Carlo Serra
Musica Corpo Espressione
 


Quodlibet, Macerata, 2008


Esemplificazioni musicali

In questa pagina sono stati raccolti gli esempi audio presenti in Musica Corpo Espressione: in un libro dedicato al rapporto fra timbro e forma simbolica, diventa necessario poter far ascoltare, anche in forma di frammento, quanto viene discusso in termini teorici, perché la forma dell’ascolto deve farsi momento interno di una forma esemplificativa.

La riproposizione degli esempi al di fuori del libro, ne ha imposto agili ricontestualizzazioni, che non possono sostituire la discussione presente nel testo: esse offrono, tuttavia, la possibilità di un ulteriore scavo analitico dei problemi. La pagina offre solo un’integrazione al libro, ma non può certo sostituirlo: è solo di un ausilio in più, che mostra bene come cartaceo e multimediale possano affiancarsi, anziché combattersi, e dar luogo ad possibilità di elaborazione culturale più precisa, dando ai contenuti la trasparenza esemplificativa.

Tali formi di integrazione vanno diffondendosi sempre di più: va citata, fra i molti archivi on line legati alla musica, l’importante iniziativa della Smithsonian Folkways Recordings, che, di fatto, mette ormai a disposizione degli studiosi di etnomusicologia, una parte consistente del proprio prestigioso archivio, sotto forma di samplers, estratti parziali dalle raccolte musicali e della totalità dei magnifici libretti di accompagnamento dei propri cd (http://www.folkways.si.edu/index.html, vere e proprie chicche di etnomusicologia .

Vorrei ringraziare la casa editrice Quodlibet (http://www.quodlibet.it/), nella persona di Stefano Verdicchio, per aver permesso l’apertura di questo spazio integrativo, mostrando una forte sensibilità verso la nozione di forma d’ascolto, che sostiene il libro. Ma le persone grazie a cui il testo ha potuto godere di questa possibilità multimediale sono molte, e credo vadano citate, una per una, a cominciare da Paolo D’Angelo e Silvia Vizzardelli, che hanno ospitato il testo nella loro collana "Estetica e critica" a Elisabetta Baiocco e Marco Baleani, che ne hanno curato l’edizione e l’impaginazione, dando spesso preziosi consigli stilistici, con una disponibiltà raramente riscontrata dall’autore, fino a Giovanni Piana, che ne ha curato la realizzazione on line ed a Ilenia Borgia per le realizzazioni grafiche. I brani musicali, resi per frammenti, e nell’estensione mp3 e midi, saranno impaginati seguendo l’ordine in cui appaiono nel testo.

 

Buon ascolto!


Capitolo Primo

Lo spazio della risonanza

§ 1 Due immagini del corpo sonoro: interno ed esterno nell’ascolto

 

Che relazioni legano la diffusione del suono, allo spazio che la ospita? Non intendiamo parlare dell’ambito della fluidodinamica che descrive il movimento del suono dal punto di vista acustico, ma del rapporto che lega la figura musicale al fronte sonoro, da cui emerge. Il fronte sonoro è la sommatoria di vari fattori: diffusione della fonte nello spazio, interazione con l’ambiente sonoro che la circonda, dimensione plastica del suono: si tratta di aspetti che non coincidono con la nozione di paesaggio sonoro elaborata da Murray – Schafer, perché non riportabili all’idea di una sorta di sedimentazione simbolica inconscia, che secondo l’autore canadese funge da corollario a quell’idea. L’idea di fronte sonoro, molto più semplicemente, ci racconta quanto la disposizione spaziale dei suoni sia una componente essenziale, per la costruzione di un’immagine del suono, nell’atto della ricezione musicale.

Sembra un problema piccolo, e prettamente psico–acustico, eppure siamo circondati da un mondo di supporti audio che creano dei fonti sonori, sovente artificiali, per poter dare uno spessore espressivo alla musica, che ne enfatizzi le caratteristiche timbriche: si tratta di un espediente compositivo, che guida la costruzione estetica di un fronte sonoro, una sfera che colloca l’ascoltatore in una posizione nello spazio.

Tale aspetto emerge anche nelle raffigurazioni spaziali del suono, nelle più antiche, come in quelle moderne, e così vorremmo trattenerci rapidamente su due di esse, per raccontare meglio il tema della nostra ricerca.

Cosa accade, ad esempio, nella celebre copia del Concerto di Bartolomeo Manfredi (attestato dal 1618), distrutto dal vile attentato mafioso del 1993? La domanda sembra fuor di luogo, perché è evidente che in esso si coglie un gruppo di musicisti presi nell’esecuzione di un brano musicale, mentre si ascoltano: si sono incontrati attorno ad un’antica ara, per far musica assieme, ed i loro volti sono rapiti nella pratica di un ascolto reciproco.

Una misteriosa polifonia di sguardi sembra abbracciare i protagonisti del quadro: il liutista guarda lontano, inseguendo l’intonazione del proprio strumento, mentre il suonatore di cornetto legge la propria parte, o forse, va approntando una qualche variazione alla linea melodica del tema. Il cantante sta atteggiando la bocca, come se stesse preparandosi al canto, e, mentre guarda, esplicitamente, verso il pubblico, il suo sguardo taglia la prospettiva del quadro, rivolgendosi direttamente verso di noi, che stiamo guardando la scena. Siamo dietro al pubblico o dentro al quadro?

Siamo stati collocati dietro la linea dell’orizzonte, tracciata dal taglio prospettico, guardando dalla stessa direzione del pubblico, ma leggermente arretrati, quasi di sghembo, rispetto al punto di visione degli ascoltatori, come se ci avvicinassimo, da lontano, alla scena che si va delineando, un poco come se entrassimo in un teatro, dove si sta svolgendo una rappresentazione, in ritardo, e guardassimo al palcoscenico, mentre cerchiamo la nostra poltrona. Il pittore ci ha collocato dentro e fuori la scena, in qualche modo viviamo una trasversalità, che deve avere un proprio peso. Cosa vuole suggerirci la dialettica interna fra i centri possibili del dipinto?

Guardiamo meglio: gli altri musicisti stanno emergendo dalla penombra, come accade per lo strumentista ad arco che vive in una penombra, rischiarata dalla candela, che è anche l’orizzonte di provenienza del suono. Cogliamo qualche allusione nella distribuzione chiaroscurale della luce, come se, anch’essa fosse, in qualche modo, in diretta polifonia con il suono e il volto dei musicisti: essa prende forza proprio sulla prima fascia del quadro, e va spegnendosi sullo sfondo, consegnando tutte le figure alla penombra. Una luce che illumina, e che si spegne, un punto luminoso che fa emergere i personaggi dal buio, una rappresentazione dell’accendersi e dello spegnersi del suono.

L’allusione alla dimensione della profondità, legata all’illuminazione frontale, così contrastata, che si attenua sullo sfondo, sembra quasi rimandare il quadro ad un valore metaforico, come se l’immagine avesse voluto alludere all’aprirsi del processo sonoro dal silenzio, ed al suo riconsegnarsi ad esso. Esso irrompe, i musicisti, lo accompagnano, come accade nello sguardo perso del liutista, si illumina, ed infine va spegnendosi, come se buio e silenzio fossero un orizzonte di provenienza e di arrivo, e mutassero di consistenza.

Intendendo la costruzione come un riferimento al processo temporale, il buio sta per essere trafitto dalla luce, mentre il silenzio sta per riempirsi di suono e così buio e luce, suono e silenzio, si sono polarizzati in un processo, che ne rilegge le funzioni, che li vede come ora come fasi in continua transizione. In questo gioco, si rovesciano i rapporti rappresentativi: mentre entriamo frontalmente nel quadro, il suono ci si fa contro, in modo altrettanto frontale, ma in una direzione opposta: lo sguardo accompagna il nostro sbilanciarsi in avanti, verso la fonte sonora, che ci attrae, mentre ci abbandona.

