DAVIDE SPARTI, Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz, Bologna: Il Mulino, 2007, (Intersezioni, 319)

Recensione a cura di Maurizio Corbella


È un titolo che difficilmente non incuriosisce soprattutto se, come nel mio caso, è un po’ che si tiene d’occhio il libro senza avere l’immediata occasione di affrontarlo nella lettura. Per la verità è l’immagine del corpo sonoro a intrigare, mentre desta qualche apprensione il sottotitolo Oralità e scrittura nel jazz, data l’immensa bibliografia che è stata prodotta sul problema negli ultimi vent’anni. Addentrandosi nelle prime pagine spicca la lunga epigrafe, l’estratto centrale della poesia The Sax Bit di Ted Joans (1959), dedicata al sassofono e al personaggio preso a icona della fondazione di un nuovo modo di intendere il suono e l’improvvisazione: Coleman Hawkins. Il carattere dell’epigrafe rispecchia la scrittura fortemente individualizzante di Sparti, che prova a raccogliere la sfida di mettere il lettore di fronte a un testo personale, per nulla paludato, che non si iscriva asetticamente nel panorama specialistico, semmai in una tradizione di divulgazione che è tornata alla ribalta negli ultimi anni (di cui uno dei casi più famosi è Music. A Very Short Introduction di Nicholas Cook).1 Per dir la verità, Sparti non viene del tutto a capo dell’arduo dilemma tra alta divulgazione e scrittura specialistica (filosofia/sociologia della musica), finendo per evidenziare un latente conflitto tra la snellezza dell’impostazione generale e la corposità dell’ampio apparato di note (che copre un terzo delle dimensioni complessive del volume: un vero e proprio libro nel libro). Non riducendosi a puntualizzazioni bibliografiche, bensì ad appendici argomentative, le note causano nel lettore una certa difficoltà di movimento, derivata dal fatto che è impossibile leggere il testo senza ricorrervi frequentemente, con il naturale rischio di perdere il bandolo del ragionamento. L’assunto da cui muove provocatoriamente il testo di Sparti è quello che ci troviamo in un’epoca videocentrica, dominata dall’estetica della perfezione (nel senso etimologico di opera “conclusa”), che implica il distacco platonico dell’arte dalle sue condizioni di produzione e ricezione e sancisce nel museo il luogo idoneo alla “venerazione” e al distacco dal prodotto dell’ingegno. Questa concezione visiva è da leggersi come conseguenza dell’avvento della scrittura la quale, nello specifico della musica occidentale, ha goduto di uno statuto ambiguo: è eterogenea rispetto alla messa in atto della componente pratica dell’agire musicale, ma è determinante nello stabilire i confini dell’opera, poiché conferisce durevolezza all’altrimenti effimera arte performativa.

Da qui la presa in considerazione del jazz come caso di studio pregnante per mettere in discussione la scrittura e rivalutare la dimensione corporea (in un’accezione più ampia rispetto all’oralità) del suono. Come si può inferire da tale premessa, la coppia orale-scritto, con l’analogo binomio tra il corpo e la sua negazione, si colora di una tonalità antagonistica con risvolti sociologici, fino ad assumere i connotati di una lotta tra due regimi estetici, il secondo dei quali risulta egemonico nella cultura occidentale.

