Paolo Bolpagni
L'elemento verbale nelle partiture della Nuova Musica tra concettualità e iconismo

     "zum Raum wird hier die Zeit"

Richard Wagner,
Parsifal
, atto I

 


Ma se era vero che il tempo diventava spazio,allora le mie notazioni musicali potevano diventare arte grafica Da questo nacque l'idea di produrre litografie, serigrafie, acqueforti, utilizzando i miei spartiti musicali.

John Cage

 

 

Nel mondo classico, le notazioni musicali furono essenzialmente alfabetiche: in entrambi i sistemi della tradizione greca a noi noti, lo strumentale e il vocale, i simboli grafici atti a denotare l'altezza dei suoni erano perlopiù lettere, disposte in posizioni diverse a indicarne le possibili alterazioni, oppure intercalate ad altri segni convenzionali, relativi al parametro della durata. I Romani sostituirono via via ai caratteri ionici quelli del proprio alfabeto, che da quindici (dalla "A" alla "P") diventarono infine sette intorno al IX secolo. Frattanto, con la diffusione del canto gregoriano, si affermavano sempre più i neumi, sorta di derivazioni evolutive dagli accenti quantitativi e dai simboli della prosodia latina, e remoti antenati, a loro volta, delle note che ancor oggi sono in uso. Nel nostro - appunto, perdurantemente attuale - sistema standard, la presenza e funzione dell'originario fattore logosemeiotico quale mezzo di denotazione dell'altezza (ossia della frequenza) sonora è del tutto venuta meno, ma è si è sviluppata un'area d'utilizzo degli elementi verbali che, dapprima circoscritta all'aspetto agogico, a partire dalla seconda metà del Settecento si è vieppiù estesa anche al dinamico e all'espressivo. Il che comporta, in una prospettiva d'ermeneusi filosofica (post-)analitica - mi riferisco in particolare, alla riflessione di Nelson Goodman - una duplice serie di difficoltà e incongruenze, fra loro collegate.

La questione preliminare inerisce alla risaputa ripartizione delle tipologie artistiche fra autografiche e allografiche: le une (per esempio, dipinti e sculture lapidee) la cui identità è connessa in maniera stringente alle rispettive condizioni di creazione e conservazione nel tempo, al supporto fisico e all'inestricabile intimo connubio di forma e materia (si ricordi Cesare Brandi), sicché presuppongono l'esistenza di un "originale", oggetto unico e irripetibile dotato perciò, secondo Walter Benjamin, di "aura"; le altre - pensiamo alle opere letterarie e musicali - che, invece, non implicano affatto il problema dell'"autenticità", essendone possibile, senza che vi sia falsificazione o perdita d'identità, la produzione e replicazione in un numero infinito di esemplari, tra ognuno dei quali non si dà alcuna sostanziale differenza. Un melodramma e una sonata pianistica, però, benché allografiche al pari di un romanzo o un racconto, non constano soltanto di una pagina scritta, di uno "spartito", ma trovano il loro compimento ed estrinsecazione precipua nell'esecuzione; ognuna delle quali, ça va sans dire, è inevitabile che sia diversa dall'altra, dipendendo da fattori non omologabili né interamente controllabili. Nondimeno, queste opere restano sempre le medesime, e come tali sono ravvisate dagli ascoltatori-spettatori: ciò avviene perché, secondo Goodman, esse possiedono un'identità a "istanza multipla", che consente al percepente di riconoscerle attraverso le innumeri potenzialità d'interpretazione [1] .