I musicisti sul proscenio, fra ombra e luce, sono il tramite di un suono che arriva dall’oscuro, collocato dietro e davanti loro. La nostra posizione e quello dell’arrivo del suono sono così in tensione speculare.

I suonatori sono figure sul proscenio, lo abitano, ma fungono da punti di irradiazione per un evento che debbono inseguire, ombre attraverso cui il gioco dei movimenti incrociati può prendere forma, e la musica è, naturalmente, tutta per loro, sono loro che la producono, ma, allo stesso tempo, sono funzioni del suo modo di darsi, funzioni che polarizzano l’accadere del suono come evento: fa forse parte di un’estetica di tipo caravaggesco l’idea che il punto di fuga del quadro, il momento in cui la rappresentazione comincia ad assumere profondità, sia collocato a fianco della testa del cantante, in quel punto oscuro che sta tra la mano che tiene sospeso il foglio, e la sua testa, ma certo questo gesto stilistico sembra porsi in risonanza concettuale con queste piccole metafore. La stessa posizione del suonatore di viola, eccentrica, ed inserita fra luce ed ombra, va in questa direzione.

Quel punto di fuga ha preso forma tra la mano e la testa, per noi che guardiamo, come direbbe forse Paolo Spinicci, che ci ha regalato studi profondi attorno al rapporto tempo, figurazione, crea il proprio punto di risonanza attorno ad un concetto, che drammatizza spazialmente un processo temporale.

Il pittore ha costruito l’immagine, per raccontarci la profondità del suono, la sua capacità di occupare tutto lo spazio disponibile, per arrivare sino a noi, che non potremo ascoltarlo, ma che ne vediamo la forma diffusiva in immagine. Il suono è un movimento che ci abbandona, che dobbiamo inseguire. Solo che lo sguardo ci invita ad inseguirlo nella sua origine, nella sua risonanza all’interno del quadro.

Rispetto alla dialettica sviluppata da quel centro, si inseguono ora due direzioni, al tempo stesso speculari, ed opposte, che contrappongono la diffusione della luce e del suono, rispetto alla posizione dello spettatore: il suono arriva dal fondo del quadro, mentre la luce si muove in senso inverso. Le frecce vanno dall’interno verso l’esterno e dall’esterno verso l’interno, mentre i due coni ruotano in direzione opposta, secondo un movimento pervasivo, legato alla geometria intuitiva dell’espansione della cosa sonora nello spazio. Le conseguenze della scelta non si fanno attendere, mettendo in movimento due vettori opposti, che appartengono al nucleo drammaturgico, messo in movimento dal taglio prospettico.

Lo spettatore è ingollato dal centro del quadro, dal punto di scaturigine fisica del suono, che si va espandendo, come in un movimento attrattivo, alla ricerca del punto di provenienza del suono stesso, giocata dall’espansione corporea del suono come forza, come direzione che lo costringe ad inseguirlo.

Vi è un movimento del suono, una presa di possesso di una direzione, che nella rappresentazione del movimento della voce del cantante prende la forma di una metafora di un corpo sonoro, che ora occupa lo spazio, ed impone allo spettatore un atteggiamento, ed una presa di posizione, perché il centro del quadro è la risonanza del corpo sonoro stesso.

I coni della visione e dell’ascolto si intrecciano fra loro, e guadagnano volume l’uno a spese dell’altro, secondo la tradizione erudita che contrappone le due forme sensoriali, e di cui rimane eco, ad esempio, nelle discussione fra Descartes e Mersenne.

E’ a partire dalla presa di quel punto di vista, dalla risonanza che lega la posizione dell’ascoltatore al movimento che scuote il processo sonoro, che nasce una dialettica narrativa, in cui il rapporto suono – musicale, determina lo spessore del corpo sonoro, della componente materica legata alle forme immaginative della ricezione del suono. La dialettica della posizione prende forza nel movimento dislocante della corposità sonora, come lo spettatore, l’ascoltatore vive in una tridimensionalità prospettica, rispetto all’evento sonoro.

Il movimento del suono nello spazio, la sua capacità di avvolgere, qualcosa che trascende il piano fisico della vibrazione, o l'aspetto acustico della fluidodinamica, regredendo forse su un terreno fenomenologico più elementare, legato alle possibilità gestuali, espressive, che l’idea di un suono che si diffonde, impossessandosi dello spazio, si porta dentro.

E’ un aspetto che incontriamo in moltissime pratiche musicali, e che spesso si lega ad un’enfatizzazione dello spessore timbrico del suono: questo accade, ad esempio, nella pratica delle incisioni fonografiche, dove la spazializzazione del suono, assieme all’enfasi sulla sua corposità, diventano momenti compositivi nella costruzione di un brano. Il piano del timbrico, e del formante, iniziano a mostrare il loro spessore. Tutto questo ci porta direttamente alla nostra seconda immagine.

§ 2 Il corpo sonoro come metamorfosi timbrica

 

Il prender forma del suono all’interno di una struttura fisica, il suo rappresentarsi come un’emanazione dall’oggetto, come una cosa sonora, accompagna la ricezione sensibile del suono, e tale possibilità interpretativa giace all’interno dell’esperienza del suono, e in uno strato originario della formazione della concettualità musicale, interno alla nozione stessa di manipolazione sonora delle oggettualità che ci circondano.

Nella sezione dedicata all’origine corporale della musica, l’etnomusicologo Schaeffner si trattiene sulla pratica del percuotimento della gola con la mano, rimandando al bassorilievo assiro riprodotto, conservato al British Museum, dove il canto con il vibrato si fonde alla battuta di mani[1] .

Essa si intreccia all’idea del corpo umano come materia per la costruzione di forme in risonanza, come mostra bene l’ immagine su cui vorremmo intrattenerci, tratta dall’Origine degli strumenti musicali.

Schaeffner osserva che, con la percussione del pomo d’Adamo, ed il vibrato vocale che ne deriva, siamo vicini ad esempi singolari in cui il canto senza parole, il suono incomprensibile o il puro rumore emesso dalla bocca diventano partecipi della musica strumentale: ciò equivale a dire che, in quel contesto musicale, la voce ha natura essenzialmente timbrica, e gioca con le possibilità di trasformazione o deformazione del suono.

E’ interessante osservare che, in questo contesto, l’analisi del corpo sonoro, mette subito in questione il problema della relazione fra piano formale e potenzialità semantica del suono: nei contesti primitivi esiste un rapporto diretto fra la dimensione del Sacro, che si manifesta attraverso il rumore, e l’idea di una incomprensibilità del testo, di una dimensione del vocale che parla una lingua remota, ed incomprensibile: la sacralità del significato è garantita dall’incomprensibilità del suono, dal fatto che la voce, nel divenire puro strumento, non parla più dell’interiorità del parlante, non è più il suo strumento espressivo, ma è diventato strumento espressivo dell’altro.

Risulta ovvio osservare che l’espressione "primitivo" va presa tra mille parentesi, basti pensare alle esplosioni onomatopeiche che sostengono il parlato nelle fiabe, la rievocazione in miniatura di eventi drammaturgici nel racconto popolare (colpi, urla, lamenti funebri, formula magiche e così via) o alla costruzione timbrica, che si stratifica attorno alla tradizione del canto delle Sirene o della figura sonora di Gorgone nel mondo greco. Dovremmo vedere nella dimensione del primitivo una stilizzazione essenziale, che agisce nella costruzione di una struttura sonora e culturale, coinvolta, secondo gradazioni diverse, nelle maglie di ogni esperienza d’ascolto. Il richiamo alla dimensione corporale può assumere sfumature espressive diverse, ludiche, sentimentali, o meramente onomatopeiche. Il corpo suona, naturalmente, ma l’aspetto decisivo è che la musica vive nella risonanza timbrica di una superficie che si fa strumento musicale perché forma vibrante, percossa, sollecitabile in un’infinità di modi, luogo privilegiato per una sperimentazione sonora che dal corpo proprio, muove in direzione del mondo, come grande manipolabile sonoro, dove concavo e convesso, liscio e ruvido, vuoto e pieno sono tutti modi di produzione della fonte sonora: nella vasta fenomenologia che si apre, un elemento di ulteriore tensione espressiva si fonde alla dimensione ritmica della musica e così origine della danza e forma gestuale del musicale, salto e percussione del suolo con i piedi, fanno tutt’uno. In quel passaggio il rapporto corpo - voce comincia a guardare alla dimensione del vocale come estrinsecazione di un rapporto corpo – strumento e alla dimensione dell’immagine. Il corpo è cosa sonora, la voce può essere deformata grazie al colpo sul risuonatore.

