Marcello La Matina

Osservazioni sul significato della musica*


0. Considerazioni preliminari

Non esiste cultura nel mondo che si dispensi dall’avere e dal praticare la musica. Gli antropologi, gli etnologi, i ricercatori della semiologia musicale e perfino gli etologi sono concordi nell’assegnare un alto valore di significato alle pratiche musicali delle tribù dell’uomo. Se però la musica ha un senso ovunque essa sia stata e venga praticata, la domanda sul senso della musica sembra appartenere soltanto alle culture che fanno uso della scrittura. Ciò può dipendere dal fatto che i popoli tribali vivono in modo empatico la loro presenza nell’universo musicale. Ovvero può dipendere dal fatto che la musica che si interroga sul proprio senso non è più meramente comunitaria. Se così fosse vorrebbe dire che la domanda “che senso ha la musica?” non esprime, come tutte le domande, una ignoranza, ma è essa stessa già espressione di un sapere e di una cultura. In queste brevi note vorrei tentare di far chiarezza sulla domanda di senso legata alla musica dall’interno della prospettiva che sento più vicina, cioè quella della Filosofia dei Linguaggi [cfr. La Matina 2004]. La mia ipotesi è che vadano scartate le soluzioni che trattano il senso come un fenomeno denotazionale, prescindendo da una spiegazione anche causale del riferimento in musica. Trattandosi di osservazioni sul significato della musica sarò costretto qua e là a dare per scontate alcune conoscenze e a sorvolare su problemi che meriterebbero ben altra e più approfondita riflessione.

1. Significato e Significati

Il problema si presenta insidioso già in virtù della sua formulazione: cosa è questo significato della musica? E se fossero invece dei significati? La differenza è rilevante. Di significato parlano ad esempio i liturgisti o anche gli antropologi. Essi lavorano con spiegazioni per lo più olistiche e sono interessati all’atto pragmatico del fare e ricevere musica. Diversamente parlano di significati della musica i semiologi, i quali presuppongono un’articolazione interna del prodotto musicale, quasi esso risultasse da un lessico più o meno definito o da occorrenze di suono segmentabili e riconducibili a tipi sintattico-semantici. Una seconda questione è questa: dovremmo parlare di significato o non piuttosto di senso? Quest’ultimo termine è maggiormente diffuso presso i filosofi e gli antropologi, mentre di significato (o significati) preferiscono parlare linguisti e semiologi. Di fatto questa dicotomia permette di differenziare antichi e moderni. Per i primi era importante sapere cosa la musica fa. Presso i popoli mediterranei i racconti cosmogonici sono spesso legati ad un fare musicale che conferisce senso alla creazione divina (si vedano in proposito i lavori interessanti di Schneider e di Alfred Tomatis, rispettivamente sugli aspetti cosmogonici della produzione e dell’ascolto musicale). Nella cultura greca numerosi sono i miti che attribuiscono al suono un senso e un potere di condizionamento dell’agire umano (cfr. in Occidente il De musica di S. Agostino, mentre per l’Oriente cristiano va tenuta in considerazione la teoresi di Gregorio Palamas). Nella filosofia cristiana, in gran parte erede del pensiero filosofico platonico e neo-platonico, il rapporto tra musica e numero conferisce senso all’ordinamento cosmico e conferisce bellezza al sapere umano. Per gli antichi dunque non c’è atteggiamento verso la musica che non sia al tempo stesso filosofico e filocalico.

Per noi moderni, al contrario, la domanda cruciale riguarda il fatto se la musica sia o meno un linguaggio. Il che vuol dire che il senso viene pensato come un denotatum o un designatum, un Sinn o una Bedeutung, e che l’espressione musicale si comporta come un vehiculum segnico rispetto al suo sensus designatus o al suo relatum. Il pensiero musicale sarebbe pertanto sempre semantizzato e intenzionale. Formulando in questo modo la nostra richiesta di senso noi inscriviamo la nostra curiosità nel quadro del pensiero strutturalista del Novecento. Umberto Eco (1984) ha proposto di differenziare la domanda circa il senso generale dei linguaggi dalla ricerca di significati specifici da assegnare ai singoli linguaggi e alle loro grammatiche. Egli ha proposto di distinguere una semiotica generale da un insieme di semiotiche specifiche. Mentre alla prima converrebbe la domanda circa i fondamenti della significazione, intesa come mera relazione di intelletto tra forme dell’espressione e forme del contenuto, alle semiotiche specifiche spetterebbe di classificare coi soliti metodi della segmentazione e della commutazione i vari comunicati segnici, senza però porre mai il problema generale del significato: una semiotica della musica sarebbe una semiotica dei comunicati musicali, alla stessa maniera in cui una linguistica è una semiotica dei comunicati verbali.

Questa distinzione è oggi largamente accettata, tuttavia essa presta il fianco ad una obiezione che io vorrei qui argomentare brevemente. In primo luogo, differenziare il linguaggio verbale dagli altri linguaggi così detti para-verbali non è né semplice né teoricamente efficace. Come ha mostrato soprattutto Petöfi la comunicazione umana prevalentemente verbale è uno dei contesti nei quali si esplica la comunicazione umana tout court. Anche concentrandosi su comunicati meramente verbali non è possibile eliminare l’apporto dei componenti melodico, prosodico, ritmico, timbrico, ecc.. Inoltre, sempre Petöfi (2005), ha messo l’accento sulla necessità che lo studio dell’enunciato sia integrato da una analisi e da una rappresentazione esplicita dell’enunciazione. La quale, anche nei comunicati esclusivamente verbali, rimanda ad una organizzazione relazionale, nella quale sono presenti elementi performativo-modali e costitutivi di mondo.1 Si può allora dire che non solo ogni contesto comunicativo è multimediale in senso orizzontale (poiché coinvolge più media), ma anche in senso verticale, poiché coinvolge più strata organizzati in modo relazionale secondo strutture incassate l’una nell’altra. L’analisi di Eco non consentirebbe di assegnare ai comunicati musicali che una sola grammatica, privilegiando l’aspetto emic sull’aspetto etic, ed ignorando la profonda unità che musica, parola e azione del corpo avevano per esempio in tutte le culture antiche e conservano ancora oggi nelle culture non alfabetizzate del tutto. La seconda obiezione nasce dal fatto che una distinzione come quella di Eco presuppone che la proprietà di essere un linguaggio sia intesa in senso distributivo. Vi sarebbe un linguaggio musicale accanto ad un linguaggio gestuale, ad uno pittorico e via dicendo. In questo modo però siamo costretti ad accettare che i sistemi semiotici vivano indipendentemente l’uno dall’altro, o almeno che siano descrivibili indipendentemente l’uno dall’altro. Questo punto di vista può essere consentito soltanto nel caso in cui si consideri rilevante per la definizione di un linguaggio la sola facies formale. Se definiamo la musica come mera algebra, allora possiamo ipotizzare una semiotica della musica. Se viceversa, come si vedrà più avanti, riconosciamo alla musica e al suono uno statuto superiore a quello del fonema, la proposta di Eco dovrà essere lasciata cadere, almeno per la musica.

2. Teorie del significato

Vorrei ora mostrare quelli che a me paiono i due atteggiamenti contrastanti di maggiore spessore degli ultimi decenni. Tra i tanti possibili contributi ed autori scelgo di trattare brevemente la sémiologie di Jean-Jacques Nattiez (1976) e l’approccio fenomenologico di Giovanni Piana (1980; 1991; 1998).

La semiotica parla di significato solo all’interno di una funzione segnica. Questa, giusta le indicazioni di Hjelmslev (1943), viene data dalla solidarietà fra due piani, il piano dell’espressione e quello del contenuto. All’interno di ciascun piano Hjelmslev separa forma e sostanza. Sicché, il significato della musica non sarebbe il significato come sostanza del contenuto musicale, bensì come forma del contenuto correlata ad una forma dell’espressione assolutamente indipendente, ad esempio, dal fatto che il suono possa manifestarsi da una o da un’altra diversa sorgente sonora.

Radicalizzando, se la musica fosse un sistema semiotico, la sua forma sarebbe l’aspetto che ne fa una lingua, mentre la materia mediale o sostanza resterebbe un fatto importante ma accidentale. In realtà, i semiologi negano lo statuto di linguaggio alla musica, sostenendo che essa è un sistema monoplano e che pertanto può aver senso ma non significato. A chi spetta dunque, per il semiologo, fornire risposte sul senso musicale? Hjelmslev lascia la risposta agli specialisti anche se asserisce che la musica, come del resto la matematica, può essere integrata nell’enciclopedia generale della semiotica in quanto sistema simbolico. Egli considera tale una qualunque struttura interpretabile (dotata cioè di materia del contenuto) ma non biplana (sprovvista cioè di forma del contenuto) [Hjelmslev, p. 121].