La prima delle difficoltà cui accennavo è legata alla progressiva crescita - sotto il profilo sia della quantità, sia della rilevanza - della sfera logosemeiotica nelle partiture musicali, principiata negli ultimi decennî del XVIII secolo e accentuatasi soprattutto in coincidenza dell'epoca romantica: quando, in conformità a un'incipiente tendenza all'iper-codificazione, non solo si allargò a dismisura il vocabolario delle indicazioni agogiche, ma si sviluppò una terminologia di "prescrizioni" dinamiche ed espressive dalla vastissima e inesauribile casistica. Dunque, ai tradizionali e invalsi "allegro", "andante" e "adagio", si aggiunsero precisazioni complementari ("allegro vivace", "andantino mosso" etc.) relative al tempo o velocità di movimento dei brani, e ulteriori diciture la cui minuziosità si accompagnava alla totale soggettività e a un'inversamente proporzionale razionalità funzionale: da un "con la massima intensità" a "sempre diminuendo fino a spegnersi", da "affettuoso" ad "amabile", da "appassionato" ad "agitato", sino agli ironici e ineffabili estremi di un Satie, che non si peritava di chiedere al suo interprete di suonare "avec une légère intimité", "sans orgueil", "sur la langue", "dans une grande bonté" o "en se regardant de loin"! Ebbene, se acconsentiamo che il cómpito primario e fondativo di una partitura consista nell'identificare un'opera musicale, cui sarà lecito ascrivere esclusivamente le esecuzioni a essa congruenti, bisognerà che il codice semiologico adottato dall'autore ottemperi alle proprietà semantiche della disgiunzione e della differenziazione finita; criterî che il corpus principale - costituito da caratteri non-verbali - del sistema standard rispetta in maniera paradigmatica, ma ai quali contravviene, invece, l'insieme degli elementi alfabetici ospitati al suo interno. In effetti, dal momento che ogni parola, come appare, è utilizzabile per indicare il tempo, il fraseggio e l'espressione di un pezzo musicale, e che, perciò, il numero delle prescrizioni possibili - per esempio - tra il "veloce" e il "lento" si dimostra, almeno in linea di principio, illimitato, ne risultano trasgrediti entrambi i requisiti necessarî e sufficienti in cui presenza è ammesso parlare di notazionalità. Di conseguenza, occorre riconoscere che l'idioma grafico elaborato dalla civiltà musicale europea nel corso del secondo millennio non risponde totalmente ai canoni goodmaniani dello "spartito", ma si suddivide in due sottocategorie, una sola delle quali si rivela conforme ai principî della disgiunzione semantica e della differenziazione finita (dato che le linee e gli spazî del rigo fungono da riferimenti chiari e certi per la determinazione delle altezze, e i simboli impiegati sono, in assoluto, quantitativamente circoscritti), e quindi notazionale.

Per garantire la tenuta del sistema, si dovrà concludere, allora, che "i termini che indicano il tempo (ma anche l'espressione, la dinamica e l'agogica) non possono essere parti integranti di uno spartito, nella misura in cui lo spartito ha la funzione di identificare un'opera da esecuzione a esecuzione. (...) Queste specificazioni (...) sono semmai indicazioni ausiliarie la cui osservanza o meno modifica la qualità di un'esecuzione ma non l'identità dell'opera" [2]. Però, se tali elementi aumentano di ruolo e di numero, assumendo un'importanza crescente, nelle intenzioni dell'autore, per la manifestazione della sua volontà di preordinare nella maniera più accurata la performance interpretativa (proposito in sé contraddittorio, in quanto perseguito attraverso strumenti per nulla esatti e definitorî), si incrementano pure, per così dire, i fattori di disturbo, le componenti eterogenee e perturbatrici rispetto alla notazionalità, che scompare del tutto nel caso che questi prendano il sopravvento sui simboli non-verbali.