Possiamo proporre un esempio di questa pratica, diffusissima dal punto di vista vocale: Bernard Lortat – Jacob [2] ha registrato in Mali, [Kel Ansar Tuaregs] un canto Ihamma, una canzone onomatopeica, accompagnata da battiti di mani, eseguita da una quindicina di uomini durante una danza: le sillabe qui non hanno alcun significato, e l’evocazione del movimento è assai evidente. E’ una musica essenzialmente corporale, giocata su una raffinatissima stratificazione ritmica, dove la forma ad anello tipica della tradizione ritmica del Mali, si congiunge ad un modo ritmico arabo.

§ 3 Figure e fronti sonori

Per dare un’idea della portata del problema del fronte sonoro, e della mobilità delle figure che lo abitano, abbiamo cercato di far emergere i tratti comuni che legano questi problemi in tre forme musicali molto lontane tra loro, ma tutte apparentate dall’idea di un pensiero che operi sulla materialità del suono, sul suo sporcarsi, rispetto agli aspetti rumoristici che lo abitano. Questi aspetti emergono con grande nettezza in alcuni frammenti del brano Cirrus Minor dei Pink Floyd, tratto dalla colonna sonora del film "More". La scelta di questo repertorio è motivata dal fatto che la musica di consumo gode di una profonda ricercatezza timbrica, di un’esuberanza di effetti, che orientano implacabilmente l’ascoltatore ad una serie di rappresentazioni spaziali, ed atteggiamenti emotivi.

L’ascolto di una incisione discografica, in cui la disposizione spaziale della fonte, la timbrica, la plasticità rappresentativa dell’evento acustico è momento integrante della dimensione performativa, pone l’ascoltatore al centro di una sorta di teatralizzazione del suono, dove viene circondato da una serie di fronti sonori, di elaborazioni linguistiche che, lavorando sul corpo sonoro in risonanza, propongono un preciso vettore di ordine spaziale. La funzione delle amplificazioni, in una dimensione artificiale come quella dell’immagine stereofonica, è fissare una serie di costanti narrative, che inchiodano l’ascoltatore ad una specifica modalità di ascolto.

In particolare, abbiamo indicato l’emergere del canto degli uccelli, il suo sviluppo, il climax drammatico legato all’irrompere della musica, il continuo dialogare delle componenti rumoristiche con la musica, il progressivo cancellarsi del canto degli uccelli, ed il ritorno, nell’evocazione di un cimitero estivo[3] . Il brano si apre con una registrazione di versi caratteristici di uccelli, un’evocazione repertoriale non priva di spunti simbolici, anche se risulta difficile comprenderne l’effettiva volontarietà: all’introduzione, che si chiude sul verso lugubre del cucù si sovrappone con un potente effetto spaziale di avvicinamento, il timbro dell’organo e della chitarra, che delineano il clima espressivo del brano, e che creano un caratteristico effetto dissolvenza, rispetto al paesaggio sonoro che apre il brano: lo spazio si chiude attorno all’ascoltatore, l’immagine si delinea con chiarezza, ed è in questo contesto che risuona l’aspetto narrativo della ballata. Un altro effetto di spazializzazione del canto funebre è l’effetto opposto a quello che abbiamo commentato, in cui la voce narrante il viaggio del protagonista, prima viene ridotta, inscatolata, con una soppressione degli armonici, e poi dispersa, in una sorta di madrigalismo che illumina dall’interno le immagini del cratere solare evocate nel testo.

Ci troviamo così di fronte ad un quadro che ci muove intorno: l’avvicinarsi dell’oggetto sonoro ingrandisce i dettagli della grana sonora, mentre il suo allontanarsi, attraverso la dissolvenza ottenuta con un filtro sulla voce, ne rende precari contorni, li sfuoca, fino a dissolverli. Il gioco tradizionale delle dinamiche, il vicino che si fa lontano nella spazializzazione del timbro, trova qui un’enfasi quasi deformante, i suoni si muovono come se fossero cose nello spazio, fronti che ci opprimono sempre di più, o linee di orizzonte che si disperdono, mascherando tutti i loro dettagli. Suono e corporeità si sono fusi, nella processualità della loro diffusione.

Viene ora in primo piano un piccolo corale organistico, che vede sostituire i versi degli uccelli da effetti elettronici, e che poi abbandona la scena, che si chiude di nuovo sul canto degli uccelli. Tutti questi effetti possono essere considerati ingenui, cosa dire, ad esempio, dell’attacco ritmico che segna l’entrata del gruppo in scena, un one – two - three – four, che rimanda proprio all’immagine del gruppo che suona in studio, come in una piccola autocelebrazione, ma non dobbiamo guardare al piano di una valutazione estetica, ma al tipo di movimento spaziale, all’intreccio continuo di suono e rumore, che la creazione di tali forme di prospettivismo sonoro vogliono articolare, perché il tema del simbolico musicale, trova su questi terreni un terreno di esplicitazione estremamente efficace.

La musica ed il rumore si scambiano continuamente i ruoli, in cui la rielaborazione dell’equilibrio delle fonti vuole alludere all’irrompere del remoto, lavorando direttamente sulla grana del suono, e sulle sue deformazioni, alla ricerca di una grana, per usare la bella espressione di Barthes, che metta in fibrillazione timbrica la distinzione fra suono e rumore. Ma l’avvicinamento alla fonte sonora, il suo ingrandirsi, le deformazioni del suono, fanno tutte parti di quella che potremmo definire una dialettica dello smisurato che occhieggia, senza saperlo, ad uno dei nuclei espressivi più potenti , e meno dichiarati, dell’estetica musicale del novecento, l’idea di sublime, l’elogio dello sproporzionato, il bisogno di una grammatica che dia ragione del rapporto suono – movimento – rumore.

Non è casuale che uno dei temi drammaturgici del nostro brano sia il continuo intreccio fra lo strato rumoristico, e la rappresentazione del canto degli uccelli, che tanta linfa donerà alla creatività di Messiaen; tutta l’effettistica sonora muove proprio in quella direzione, e lo fa con efficace coerenza costruttiva, ma il problema del continuo, e dell’evocazione metaforica del rapporto suono – rumore, fa parte di un tema molto più ampio, che abbiamo evocato all’inizio del nostro discorso, il rapporto figura – sfondo, o, in un senso più specifico, il rapporto rumore – silenzio.

Si determinano due possibili interpretazioni della nozione di silenzio, rispetto all’emergere del suono, come ci ha insegnato Giovanni Piana: un silenzio che mima il nulla, come punto di scaturigine dell’accadere dell’evento, un orizzonte di provenienza remoto, in cui irrompe il suono come una figurazione, ed un silenzio come attesa, fra un attacco di suono e l’altro, crepitante di rumore sottotraccia. Tutto questo è interno alla nozione stessa di processo sonoro, come abbiamo visto nel quadro, e rientra continuamente nel gioco espressivo delle dinamiche che abitano ogni brano musicale, nel prendere corpo dei rapporti volumetrici interni ai rapporti timbrici, come può assumere ricchi portati metaforici, all’interno delle drammaturgie dell’ascolto.

Tale aspetto emerge, con grande finezza, in un canto Kaluli registrato da Steven Feld. Nel canto ko:luba[4], la linea melodica viene elaborata, in modo tale da poter entrare in rapporto con lo sfondo puntiforme, determinato dal ronzare delle cicale, in una raffinatissima forma di stilizzazione vocale delle onomatopee, che riproducono il tappeto ritmico delle cicale, ornando la melodia.