Il saggio si struttura in quattro parti più un’introduzione e una breve conclusione.
Le sezioni sono dedicate rispettivamente alla questione della notazione musicale (
I. Il rifiuto della transitorietà), a un inquadramento filosofico del binomio suono-vista e a una sua problematizzazione nella musica di John Coltrane (II. Il corpo sonoro), al rapporto tra composizione scritta e improvvisazione con particolare riferimento al jazz (III. Performance improvvisata, opera annotata), e alle analogie e differenze tra improvvisazione nel jazz e nella tradizione “colta”, prendendo come spunti paradigmatici Edgar Varèse e John Cage (IV. Sperimentazioni della tradizione musicale eurologica).
L’introduzione funge anche da premessa metodologica. Sparti premette di avere scelto un’impostazione «genealogica» e non ontologica dell’indagine. Il concetto di “genealogia”, nell’accezione di Foucault,2 a sua volta ricavata da Nietzsche, significa per l’autore partire «da ciò che attualmente “fa problema”, per poi andare a ricostruirne l’insorgenza», cioè «interrogarsi sulle condizioni d’insorgenza e sugli effetti di una pratica che è ancora viva».
3 Dunque, la ricognizione storica sui concetti di notazione, composizione, improvvisazione che ha luogo nel primo capitolo è incentrata sulla chiave di volta del romanticismo, inteso come momento di «discontinuità storica» con ricadute nell’attualità. Questa scelta dovrebbe permettere all’autore di smarcarsi dai grandi problemi storiografici che si incontrano nella definizione del romanticismo musicale. In altri termini, ciò che determina le nostre azioni e categorizzazioni musicali non è tanto quello che il romanticismo è stato storicamente, quanto il modo in cui esso è sedimentato nel presente.

L’autore sceglie di delineare un’epoca genericamente “preromantica” (che copre l’immenso arco cronologico dal Medioevo al Settecento), nella quale «il culto del compositore è di là da venire, non si riscontra la presenza di una categoria generale volta a designare l’opera musicale intesa, secondo l’accezione di Carl Dahlhaus,4 come entità ben identificabile, di valore esclusivamente strumentale, […] e fissata in forma scritta ai fini della riproduzione musicale».5 Dunque il Romanticismo è genealogicamente determinato dal progressivo affermarsi nella storia del concetto di composizione, nei termini interpretati da Dahlhaus. Può essere identificato un ideale termine ad quem per l’epoca “preromantica”, dal momento che vi è assenza del concetto di opera musicale fissata per una varietà di esecuzioni e, in sostanza, per una posterità, assenza di un sistema normativo univocamente codificato, paragonabile alla partitura ottocentesca. L’ampio margine di completamento del dispositivo scritto che rimane in quest’epoca nelle mani dell’esecutore, rientra per Sparti nell’area di pertinenza del concetto d’improvvisazione. Tale concetto, pur costituendo il nucleo centrale del saggio, non è fissato in forma definitoria. Ciononostante, sembra di poter inferire che per l’autore non ci siano rilevanti distinzioni nell’area semantica di tale concetto tra le forme libere del Seicento (toccate, fantasie, capricci) e, poniamo, le performance di Albert Ayler o Archie Shepp. La nascita di una terminologia per una pratica musicale non notata (ex tempore, abrupta ecc.) nel tardo Cinquecento sarebbe il primo segnale dello stabilirsi nella cultura occidentale di un’embrionale concetto di composizione con il suo carico normativo.

Il ruolo che la formazione del testo musicale ha avuto nella definizione della categoria di composizione è determinante. La notazione risponde per Sparti alla volontà dell’uomo occidentale di togliere il suono dalla sua temporalità. Tappe fondamentali di questo processo sono l’introduzione del neuma, e la successiva relativizzazione del parametro “altezza”, originatosi nel momento in cui Guido d’Arezzo ha assegnato il nome alle note. Quest’ultima operazione è il primo passo verso l’astrarsi del suono dalla sua pratica, ed è premessa di un processo di graduale «razionalizzazione»6 della cultura che ha luogo a partire dal Seicento. In un sistema socioculturale di progressiva auto-alimentazione, la musicologia, nata nel XIX secolo, ha automaticamente favorito la musica depositata in codifiche scritte, trascurando, per mancanza di strumenti d’analisi e di conservazione, la restante parte. Conseguente a questo fattore è la stabilizzazione di un canone di valore (il museo, appunto).