L'evenienza sembrerebbe meramente ipotetica e implausibile, ma si è verificata con ampia frequenza durante il XX secolo: il richiamo più calzante è alle cosiddette "scritture d'azione", che, diffuse in specie negli anni sessanta e settanta, non determinavano i suoni nei loro parametri, bensì i procedimenti da porre in atto per produrli, e si servivano, allo scopo, di caratteri cifrati, iconici (immagini, tavole, grafici, schemi etc.) o, appunto, logosemeiotici. Paradossale e sorprendente è che l'orientamento iper-codificatorio che sovrintese da principio all'immissione di siffatte "istruzioni operative" verbali nel corpo delle partiture musicali (si pensi a didascalie ottocentesche come "lasciar vibrare a lungo", o alle prescrizioni miranti a ricavare dallo strumento effetti singolari non significabili mediante i segni standard tradizionali, per le quali si può risalire ben oltre Stravinskij e Bartók, visto che già Rossini, nella Sinfonia del Signor Bruschino del 1813, chiedeva ai secondi violini di ottenere un rumore ritmico battendo con l'archetto sui leggii) finì per sfociare nel suo diametrale opposto, ossia nella prorompente esplosione della pratica aleatoria, che si tradusse nel proliferare di autentiche "opere aperte", in cui la voluta indeterminatezza delle partiture (ormai ben lungi dall'essere notazionali) concede all'esecutore un margine assai consistente di libertà estemporanea. Water Yam (1963) di George Brecht, La strada (1964) di Giuseppe Chiari, Events (1964) di Takehisa Kosugi, Events and Games (1964-1965) di Mieko-Chieko Shiomi, 50 Opera (1966) di Eric Andersen e Piece for Fluxorchestra (1966) di Albert Fine si presentano come semplici scatole o buste contenenti piccoli cartoncini rettangolari di diverse dimensioni, che recano stampate frasi o parole le quali descrivono, in maniera più o meno dettagliata, le "azioni musicali" (o genericamente performative) da compiere.

George Brecht, Water Yam (1963)

Il termine "partitura", in circostanze simili, è mantenibile solo per via analogica; più adeguato sarebbe parlare di "canovaccî" o, per restare nell'idioletto goodmaniano, copioni, mancando del tutto sia le proprietà della disgiunzione e differenziazione semantica [3] , sia le potenzialità iconiche riscontrabili nelle notazioni pittografiche, sinestetiche o a strutture mobili. Daniele Lombardi, peraltro, osservava nel 1981 che queste scritture, nate "da un'espansione della ricerca timbrica", costituiscono un "sintomo dello spostamento dal sonoro al visuale, in quanto il gesto (...) tende a prendere il sopravvento sul suo effetto" [4]: il mezzo, insomma, che si trasmuta in fine. Accanto ai casi di puri copioni o "partiture performative", fra cui sono annoverabili, per esempio, anche Ailanthus (1964) di Walter Marchetti

e la più tarda Pendulum Music (1968/1973) di Steve Reich [5] , dove rivestono un ruolo basilare la componente dissacratoria e quella ludico-rituale, in area Fluxus ci si imbatte talora in esperienze di schietta e severa concettualizzazione dell'oggetto sonoro, nelle quali, oltre e più che alla semantizzazione dell'evento, si ambisce a una speculazione metalinguistica sugli statuti e strumenti dei media e dei codici considerati, a una rigorosa investigazione sulla materia del fenomeno musicale.

All'origine di un tale approccio sta, ancóra una volta, il John Cage, di 4'33'' e 37'46.776'', della visita alla camera anecoica dell'università di Harvard, con le sue meditazioni sulla "pienezza" del silenzio e l'impossibilità e impraticabilità di una completa assenza di suono [6] .