Lo sfondo del continuum si fa risorsa musicale, e rievoca, poeticamente, l’immagine di un luogo nello spazio, cantando il fondo sonoro. Il fondo sonoro viene così inteso almeno in due modi: come struttura continua, indeterminata, strato sonoro in perenne mutamento, ma anche labile intero, il luogo di un raggruppamento di suoni, che viene stilizzato, attraverso il sovrapporsi della melodia alle intermittenze del suono lamellare della cicala, che si stratifica in forma complessa.

Il fondo sonoro si è trasformato in un’immagine ritmica, una struttura da cui emergono delle figurazioni, su cui si appoggiano le molteplici onomatopee che costellano il canto, come nella continua sintesi di una figura, che va trasformandosi, ma che ha tratti riconoscibili, nella transizione da una configurazione sonora all’altra[5].

Il tempo si fa materia[6], figura spazializzata, ritmo, non pienamente determinato, né formalizzabile in modo stretto, ma da cui possiamo trarre almeno dei raggruppamenti, degli anelli, dei vincoli che catturino l’avvio di strutture che vogliamo rappresentare come continue, ed infinitarie, in un’approssimazione il cui carattere oscilla fra precarietà ed stilizzazione dell’evento, come emerge dalla logica musicale che tiene in tensione i sintagmi ripetuti del canto (da-da, siya – syia, wa-wo). Il rumore si è fatto misura musicale, ma anche indicatore spaziale, il luogo è entrato nella musica, come un’immagine, in una direzione di senso che può ricordarci Songlines di Bruce Chatwin. Il luogo è dimensione affettiva, località definita e momento di una piccola ritualizzazione, come accade in una ninna – nanna.

E’ il qualcosa che agita Lisia nel Fedro (259 A), quando parla del corpo sonoro delle cicale come canto indeterminato, e perciò non - canto, nell’intransigenza raffinata della cultura platonica, e greca, che corrisponde ai rumori della natura, un piano intermedia, su cui è difficile operare, per la totale mancanza di trasparenza del rumore: quanto lascia perplessi sul piano teorico, in una cultura che fa della misurazione del rapporto l’essenza estetica del suono musicale, può venire immediatamente colta come relazione significativa sul piano meramente uditivo, nella dimensione dell’ascolto, come accade nella cultura Kaluli, dove la musica si intreccia al rumore come onomatopea, secondo un procedimento che caratterizza, naturalmente, anche le pratiche compositive dell’occidente. La maschera acustica del rumore si fa allora canto, abbellimento, glissando, in un’esplorazione discretistica del continuo, che trova il proprio modello nell’ornamento [7], per alludere, e dare una forma, alla metamorficità della materia sonora.

La maschera acustica, le procedure di deformazione del vocale, sono una procedura arcaica, che nel novecento convergono nella creazione di un nuovo regime della vocalità: su questo terreno, poche sperimentazioni hanno avuto la completezza del lavoro elaborato da Antonin Artaud [8], all’interno della trasmissione radiofonica 1947 Pour en finir avec le jugement de dieu, dove ritmo, lavoro su regioni sonore opposte, messe in movimento da percussione e voce, che coprono i registri estremi dello spazio sonoro, creano un’atmosfera sonora allucinata. Se già Schoenberg Janáĉek portano ad una rivisitazione radicale della voce nel mescolare elementi del parlato al cantato, qui tutta la sperimentazione gioca la propria partita dentro all’idea di strozzatura della vocalità.

Atrocità vocale, evocazione di una spinta, verso il basso, determinata dalla posizione del diaframma, che evoca una voce di testa: all’innaturalità della posizione corrisponde un timbro espressivo: la voce risale, entrando in una fibrillazione che racconta l’estenuazione dello sforzo. La forma di emissione produce un suono acuto, che vibra in modo innaturale e nel suo vibrare rimane povero di risonanza.

La voce, sale e scende per le contratture del diaframma, ma la direzione che va seguendo deve accompagnarla sino al punto più alto nella continuità del suono, una sorta di sopracuto, che toccato, vibra come una lamella: il suono percussivo è stimbrato, perché a quel livello di tensione la voce crolla su tremito che copre un’area, un movimento turbinoso attorno ad un punto piuttosto che una posizione determinata, e la vocalità è deformata dallo sforzo, mentre combatte con la tendenza naturale a scendere in basso del diaframma per poter respirare.

Va tuttavia osservato che l’esibizione di elementi concreti, corporei, non sarebbe pensabile prescindendo dall’uso della ripresa sonora garantita dall’amplificazione microfonica: è quest’ingrandimento innaturale a permettere che il particolare vocale possa risaltare con forza, e ad assorbire dentro la prospettiva acustica, la rappresentazione spaziale legata alla risonanza, la posizione dello spettatore.

Il progetto sonoro, il montaggio dei testi impegna Artaud per tre mesi, dal novembre 1947 al gennaio 1948, con un’intera sessione dedicata alla registrazione dei rumori e delle sezioni percussive: se l’affiancamento della percussione alla scena, la sua interazione reale con la voce dell’attore rimanda forse all’amato teatro balinese, o al progetto, purtroppo mai realizzato, di uno spettacolo sulla musica di Varèse, nei momenti di ritualità più accesa, Artaud crea un clima di profondo straniamento, che rende l’impatto sonoro particolarmente traumatico. Si tratta ancora di un lavoro, che, pur con qualche punta di ironia, guarda ad un’estetica dell’orrore sonoro, e della deformazione, forzando lo strumento vocale ad un’innaturalità, che viene protetta dall’amplificazione microfonica.

La fonte è molto secca, il timbro di Artaud, per quanto ricco di armonici, risulta strozzato, ed in questo modo le variazioni metriche locali, che intervengono nella lettura, prendono una singolare pregnanza, ed entrano sempre in conflitto con una scansione musicale, resa ancora più evidente dal timbro percussivo, ed emaciato della voce. Il testo, di cui ascolteremo solo l’incipit, è pensato nei termini di una delirante invettiva contro il moderno, e si apre con la terribile immagine della raccolta dello sperma infantile, come accumulazione di forza lavoro, e di potenziale bellico:

"J’ai appris hier (il faut croire que je retarde, ou peut-être n’est-ce qu’un faux bruit, l’un de ces sales ragots comme il s’en colporte entre évier et latrines à l’heure de la mise aux baquets des repas une fois de plus ingurgités), j’ai appris hier l’une des pratiques officielles les plus sensationnelles des écoles publiques américaines et qui font sans doute que ce pays se croit à la tête du progrès…[9].".

Se non fosse per la tendenza di Artaud a sostenere la sonorità della parola, per enfatizzarne i caratteri narrativi (lo slargo su hier, il contrarsi del disegno ritmico sul ticchettio di peut-être, il senso di soffocamento evocato dall’apertura diaframmatica su ingurgités, fino al gioco rappresentativo attraverso la labialità praticato su sper-me) verrebbe voglia di dire che siamo di fronte ad un senso ritmico inflessibile, con una straordinaria di tenere in sospeso i gruppi ritmici fra di loro: l’immagine timbrica del rilievo assiro, il riferimento ad un rumore che sacralizzi la parola, o l’intonazione, l’idea di un suono – immagine, di un’evocazione tiimbrica dell’espressivo, ha preso tutta la sua consistenza.

Cosa ci insegnano tre illustrazioni, tanto lontane fra loro? Gli esempi che abbiamo presentato portano a rappresentazione una serie di rapporti in cui il rumore diventa momento essenziale per una pratica musicale. La concretezza di quella dimensione prende consistenza quasi imbarazzante, e tende a predominare sulla trama di relazioni costitutive che, abitualmente, sostengono l’oggetto sonoro, tanto che in Artaud si arriva quasi a concentrare la musicalità all’interno dell’elaborazione timbrica, dando il maggior rilievo possibile alla fonetica, che acquista particolare trasparenza, ed orrore, nel suo collocarsi sulle regioni del sovracuto.