L’indagine, all’aprirsi del secondo capitolo, si sposta su un terreno più strettamente filosofico. Suono e vista sono concepiti in chiave oppositiva in quanto fondano i presupposti di due poli culturali in rapporto dialettico. Nella cultura occidentale il videocentrismo ha avuto il sopravvento fin da Platone (la vista è alla base dell’etimo greco di idea ed eidos). Con la traduzione del termine phōnē (il suono inteso nella sua fisicità di avvenimento acustico e corporeo) in grammata, e la conseguente analogia tra il frazionamento della voce nel fonema alfabetico e del suono nella nota musicale, si può constatare il primo tentativo di spazializzare gli eventi sonori. Nella riflessione hegeliana l’enunciazione vocalica corrisponde alla voce pura ed è punteggiata dall’uso delle consonanti, «interruzioni» mute dell’emissione, che introducono intelligibilità e razionalità all’interno del linguaggio. Lasciandosi trasportare dal flusso del suo ragionamento pan-storico, Sparti introduce una dicotomia tra l’aulos e l’antica lira greca (intesa come il cordofono a pizzico delle iconografie e non come lo strumento ad arco ancor oggi presente in alcune aree del Mediterraneo, come la Calabria e Creta). L’aulos sarebbe stato bandito allorché, a differenza della lira, la sua caratteristica di «congiungere i punti dello spazio musicale in un’unica curva sonora» sarebbe stata letta come una pericolosa possibilità di «rappresentare la pura phōnē, evocando cioè un mondo in cui il fonico trionfa sul semantico». La composizione, intesa nel senso di elaborazione di materiale sonoro codificato in forma visiva sulla partitura, è strutturalmente impossibilitata a rendere conto del carattere individualizzante dell’atto di emissione sonora, vale a dire del timbro non in quanto parametro residuale, ma come espressione corporea e prolungamento del musicista. In quest’ottica il jazz assurge a elemento di rottura rispetto alla tradizione logocentrica occidentale, poiché mette il gesto su un piano coessenziale rispetto alle componenti armoniche, melodiche e formali. Segue un excursus sul concetto di armonia, alla base del quale Sparti rintraccia un’analoga volontà di demarcazione tra il potere fisico tramite il quale il suono riesce a smuovere l’elemento umano irrazionale, e per questo pericoloso, e la sua irregimentazione in teorie armoniche che trovano la corrispondenza in più ampi sistemi cosmologici (dalla teoria pitagorica delle sfere, utilizzata fino allo “scacco” del temperamento, al naturalismo di Rameau, fino alla svolta dodecafonica di Schönberg). Sostanzialmente, il jazz è visto da Sparti secondo una prospettiva alternativa rispetto al pensiero occidentale, responsabile di aver discretizzato lo spazio sonoro, ordinato secondo griglie di pertinenza, stabilito demarcazioni (per esempio il temperamento le altezze, la distinzione tra “suono” e “rumore”). Il jazz, se anche fa uso di questi assunti, li rivitalizza in continuazione come elementi di un amalgama non districabile. Dopo aver citato esempi appartenenti ai primi anni Sessanta – i fratelli Ayler, Eric Dolphy, Ornette Coleman – l’autore si sofferma sulla figura di John Coltrane.

L’approccio alla musica di quest’ultimo, in sintesi, «si articola lungo due assi, l’uno temporale, l’altro sonoro».7 Con il primo si fa riferimento all’assetto formale delle performance coltraniane, di tipo «situazionale», la cui direzionalità è dettata dagli assolo e sostanzialmente svincolata da strutture pre-arrangiate. L’asse sonoro invece si articola secondo «epifanie» in cui gesto e suono acquisiscono un’unica conformazione.