Il discorso, però, si fa più scopertamente teorico e fondativo in un lavoro come Composition musicale 1 di Ben Vautier, elaborato intorno al 1963, che si riduce a una nuda e lapidaria proposizione assertiva: "A PARTIR DU / MOMENT OU VOUS / COMPRENEZ CETTE / COMPOSITION TOUT / SON AUDIBLE EST / MUSIQUE." [7]. L'invenzione ideativa, quindi, non precede più la sua concreta realizzazione, ma diviene oggetto dell'opera stessa, che è intesa dall'autore e sperimentata dai destinatarî non per il tramite acustico, bensì attraverso il solo progetto, nei termini di mera intenzione e produzione mentale a valenza estetico-gnoseologica [8] . Di necessità, in un orizzonte di questo genere si affermano modalità verbali (e iconiche) idonee a concettualizzare un'azione che rimane inespressa fisicamente, e che si caratterizza per la sua semplice configurazione programmatica (tanto che le si potrebbe non di rado enucleare quali "testi di musica da immaginare"); ovvero "metanotazioni" cifrate di natura autoriflessiva, che, sancito ormai il distacco semantico tra segno e suono, s'impongono l'essenziale obiettivo d'indagare riguardo al cómpito e al significato della grafia musicale medesima. Rispetto alle scritture d'azione "classiche", assimilabili ai copioni di Goodman, si assiste qui a uno "slittamento temporale" dell'operazione performativa delineata, "slittamento che tende ad avvalorare il progetto" [9]rendendo quasi marginale la sua attuazione, che di frequente non è nemmeno presupposta, perché superflua. Come rilevò Lombardi, "questa sublimazione dell'evento", legittimante un possibile "do it yourself", è inseribile in una sfera più globale di interventi artistici, "per cui una definizione vaga di musica concettuale può inglobare tutta una serie di esperienze body, minimal, narrative, etc. spesso intersecate insieme che hanno in comune comunque un rapporto presunto o agito con eventi sonori, rapporto diacronico rispetto alla realizzazione fisica, fatto di istruzioni per una esecuzione o di documenti/testimonianze/tracce dell'evento" [10].

Il diffuso venir meno di una fruibilità acustica e il fondamentale disinteresse per le virtualità visive della scrittura sono gli elementi che in primo luogo distinguono tali manifestazioni da quelle includibili in area specificamente aleatoria, dove invece la partitura musicale, in concomitanza dell'aprirsi dell'opera a un illimitato campo di potenzialità combinatorie dei coefficienti dati, si sostanzia assai sovente di una calibrata e attentissima disposizione delle sue componenti - siano esse porzioni di notazione standard o frammenti logoiconici - sulla superficie del foglio, così da estrinsecare il decorso temporale in strutture e scansioni spaziali aliene da preordinati automatismi.

Piuttosto problematica, nel contesto così tratteggiato, resta la collocazione di lavori come Glossolalie (1959-1961) e Abfälle I - 1 Reactions (1960-1961) di Dieter Schnebel, Aventures (1962) di György Ligeti

e, per un certo verso, anche La Passion selon Sade (1965-1966) di Sylvano Bussotti,

nei quali si evidenzia un insolito "comporre con il suono dei vocaboli" tramite assemblaggî che fondono insieme segni tradizionali, ideogrammi e spezzoni di fonemi, "semanticamente assurdi ma significanti dal punto di vista gestuale" [11]. Sicché "la musica" - spiega l'autore tedesco a proposito di Glossolalie (ma l'asserto è estensibile pure alle altre opere menzionate [12] ) - "diventa lingua" e "comincia a parlare", mentre "la lingua diventa musica e resta al di fuori della comprensione", nel quadro di una teatralità di sapore neo-dadaista volta a generare costellazioni drammatiche proporzionate nei rispettivi pesi, segmenti e dinamiche interne [13] . Se, infatti, la costruzione formale, il procedimento esecutivo postulato e l'assetto grafico delle partiture sembrano rimandare a un àmbito intermedio fra l'articolazione per strutture mobili e una scrittura d'azione ampiamente verbalizzata (ma non "sorda alle istanze dell'occhio"), l'estensivo impiego d'ingredienti fonematici e lo stesso risultato acustico avvicinano simili esperienze a quelle della coeva poesia visuale, concreta e sonora.

Non è qui il caso di ripercorrere in maniera analitica le variegate e complesse vicende di una ricerca artistica facente capo alle tavole futuriste dei mots en liberté di Marinetti, Balla, Carrà e Severini, ai cimenti dada di Kurt Schwitters, Raoul Hausmann e Hugo Ball e ad alcune importanti prove costruttiviste (ma forse anche allo "zaum" di Aleksej Kručenych, all'utopica "lingua universale" di Velimir Chlebnikov e alle glossolalie del "teatro della crudeltà" di Antonin Artaud [14] ).

