale”. Racconti dal lager di T. Borowski

I due cicli di racconti: Addio a Maria, (1948, trad. it. Paesaggio dopo la battaglia, 1988) e Un mondo di pietra (1948), ispirati alle esperienze di deportato ad Auschwitz dello scrittore polacco Tadeusz Borowski (1922-1951) mettono a nudo il meccanismo della depravazione morale e dell’abiezione di un uomo rinchiuso in un campo di concentramento e mostrano la crisi degli ideali etici umanistici laddove imperi lo sterminio di massa. Per Borowski il campo rappresenta al contempo il logico compiersi di un certo orientamento della cultura europea, come anche un modello estremo di stato totalitario e di sperimentazione imperniata sull’uomo. Il prosatore 22-enne contrappose alle impostazioni martirologiche una crudele e penetrante osservazione del “modo in cui si è” nel campo che, sprigionando meccanismi di adattamento, lega spietatamente tra loro i boia e le loro vittime, le quali “cercano di arrangiarsi” in un mondo di scelleratezze. Bandita ogni emotività dalla narrazione, la semplicità con cui vengono rappresentati gli eventi nei racconti di Borowski confina col cinismo, senza tuttavia oltrepassare mai tale limite

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Anna Linda Callow

Né in prosa né in poesia. I racconti di Avraham Sutzkever.

Avraham Sutzkever, nato in Bielorussia nel 1913, è il maggior poeta yiddish vivente. Le sue prime opere appaiono negli Anni 30. Sopravvissuto allo sterminio degli ebrei di Vilna ha pubblicato moltissimi volumi di poesia in cui ha affrontato i tema della distruzione dell’ebraismo europeo.Nelle sue poesie il rigore formale del ritmo e della rima “organizzano” il materiale dell’orrore in uno schema ordinato che porta a una sorta di liberazione, di catarsi; al contrario nei pochi racconti scritti nel corso della sua lunga carriera, tra i quali spicca Griner Akvaryum  (Acquario verde), una raccolta di quindici brani in prosa poetica, l’impressione è quella del sovvertimento violento di ogni tipo di ordine. In essi immagini e metafore si susseguono come in un incubo, si impossessano di ogni cosa senza lasciare scampo, costituendo uno strato così denso e minaccioso da non essere dissipato neanche dall’eventuale “lieto fine” della storia. E’ una prosa difficile in cui l’incertezza formale e lo stravolgimento delle strutture narrative sono usate consapevolmente per esprimere l’angoscia del poeta e ricrearla nel lettore.

 

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