Il ruolo di Coltrane nell’ambito dell’evoluzione musicale anche del jazz sarebbe dunque quello di decostruzione delle sovrastrutture ordinatrici del materiale musicale. In pratica egli riporta la percezione a prevalere sul concepimento. Il significante sonoro sul significato. Riporta la voce, rispetto alla scrittura, al primo posto del sistema comunicativo.8 La conseguenza principale di questo ribaltamento è la natura processuale che caratterizza il fondamento improvvisativo della musica coltraniana e, per estensione nel discorso di Sparti, jazzistica. A differenza della composizione, che implica uno sfasamento tra la progettualità dell’autore e il manifestarsi del fenomeno sonoro, nell’improvvisazione «il processo creativo e il risultato prodotto si verificano contemporaneamente». «Inseparabilità» tra progetto e resa sonora, «situazionalità» e «irreversibilità», dunque costante proiezione in avanti, anche se senza una dimensione teleologica, sono i tre elementi fondanti della «grammatica» dell’improvvisazione.9

Ogni atto «implica», cioè determina una strada e genera delle conseguenze, nell’ambito dell’«interattività» tra i facenti parte del contesto musicale – musicisti e pubblico.

Due differenti grammatiche, quella della composizione e quella dell’improvvisazione, conducono a un doppio «regime estetico» che si divide nelle due dimensioni autografica e allografica, ricavate da Nelson Goodman.10 «A differenza di un’opera composta, che si manifesta in una pluralità di esecuzioni, una performance improvvisata è […] un atto autografico non iterabile, non un’opera allografica».11

Questo ordine di osservazioni porta Sparti a confrontarsi con una questione fino a questo momento rimasta marginale: la registrazione, ovvero il medium che ha messo l’autore nelle condizioni di poter scrivere la sua trattazione su atti “singoli e irripetibili” come le improvvisazioni jazzistiche.

La registrazione è vista secondo una prospettiva limitativa, in quanto essa finisce per diventare un nuovo paradigma notazionale, responsabile dell’assestamento di nuovi repertori (nuovi musei) che hanno valore solo apparentemente documentario rispetto alla mole di musica suonata e favoriscono la formazione di un nuovo sistema di valori. La registrazione sostanzialmente reintroduce la composizione all’interno dei processi improvvisati, mettendo a disposizione dell’istanza autoriale nuove strategie di scelta, gestione e creazione del materiale sonoro. Tuttavia essa ha anche creato nei critici l’illusione di poter operare nei confronti del jazz allo stesso modo che nei confronti della musica occidentale, stabilendo una linea evolutiva della sua storia, e una possibilità analitica basata sulla trascrizione, dunque un ritorno a categorie visive. In questo ambito si inserisce la critica rivolta alla prima storiografia jazzistica, prendendo a emblema Leonard Feather e, soprattutto, Gunther Schuller. Di quest’ultimo Sparti non approva l’impostazione teleologica, volta a una legittimazione del jazz secondo valori di stampo “eurocolto”, basati sulla compiutezza formale e sull’etica del “capolavoro”. La linea di tendenza in cui Schuller è inserito è quella di un dogmatismo volto a preservare ma anche a indirizzare lo sviluppo del jazz. L’altra faccia della medaglia è l’ingresso del jazz nell’universo accademico, come materia d’insegnamento storico e didattico.

L’ultimo capitolo del Corpo Sonoro è dedicato a quel filone «obliquo» che Sparti rintraccia nella storia musicale occidentale euroamericana che, sostanzialmente, si muove in una direzione di simile espansione dell’area di pertinenza del timbro all’interno dell’evento sonoro. Le esperienze futuriste, con l’intonarumori di Luigi Russolo, la ricerca compositiva di Edgar Varèse e quella di John Cage, sono inserite in questo filone del Novecento musicale. La principale differenza di queste esperienze rispetto a quelle parallele jazzistiche (in particolare Sparti compara Cage e Coltrane), è stata quella di «mancare» il corporeo. L’improvvisazione in Cage è un elemento della casualità della sua concezione filosofica e autoriale. È dunque «indotta» ancora una volta da una volontà compositiva e, pur nella casualità dell’impianto, avviene per necessità. In un certo senso si tratta di un’interazione di elementi più simile a quella di un laboratorio scientifico che non a un contesto di socialità reale, mentre di origine sociale è la pratica della performance jazzistica.