Piuttosto, andrebbero esplorate le zone di demarcazione e tangenza tra sperimentazioni differenti accomunate da un uso asemantico della parola, discernendo in via preliminare fra una tendenza a considerarla e servirsene in quanto entità visiva, tipografica, e un divergente orientamento incentrato sulla sua valenza sonora e fonetica. Nel primo novero rientrano i poeti concreti attivi in Europa e in Sud America a partire dagli anni cinquanta (da Augusto de Campos a Eugen Gomringer, da Herman de Vries a Gerard Rühm, da Arrigo Lora-Totino a Maurizio Nannucci), i quali, isolando porzioni minime del linguaggio - spesso singoli vocaboli o lettere - per scoprirne l'aspetto iconico e attribuir loro autonomo risalto, sostituirono ai nessi sintattici tradizionali una nuova prassi di dislocazione dei caratteri sulla superficie del foglio, rispondente a canoni e criterî eminentemente visuali; operazione, come s'è detto, anticipata nelle "parole in libertà" [15]e nei saggî di "onomalingua" dei futuristi italiani, in molti collages e disegni di Raoul Hausmann (talvolta collegati ai suoi progetti optofonetici) e nei lavori prodotti da Carlo Belloli intorno al 1943-44, da Bimba bomba ad Achtung, un sorriso.

Nella misura in cui prende a prestito elementi o procedure della scrittura musicale, questo vasto campo di ricerche logoiconiche, in apparenza estraneo alla nostra materia d'investigazione, rivela, invece, indicative affinità con diversi ed eterogenei tentativi di Augenmusik, dove la partitura, realizzata secondo tecniche e modalità tipicamente artistiche e costruita alla medesima stregua di composizioni grafico-pittoriche, viene ad assumere un'identità e un valore autosufficienti, a prescindere da un'eventuale esecuzione - o eseguibilità - sonora. Personaggio chiave, in tale prospettiva, è Luciano Ori, fondatore nel 1963 (insieme con Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Lucia Marcucci e Ketty La Rocca, cui si aggiungeranno, in séguito, Mirella Bentivoglio, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Michele Perfetti e Sarenco) del fiorentino Gruppo 70, e autore di innumerevoli tavole di "poesia visiva" aventi per supporto foglî di carta pentagrammata:

Luciano Ori, Telephon Blues k. 731 /1974)

si tratta di "pagine argutamente pseudo-musicali nelle quali le varie componenti: parola + immagini + segni musicali" costituiscono un assemblaggio in cui il ""furto ideologico" della notazione tradizionale" [16]conduce a "divertenti effetti "letterari" oltre che pittorici", mentre "la presenza del pentagramma" e l'inserimento su di esso "di oggetti e segni diversi (al posto delle note) permette a questi oggetti di acquistare una valenza nuova, di "metaforizzare" il proprio significato" [17]. Se si esclude l'isolato precedente ottocentesco della Katzensymphonie di Moritz von Schwind, l'indiscutibile precursore e pioniere di siffatti esperimenti va individuato nel futurista Francesco Cangiullo, che nel suo volume Poesia Pentagrammata, edito nel 1923 a Napoli, "fu il primo (...) a rivolgersi all'innesto di convenzioni della scrittura musicale per una reinvenzione espressiva della scrittura poetica" [18], creando connubî di parole e simboli grafici - talora rievocanti immagini figurative - fantasiosamente posizionati sul rigo (come poi nelle opere di Ori), e ipotizzando la "possibilità di usare i segni musicali in funzione sia declamativa, sia semantica, sia visiva" [19]. Nella pagina Il Golfo Estivo, giusto per esemplificare, "convivono rimandi al codice linguistico, a quello musicale, a quello iconico, per l'identificazione della forma della "V" di "Vele", capovolta, con la forma delle vele;

con il risultato di un'implicita trasformazione del pentagramma in superficie "musicale" del mare" [20], chiosava nel 1996 Mirella Bentivoglio; laddove in Novembre, foglio autografo a inchiostro e acquerello esposto di recente a Rovereto [21] , l'autunnale cadere delle foglie è più scopertamente adombrato secondo moduli debitori del calligramma apollinairiano (si pensi al famoso Il pleut).

