Nicola Pedone
Augusto Mazzoni, La musica nell’estetica fenomenologica, Mimesis, 2004.

 


(Recensione per Brescia Musica)


Alla fenomenologia di Edmund Husserl (1859 – 1938) si sono ispirati nel tempo svariati tentativi di avviare una riflessione filosofica sulla musica - e questo non solo da parte di filosofi, ma anche di musicisti, conquistati dall’indubbio fascino “fondativo” del pensiero husserliano. Come dirà Enzo Paci nel 1968, presentando al lettore italiano la terza edizione della Crisi delle scienze europee, “la fenomenologia non è qualcosa che si aggiunge alle scienze o alle tecniche o alla letteratura o alla poesia. È, invece, ciò di cui attività pratica, letteratura, scienze e filosofia, sentono in sé come una mancanza. Prima ancora di capire che cos’è la fenomenologia, sia che venga combattuta o accettata, scienze, lettere, arti e politica, la ritrovano in sé come una presa di coscienza”. È su questa base, appunto, che numerosi artisti e intellettuali (non necessariamente filosofi, dunque) hanno sentito l’esigenza di un incontro con la fenomenologia. Tuttavia, anche volendo limitarci alla musica, gli sforzi tesi a coniugare musica e fenomenologia hanno portato nel tempo a risultati tutt’altro che univoci. Si pensi, ma è solo un esempio tra i molti, a come due importanti musicisti del secolo scorso, il compositore René Leibowitz e il direttore d’orchestra Ernest Ansermet, richiamandosi entrambi alla fenomenologia, siano approdati a risultati diametralmente opposti nel giudizio sulla dodecafonia schoenberghiana: il primo consacrandola e quasi “deducendola” filosoficamente, il secondo criticandola in nome del principio della tonalità, rinnovato questa volta su basi filosofiche. I motivi di questa equivocità di esiti sono in parte riconducibili all’opera stessa di Husserl: un’opera di non facile lettura e per di più sottoposta a continui approfondimenti e riformulazioni, testimoniati per altro dalle migliaia di pagine di appunti lasciati dal filosofo. Venendo in particolare alla musica (ma il discorso può generalizzarsi all’arte e all’estetica), sappiamo inoltre che Husserl non affrontò mai l’argomento in maniera sistematica, ragione per cui le sue osservazioni e i suoi spunti vanno rintracciati passando al setaccio l’intera sua opera. Ma un’altra ragione, non meno importante, sta nel fatto che se la fenomenologia si diffuse rapidamente in tutta Europa, ciò avvenne a prezzo di qualche confusione, che generò ibridazioni talvolta accattivanti, ma certamente lontane dallo spirito di rigore filosofico di Husserl. Ci mancò poco (e in certi casi non ci mancò affatto nulla) che quella fenomenologia intesa come “esigenza” e “presa di coscienza” di cui parlava Paci si trasformasse in moda intellettuale o, peggio, degenerasse in un disinvolto quanto superficiale uso di strumenti del pensiero husserliano (pensiamo alla famigerata epoché!).