Egli apre la strada ad una concezione del senso musicale come relazione fra una espressione ed una sostanza non formata, ma disponibile ad essere formata. Tale relazione equivarrebbe ad una sorta di motivazione della correlazione tra espressione e contenuto. Molti sono gli studi di questo settore che hanno cercato di mostrare il senso musicale come un fatto di motivazione del segno musicale.

Escludendo il facile richiamo ai fenomeni di onomatopea, forte è stata la tentazione di riportare il prodotto musicale ad una cratilismo dal carattere etnologico. La maggior parte degli studiosi si sono però arroccati su posizioni formaliste, contrarie a quelle or ora delineate, se pur figlie della stessa premessa. Secondo i formalisti alla musica è negata ogni possibilità di possedere un significato che sia diverso dalla propria struttura musicale. È questo il così detto principio di immanenza, in virtù del quale i comunicati musicali non andrebbero collegati con realtà ad essi esteriori, ma spiegati iuxta sua principia. Ricordiamo che un atteggiamento simile fu anche quello di illustri compositori, quali Stravinskij. Del resto, negli anni in cui questi scriveva le sue Croniques de ma vie, era in auge in letteratura il così detto formalismo dei circoli di Mosca e di Praga.

Il principio di immanenza viene accettato con una certa larghezza anche da Jean-Jacques Nattiez, l’autore forse più rappresentativo della semiologia della musica di area francofona. Come in Italia Umberto Eco, così in Francia anche Nattiez basa il suo progetto teorico sul sincretismo di due modelli: da una parte egli accoglie i presupposti immanentisti della glossematica danese, ma dall’altra si basa sul concetto di segno che appare nella semiotica cognitiva di Charles Sanders Peirce. In particolare, Nattiez è sensibile al concetto di ‘interpretante’. Difficile non osservare una incongruenza di fondo tra i due modelli utilizzati da Nattiez, sia pure con accenti e peso diversi nelle fasi del suo pensiero teorico. Mi contento di osservare quello che ai miei occhi è il problema cruciale. Mentre il segno dei glossematici sancisce di fatto una equivalenza tra forme espressive e formazioni del senso, il senso che compare nel segno di Peirce rappresenta più un rinvio di carattere inferenziale. Per dirla con Eco, il segno di Peirce sembra riprendere il modello di segno già noto agli Stoici, mentre la concezione di Hjelmslev è chiaramente debitrice del segno in senso saussuriano. Ponendo nel suo campo teorico il concetto di interpretante, Nattiez intende sfuggire alla circolarità del concetto di ‘significato linguistico’. Infatti, la musica, qualunque musica, opera al di qua di ogni codice inteso in senso lessicale. Se il segno musicale è un rinvio, allora Nattiez ci spiega che esso assomiglia a un pensiero che ha in un altro pensiero più sviluppato la sua possibilità di senso, in un processo illimitato. L’effetto di questa mossa è comunque dubbio. Se da una parte Nattiez ottiene di conferire libertà al pensiero musicale sottraendolo al regime della significazione lessicale, dall’altro sembra incrinare la pretesa dei formalisti di una teoria non impressionista del significato o del senso nei comunicati musicali.

Per Nattiez, tuttavia, ciò non costituisce un ostacolo. Il suo interesse primario è quello di giustificare una equivalenza tra il problema teorico (che senso ha questo comunicato?) col problema poietico (quale logica compositiva permette di generare il senso di questo comunicato?). Riprendendo un modello di Molino (figura 1), Nattiez suddivide il suo quadro teorico alla maniera seguente (figura 2):

Figura 1: Modello di Molino

Figura 2: Modello di Nattiez

Su questo modello voglio fare una sola osservazione. Considero problematica l’esistenza di un livello neutro. Esso non descrive né il significante né il significato ma è «moment d’une dialectique entre la PARTITION et les aspects poiétiques et esthésiques» [p. 56]. Il punto è se sia lecito estrapolare dal discorso musicale un oggetto semiologico grafico privandolo al contempo dell’apporto degli interpretanti del versante poietico e del versante estesico. Nattiez ignora la questione, anzi contrattacca:

Il n’y a de sémiologie possible […] que si les phénomènes poiétiques et esthésiques trouvent une trace dans l’objet musical: sans cette relation dualiste entre un signifiant et un signifié, entre une matière et ce qu’elle connote, entre un representamen et ses interprétants, il n’y a pas de symbolisation possible. [p. 59]

A parte i dubbi circa le equivalenze tra significante/significato e materia/connotazione o representamen/interpretanti, colpisce che proprio la connotazione non sia sviluppata particolarmente. Nattiez considera il senso musicale come una sorta di descrizione verbale delle funzioni strutturanti delle unità musicali che la segmentazione permette di individuare [Ivi, p. 135].

Il suo accento cade sulla sintassi musicale; anzi si direbbe che il problema del senso nasca solo come conseguenza della buona formazione (in senso sintattico) di una catena di simboli originariamente discreti. In parole semplici, non il suono, ma il sistema dei rapporti formali è il protagonista di questo volo teorico. Non il suono, ma la partitura appare il coagulo dei fasci di categorie che la teoria giudica rilevanti. Così come si configura nel sincretismo teoretico di Nattiez, il problema del senso è quello di trovare strutture del vissuto (Erlebnisse) che siano sufficientemente omologhe alle strutture musicali sintattiche rilevate dal medesimo teorico. Tutto accade come se la sintassi operasse da una parte la chiusura del fatto musicale per evitare l’analisi impressionistica, mentre dall’altro essa conferisse all’analista l’unica accettabile garanzia di apertura verso un senso che sia intersoggettivamente discutibile.

Ciò che impedisce a Nattiez di chiudere il cerchio è l’impossibilità, a mio giudizio, di dar senso al brano musicale oggetto di analisi ignorando lo scambio poetico/estesico che ha luogo nel contesto della musica. Se l’opera può ergersi in virtù della sua notazione come oggetto autonomo rispetto al suo medesimo produttore, ciò accade in ragione della esistenza di sistemi notazionali e non già in virtù della discretezza del materiale sonoro rispetto alla sua sorgente e ai suoi riceventi. Nel discorso semiologico di Nattiez la musica viene considerata un fatto estrinseco rispetto alla sua stessa notazione formale, un po’ come accade quando ci ostiniamo a leggere una poesia senza sentirla.

3. Teorie del senso

Se accettiamo la distinzione pre-teorica fra significato e senso, possiamo valorizzare le critiche che il più illustre filosofo della musica del nostro tempo, Giovanni Piana, ha rivolto alla prospettiva semiotica. Senza la pretesa di presentare in questa sede il pensiero di questo autore, vorrei comunque lumeggiare alcuni aspetti del suo approccio al fatto musicale. Come prima osservazione dirò che Giovanni Piana si colloca sul versante opposto a quello dei semiologi di area francofona anzitutto perché rifiuta la distinzione fra una teoria generale della significazione o del simbolo e delle teorie parziali suddivise per tipo di materia e/o forma della espressione. Se pertanto in termini semiotici la definizione del senso o del significato concerne la fondazione filosofica di una teoria semiotica generale, in Giovanni Piana assistiamo alla difesa strenua della così detta riduzione fenomenologica. Il filosofo – che è tra l’altro il curatore della edizione italiana delle Logische Untersuchungen di Husserl (1900-1901) – ritiene che occorra preliminarmente spogliarsi di qualunque abito teorico riassumendo quella naïveté dello sguardo che troppo spesso i semiologi considerano manifestazione di bêtise. Piana non rifiuta completamente la prospettiva semiologica, della quale accoglie l’equazione “Opera” = “Oggetto culturale in una tradizione”. Comprendiamo allora in che senso la naïveté sia intesa da Piana: non già la ricerca impossibile di una verginità assoluta e destoricizzante, bensì l’accoglimento, tra le modalità di ascolto e della azione musicale di una voluta e consapevole povertà di spirito. Sostenere come fa Piana (1991) che i comunicati musicali sono immersi nella placenta di una tradizione non significa cercare di spiegarli alla luce di un qualche codice predeterminato. Piana contesta alla semiologia il predominio degli aspetti notazionali ma ne accoglie la lezione formale.