L'altro indirizzo di ricerca verbovisuale cui si accennava pertiene in maniera ben altrimenti esplicita alla sfera uditiva di un'acclarata Hörmusik, impiegando la parola nella sua dimensione acustica e fonematica al di là di ogni diretta significazione e semiosi (quantunque richiami onomatopeici o tenui evocazioni siano forse ineliminabili, anche volendo). Avulse da scritture d'azione o sistemi d'istruzioni didascaliche, troviamo infatti, già al tempo delle avanguardie storiche, autentiche partiture di poesia sonora, destinate a una precisa esecuzione sonora seppure talvolta distaccate dallo specifico musicale. Scaturite sempre dall'inesauribile inventiva futurista e sùbito condivise e abbracciate dal Dadaismo zurighese (alludo, per esempio, a Karawane di Hugo Ball, del 1917, ma si potrebbero citare, in Francia, i Poèmes à crier et à danser di Pierre Albert-Birot), queste singolari manifestazioni di apparente insensatezza, sorta di divertissements dell'assurdo, culminano nel precoce capolavoro della Ur-Sonate (1923) di Kurt Schwitters, fissata su carta con una "notazione di fonemi asemantici" scanditi sulla base di una ritmica preordinata attraverso valori numerici, che rappresenta il "tentativo di una composizione "in forma sonata"" [22]realizzata esclusivamente tramite mezzi vocali.

Negli anni cinquanta, preconizzata dal Manifesto dell'epistaltismo redatto nel 1949 da Mimmo Rotella [23] , la poesia sonora ebbe in Jacques de la Villeglé il proprio massimo ideologo e teorizzatore (fu lui a coniarne l'espressione nel 1958, sul secondo numero della rivista "Grâmmes"), e conobbe la sua più fortunata stagione creativa dispiegandosi in un'estesissima costellazione di esperienze, dalla "verbophonie" di Arthur Petronio al movimento del Lettrismo di Maurice Lemaître e Isidore Isou. Quest'ultimo, in particolare, formulò un codice di segni fonetici - alcuni già esistenti, altri di nuova invenzione - denominato "hypergraphologie", vòlto a costituire una puntuale "notazione" (invero del tutto aliena ai requisiti goodmaniani) delle varie emissioni producibili con la voce (bisbiglî, rantoli, grugniti, sospiri, colpi di tosse, starnuti, rutti, schiocchi, ronfamenti, baci etc.). Sotto l'aspetto visivo, gli "spartiti" della poesia sonora racchiudono approccî e criterî differenti, quando non contrastanti: cosicché la sostanziale noncuranza per l'iconicità della scrittura e l'originalità della strutturazione (tipo)grafica, riscontrabile in Schtzngrmm (1966) di Ernst Jandl e in certe tavole dello stesso Isou (mi riferisco a La Guerre, del 1947),

convive con il residuale mantenimento di caratteri e simboli musicali standard (le forcelle, l'accollatura con tanto di graffe) accanto alle parole e ai morfemi isolati di Des dalles et des dés (1977) di Ilmar Laaban, esponente del gruppo svedese Fylkingen.

E se le spettacolari pagine della Cantate des Mots Camés (1977) di François Dufrêne risultano agevolmente accostabili a esiti d'àmbito Fluxus (per esempio, Hare Krsna Gatha 3 di Jackson MacLow, del 1961) nella loro compenetrazione di elementi verbali, griglie, forme geometriche e grafismi, in un'opera come Rundscheibe (1965) di Ferdinand Kriwet agisce pur sempre la fascinazione sottile dell'antico e atavico carme figurato; che nell'eccentrico E pluribus unum (1976) di Stephen Montague si combina insolitamente con una scrittura d'azione intermediale e sinestetica, generando un unicum di sapida concettosità e notevole interesse.