Nessuna delle tre opere, indipendentemente dal loro valore, potrebbe sostenersi senza un riferimento esplicito alla dimensione timbrica, o al fronte sonoro, alla forza del luogo, del fronte sonoro, che entra attivamente nelle pieghe progettuali di tali lavori, che vivono nella fissità delle rievocazione di un’atmosfera sonora: non solo senza microfoni, o senza la contestualità offerta dal canto delle cicale di sfondo, quelle musiche perderebbero peso espressivo, ma tutte le immagini che qui vengono evocate, hanno presa materiale sull’idea di un luogo, sulla creazione di una fonosfera comune, che lega l’ascoltatore alla pregnanza espressiva della spazializzazione del suono.

Gli esempi, nella loro eterogeneità, introducono ad una dimensione del musicale (sarebbe difficile sottrarre la prosodia di Artaud a questa rubricazione), dove aspetti che vengono ritenuti secondari, e per loro natura refrattari ad una trattazione teorica rigorosa, diventano vettori pregnanti di un progetto espressivo che porta in primo piano l’idea di corporeo, e di movimento, di translazione continua fra piani sonori. L’idea di un corpo sonoro che vive nella diffusione spaziale della matericità timbrica trova in Artaud una formidabile lettura per sottrazione, per rimozione di tutti i caratteri belli, e rotondi, del vocale: ma, cambiato il gioco, rovesciato il senso del problema musica – corpo, la riflessione sulla corporeità del suono, intesa come una poetica della caratterizzazione timbrica, non viene meno.

Il problema ci impone così un chiarimento supplementare: cosa significa vincolare le immagini inesplose, che vivono nel suono, per usare ancora un’espressione di Piana, ad un contesto spaziale? E’ possibile studiare un modello diretto del rapporto corpo–suono?

Capitolo Secondo

Modelli d’interazione diretta corpo – suono

 

§ 1 Voce come immagine: il suonare - come

Il canto degli uccelli, da sempre identico a sé stesso, ma capace di imitare le fonti sonore più disparate, è un’icona del musicale: in quell’immagine, la natura viene inglobata nel magico, nel rituale, nell’estetico. Il canto degli uccelli, il cielo stellato, il tempestare del vento sono tutte voci della natura che rimandano al concetto di sublime, all’ammutolire della categoria estetica, rispetto al momento del giudizio, o dell’innalzamento etico.

Il campo giocato dalla voce che risuona è dinamico, una spazialità che si coglie sempre in movimento. Forse potremmo spingerci a dire che, fin da adesso, la voce è una rappresentazione dinamica dello spazio, della sua direzionalità, che persino quando è ferma, la voce che risuona si sostiene, resistendo a qualcosa. Le forme di questa antropologizzazione della natura possono essere richiamate brevemente.

In latino vox cattura il lato espressivo del rimbombo degli elementi, nel rumore, nello strepito: voce del fulmine, o mugghiare del mare, la voce richiama immediatamente una rappresentazione della natura: nel mondo che ci circonda, gli elementi hanno voci ora morbide, ora terrificanti e, volgendosi verso di noi, si lasciano contemplare nel preannunciarsi sonoro della loro azione.

Il movimento della voce sembra assumere sfumature semantiche che riportano alla natura intima delle trasformazioni dell’elemento: il gonfiarsi del vento o il suo passar placido come brezza hanno naturalmente un significato metaforico, ma si muovono su un piano intermedio, che si colloca fra l’opacità del suono e la trasparenza del segnale.

E’ proprio l’obliquità legata alla dimensione della voce colta come fenomeno sonoro sembra subito porci di fronte al problema di un contenimento, forse di una sua qualche misurazione, per disciplinarne i significati. Gli aspetti indicati occhieggiano nel calco concettuale di vox, la parola greca Φωνή. Il termine copre tutti i significati latini, e designa, al tempo stesso, voce e generalità dei fenomeni sonori: voci che fanno parlare l’incombere degli oggetti, come accade per l’espressione βἐλη Φωἀεντα (dardi risuonanti) e per Φωνή βροντἦς(il rombo del tuono) oppure note musicali, voci, grido, infine l’espressione Φὠνημα indica la voce, in particolare la voce del cantante.

Dobbiamo alle indagini di Patrizia Laspia un’osservazione che ci permette di comprendere meglio l’ampiezza del significato di fwnh/. Studiando gli aspetti linguistici dei poemi omerici[10], la studiosa ci pone di fronte ad un paragone molto interessante, per determinare l’ampiezza dell’assimilazione alla voce della determinazione generale del concetto di suono.

"Né del mare il flutto così urla contro la terraferma,

sollevandosi la distesa marina all’aspro soffio di Borea,

né del fuoco splendente tale è il ruggito

nelle gole del monte, quando si solleva a bruciare una selva;

né il vento in tal modo contro le querce alta chioma

ulula, quando irato ruggisce con la massima forza:

tale fu dunque di Achei e Troiani la voce,

che urlarono terribilmente, nel lanciarsi gli uni sugli altri".

Il passo dell’Iliade[11] vede in azione tutte le strategie della vocalità: la voce diventa metafora per la quantificazione dei fenomeni sonori, rappresentando "un sommo criterio di commensurabilità dei fenomeni acustici. In area culturale greca l’idea di suono si sviluppa dunque a partire dall’idea di voce, e non viceversa."[12].

Prendiamo per buona quest’idea, un’interpretazione genealogica del problema è, almeno per noi, indecidibile: aggiungiamo, tuttavia, che, nel passo citato, la determinazione quantitativa delle dinamiche, avendo valore mimetico, riporta quella commensurabilità su di un livello qualitativo.

Andrebbe rilevato che da questo passo è possibile trarre un’immagine della categoria estetica del sublime e che, già su questo piano, elemento espressivo e rappresentazione del naturale si stringono nel concetto di voce, che, per conto suo, si fa carico di tutti gli elementi sonori, musicali e non musicali, dalla vocale all’altezza musicale che risuona nello spazio. L’idea di una commensurabilità andrebbe così vista come registro di una metaforizzazione degli aspetti qualitativi dell’esperienza dell’ascolto, un’elaborazione sintetica di un valore immaginativo, più che una forma di commensurabilità, ma qui si apre un problema generale: il termine voce, come immagine, comincia a sfuggire alla nostra presa.

La natura si antropomorfizza, diventa proiezione dell’umano, perché il rumore racconta qualcosa, dà espressione all’elemento che si lamenta, come il fulmine o il dardo, e attraverso la voce il rumore ci parla, ci parla delle manipolazioni espressive con cui lo agitiamo. Potremmo tradurre tutto questo problema con una sola frase: il suono, attraverso la voce, ora ospita un’immagine, nella voce ci sono immagini, e quelle immagini rimandano a concetti generali.

Il mondo riflesso nella metafora vocale ha così, almeno due lati, che possiamo delimitare con facilità: sul primo incontriamo l’intonazione affettiva, la dimensione dell’irriflesso, un piano della soggettività sorgivo: allo stesso modo, però, l’immagine del fenomeno vocale può rapportarsi ad una visione totalmente simbolizzata della realtà, ad una sua astrazione, che trova dei nessi materiali, non necessari, ma comunque incisivi, con una rappresentazione stilizzata di un aspetto sensibile, che rimanda alla totalità di un concetto. Il nostro interesse si deve così volgere alla forma di questa stilizzazione, verso una lettura dei portati delle forme simbliche, secondo un’espressione cara ad Ernst Cassirer, ed è proprio in una dimensione del simbolico così elaborata, che non dovremmo stupirci se, di fronte a quel canto, qualcuno ci dicesse: "Per te sono uccelli, per me sono voci nella foresta". L’osservazione, raccolta da Steven Feld [13] che ha studiato, in un testo magistrale, le relazioni che legano la musica dei Kaluli al mondo dell’immaginazione, esprime una precisa posizione rispetto allo statuto del canto degli uccelli: gli uccelli non hanno soltanto voci, essi sono le voci della foresta. Ecco che l’ampiezza, che prima cercava bloccarci sulla superficie di un problema, prende ora tutt’altra consistenza.