Riprendendo al contrario un discorso sulla storia, Piana cerca di sottrarre la riflessione sulle differenze culturali ad una deriva relativista. Egli coglie l’errore della semiotica musicale nella netta separazione tra forma e materia, quasi che le inferenze del dettato musicale potessero scaturire solo da ragioni formali. Se la materia è sempre anche forma, allora la materia è sempre anche latenza [Cfr. specialmente Piana 1980 e 1998]. Dire che la materia è sempre latenza, significa allora che l’apertura dell’interpretazione musicale non scaturisce solo dai normali avvicendamenti teorici, ma da una esistenza che è sempre data ma mai esausta. La materia musicale è il vero oggetto della operazione che Piana conduce restituendo alla musica una sua ontologia che impegna senza predeterminarlo il senso della musica. Senso che appare, nell’opera maggiore del filosofo, come la risultante di due direttrici:

1. La temporalità: Piana si riferisce alla dimensione che diremmo pragmatica e che comprende l’educazione musicale, l’habitus personale e i sedimenti che i contesti dell’apprendimento depositano sulla memoria musicale attiva, a breve e lungo termine; in secondo luogo Piana considera fatti temporali gli elementi che generano in una dimensione fenomenologica la soggettività in quanto vissuto. Egli fa propria in questo modo la lezione husserliana, sulla quale aveva già scritto pagine magistrali nel suo Elementi di una dottrina dell’esperienza. Il principale risultato di quelle ricerche consisté, a mio modo di vedere, nell’avere individuato un modo dell’immaginazione che non è legato alla costruzione inferenziale e sequenziale tipica del pensiero logico-sillogistico e che non è legata alle evidenze formali di un determinato artefatto. Piana parlerà in proposito di “latenze della materia espressiva”, lasciando intendere che l’apertura del discorso musicale non può essere un mero episodio sintattico.

2. La struttura. Memore della lezione della migliore semiologia, Piana fa riferimento alle totalità organizzate suscettibili di ricevere una formazione che incontri i vissuti del soggetto esperiente. Il suo riferimento alle formazioni di senso non va inteso come una assolutizzazione di tipo platonista, ma neppure come una relativizzazione di tipo storicista. Piana vede nelle forme musicali una sorta di oggettività in una tradizione, e spiega la tradizione come una esplicitazione delle latenze che il materiale percettivo possiede. Per Piana la materia racchiude in se stessa le sue determinazioni e differenze. Traducendo questo suo approccio in un discorso più congeniale ai miei limiti, direi che Piana rifiuta di far dipendere le differenze da un impianto categoriale preesistente alle differenze stesse. In questo modo può cogliere come «su questo materiale si innestino direzioni e tensioni immaginative che conferiscono al materiale sonoro stesso la sua molteplice latenza espressiva» [p. 54].

Il concetto cruciale è quello di ‘latenza espressiva’. Piana se ne serve per distinguere un piano propriamente linguistico, nel quale la dimensione temporale del discorso musicale si converte in sintassi, da un piano pre-linguistico, nel quale il soggetto esperiente fa esperienza del suono. Se la semiologia può farsi carico del primo, spetta al fenomenologo riappropriarsi del secondo, se vuole evitare che il discorso musicale appaia autoreferenziale. Nel passato i semiologi hanno spesso enfatizzato l’aspetto autoreferenziale del discorso estetico, sia nell’ambito della poetica sia in quello dell’ermeneutica del testo estetico. Spesso si è avuta l’impressione che anche per la semiologia della musica tutto accadesse all’interno di un gioco linguistico, e che l’esperienza musicale venisse interamente dominata dalle regole del gioco [Cfr. Piana 1991, p. 155]. Al contrario Giovanni Piana ha invocato l’idea di una progettualità musicale che origina dalla soggettività, ma che diviene produttiva solo nell’incontro con un materiale intimamente animato da tensioni e latenze. Vi sarebbe una esperienza del suono, preliminare alla sua testualizzazione, che è un incontro tra vissuti e campi di possibilità. Dalla loro frizione scaturisce una diversa concezione della logica e della inferenza in musica, in una parola della immaginazione. I materiali sonori sono meri supporti per un gioco di strutturazione del piano significante. Piana rifiuta di considerare la musica alla stregua della langue di Saussure, entro la quale «il n’y a que des différences». Il filosofo recupera il dato pre-linguistico della materia in cui c’è qualcosa che si mostra, precedendo l’istituzione delle differenze: «la composizione – scrive Piana – può allora essere considerata come un risultato dei dinamismi del materiale quando essi siano concretamente entrati nel gioco delle scelte» [p. 58].

Ciò che mi pare di cogliere nel discorso di Piana è un accento sulla soggettività come capace di prendere decisioni. Leggo in questa idea una eredità fenomenologica che ho ritrovato nel pensiero di una allieva di Husserl, la quale ha specificamente trattato il tema della empatia. Si tratta di Edith Stein (1917) la quale definiva l’empatia come la scoperta di una orienza che si affianca a quella del soggetto, fornendogli un orientamento capace di mostrare al soggetto un altro soggetto mentre prende delle decisioni. Ritrovo in questa lettura della intersoggettività fra persone espressive quell’elemento che consente a Giovanni Piana di cogliere differenze e latenze in una materia che apparirebbe al semiologo (e forse non solo a lui) una materia inerte. Di fatto, leggendo il materiale come carico di tensioni e di nervature, Piana può coniugare le differenze rilevanti per la formazione del materiale stesso in opera senza dover rinunciare ad un’originaria intersoggettività capace di “leggere” le possibilità insite nella materia nel momento stesso in cui esse si rivelano come vissuti.

Non esisterebbero differenze di tal genere senza una priorità ontologica della esperienza del suono come qualcosa, ma anche come traccia di qualcuno. Cosa è il senso? Da una parte siamo quasi costretti ad ammettere che il senso non debba andare oltre l’evento sonoro. Se il senso è un pensiero, esso appartiene alle dinamiche della materia sonora così come viene formata nella esplicitazione vissuta delle sue latenze. Il pensiero è un pensiero musicale e non un pensiero proposizionale di tipo concettuale. Per Piana occorre «accorgersi del suono». È la scoperta ontologica del suono in sé a suscitare le nostre possibilità costruttive.

Ma ciò crea immediatamente un nuovo problema. Se il senso della musica si trova allo stato latente nella musica; se il pensiero musicale è pago di sé, allora diviene un problema ammettere che il mondo – con i suoi eventi, le sue accidentali corruzioni e le sue imprevedibili passioni – possa irrompere in questa totalità bloccata. Con altre parole, occorre chiedersi come le varie manifestazioni dell’ordine e del disordine cosmico possano permeare, sotto forma di significato o di senso, l’edificio della formazione musicale. Occorre anzitutto rifiutare le risposte facili. La prima è quella fornita dal cratilismo di ogni tempo. La musica non è in relazione costante con gli stati del mondo; non è neppure in relazione con altro da sé. Riduttivo sarebbe scorgere negli equilibri formali o nei vissuti che li accompagnano dei Quasi Lexica capaci di rendere motivato il rapporto tra i suoni e gli eventuali sensi cui li si fa corrispondere. Un’altra facile risposta da evitare è il così detto referenzialismo estrinseco. Si vuole, soprattutto da parte di semiologi come Gino Stefani (1975), che l’essere sociale della musica dipenda dalla capacità di costruire ambiti di denotazione.

Si invoca spesso la musica descrittiva, o la musica a programma, o la musica da film, per esemplificare una capacità denotazionale degli oggetti musicali. In realtà questo è un modo per ammettere come forma di contatto tra musica e mondo il solito “codice”. Incapace di negoziare i valori di riferimento che danno senso ai comunicati multimediali, il semiologo francofilo si rifugia nel corner dei codici e degli s-codici. Una terza risposta apparente è quella che pretende di svuotare di valore i materiali della musica riducendoli a meri segnalatori di altro. Questo pericolo è insito in ogni semiologia ma anche in ogni filosofia della trascendenza. Se il senso appartiene alla musica, la musica deve appartenere al senso e ai modi di dare senso che si ritrovano anche in altri discorsi.

Come si vede (speriamo) i pericoli nascono da due atteggiamenti contrapposti: da una parte l’immanentismo della forma musicale, che non riesce a spiegare le aperture del tessuto musicale verso il senso; dall’altra parte il trascendentismo proprio delle filosofie che non riescono a spiegare il fatto della musica, prima ancora di rimandare questo fatto ad un altrove del senso generalmente collocato in un iperuranio.