Nel cercare di tracciare un parere conclusivo sulla lettura del Corpo sonoro, non posso esimermi da una serie di rilievi critici sostanziali che riguardano tanto l’impostazione metodologica dello scritto, quanto la scelta degli oggetti d’indagine.

Da musicologo e, dunque, non da filosofo, nutro una generale perplessità verso il taglio «genealogico» che Sparti ha dato al suo scritto. L’urgenza di alcuni problemi giustamente sollevati non giustifica il riportarli retrospettivamente ad altre epoche e, dopo tutto, nemmeno la sostanza del problema stesso. È proprio vero, ad esempio, che «viviamo in un’epoca videocentrica», o piuttosto non siamo in un periodo storico in cui il problema del rapporto tra sonoro/corporeo e visivo/testuale si pone sotto altre forme, proprio grazie alle riflessioni maturate in musica (tanto in campo “colto”, quanto extra-colto ed extra-occidentale) dal dopoguerra in avanti? Il limite di condurre l’excursus storico-teorico nello spazio tutto sommato di poche pagine, conduce l’autore a un doppio ordine di problemi: 1) la naturale semplificazione della complessità dei periodi storici presi in esame (si pensi alla nozione di “preromanticismo” così come è presentata), che costringe l’autore a una serie di note che, nell’intento di precisare, finiscono in qualche caso per ridimensionare, se non addirittura contraddire, le tesi portanti; 2) la poca chiarezza riguardo a nozioni cardine del saggio, come quella di improvvisazione, priva di problematizzazioni e soprattutto di riferimenti alla bibliografia più recente (sia anglosassone che italiana, per ciò che riguarda il campo di studi jazzistico).12

La perplessità riguardo all’impostazione generale ha, a mio parere, ricadute anche nei contenuti argomentativi. Il nucleo della tesi di Sparti, basato sull’insistenza sul doppio regime estetico è, tutto sommato, noto, ma ciò che manca a tale trattazione è l’effettiva fertilità sotto il profilo delle possibilità applicative, almeno sul versante musicologico.

Tanto più che il jazz, che si vorrebbe portare a emblema della messa in crisi della nozione di videocentrismo, finisce per assumere, nel discorso di Sparti, una fisionomia del tutto astratta rispetto alla sua realtà storica. Per la gran parte degli aspetti musicali a cui si fa riferimento con il termine jazz la dicotomia orale-scritto perde il valore se solo si va più a fondo nella loro presa in considerazione. Non solo perché il termine jazz si riferisce a pratiche eterogenee tra loro che coprono ormai un secolo di storia, ma anche perché la stessa musica di Coltrane non può prescindere da un rapporto più complesso e affascinante con la scrittura e i relativi depositati normativi (sistemi armonici, formali ecc.) e con altre forme di testualità (la registrazione, su tutte). Sparti interpreta alcuni assoli del musicista fornendo pochissimi appigli analitici e operando una sorta di descrizione “emotiva” di una precisa performance registrata; non è possibile contraddire un’affermazione nel momento in cui non si conosce su quali aspetti del fenomeno musicale getta le basi. La sensazione  per chi si pone da una prospettiva musicologica di fronte agli stessi problemi è che l’autore non dica molto di nuovo sul valore della musica di Coltrane e sul suo rapporto con la contemporaneità. Su questa falsa riga leggo il sospetto con cui Sparti guarda ai primi tentativi di analisi del jazz; il suo giudizio è di tipo culturale e potrebbe essere condiviso, previa indagine storiografica più documentata, ma poco ci dice sui meriti e i limiti intrinseci alla possibilità di analizzare testualmente il jazz. La stessa considerazione marginale del medium fonografico, che ha l’immensa responsabilità di avere determinato dalle fondamenta la fisionomia del jazz e delle cosiddette musiche popular, sotto l’egida di una nuova testualità e di una concezione di opus per certi versi parente, anche se non coincidente, con quella della tradizione “colta”, svia a mio modo di vedere il problema metodologico essenziale che si incontra quando si tratta dell’universo musicale contemporaneo. Giusta è invece l’insistenza sul concetto di corporeità, che trova sicuramente nel jazz degli anni Sessanta un fondamentale contributo, e che pone le premesse per un discorso di tipo culturale e antropologico sul jazz e sull’improvvisazione in rapporto alla società in cui è inserito. Ciò che a mio parere limita però la portata di tale assunto è la tensione antagonistica che si vuole vedere tra un certo tipo di jazz e una cultura musicale che aveva, per vie in parte diverse e in parte analoghe, iniziato da tempo a porsi il problema del videocentrismo e della scrittura; Sparti in un certo senso pone sullo stesso livello il piano del contenuto eminentemente musicale (il rapporto delle componenti musicali con i dispositivi testuali) e quello del contesto sociologico e ideologico a cui differenti tipi di musica (e di immaginario) si richiamavano. La domanda che a mio parere rimane aperta è in che modo il medium della registrazione influisca sul “corpo sonoro”, nel momento in cui esso entra a far parte di una nuova testualità, e conseguentemente modifichi la stessa nozione di videocentrismo.