La voce[14], come mostra bene l’espressione riportata da Feld, sostiene una proiezione sentimentale e simbolica su ogni evento sonoro, e su una sezione dello spazio: nella foresta, il mio luogo di vita, la voce racconta qualcosa di me, espande, in qualche modo, il mio qui. Si tratterà allora di vedere il senso di questa trasposizione qualitativa, sul terreno espressivo che sostiene il tentativo di costruzione di un isomorfismo fra intonazione vocale e rappresentazione della voce degli elementi, come in una sorta di rappresentazione della traccia qualitativa di un evento. Le voci della foresta

"sono "voci" perché i Kaluli conoscono e fanno esperienza della loro esistenza essenzialmente attraverso il suono, e perché sono riflessioni dello spirito (ane mama) degli uomini e delle donne defunti. I suoni degli uccelli hanno contemporaneamente un "fuori", da cui i Kaluli attribuiscono un’identificazione dell’uccello, ed un "dentro", di cui essi interpretano il significato sottinteso, come una comunicazione dello spirito."[15] .

Un approccio teorico al tema del simbolico giocato in termini di analisi della struttura sonora è molto interessante. Fin dalle prime mosse, affrontiamo un’elaborazione culturale molto complessa, in cui la voce si costituisce nello stratificarsi di una dialettica fra posizione nello spazio, identità, interpretazione di un luogo e simbolo: la voce degli uccelli è voce sentimentale, che si muove sul piano intermedio, fra cielo e terra, in cui vivono gli uccelli stessi. Gli uccelli-spirito parlano da un luogo, ne narrano le coordinate, e solo in questo modo possono venir riconosciuti come spiriti: i canti funebri vengono elaborati dalla cultura Kaluli su un modello che intreccia il canto degli uccelli agli eventi sonori che accadono nelle cascate d’acqua.

L’accostamento fra lo scrosciare dell’acqua, che è pura continuità, e l’iperarticolazione del canto degli uccelli, struttura grammaticalmente assai complessa, è ardito: nella cultura che andremo ad esplorare canto degli uccelli ed acqua fondono tra loro l’idea di eco come ripetizione e quella di una struttura antifonale che chiama per essere completata. Il riconoscimento della specie degli uccelli attraverso la loro voce è pratica quotidiana: il verso di un uccello è esperienza familiare, al punto da permettere un’immediata trasposizione linguistica, che propone un altro problema. Nel riconoscimento del verso dell’animale, i Kaluli organizzano la costruzione domanda in questi termini:" ascolta: senti X ?" mentre la risposta è costruita secondo il modulo: "suona come X". Cosa insegna questa strana risposta? La sfumatura "suona come" mette in luce che le formulazioni non si muovono sul piano di una semplice identificazione, risolta immediatamente sul piano del rapporto suono – segnale, fra voce dell’uccello ed identificazione dell’animale, ma che il suono vocale, pur mantenendo quella piatta referenzialità, richiede un passo successivo, per esser compreso.

Potremmo osservare che, nell’evocazione dell’immagine della voce della foresta, l’evento sonoro è pensato aldilà del riferimento immediato fra segnale di presenza ed animale, e ci apre d una prospettiva su un terreno espressivo, che ha una autonomia, rispetto all’identità dell’animale: siamo sul piano di un simbolismo, che poggia sulla funzione della voce come evocazione di un’emozione, e che pone ora la voce su un livello intermedio: la referenza, partendo dal suono, non cattura la specie, ma opera direttamente su un valore simbolico, un contenuto emozionale, a cui il suono va riportato. Ci troviamo su uno strato intermedio, di non facile identificazione: suona come non significa è, la funzione è molto più complessa, pur operando dentro ad una tassonomia.

Feld stesso ha prodotto una registrazione legata ad un’esplorazione del senso di tale problema, individuando un lungo canto dell’uccello Seyak (Cracticus Cassicus). Feld ha avuto l’accortezza di registrare l’intero canto e non solo il verso, per esibire l’intero processo imitativo che l’uccello stabilisce con l’ambiente che lo circonda. L’ascolto [16] mostra immediatamente che quel canto entra in continua polifonia con il canto degli altri uccelli: esiste un rapporto d’impossessamento delle voci degli altri animali, che i Kaluli possono estrarre immediatamente nell’ascolto dell’uccello come modello del canto e che riportano all’interno delle loro polifonie rituali, che escludono l’unisono, proprio per la rievocazione di questo intreccio suono–sfondo, che abbiamo già visto interagire nell’esempio del canto con le cicale.

Suona paradossale, ed ingenuo, ma saremmo tentati di dire che l’antropologizzazione ha presa su un modello suono – ambiente, la ritraduce in una modalità d’ascolto, che si ritraduce nell’immagine sonora della cosa, un poco come accadeva per gli abbellimenti che adornano il canto delle cicale, immagini dal continuo, e messa in forma di schemi interpretativi, che si rapportano all’essenza di un oggetto sonoro. Il canto degli uccelli è intreccio di fonti sonore, una traccia di un ambiente, per certi versi, un punto di vista sonoro[17], su un ambiente, sulle sue sollecitazioni concretamente esperite, snodo prospettico che porta dentro di sé il riverbero di altri punti di vista, di altre fonti.

 

§ 2 Estetica del pianissimo

Nella cultura Kaluli, il carattere si coniuga ad un’interpretazione dello spazio: quella voce raccoglie dentro di sé le sollecitazioni prodotte da altre e le trasforma in un canto, in una sorta di mappatura di un paesaggio, esattamente come vale il contrario, come il frammento appena ascoltato mostra con chiarezza.

Il passaggio non è affatto immediato, lo scavo che Feld ha prodotto nel mondo Kaluli, alla ricerca delle strutture di senso che sostengono le configurazione grammaticali, che sostengono questi giochi linguistici, ci mette di fronte all’analisi di alcuni rituali, in cui i vivi rievocano la presenza dei morti, per poter dar loro, in forma polifonica, un ultimo addio, e in tutta questa ritualità, sprofondata nel paesaggio sonoro della foresta, l’uso della stilizzazione del canto degli uccelli spinge la comunità alle lacrime.I Kaluli traspongono in un’esperienza rituale i luoghi della propria vita o di quella del defunto. Nell’evocazione dell’immagine si è pervasi da sentimenti nostalgici di tristezza per i parenti e gli amici morti per venire sopraffatti dal sentimento di abbandono, e lasciarsi prendere da lacrime e lamento.

Il percorso rituale impone una complicità fra chi officia e chi lo conduce, che prende forma nella pratica polifonica: il modello melodico del gisalo deve possedere una specifica Gestalt, una forma riconoscibile e trasparente, che sia un modello di riferimento da tutti conosciuto e deve accadere in un luogo che abbia proprietà specifiche, come la grande casa in legno dove si celebrano i rituali funebri, dove la voce possa risuonare netta, e precisa, sovrapponendosi a tutti i suoni della foresta che la circondano.

Il canto gisalo è il canto dei defunti e viene rivolto dagli uccelli a qualcuno, mentre l’interpretazione mitica del canto degli uccelli, delinea [18] il costituirsi di una morfologia sulla base della capacità di articolazione del canto: sui due estremi, si collocano il rumore e l’articolazione melodica dello spazio musicale. Intorno, il mondo, continuum sonoro dove voci dei vivi e voci dei morti stanno in reciproco ascolto: il là della foresta lo puoi ascoltare anche qui, nel villaggio, ed il significato di quella distanza ora si dischiude.

La pratica che, muovendosi per centri concentrici sempre più stretti, va isolando una persona nel gruppo sociale, offrendogli indizi variabili rispetto ad un luogo, ed alla persona che lo ha abitato, in grazia della trasparenza della forma di canto in cui quella struttura narrativa ha preso forma, e il luogo, deve permettere che la forma della strutturazione spaziale della melodia sia riconoscibile da tutti), prepara il momento privilegiato per l’esternazione collettiva del sentimento: qui ed ora coincidono, nella commozione per il riconoscimento [19] dell’immagine nel suono.