Accettando la lezione di Giovanni Piana credo si possa evitare la Scilla dei formalismi e la Cariddi degli impressionismi. La materia sonora è – per usare un’espressione dei filosofi medievali – materia signata; salvo che essa si dà nel tempo in cui il suono si muove. Gli antichi musicografi parlavano di kinesis per dire il passaggio da un suono all’altro, ma anche per indicare la condizione della materia che transita da un modo di essere al successivo. Kinesis è dunque anche l’intervallo inteso sia come movimento in una stringa sia come tramite fra categorie diverse. Ricordo un’osservazione di Keith Jarrett il quale trattando delle pause che l’esecutore avverte fra un accordo e l’altro del pianoforte suggeriva che le dinamiche armoniche vi fossero contenute e che al pianista non spettasse altro compito che di esplicitarle. Per gli antichi come per i moderni il suono è spesso equivalente al movimento di masse che spingono l’ascoltatore. Piana enfatizza questo moto del suono che conferisce valore alla musica e al suo essere dinamismo. Egli sostiene con una giusta espressione che il suono sia «vettore dell’immaginazione». Non tratta di immaginare un ascoltatore che si lasci cullare dai suoni per accompagnare con essi i suoi progetti e i suoi vagabondaggi inferenziali. Immaginazione non è per Piana equivalente di fantasia, bensì di immaginoso. Mentre la prima rappresenta sotto forma di figure e di eventi dotati di contorni netti un procedere della mente verso successioni di stati di cose sempre più precisi, l’immaginoso è una sorta di fantasia senza figure e senza eventi che non abbiano il fenomeno musicale quale teatro. Il valore scoperto del suono consiste allora nella sua direzionalità, nella tendenza che esso dispiega nel proporre scelte tra movimenti alternativi. Tali direzionalità puntano regioni della immaginazione, senza mostrare alcuna figura. La temporalità messa così in movimento mostra qualcosa di attraente nel momento in cui spinge a seguire tale movimento. Si crea un piacere della strutturazione percettiva, con salti di memoria e anticipazioni. Il senso è la direzione. Ed il significato non è qualcosa di strutturale bensì un aspetto procedurale.

Per concludere questa parte solo un commento. La differenza tra una fantasia icastica quasi pittoriale ed una immaginazione immaginosa assegna a quest’ultima il primato della indeterminatezza. Nei termini di Goodman (1968) diremmo che il suono possiede ed esemplifica in modo indeterminato la propria densità simbolica. Vediamo allora che la principale differenza tra uno strutturalismo semiologico e una semiologia fenomenologica può darsi semplicemente comedifferenza tra due concezioni del simbolo musicale: da una parte esso viene visto come completamente articolato, disgiunto e finitamente differenziato. Dall’altra, in ambito, fenomenologico, il pensiero musicale rivela una densità che impedisce di esaurire la significatività del rapporto col suono stesso. In virtù di queste proprietà, che il suono denso possiede ed esemplifica, nascono pensieri musicali che portano seco determinazioni e orientamenti. Forse è in questa direzione che può collocarsi la ricognizione di un senso o di un significato della musica. Giovanni Piana avanza in proposito «l’idea di una memoria del mondo profondamente immersa nelle risonanze dei suoni e che attraversa le operazioni valorizzanti dell’immaginazione» [1991, p. 235]. È venuto ora il momento di capire attraverso quali percorsi euristici e semiotici il mondo possa penetrare nel chiuso della sintassi musicale. O, meglio, come la chiusura sintattica possa disvelare latenze spesso già inscritte nel suono.

4. Teorie come accadimenti fra persone

Finora ci siamo interrogati sulla validità di due proposte che rappresentano, a giudizio di chi scrive, i due corni di un importante dilemma. In realtà queste due proposte sono al tempo stesso le istanze di due differenti epistemologie che esorbitano rispetto all’ambito propriamente musicale.

L’atteggiamento semiologico considera la teoria come un espediente quasi reale nell’ottica di un platonismo teorico che nulla concede alla deperibilità ed alla corruttibilità dei vissuti dell’uomo. È come se le teorie permettessero al semiologo di contemplare un mondo di Forme incorruttibili che possono essere applicate a oggetti deperibili i quali hanno esistenza soltanto nella misura in cui partecipano di queste essenze intangibili. Dinanzi alla certezza del semiologo platonista non ha quasi senso la domanda di Nelson Goodman (1978): «quando è arte?» D’altro canto, la Filosofia della musica di Giovanni Piana tenta una mediazione tra strutture dell’opera e strategie dei vissuti esperienziali senza ammettere preliminarmente che le strutture siano ciò che valorizza il tóde ti dell’evento del suono. L’atteggiamento del fenomenologo si rivela in questo caso nella rinuncia ad attribuire un senso preliminare alle cose in virtù della ragione che le comprende. In tal senso appare preferibile continuare il discorso di Piana proprio perché esso muove da una professione di ignoranza consapevolmente assunta, piuttosto che dalla sicumera del ricorso ad un qualsiasi codice predeterminato. Vi è un’ultima ragione che ci spinge a privilegiare l’approccio fenomenologico. Se le teorie semiologiche sono prevalentemente teorie strutturali alla terza persona, le analisi del fenomenologo sono tentativi di coniugare la soggettività ineliminabile dell’ascoltatore con la oggettività, anch’essa ineliminabile, della formazione di suono.

Accoglierei dunque l’istanza generale di Piana. Deve esistere un meccanismo capace di conciliare chiusura sintattica e apertura di senso; e questo meccanismo non può trovarsi soltanto nella forma dell’espressione musicale. In tal senso il richiamo di Piana alla valorizzazione del suono come presenza funge da correttivo verso le tendenze platonizzanti dei musicologi che spesso trascurano l’evento a vantaggio del sostituto notazionale di esso. Con questo sguardo il livello neutro di Jean- Jacques Nattiez ci appare un’astrazione ingombrante e forse anche deviante. Il suono esiste come cosa, come evento prima che ogni differenziazione venga proiettata da un qualsiasi predicatoetichetta.

Inoltre il suono esiste solo nell’incontro con una soggettività: esso è preliminarmente un vissuto che il soggetto può estrapolare da altri accadimenti o dal semplice fluire del tempo, ma che non può rimuovere a suo piacimento. Ciò non significa che il suono sia esclusivamente dato nella percezione. Esso non deve diventare un mero dato psicologico, così come non può essere un mero dato semiologico. La mia ipotesi è che il suono entri nella nostra esperienza dotato di un duplice statuto. Da una parte esso è una assoluta primità (Firstness) percettiva: è un’icona nel senso di Peirce (1931-58) e, come tale, non è in rapporto con null’altro. D’altra parte è un indice, sempre nel senso di Peirce, capace di suscitare risposte proiettive e di suscitare forme di organizzazione relazionale in termini non solo mentali ma anche tensivo-muscolari. Il problema del significato della musica è allora diverso dal problema del significato nella musica. Non si tratta di costruire una teoria semantica parallela a quella dei linguaggi verbali. Al contrario si tratta di partire dall’“esserci” del suono come evento fisico, per capire come (e soprattutto dove) le latenze espressive della materia si connettano con le descrizioni che possiamo darne in termini di attività intenzionale e simbolica.

Non ogni contesto sonoro incarna entrambi questi modi del suono. Da una parte distinguerei quelle forme musicali entro le quali una codifica prevalentemente iconica suggerisce virtualità icastiche come progetti di forma: in questi casi lo spartito che si forma è il coagulo di proprietà ritenute salienti in senso soprattutto visuale. L’immaginoso in questo caso è una forma di limite superiore nel quale la fantasia si trova a desiderare di creare figure senza poterlo fare. Attribuisco questa codifica iconica soprattutto alla musica scritta all’interno di società che dominano la cultura in forma scritta. Queste icone musicali funzionano come modi in cui l’informazione viene codificata in un ambiente nel quale l’ascolto non è più un fatto meramente tribale. Certo esse sono costruite mediante dati esterni, ma la risposta proiettiva che son capaci di determinare consiste in una reazione (Peirce direbbe in un interpretante energetico) che non coinvolge in modo muscolare la relazione tra soggetti. Per fare un esempio, un assoluto in questo tipo di codifica iconica è rappresentato dall’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach.

Dall’altra parte porrei quella codifica che, senza distruggere l’equilibrio sensoriale tipico di una cultura orale, costruisce risposte proiettive prevalentemente tensivo-muscolari. Anch’essa dà vita a spartiti, sebbene questi siano di un tipo diverso rispetto agli spartiti del primo tipo sopra illustrato2.