Ciò detto, un primo, indiscutibile merito del libro di Mazzoni – che correttamente non parla mai di “scuola” o “dottrina” a proposito di fenomenologia, ma semmai di “movimento” o “galassia” fenomenologica - è proprio quello di risalire direttamente alle fonti, cioè a Husserl in primo luogo e a quelli che possono considerarsi gli esponenti dell’estetica fenomenologica delle origini. Si delinea così un percorso che, muovendo da Husserl, passa poi a considerare i primi ambienti in cui si diffusero le sue idee (i circoli di Monaco e di Gottinga, in cui spicca Moritz Geiger) e si articola poi nei nomi di Waldemar Conrad, Roman Ingarden e Alfred Schütz, quest’ultimo ricollegabile a una fase successiva del pensiero husserliano. A ciascuno di questi autori Mazzoni dedica un capitolo che alla chiarezza espositiva unisce l’intelligenza teoretica di chi ha idee in proprio e di quelle si serve per orientarsi in una materia tanto complessa. Mazzoni, in altre parole, interroga questi autori tenendo sempre ben desta un’attenzione estetologica, rivolta cioè ai problemi della costituzione dell’oggetto estetico  e del valore (o dei valori) di cui esso è portatore: come si costituisce quell’orizzonte di valori in cui si colloca l’oggetto di una percezione estetica? Ma prima ancora: in che modo una cosa semplicemente percepita diventa l’oggetto di una percezione estetica? Che, nel caso della musica, significa domandarsi: come avviene che un insieme di suoni divenga un brano dotato di senso per un (soggetto) ascoltatore?  Prendiamo il caso di Husserl, per molti aspetti il più difficile, non solo perché stiamo parlando del fondatore della fenomenologia, ma anche perché, come si è detto, le sue meditazioni sul suono e la musica non sono raccolte sotto un titolo in qualche modo sistematico. Ora, ci ricorda Mazzoni, in Husserl vi sono importanti esemplificazioni rivolte alla sfera sonora in senso lato: analizzare la percezione di un suono, per esempio, serve a Husserl per illustrare i concetti di “durata” e di “coscienza interna del tempo”; oppure, il rapporto tra un singolo suono e la melodia cui esso appartiene può essere fecondamente esemplificativo del rapporto generale tra la parte e il tutto. Ma se vogliamo entrare in un terreno propriamente estetico, allora dovremo cercare tra quelle pagine in cui il filosofo parla del passaggio dal mero “manifestarsi psichico del suono” all’ “ascolto specificamente musicale”. Perche è proprio in questo passaggio “dal campo del mondo naturale a quello del mondo spirituale”, che le cose cessano di essere mere cose per diventare “oggetti culturali, che rimandano sempre a finalità o motivazioni di ordine soggettivo e intersoggettivo”. Husserl definirà così le opere d’arte “oggetti spirituali ideali” che rientrano “nel mondo dello spirito e delle sue obiettivazioni”. Conclusioni che ci conducono nel cuore stesso dell’estetica e a partire dalle quali si muoveranno gli autori prima ricordati. In essi prenderà sempre più corpo la domanda circa lo statuto ontologico dell’opera musicale: quando parliamo della Quarta Sinfonia di Brahms, ad esempio, di che tipo di oggetto stiamo effettivamente parlando? Chiaramente – e su questo sembrano convergere tutti gli autori - non di un oggetto reale, nel senso in cui lo sono la partitura o le diverse esecuzioni possibili di quella sinfonia. Si tratterà allora di un oggetto ideale, come diranno Conrad e Schütz (sebbene di natura diversa rispetto a oggetti ideali quali gli enti geometrici, o i concetti puri), oppure di un oggetto puramente intenzionale, come preferirà esprimersi Ingarden, che ha nella partitura e nelle esecuzioni (oggetti questi sì reali) il proprio fondamento ontico. Resta in ogni caso aperto il problema del rapporto tra queste due classi di oggetti. Come si vede, ci troviamo di fronte a domande che se da un lato rientrano a pieno titolo nella ricerca ontologica, dall’altro spalancano il vasto problema del rapporto tra l’opera musicale nella sua identità e la fluttuante variabilità delle sue possibili esecuzioni - tema strettamente correlato, a sua volta, a quello della percezione (e del giudizio estetico) da parte del soggetto. Conrad, allora, parlerà della costituzione dell’oggetto estetico come di un compito (Aufgabe) che parte dalla descrizione ingenua dell’oggetto per giungere alla sua articolazione in quanto oggetto estetico vero e proprio: “entro l’oggetto estetico si danno delle relazioni il cui compimento da parte soggettiva è prescritto”. Ingarden, forse il filosofo in cui le ambizioni sistematiche sono più esplicite, porrà la distinzione tra l’esecuzione di un’opera e la sua  concretizzazione (“a una sola, identica opera corrispondono innumerevoli esecuzioni, a ogni esecuzione innumerevoli concretizzazioni possibili”). Particolarmente importante è la concretizzazione estetica: “a partire da un’emozione originaria, in cui si compie una sorta di derealizzazione contemplativa rispetto al mondo reale, l’ascoltatore è mosso a ricercare un accordo armonico tra alcune formazioni e qualità rilevanti dell’opera”, in seguito al quale sarà formulato il giudizio estetico (positivo o negativo). Corollario di questo risultato raggiunto da Ingarden è la distinzione tra valore estetico, che è sempre pertinente alla concretizzazione dell’opera in una sua esecuzione, e valore artistico, che pertiene invece all’opera in quanto oggetto puramente intenzionale, correlato alla partitura. Ciò non significa, nota Mazzoni, che i giudizi sul valore artistico vertano sulla nuda e pura schematicità dell’opera; “al contrario, essi riguardano piuttosto la ricchezza potenziale di riempimenti (e quindi, in ultima analisi, di concretizzazioni e di valori estetici) che lo schema consente”.

Come si è potuto notare anche da questi brevi richiami esemplificativi, Mazzoni enuclea sempre con chiarezza le diverse posizioni, cercando anche, in sede conclusiva, di rintracciare eventuali punti in comune (sicuramente, tra questi, il tema dell’antipsicologismo e della non riducibilità dell’opera a mero vissuto soggettivo) ovvero quelli di dissidio, soprattutto  laddove è in gioco il rapporto tra polo soggettivo e polo oggettivo, tra “immanenza della coscienza e trascendenza del senso” – vero punto cruciale di ogni orientamento fenomenologico. Ma al di là di ogni singola valutazione, emerge chiaro il senso del lavoro di Mazzoni: negli autori presi in considerazione e nella discussione che essi hanno alimentato hanno preso vita idee ancora poco conosciute e talvolta addirittura fraintese, che meritano invece di essere riportate correttamente nel pieno del dibattito culturale italiano. Idee che interessano non solo lo storico della filosofia, che può così valutare il rapporto tra Husserl e alcuni dei suoi primi allievi; non solo lo studioso di estetica, che si troverà di fronte a quadri concettuali spesso di notevole respiro sistematico; ma che sono di vivo interesse anche per il musicista e per chiunque ami, insieme alla musica, la riflessione su di essa.
 

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