Nonostante le mie considerazioni critiche è doveroso sottolineare che il libro di Sparti ha il merito di portare alla luce un problema chiave: il rapporto tra teoria e prassi. Auspicare una confluenza tra differenti competenze (antropologiche, etnografiche, musicologiche, sociologiche, filosofiche, tecniche) su di un nucleo problematico genera giustamente diverse prospettive di metodo. La necessità di un complesso equilibrio, di certo imprescindibile per evitare sbilanciamenti, tra chi rilancia la necessità di un filtro teorico in un certo senso “induttivo”, che permetta di valutare la miriade di fenomeni all’interno di un modello, e chi si dedica alla raccolta microscopica di informazioni di prima mano (la ricerca sul campo, la filologia testuale, gli studi sulla performance), sembra essere preoccupazione anche dell’autore del Corpo sonoro, che ha la franchezza di giocare a carte scoperte, testando un problema musicale su una prospettiva teorica di riferimento fortemente marcata. Se, forse, non tutte le questioni sollevate da Sparti sono rilevanti dal punto di vista musicologico, esse contribuiscono certamente ad alimentare il dibattito filosofico e, soprattutto, inseriscono il jazz nel contesto di una riflessione sulla teoria del pensiero musicale da cui, tutto sommato, è stato fino a questo momento assente.


Note

1 New York : Oxford University Press: 1998; trad. it. Musica. Una breve introduzione, Torino: EDT, 2005
2 Surveiller et punir: naissance de la prison, Paris: Gallimard, 1975; trad. it. Sorvegliare e punire, Torino: Einaudi, 1976
3 p. 11
4 Was heißt Improvisation in Improvisation und neue Musik: acht Kongressreferate, a cura di R. Brinkmann, Mainz: Schott, p. 9-23
5 p. 31
6 MAX WEBER, Die rationalen und soziologischen Grundlagen der Musik (1921), Tübingen: Mohr, 1972; trad. it. I fondamenti razionali e sociologici della musica, in MAX WEBER, Economia e società, vol. II, Milano: Edizioni di comunità, 1974
7 p. 101
8 Il riferimento è a JACQUES DERRIDA, Della grammatologia, Milano: Jaca Book, 1998.
9 pp. 121-125
10 I linguaggi dell’arte, Milano: Il Saggiatore, 1976
11 p. 133, corsivo dell’autore.
12 Spicca, in particolare, la sorprendente mancanza, in campo italiano, di riferimenti a I processi improvvisativi nella musica di Vincenzo Caporaletti (Lucca: LIM, 2005).

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