Questo secondo tipo di spartito non deve far pensare ad un sistema notazionale vero e proprio, quanto piuttosto ad una modalità di trascrizione che usa il corpo dei soggetti interagenti. Per fare un esempio si può pensare a ciò che accade durante l’esecuzione di un blues all’interno dei corpi dei partecipanti, ma anche nell’infra che li separa e li unisce ad un tempo. Si può anche pensare alla gestualità di un pittore come Pollock, il quale lasciava cadere con gesti sapienti grumi di colore su una tela distesa sul pavimento del suo studio. La natura del movimento muscolare è ciò che viene impresso sulla tela, formando un indizio affine a ciò che noi consideriamo spartito nel secondo senso.

Pur senza approfondire questa distinzione, è importante a mio avviso enucleare cinque proprietà che sono caratteristiche dell’icona, sia in senso formale sia in senso empatico-muscolare. Queste proprietà mi pare siano

1. Peirce è chiaro nel sostenere che l’icona non può avere alcun Oggetto, nel senso denotazionale. Al massimo può essere Oggetto di un icona la Forma di questa. Accogliendo questa indicazione di Peirce dobbiamo ammettere che il segno musicale considerato icona o spartito non è un segno denotazionale, poiché non potrebbe preesistergli alcun denotatum.

2. L’Oggetto di un’icona non è per Peirce una realtà esistente, bensì una pura possibilità. Ciò significa che il segno musicale se considerato in questo modo è una pura primità. Come tale esso può suggerire sviluppi, ma non legarsi esistenzialmente ad alcunché di preesistente.

3. Ogni icona, in quanto pura possibilità, può stimolare il reperimento di altre icone, che abbiano in comune con la prima una o più proprietà esemplificate. Quest’aspetto non è presente nell’opera di Peirce, tuttavia mi pare che esso sia facilmente deducibile dalle proprietà dell’icona dei punti precedenti.

4. Se l’icona è un campione delle proprietà che possiede, essa può anche esemplificarle. Ricordo che l’esemplificazione è una caratteristica del riferimento che lega un campione: o a delle proprietà tra quelle possedute, o a delle etichette che possono essergli proiettate. L’esemplificazione non è una forma di riferimento in senso semantico, poiché essa non collega un carattere in uno schema ad un campo oggettuale inteso come suo ambito di denotata.

5. Le proprietà dell’icona sono anche esemplificate da essa. Peirce non dice questo, tuttavia la lettura di Nelson Goodman mi persuade che sia possibile accostare il concetto di ‘primità’ al concetto di ‘campione’ che troviamo ne I linguaggi dell’arte.

In queste cinque caratteristiche sono, a mio avviso, presenti gli aspetti destinati a mostrare le possibilità di parlare di un significato della musica. Quando dico ‘significato’ intendo un modo in cui la musica manifesta il suo statuto simbolico, pur senza essere dotata di significati. Con altre parole, parlare di un significato della musica utilizzando i cinque punti sovra menzionati non ci obbliga a costruire una semantica dei comunicati musicali. L’elemento centrale del significato non è in questo caso un aspetto della denotazione, bensì un effetto della esemplificazione. La quale, secondo Goodman, pone in relazione una figura o un simbolo con uno dei suoi aspetti formali o materiali in un certo contesto. Perché ritengo che parlare di esemplificazione ci permetta di parlare di significato? La domanda è insidiosa solo se non consideriamo rilevante la distinzione tra significati al plurale e significato al singolare. Se quel che ci interessa è l’aver significato della musica, allora questo conferimento di senso può essere sganciato sia dagli aspetti meramente sintattici, sia da quelli meramente semantici di un comunicato musicale. Ciò accade perché nel caso della musica (ma anche di altre forme di vita) noi possiamo conferire significato senza presupporre che ciò cui conferiamo significato implichi una qualche regolarità linguistica. L’aver significato non è proprietà di un enunciato, bensì di un atto di enunciazione.

Che dunque un simbolo musicale esemplifichi non implica che esso vincoli dei denotata: epperò la presenza di un auto-riferimento consente che l’enfasi attribuita al campione in un certo segmento temporale venga risolta nella proiezione di un’etichetta che agisce come creatrice di significato a livello enunciazionale. È certamente l’uovo di Colombo: si conferisce significato conferendo un significante ad una relazione intersoggettiva. Null’altro è richiesto in via preliminare se non la pura possibilità che una icona si manifesti dalle latenze di una materia espressiva. L’elemento cruciale della nostra proposta è dunque l’icona-spartito, la quale assomiglia ad uno strumento mediante il quale un oggetto può determinare un’attività simbolica senza entrare in una relazione sistemica con altri oggetti. Chiamo iconicità il processo mediante cui una icona vincola a simbolizzare senza istituire un codice. Un aspetto significativo delle mie ricerche attuali è costituito da quella proprietà che ho prima chiamato co-iconicità. Essa non ha nulla a che vedere con l’iconismo. Mentre quest’ultimo è considerato dai semiologi come una forma di solidarietà motivata (e dunque cratilea) fra suoni e significati, l’iconicità e la co-iconicità sono modi della primità. Dire che qualcosa è un’icona non ci obbliga ad ammettere una relazione con altro. Dire che due oggetti mostrano di coiconizzare, non ci obbliga ad introdurre relazioni sistemiche o contestuali tra gli oggetti diverse dalla “relazione” che una icona intrattiene con se stessa o con la propria forma (i.e. una “relazione” che non è tale di fatto, poiché la primità non può essere in relazione neppure con se stessa).

Quando Peirce parla di ‘icona’ differenzia quest’ultima dal ‘segno iconico’. Ciò accade perché una icona pura (priva cioè anche della relazione con se stessa) non è veramente pensabile. Peirce fa l’esempio dei diagrammi, che sono icone, ma non segni iconici in senso proprio. Un diagramma iconizza infatti aspetti che possiede ed esemplifica, ma senza entrare veramente in una relazione esistenziale con essi. Si può dire che un diagramma sia un oggetto matematico o logico o pittorico anche quando iconizza in senso musicale. Un’icona è tale se esemplifica aspetti che nel contesto della enunciazione sono co-iconizzati senza essere distinti dal veicolo che li manifesta. Non vi è dunque nel diagramma o nell’icona, nulla che richiami qualcos’altro; eppure vi deve essere un richiamo a qualcos’altro se è vero che il diagramma e l’icona sono simboli. Si potrebbe anche dire che un diagramma, ma anche un suono, sono icone in quanto ci informano su alcuni aspetti della organizzazione espressiva di qualcosa. Anche un indicatore di frase è un’icona per lo stesso motivo.

Esso non denota il testo che rappresenta né è in relazione propriamente con l’enunciato rappresentato. Tant’è vero che può essere utilizzato per infiniti enunciati senza legarsi mai a nessuno di essi. In realtà è iconico ogni oggetto che non si esaurisce nella propria costituzione materiale agli occhi di uno o due individui che interagiscano fra loro.

Figura 3: Iconicità e co-iconicità

Noi trasformiamo in senso iconico il nostro ambiente. E poiché una icona esemplifica le proprietà che possiede nel contesto di enunciazione e non solo nell’enunciato, la possibilità di simbolizzare è praticamente infinita. È questo un modo di intendere il concetto di semiosi illimitata teorizzato da Peirce. La figura 3 offre una rappresentazione sommaria del percorso che abbiamo finora evidenziato.

La figura rappresenta nella forma di un diagramma il processo che si compie nell’attività della simbolizzazione, quando interviene una icona che esemplifica una etichetta. Se accettiamo la distinzione teorica fra linguaggio oggetto (LO) e metalinguaggio (ML) possiamo inserire all’interno di essi un terzo livello (linguaggio notazionale - LN). Esso produce spartiti, quindi icone di tipo formale e di tipo empatico. Tali icone non sono oggetti del mondo che vengano ad aggiungersi ad oggetti già presenti nella lingua oggetto e nel metalinguaggio: nessuna complicazione della ontologia può avvenire a causa di uno spartito. Come pure nessuna opera nuova nasce nel momento in cui uno spartito, in senso questa volta musicale, viene ad essere redatto in un linguaggio notazionale. Gli spartiti sono tracce di una kinesis e rendono possibile la esemplificazione di ciò che in questa kinesis è presente al momento in cui un evento interpersonale ha luogo. Tali icone non sono date sempre e solo in un dato medium. Taluni spartiti riproducono una organizzazione sensoriale di tipo visuale, mentre altri notano una forma di vita sensoriale non riducibile al predominio della vista o dell’udito. Le prime forme di scrittura musicale non sono disgiunte dal corpo3 e per tanto esse non spezzano quell’equilibrio sensoriale che McLuhan invita ad apprezzare nelle culture prive della scrittura [cfr. Caporaletti 2005].