Stephen Montague, E pluribus unum (1976)

 


Bibliografia integrativa

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G. Borio (a cura di), La scrittura come rappresentazione del pensiero musicale, ETS, Pisa 2004, in particolare il saggio di A. DE BENEDICTIS, Scrittura e supporti nel Novecento.


Note

[1] Non si tratta di un problema di "fedeltà": infatti, "una copia abbastanza buona e il quadro originale si assomigliano molto di più che non due esecuzioni di una suite di Bach ad opera di Piatigorsky e di Casals" (N. GOODMAN, I linguaggi dell'arte, a cura di F. Brioschi, Net, Milano 2003, p. 171; ed. orig. Languages of art. An approach to a theory of symbols, The Bobbs-Merrill Company, Indianapolis 1968).

[2] Ibi, pp. 161-162.

[3] Con "copione", il filosofo statunitense non si limita a indicare "le didascalie o i testi di commediografi o sceneggiatori", ma, appunto, la totalità dei "caratteri" (designati come "classi di emissioni verbali o iscrizioni o segni") di ogni "linguaggio ambiguo" o non rispondente ai tali requisiti (ibi, pp. 116, 173, 175).

[4] D. LOMBARDI (a cura di), Giancarlo Cardini/Paolo Castaldi/Domenico Guaccero/Daniele Lombardi/Beniamino Placido/Sergio Salvi/Gianni Emilio Simonetti/Dino Villatico. Spartito preso: la musica da vedere (cat. della mostra, Firenze, Sala d'Arme di Palazzo Vecchio), Vallecchi, Firenze 1981, p. 66.

[5] Cfr. S. REICH, Writings about music, Press of Nova Scotia College of Art and Design - New York University Press, Halifax - New York 1974, pp. 12-13.

[6] Cfr. D. KAHN, Plénitudes vides et espaces expérimentaux. La postérité des silences de John Cage, in AA.VV., Sons & Lumières. Une histoire du son dans l'art du XXe siècle (volume pubblicato in occasione della mostra), Éditions du Centre Pompidou, Paris 2004, pp. 79-89.

[7] L'obiettivo è il medesimo perseguito da Yoko Ono nei 9 Concert Pieces for John Cage del 1966, che vanno eseguiti "per condurre a una situazione in cui le persone possano ascoltare la loro propria musica mentale".

[8] D'altronde l'"assenza del suono" era già sottesa in molta della cosiddetta musique de tapisserie o d'ameublement, creata da Erik Satie negli anni dieci del Novecento compenetrando strettamente pentagrammi e testi, e "vietando la pubblica lettura" di quest'ultimi "durante l'esecuzione": ne conseguiva che l'ascolto risultava "secondario o perlomeno successivo ad una fruizione visiva" della partitura, in cui prevaleva, dunque, l'aspetto mentale e teoretico (LOMBARDI, op. cit., 1981, p. 84).

[9] D. LOMBARDI, Scrittura e suono. La notazione nella musica contemporanea, Edipan, Roma 1980, p. 102.

[10] Ibi, p. 103.

[11] U. DIBELIUS, Parola, gesti, immagini. Da "Aventures" a "Le Grand Macabre", in E. RESTAGNO (a cura di), Ligeti, EDT, Torino 1985, p. 33.