Cosa segrega il momento rituale dalla pratica ordinaria? Il silenzio:nella vita della comunità Kaluli il rumore ha una funzione rituale e sociale assai marcata, ma la cerimonia è immersa in un silenzio fitto, non vi è più gioco fra fonte sonora, rumore e cantante: una segregazione che mette di colpo la dimensione pragmatica e polifonica sullo sfondo. Quel silenzio, tuttavia, è apparente, perché non appena ascoltiamo la registrazione proposta da Feld, viene subito in primo piano la crepitante sonorità della foresta, degli insetti, dei rumori in lontananza, della pioggia, percepiti al buio, nell’acustica protetta della casa.

Il silenzio evoca immediatamente un doppio punteggiato da suoni, spia del lontano che va avvicinandosi, ed un’atmosfera di profonda tristezza rituale, va calando sull’uditorio, che coglie i rumori dello spazio esterno incombenti sul rituale. Il fondo sonoro ora è un’immagine dello spazio, e dell’oltremondo che ci circonda, intessendo continuamente un dialogo con noi: dallo sfondo dovrà staccarsi qualcosa, che deve prendere sempre maggior consistenza.

Ascoltando il rituale raccolto da Feld la notte del primo ottobre 1976 a Nagebeden, avvertiamo subito l’intreccio sonoro attorno alle fonti: assieme ai rumori, cominciamo ad ascoltare il ritmo sostenuto dal sob, una sorta di sonaglio costituito da conchiglie, che produce 120 pulsazioni al minuto, circa due pulsazioni al secondo. Il sonaglio è appeso ad un pezzo di giunco decorato, che per il medium che canta ha poteri magici. Il medium, seduto, è circondato da un pubblico di partecipanti al rito che ripete in coro le canzoni del rituale.

Il testo della canzone, in particolare nella sezione legata ai nomi dei luoghi, funge da indizio per identificare l’identità dello spirito evocato. Esiste quindi una relazione puntuale fra un luogo ed uno spirito, una sorta di localizzazione in cui tutti gli elementi metaforici che legano la spazialità ad un corpo, ad un individuo, si concretizzano nell’identificazione della sua posizione e, di conseguenza, della sua identità.

La voce dello spirito è flebile e lamentosa, e accompagnata dalla pulsazione ritmica. Il ritmo cinge il canto e lo fa fluire, isolandolo ritualmente dal corso ordinario del tempo: nella rottura della continuità temporale, si sviluppa l’orlo di una segmentazione, in cui prende corpo la narrazione. Feld nota [20]che l’effetto di lontananza della voce, che ha una grande qualità di morbidezza, viene enfatizzato dal rumore della pioggia, che avvolge l’attenzione del pubblico. La scelta espressiva implica che l’effetto ipnotico basato sul fatto che la voce, nell’oscurità che avvolge il pubblico, presentandosi come in effetto di lontananza, si ponga in relazione mimetica con le dinamiche che accompagnano l’incombere dei suoni della foresta fuori dalla stanza , ma sempre più vicini, perché percepiti nel buio e nel silenzio.

Una vocalità impostata su una dinamica così tenue impone un ascolto ancora più attento. Attenuando le dinamiche, si ottiene un’attenzione maggiore, la fonte va ascoltata con una concentrazione crescente. Il corpo della voce rimane dunque lontano, creando l’atmosfera di un remoto, che si avvicina, staccandosi dal rumore che lo circonda. Essa può assorbire dentro di sé tutta l’attenzione degli astanti. Il corpo del medium danza e canta, la sua presenza si espande.

La dinamica in pianissimo è solo il primo passo, per cominciare a catturare l’attenzione dell’ascoltatore, dobbiamo fargli percorrere un salto di dimensione, portarlo dal lontano al vicino, facendo prendere sempre più presenza e forza al suono, che lentamente comincia a diffondersi, con maggior intensità in tutta la sala: il suono ora è un gorgo e si rigonfia, la sfera il cui diametro va prendendo sempre più forza e sempre più spazio, riempiendo lentamente la sala, porta dentro di sé una mappatura in cui l’ascoltatore deve perdersi, per indebolire, in qualche modo, la presa sul presente. La polifonia comincia a crescere, a farsi, via via, più intensa, mentre si riconosce lo spirito del defunto: tutto ora prepara al pianto, al riconoscersi, per dirsi addio.

 
Capitolo Terzo

Il rumore come fatto espressivo

§1 L’origine del corpo sonoro fra André Schaeffner ed Edgar Varèse

Nell’Origine degli strumenti musicali, le pratiche musicali dall’intreccio di un referente corporeo ed un gesto, fra una pressione e qualcosa che gli resiste, in una rivalutazione del momento tattile dell’esperienza. Lo scalpiccio dei piedi, la mano, la voce, interagiscono, interrogando la costituzione di senso delle cose e degli oggetti che circondano la vita umana, trasformandoli in oggetti da percuotere. e da far vibrare: la materialità dell’oggetto, della sua posizione nello spazio, viene riportato in una grammatica del sonoro, dove il duro, il molle, il liscio, il sinuoso sono pensati in relazione ad un effetto sonoro specifico.

Ad ogni cosa può corrispondere un timbro, dal soffio al rombare, che viene esplorato, messo alla prova sul piano della sua declinazione: dallo stesso oggetto, a seconda dell’intensità dell’attacco del suono, emergono proprietà diverse, che possono entrare in dialettica fra di loro, seguendo un percorso che va dal semplice al complesso.

Colpire sul centro o su un angolo, sollecita proprietà diverse, ed anche la nuda superficie della terra, a seconda di come viene sfiorata, percossa grazie alle diverse posizioni del piede, rimanda ad un suono che varia, passando ora dalla sordità alla espansione nello spazio. La categoria della densità, dell’articolazione causale del numero di eventi che interrogano, attraverso il colpo, la materialità del terreno si traduce in un repertorio di effetti espressivi[21].

Il legame con la danza è evidente: la terra è uno dei primi strumenti che possono essere percossi dalle diverse parti del piede. Schaeffner racconta un cerimoniale, costituito da salti collettivi perfettamente sincronizzati, in cui un gruppo di settecento persone saltano e ricadono contemporaneamente, con una tale precisione, da rendere il rumore un unico suono.

Il fine sonoro è l’oggetto della danza, la danza è rumore che si fa ritmo. La nozione di durezza, di resistenza qui fa tutt’uno con il calpestio di quella che Schaeffner chiama la madre terra[22], ma il punto che va rilevato è un altro: la percussione è in grado di trasformare il suolo in materia irraggiante, anche per un attimo, mentre il gioco espressivo del calpestio, con il mutare delle dimensioni, muta anche il proprio carattere: la terra si è trasformata, per un attimo, in cascata di suono, in evanescenza, proprio in grazie della sua resistenza.

Tutto il contesto dell’esperienza vede nello scalpiccio o nell’uso di oggetti, per produrre ritmo, una continua interazione, alla ricerca della magia del timbro, e delle possibilità cinetiche che esso mette in movimento, come accade per questo canto alle macine, presso i Gan del Burkina Faso: ma il piano che ci interessa di più, e su cui Schaeffner incontra uno dei rami più profondi della composizione novecentesca, è quello opposto, che va dal corporeo al musicale, o, meglio ancora, che svela quanto di corporeo giaccia dentro al musicale.

Il mondo degli strumenti musicale sta lì a dimostrarlo, a far intravedere continuamente le bivalenze rumoristiche, che si legano alla sublimazione del rumore nella musica: nel canto Maori, il calpestio dei piedi all’unisono, come accadeva per l’esempio legato alla danza, si accompagna all’intensificazione della presenza del suono vocale, facendoci precipitare verso la risonanza della fonte sonora, dopo che il parallelismo ritmico fra voce e battito è venuto meno. Fra gli estremi del suono musicale e del rumore [23] si apre una vasta regione, che va dal suono delle sanzas all’uso melodico della percussione: nell’Hanunóo che arriva dalle Filippine, un gruppo di bastoni vengono accordati per realizzare gli strati che compongono una sorta di melodia ritmica, una tendenza che nella forma dell’Angklung giavanese viene portata ad un livello tecnico elaboratissimo, attraverso una elaborazione polifonica di intersezione di linee assolutamente spettacolare, grazie anche all’intonazione all’ottava che armonizza i tre bambù posti in vibrazione.