L’esemplificazione è la via per incontrare il “senso” della musica, così come esso può manifestarsi in quanto scrittura del corpo o traccia oggettuale della presenza di corpi che risuonano o che hanno risuonato. Sicché un modo per parlare di significato nella musica è quello di postulare che attraverso la generazione di icone che si richiamino per risonanza abbia luogo la coesemplificazione di proprietà della enunciazione (e non del mero enunciato). In questo modo il senso scaturisce dal dialogo fra significanti iconici che appartengono agli individui ma che non necessariamente sono riferibili ad un sistema mediale. L’atto di riferimento che rende significativo un evento musicale accade nel contesto della relazione interpersonale. Campioni ed etichette, icona e co-icone non sono che aspetti indiretti della vita espressiva dei soggetti. Questo pare insegnarci la prudenza di Giovanni Piana, la quale guarda alla vita dei soggetti prima ancora che alla forma attraverso la quale i predicati penetrano nella descrizione di essa.

5. Magnificat

Per rendere un po’ più concreto il lungo argomentare fin qui sviluppato, proviamo ad esemplificare le nostre idee commentando una composizione musicale contemporanea. Ho scelto il Magnificat für gemischten Chor (1989) del compositore estone Arvo Pärt. Si tratta di una partitura di circa sette minuti che mette in musica il testo del Magnificat o Cantico di Maria, quale si trova nel Vangelo secondo Luca [1, 46-55]. Questo brano è uno dei più riusciti pezzi in cui Pärt adotta la tecnica compositiva che egli stesso ha chiamato tintinnabuli. Questa – spiegata alla buona – consiste nella combinazione di almeno due linee melodiche: la prima avente carattere di guida e l’altra ottenuta con i soli suoni della triade, maggiore o minore, diversamente combinati. L’effetto che ne risulta ricorda il risuonare dei campanellini, tintinnabuli appunto. Scrive Pärt:

Tintinnabulation is an area I sometimes wander into when I am searching for answers – in my life, my music, my work. In my dark hours, I have the certain feeling that everything outside this one thing has no meaning. The complex and many faced only confuses me, and I must search for unity.

What is it, this one thing, and how do I find my way to it? Traces of this perfect thing appear in many guises – and every thing that is unimportant falls away - tintinnabulation is like this. Here I am alone with silence. I have discovered that it is enough when a single note is beautifully played.

This one note, or a silent beat, or a moment of silence, comforts me. I work with very few elements – with one voice, with two voices. I build with the most primitive materials – with the triad, with one specific tonality. The three notes of the triad are like bells. and that is why I called it tintinnabulation. [Arvo Pärt, nella nota al suo disco Tabula Rasa, ECM].

Per effetto di questa combinazione polifonica povera, l’ascoltatore percepisce un equilibrio statico dovuto alla continuità della triade. Inoltre la semplicità della struttura suggerisce al musicologo numerosi rimandi intertestuali, stimolati proprio dalla assenza di coloriture psicologiche. Queste due impressioni convivono con un’altra ben più fondata sensazione che nasce dall’ascolto reiterato dei tintinnabuli. Una volta assorbita la novità di questo modo di comporre, l’ascoltatore, semplice o colto, trova all’interno dell’apparente staticità un dinamismo tonale inaspettato. Molto è stato scritto sulla musica di Pärt, e molto potremmo dirne anche noi: ma il nostro argomento è per fortuna più limitato. Rimanendo fedeli ad esso, parliamo brevemente del testo e della musica del Magnificat di Pärt.

Il testo del Magnificat è ben noto sia nella versione latina, sia in quella greca originale, poiché esso appartiene alla tradizione delle chiese cristiane. Pärt può averlo scelto proprio perché esso rappresenta un classico nella musica sacra ed in quella liturgica (si pensi al Magnificat di Bach).

Un’occhiata al Vangelo di Luca ci permetterà di contestualizzare le parole di questo splendido canto mariano. Maria ha appena ricevuto l’annuncio dell’angelo al quale ha risposto manifestando la propria obbedienza e la propria umiltà. È quindi partita per andare a trovare la cugina Elisabetta.

Proprio in questo incontro accade un prodigio: «E come Elisabetta udì il saluto di Maria, sussultò il feto nel suo grembo, ed ella fu piena di Spirito Santo» [Lc 1, 41]. Elisabetta nota questo sussulto e gli attribuisce un significato spirituale dicendo: «Ecco infatti quando la voce del tuo saluto giunse alle mie orecchie, sussultò in letizia il bimbo nel mio grembo» [Lc 1, 44]. Anche i Padri della Chiesa hanno visto in questo incontro fra le madri un incontro spirituale tra i figli nascituri. Alle parole beneauguranti di Elisabetta risponde Maria con le parole del Magnificat, che in buona parte richiamano il noto Canto di Anna del libro di Samuele [I Sam. 2, 1-20].

La musica assegnata da Pärt al testo latino presenta una struttura responsionale o amebeica flessibile. I singoli versi sono affidati alternativamente ai “pochi” e ai “tutti”, secondo la consuetudine liturgica. Le voci maschili e quelle feminili sono talvolta separate ma più spesso sapientemente mescolate. La struttura armonica e quella melodica sono di grande semplicità: il canto procede per linee parallele in una verticalità che lo assimila al corale luterano. Le voci si spostano sempre insieme per coaguli successivi. Non mancano gli unisoni (cfr. et sanctum nomen eius) né mancano gli accostamenti delle voci estreme, soprano e basso (cfr. fecit potentiam in bracchio suo). La forma complessiva a me pare quella di una Ringkomposition, come si può osservare nella figura qui appresso.

Figura 4: La struttura a Ringkomposition del Magnificat di Arvo Pärt.

Cosa si può dire circa il “significato” di questo Magnificat pärtiano? Apparentemente nulla nel testo né nulla nella melodia sembrano avere un riferimento di tipo semantico. Com’è diverso, ad esempio, l’uso che Bach farà della melodia in quel Magnificat che ad Albert Schweitzer ha richiamato il movimento fisico del feto nel grembo. Il testo di Pärt sembra essere chiuso. Non può denotare né designare né può essere messo semanticamente in relazione con alcunché. Salvo considerare preminenti i richiami amebeici alla liturgia della Preghiera del Vespro, ma questo è altro rispetto al nostro tema. Il testo lucano avrebbe potuto essere sviluppato raccogliendo diverse suggestioni traducibili realisticamente in musica: avrebbe potuto suggerire il movimento desultorio come analogo del sussultare del bimbo in grembo; avrebbe potuto suggerire il canto spiegato della voce femminile che si lascia attraversare dalla voce delle Spirito. Ovvero, nella sfera intertestuale il brano avrebbe suggerito coloriture anche strumentali capaci di storicizzare o di etnicizzare i richiami al Vecchio Testamento e alla tradizione ebraica del cantico di esultanza. In sintesi, il senso di questo brano non sembra appartenere all’universo della semantica: se esiste, esso non è denotazione di oggetti, né designazione di concetti, né denominazione di cose; d’altra parte, non pare avere una forma logica riconducibile alla forma proposizionale. Piuttosto che apparire come una espressione di tipo intenzionale, che si indirizza ad oggeti o stati di cose, la musica pare una sorta di risposta a certi stati di cose che essa non può più intenzionare. La musica dunque non si riferisce a stati di cose, ma può essere causata da stati di cose, coi quali ha un rapporto non meccanicistico ma simbolico, iconico, forse indicale. Se perciò vogliamo parlare di un senso o di un significato “della” musica (piuttosto che “nella” musica), dobbiamo adottare una teoria causale del riferimento (o della verità). E ciò appare necessario, sia che trattiamo il riferimento musicale come un fatto iconico, sia che lo trattiamo come fenomeno indicale. L’esemplificazione, dice Nelson Goodman, è possesso più riferimento entro un contesto che rende salienti volta a volta certe o certe altre proprietà: un campione non è sempre campione degli stessi tratti. Ciò che cambia da un contesto all’altro sono le cause, esterne od interne, alla esemplificazione musicale.