[12] In merito ad Aventures di Ligeti, Ulrich Dilebius accenna, non a caso, a una "musicalizzazione e teatralizzazione della parola", palesantesi nella volontà di "trattare la parola come la musica e la musica come la parola" (ibi, p. 34). Quanto alla Passion selon Sade, Roberto Illiano vi ha sottolineato il ricorrere di "oscure simbologie" e il pullulare di "giochi grafici": "Nella notazione sono presenti allusioni personali, fra cui la dicitura Sade Bach (...) che, oltre a indicare le note da suonare, adombra il nome dell'autore (SB). (...) La scrittura è indicativa a volte dell'altezza, a volte del registro, a volte del timbro dei suoni. La pagina di partitura diviene struttura compositiva solo combinando il testo con le sue istruzioni per l'uso" (R. ILLIANO, Il Novecento in note, in P. TOGNON (a cura di), Musicaxocchi/augenmusik/eye-music (cat. della mostra, Bolzano, varie sedi), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002, p. 56). "L'opera", ha illustrato Bortolotto, "si svolge su avvii allusivi dati da un testo letterario: il sonetto II di Louis Labé (O beaux yeux bruns, o regars destournez). (...) Tale sonetto ha una prerogativa (...): i primi dieci versi cominciano con la O vocativa. La Passion vuole leggerlo musicalmente, e teatralmente: O è la protagonista (...). Ma O è, ancora, sulla partitura, l'abbreviazione di Organo, che è uno dei pochi strumenti richiesti (...). O indica, inoltre, l'uso delle mani nella percussione. Questo criptografie, il reale mistilinguismo che ne sorge, (...) i giuochi grafici eccedono qualsiasi percettività, sia acustica che visiva" (M. BORTOLOTTO, Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica, Giulio Einaudi editore, Torino 1969, pp. 220-221).

[13] Esemplare rimane il commento a Glossolalie contenuto nel celebre Fase seconda di Bortolotto: "Scritta per voci parlate e strumenti a percussione, (...) vi si decifrano solo segni (...). (...) Anche qui, un montaggio di 'pezzi' sonori. Essi appartengono a un numero enorme di lingue, fra le più remote: l'indifferenza al testo è garantita. (...) I vocaboli emessi (...) vengono sottoposti a una denaturazione dovuta all'applicazione al parlato di parametri musicali. Si comincia dai segni dinamici e di fraseggio (...), si prosegue con l'uso degli abbellimenti, con la scissione in sillabe di differente emissione ed intensità, con l'apertura della sillaba stessa in suoni (...) finché per gradi si passa al fonema, e, per esempio, a una successione rapidissima di esse e di theta" (BORTOLOTTO, op. cit., 1969, p. 74).

[14] Senza tralasciare, del resto, i contributi della scienza linguistica in direzione di una desemanticizzazione e frantumazione dell'unità del morfema, dai Principi di fonetica sperimentale dell'abate francese Jean Pierre Rousselot al Manifesto fonologico presentato da Roman Jakobson, Nicolaj Trubeckoj e Sergej Karcevskij (esponenti del Circolo di Praga) al I Congresso internazionale di linguistica tenutosi all'Aia nel 1928.

[15] "Le prime notazioni", secondo Lombardi, "che scardinano il senso normale di lettura (sinistra-destra e alto-basso) per adottare una serie di percorsi liberi da dedurre, un primo esempio di alea nel progetto" (LOMBARDI, Spartito preso, 1981, p. 54).

[16] LOMBARDI, Scrittura e suono, 1980, p. 133.

[17] G. Dorfles, L'intervallo perduto (1980), Skira editore, Milano 2006, p. 48.

[18] M. Bentivoglio (a cura di), Ascoltare l'immagine. L'esperienza del suono negli artisti della visualità (cat. della mostra, Seravezza, Palazzo Mediceo), Maschietto & Musolino, s.l. 1996, p. 59.

[19] LOMBARDI, Scrittura e suono, 1980, p. 133.

[20] BENTIVOGLIO, op. cit., 1996, p. 59.

[21] Cfr. Aa.Vv., La parola nell'arte. Ricerche d'avanguardia nel '900. Dal futurismo a oggi attraverso le collezioni del Mart (cat. della mostra, Rovereto, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto), Skira, Ginevra - Milano 2007, p. 92.

[22] LOMBARDI, Scrittura e suono, 1980, p. 132.

[23] "Linguaggio epistaltico vuol dire inventare tutte le parole, svincolarle dal loro valore utilitario per farne dei razzi traccianti contro gli edifici decrepiti della sintassi e del vocabolario. (...) La parola è soprattutto suono: va eliminato il muro divisorio tra la musica e la poesia che sono essenzialmente la stessa cosa" (M. ROTELLA, Manifesto dell'epistaltismo, ciclostilato, Roma 1949).

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