Per cogliere più icasticamente la impermeabilità semantica della composizione di Pärt il lettore può metterla a confronto con un’altra composizione contemporanea dovuta al genio di Giovanni Sollima. Nel brano “Il tracciato di Marta” (contenuto in Spasimo, 1996) Sollima ricostruisce una situazione affine a quella da cui è nato il Magnificat di Maria, ricordando le sensazioni da lui provate quando ha sentito e “visto” nel tracciato ecografico il cuore pulsante della figlioletta non ancora nata. Sollima fa riferimento a quella situazione ed utilizza gli strumenti musicali per simulare, trasfigurandolo, il continuous pulse che interrompe l’incolore e indistinto panorama del liquido amniotico. Sollima ha cercato consapevolmente di tradurre in musica la melodia che il ritmo cardiaco ecografato sovraimprime all’atmosfera puntillistica dello schermo. In questo caso esiste dichiaratamente una causa che pone in relazione la struttura musicale, la forma e la materia dei suoni con degli stati del mondo. Ma si tratta di un riferimento di tipo semantico? Si tratta di cioè di significato della musica? In base a quanto abbiamo detto nelle parti precedenti di questo scritto penso si debba rispondere di no. Neppure l’intenzione del compositore ha il potere di istituire un riferimento di tipo semantico. Egli ha bensì la possibilità di attivare campi di salienza che stimolino una interpretazione escludendone altre. Egli può, come un parlante che parli una lingua a noi sconosciuta, persuaderci della verità dei suoi proferimenti. Ma occorre ben altro perché da questa verità l’ascoltatore possa arrivare alle strutture che incasellano in una logica composizionale i devices usati dal compositore.

Inoltre si potrebbe aggiungere che sia Maria col Magnificat sia Sollima con “Il tracciato di Marta” rispondono liricamente ad un evento fisico che agisce in essi come causa per una risposta di tipo lirico musicale. In termini semantici potremmo dire così: Sollima descrive (usiamo questo verbo fuor di teoria) un evento fisico che ha causato in lui un evento musicale. Maria reagisce con un evento lirico ad una causa fisica. La gioia del musicista che si scopre padre è facilmente convertibile in una forma di riferimento simbolico, come lo è la gioia di Maria che si scopre madre e che esprime la sua sorpresa reagendo in termini simbolici quasi musicali. Naturalmente, l’evento che sta alla base delle due risposte è incommensurabilmente diverso, ma questo pensiamo che il lettore lo veda da sé. Quel che ci preme dire è che in questi due casi può essere facilmente trovata una motivazione alla interpretazione della musica come qualcosa che “fa riferimento a” – o “è resa vera da” – qualcosa che accade nel mondo. Asserire questo vuol dire che vi è qualcosa che può rendere preferibile una interpretazione rispetto ad altre. Ma non vuol dire che questo qualcosa sia noto preliminarmente all’interprete o che sia stabilito tout court in virtù di una legge stretta che coordina eventi fisici ed eventi mentali. L’adozione di una teoria causale è – lo ripetiamo – una mossa che, meglio di altre, può guidarci a cogliere, se c’è, il luogo nel quale i simboli musicali si legano agli eventi del mondo; ovvero, come si esprime Giovanni Piana, a valorizzare quelle latenze insite nella materia musicale, attraverso cui il mondo penetra nel tessuto musicale [cfr. Piana 1991, pp. 286-295].

Ad ogni modo, questo tipo di riferimento, si chiami o no semantico, non lo troviamo esplicitamente in Pärt. Tuttavia, sarebbe un errore considerare non referenziale il Magnificat di Pärt soltanto perché l’evento che lo ha causato si trova in un testo piuttosto che in un contesto. Cerchiamo ancora di formulare in modo diverso. Abbiamo studiato in questo articolo il linguaggio musicale partendo dal fatto che esso è giudicato da molti un linguaggio dotato di significato. Abbiamo cercato di capire cosa possa voler dire in senso teorico la parola significato applicata alla musica ed abbiamo convenuto, insieme ad autorevoli studiosi, nell’escludere che una semantica possa essere all’opera quando un compositore compone o quando un interprete performa un brano. Non abbiamo detto che l’assenza di una semantica priva la musica della capacità di riferimento. Seguendo Giovanni Piana e seguendo Nelson Goodman abbiamo piuttosto messo in luce la natura dei simboli musicali come qualcosa di diverso dai simboli verbali o dai linguaggi discorsivi. Se i simboli musicali sono tali non è perché sono veicolo di significati, bensì perché essi esemplificano proprietà che appartengono tanto alla materia quanto alla forma musicale. Abbiamo allora concluso che se riferimento è un termine semantico, e solo semantico, la musica non può, come le parole, riferirsi a stati del mondo.

Se però, accogliamo il suggerimento di Goodman, secondo cui l’esemplificazione nelle sue varie forme è riferimento, allora la musica si configura come quel linguaggio capace di attuare alcune varieties of reference in virtù del suo significante e non del suo significato. Inoltre, se accogliamo l’idea che vede nel mondo ciò che causa i nostri proferimenti, rendendoli veri, allora possiamo estendere persino il concetto di verità agli enunciati musicali. Infatti, l’atto di ritener vero (holding true) il proferimento di un parlante la cui lingua mi è sconosciuta non è diverso dall’atto di ritener vero il proferimento (musicale) di un “parlante (musicale)” la cui lingua (musicale) mi è sconosciuta. La nozione di verità che è espressa dall’atteggiamento di holding true applicato a proferimenti (musicali) ci restituisce una concezione non semantica della verità.4

Torniamo adesso all’esempio scelto. Pärt descrive un evento fisico che ha agito causalmente su di lui attraverso la mediazione di un testo: egli non è in connessione con quel feto e non dobbiamo aspettarci che la sua musica riveli con l’evento che l’ha suscitata una reazione più forte di quella che un qualsiasi altro dato testuale possa stimolare in un lettore. Tuttavia, le cose sono un po’ più interessanti. Pärt non è un padre che fissa in musica la causa della sua esultanza: Pärt non è una madre che compone nel canto la propria sorpresa nello scoprirsi causa essa stessa di una causa, anzi della Causa. Situazione che Dante immortalerà con i versi della Commedia definendo Maria “Vergine Madre, Figlia del Tuo Figlio”. La conclusione è dunque scoraggiante: se Pärt non ha potuto reagire ad uno stimolo causale e se dunque non vi è nell’ambiente circostante qualcosa che possa consentire all’ascoltatore di Pärt di costruire il triangolo interpretativo, allora nulla di oggettivo può essere individuato nel metalinguaggio dell’interprete come il riferimento del Magnificat di Pärt. Se non c’è per l’interprete la possibilità di interagire contemporaneamente con un conspecifico e con uno stimolo distale condiviso da entrambi, non c’è oggettività presunta. Se io che ascolto e Pärt che compone non triangoliamo con uno stimolo che causi e il suo proferimento musicale e la mia risposta interpretativa, allora nulla può consentirmi di passare dallo holding true applicato genericamente ai proferimenti di Pärt all’attribuzione di una intenzione di significato che io possa mettere in relazione coi musical devices di Pärt.

6. “In jubilatione canere”

Dobbiamo accontentarci di questa conclusione? Penso di no, ma, poiché non dispongo ancora di un’idea chiara vorrei concludere questa riflessione in maniera da lasciare aperti sviluppi futuri.

Nelle Enarrationes in psalmos [32, II, 8] Sant’Agostino introduce il concetto di jubilatio, prendendo spunto dalle parole del salmista “Cantate ei canticum novum”. Egli intende la novità del canto come pertinente alla natura dell’homo novus, creatura nuova, kainè ktìsis, rinnovata per gratiam ex vetustate. Il cantico nuovo non è mera attività di proferimento di suoni nuovi. La creatura nuova è chiamata a cantare con la propria vita piuttosto che con la lingua: “Can-tet canticum novum non lingua sed vita” è il comportamento che esprime, e forse costituisce, il testo di questo canticum novum. Il cantico ha come destinatario un ascoltatore eccezionale per natura e competenza. Sicché, la nuova creatura si interroga circa i modi da usare per non dispiacere al suo creatore/ascoltatore: “Quaerit unusquisque quomodo cantet Deo. Canta illi, sed noli male”. Ma se trepidiamo già quando ci vien chiesto di cantare dinanzi ad un musico intenditore, il quale intenderebbe quelle imperizie che l’ascoltatore inesperto lascia invece correre (“quod in te inperitus non agnoscit, artifex reprehendit”), chi oserà cantare dinanzi ad un ascoltatore onnisciente qual è Dio?

Il problema è quello di riuscire graditi a Dio (“ne displiceas artifici”) e non tanto quello di esibire una impossibile perfezione tecnica. Agostino sta sostenendo che una comunicazione musicale con Dio è possibile anche nella imperfezione che è caratteristica nella creatura umana. Come dire che l’atto canoro è uno speech act la cui happyness non viene a dipendere dalla correttezza formale: non la well-formedness è richiesta, poiché l’inadeguatezza formale della creatura viene assunta da Agostino come postulato generale: “Quando potes afferre tam elegans artificium cantandi ut tam perfectis auribus in nullo displiceas?” Penseremo che forse Dio non è interessato all’arte? Forse non si cura della instructio artis musicae del cantore? Epperò, più avanti, lo stesso salmista dirà “bene cantate ei”. Non qualunque modulazione è adeguata a Dio (decet). La nuova creatura è così stretta fra l’invito a cantare la propria novità con un cantico nuovo e la impossibilità di rispettare i requisiti formali, sintattico-semantici, che una performance artistica impone all’esecutore. Come dunque interpretare l’invito a bene canere ei?

Agostino teorizza qui il concetto di jubilatio. Al momento non saprei dire se egli lo desuma dalla pratica del canto liturgico o non piuttosto dalla sua poderosa conoscenza storica e speculativa. Il termine è suggerito dallo stesso salmista, il quale scrive “bene cantate ei in jubilatione”. Ora, la giubilazione – che traduce lo jobel ebraico – è spiegata da Agostino come un “intellegere verbis explicare non posse quod canitur corde”, i.e. un intendere senza che si possa spiegare a parole quel che viene cantato col cuore. E fa un esempio di tale attitudine. I mietitori, i vendemmiatori, insomma quelli che cantano i cosiddetti canti di lavoro, ma anche coloro che svolgono con passione un compito (“sive in aliquo opere ferventi”) mentre iniziano ad esultare di letizia nel proferire le parole dei canti, non possono poi spiegare a parole la letizia di cui si trovano come ripieni, e quindi – continua Agostino – “avertunt se a syllabis verborum, et eunt in sonum jubilationis”. Il lavoratore/cantore che giubila si distacca dalle forme della lingua per approdare a una condizione in cui ciò che si prova non può essere adeguatamente detto. In tali casi per non risultare inadeguati verso Dio, si deve accettare di esserlo verso il linguaggio. Ed ecco la jubilatio: “Sonus quidam est significans cor parturire quod dicere non potest”. La jubilatio adegua a Dio la creatura che esce dalla articolazione del linguaggio per entrare nella condizione giubilare. Il giubilare è la confessione del fatto che il linguaggio è inadeguato a Dio: è un apofatismo del significante, questo, nel quale la creatura professa di non poter dire Dio. Diversamente, però, dall’apofatismo teologico, nella musica la creatura sperimenta anche di non poter tacere Dio. Sicché è jubilatio l’espressione di chi canta il proprio non poter dire per mezzo del proprio non poter tacere: “Et quem decet ista jubilatio, nisi ineffabilem Deum? Ineffabilis enim est, quem fari non potes, et si enim fari non potes, et tacere non debes, quid restat nisi ut jubiles?”.

La jubilatio è una attitudine che scaturisce dalla frizione tra una consapevolezza (fari non posse) ed una cogenza (tacere non debere). È uno spiraglio che rimane aperto tra queste due verità. In altre parole, se non si può restare zitti dinanzi alla cogenza del cuore e se, d’altra parte, non si riesce a saturare la letizia con un dire adeguato a Dio, ciò che diviene adeguato può essere solo il suono che sa di essere inadeguato e che, mentre lo sa, se ne smemora e fuoriesce a forza: “ut gaudeat cor sine verbis, et immensa latitudo gaudiorum metus non habet syllabarum”. Come non cogliere nelle parole di Agostino qui riportate e commentate l’atteggiamento stesso di Maria nell’atto in cui compone il cantico del Magnificat? Certo ella conosceva il Cantico di Anna, e forse avrà voluto inizialmente cantare quelle parole che certo erano impresse nella sua memoria e che ora risorgevano causate dalla nuova incredibile condizione di vergine madre di Dio. Nel latino biblico le parole suonano molto simili a quelle effettivamente proferite da Maria: Exultavit cor meum in Domino /Exaltatum est cornu meum in Domino /Dilatatum est os meum super inimicus meos/ Quia laetata sum in salutari tuo /Non est sanctus ut est Dominus /Neque enim est alius extra te /Et non est fortis sicut Deus noster [I Sam. 2, 1-2]. Se è così l’interpretazione del Magnificat, della sua musicalità, non è riconducibile ad una sintassi preordinata, poiché scaturisce da una causa che è vera, ma che trascende le possibilità dei simboli umani.

Traducendo ora queste osservazioni nei termini consueti della filosofia dei linguaggi, desidero formulare una timida conclusione. Il Magnificat di Arvo Pärt realizza certo un riferimento intertestuale con il cantico riportato dall’evangelista Luca. Se ammettiamo che il testo di Luca (che è il canto di Maria) sia una forma di giubilazione allelujatica, allora possiamo consentire con sant’Agostino nell’individuare il meccanismo di riferimento testuale non già nel corpo dell’enunciato musicale, ma nella particolare condizione del performer, il quale esemplifica in musica la sua reazione ad uno stimolo prossimale. Questa condizione, che Luca descrive a proposito di Maria e Sollima a proposito di se stesso, può ben essersi presentata anche nella storia “causale” di Arvo Pärt: solo che non dobbiamo cercarla come una imitazione musicale dello stimolo causale, né come un significato cui le singole parti del brano facciano riferimento. Postulare una relazione causale tra eventi fisici ed eventi mentali o simbolici non significa postulare delle strict laws di tipo deterministico, o di tipo semantico. Piuttosto, dal momento che abbiamo escluso che il “senso” sia dato causalmente nel testo musicale, perché non pensare che esso sia presente come ciò che causa la giubilazione della quale il Magnificat è la splendida toccante risposta? In altri termini, se cerchiamo il punto in cui la musica si può connettere causalmente con la sostanza del mondo, e se riteniamo questa connessione come una condizione per interpretare lo sfuggente fenomeno del riferimento musicale, perché dovremmo ipotizzare che questo possa accadere soltanto sul piano dell’enunciato o dello spartito musicale? Al contrario, penso che le argomentazioni sviluppate nelle pagine precedenti (convalidate anche da quanto detto a proposito del caso del Magnificat) consentano di intravedere l’apporto che una teoria della enunciazione musicale può fornire ad ogni discussione sulle forme del riferimento in quei sistemi simbolici e notazionali che appaiono sprovvisti di una semantica in senso tradizionale.


Note

* Questo testo è la versione rielaborata e aggiornata dell’intervento da me letto e discusso al convegno Approcci semiotico-testologici ai testi multimediali, Università di Macerata 16-18 ottobre 2000, organizzato da János Sándor Petöfi e Francesco Orilia. Ringrazio Andrea Garbuglia per gli stimoli e i suggerimenti che mi ha amichevolmente donato.
1 Per gli aspetti logici della rappresentazione canonica di comunicati verbali e della situazione di enunciazione vedi C. Biasci – J. Fritsche (Hrsg.), 1978. Questi aspetti metodologici legati alla storicità dell’enunciazione musicale sono stati oggetto di un’intelligente riflessione da parte di Andrea Garbuglia [cfr. 2003/04; 2004].
2 Uso la parola spartito in entrambi i casi traendola dalla traduzione italiana de I linguaggi dell’arte di Nelson Goodman. Come qualcuno ha già osservato l’espressione di Goodman (scores) si presterebbe anche alla traduzione italiana ‘partitura’. In questo contesto ho ritenuto di non alterare l’uso corrente, pur avendo introdotto in altri miei scritti la distinzione teorica fra scores o spariti in senso formale e Ich-Partituren o spartiti in senso tensivo-muscolare [nota aggiunta nel 2006].
3 Cfr. De Natale 2004, il quale ha – tra gli altri – il merito di aver proposto un approccio nel quale le dinamiche intersoggettive dei soggetti che “hanno parte della musica”, secondo l’espressione di Aristotele, prevalgono sugli aspetti categoriali relativi alle forme che questa intersoggettività assume nella storia [nota del 2006].
4
Questo holding true applicato a simboli sprovvisti di contenuto proposizionale o simboli imperscrutabili è ciò che chiamerò verità esemplificazionale nell’ambito del mio approccio cronosensitivo ai linguaggi (cfr. La Matina 2004). [Nota aggiunta nel 2006].


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