La terra [24], l’acqua, perfino l’aria che risuona nel flauto a bordone caratteristico del Rajastan ci parlano di questo momento intermedio, di questa predominanza del corporeo, del risonante, sull’idea di un suono puro, e di una musica che usa fino in fondo le risorse materiali dell’oggettualità sonora. La magia timbrica predomina, e, come accadeva nel caso del canto Kaluli, si lega alla materialità pulsante di un luogo, rielaborandone i caratteri acustici.

La bocca, come risuonatore naturale che modula i suoni dell’arco musicale, entra all’interno di questa trasformazione della materia sonora della cosa, che trova nel corpo un’amplificazione che riplasma il suono e ne trasforma il portato espressivo, facendo guadagnare consistenza musicale ad uno strumento che può produrre solo due note: la dimensione ipnotica legata all’incantamento degli spiriti della foresta passa attraverso l’uso ritmico e la trasformazione di questo materiale poverissimo, in una complessa struttura ritmica, che prende consistenza ipnotica nella continua trasmutazione timbrica del materiale, che la bocca scompone, enfatizzandone i parziali. Un materiale che sembra poverissimo ci trattiene sulla superficie delle sue trasformazioni materiali, sul gioco di piccoli attacchi speculari che si ripetono, sull’idea che, allargando e restringendo la bocca attorno alla corda percossa, la qualità del suono prenda una risonanza diversa e muti la propria consistenza plastica.

Simha Arom ci racconta un gioco musicale: le ragazze e bambini Aka, facendo un bagno nel fiume, si divertono a colpire con vigore la superficie acquorea, facendo scendere il braccio a diverse profondità, dando luogo al tamburo d'acqua, una base ritmica che accompagna il canto. Si gioca con la materialità del suono per segnalare, con forza, la propria posizione nello spazio e di riverberarla all'infinito: con un colpo di piede occupo un luogo (ricordiamo le considerazioni sul rumore dei propri passi, dell'ascoltarsi nel movimento), mentre il gioco con l'acqua trasforma il ribollire della superficie in una potente amplificazione della mia presenza, che ora si estende per tutto lo spazio che mi circonda, in un movimento di tipo concentrico, dal centro, ad una periferia, sempre più ampia[25]. Il movimento verso la profondità, l'inabissarsi nello slancio dal basso verso l'alto, il tuffo viene pensato come modo in cui si interroga un movimento verso la profondità, per vederne l'esplodere la forza su una superficie, mentre la linea polifonica stringe la comunità nel canto e nel gioco, in un continuo crescendo.

Il carattere del rumore è talmente intrecciato allo strumento, che nel flauto obliquo, o nel flauto a bordone del Rajastan, il solista accompagna la melodia del nari con un bordone emesso contemporaneamente dalla gola. I due suoni si fondono, anche su questo piano sublimato la musica ed il portato della colonna d’aria si integrano tra loro. Siamo sempre in presenza di maschere sonore, ma le amplificazioni strumentali legate alle maschere, l’uso dei risuonatori, le alterazioni timbriche non vogliono imitare nulla, ma intendono superare qualcosa, l’ordinario, il naturale, tendono a modificare, ad imprimere un carattere inedito a quello che fa parte dell’esperienza ordinaria. La musica, scrive felicemente Schaeffner, è sempre barocca[26], cerca l’effetto, il mostruoso, l’esagerato, il concetto di imitazione s’appaia subito a quella di deformazione, e di artificialità.

Ponendo la questione in questi termini, raffinatissimi, Schaeffner suggerisce che nella musica la fonte reale, il corporeo, la mimesi sia solo il punto di partenza, per una modificazione continua della forma, secondo un libero gioco di variazioni che trova la prima materia da plasmare nel timbro e nella dimensione plastica, legata alle escursioni dinamiche del suono.

Tali dinamiche esplodono anche nei movimenti danzanti del corpo, negli uomini sonaglio[27] , che si muovono, trasformandosi in tracce sonore: i rituali dove operano gli uomini sonagli nella loro continua vibrazione, mettono in scena l’idea del corpo proprio come corpo sonoro, come strumento che emette suoni in modo parossistico, portando alla luce il senso di una crisi, di un’esplosione espressiva del suono che si impossessa del corpo, che fa tutt’uno con lo strumento.

Il suono vibra amplificando la risonanza di un corpo scosso nell’emozione, amplificandone gli effetti, secondo la direzione di una valenza retorica: la dipendenza va ora trasformandosi in ridondanza espressiva. In quella figura, caso limite di fusione fra danza e corpo sonoro, che ora vengono a coincidenza, vediamo l’icona dell’impossessamento del corpo, da parte del suono e del movimento. In quel contesto non esiste possibilità di mediazione fra i due termini, essi precipitano uno nell’altro ed è su questo terreno che il tema dell’espressione corporeo può ora stratificarsi autonomamente come pratica del gesto con il suono e non nel suono.

Il timbro, con i suoi espliciti riferimenti corporei e con i suoi riferimenti rumoristici, esplorati in specifiche aree del musicale, come accade per la famiglia delle percussioni è il tema su cui maggiormente si affatica la riflessione di Edgar Varèse, che elabora un recupero del rumore, e del magico, staccandoli da una dimensione narrativa: sul piano di questa configurazione del senso estetico, i suoi testi sono espliciti, e violenti[28] , anche se la sua ricerca inizia prima di quella di Schaeffner, e si radica all’interno di una pratica compositiva. Per Varèse quando l’organologia musicale cambia, cambiano le forme del musicale.

La riflessione del compositore agita aspetti tecnici e considerazioni sul coinvolgimento emotivo prodotto dalla musica, orientandosi in direzione di una visione del suono come esplosione che crolla sull’ascoltatore:

"Ho utilizzato degli accordi [….], "a grattacielo", perché coprono una grande estensione fra il basso ed il sovracuto, accordi basati sullo sfruttamento delle distanze e che, partendo da un pianissimo, raggiungono nello spazio di un secondo volumi di suono imprevisti, e letteralmente esplosivi."[29].

L’accordo, elemento di coesione fra masse sonore, si espande dal basso al sovracuto, dalla profondità fino ad una altezza accecante: l’accordo è striscia sonora, dilatazione nello spazio, elastico che si tende all’inverosimile, entrando ad un passo dal regime di frattura interna, ed esplode all’improvviso. Vi è forte riferimento al magico anche in questa concezione del suono, che si tende nello spazio, e che passa dal silenzio alla deflagrazione: un’evocazione degli aspetti materiali del suono, della smembratura fra bande sonore, ma in questo contesto, non vi è spazio per l’improvvisazione, o per la perdita della forma: "La forma di un’opera è la densità del contenuto."[30]. Se l’opera musicale è un conflagrare di masse, che racconta la struttura del suono, che lo pone, sotto l’orecchio dell’ascoltatore nel suo sorgere come evento, la forma è evento interno al processo, e prende consistenza nell’accostamento di quei colori, di quei timbri, che permettono di guardare direttamente all’interno del costituirsi della massa sonora. Incontreremo di nuovo questo problema.

La relazione che lega il luogo al suono prende sempre maggiore spessore, in continuità con l’impostazione di Schaeffner. In un intervento databile attorno al 1937 [31] , discorrendo attorno ad una musica fatta tutta di masse sonore in movimento, Varèse osserva che in un sistema musicale dove gli strumenti musicali possono rendere possibile una collisione nello spazio fra masse sonore, "l’opera intera sarà una totalità melodica e scorrerà come un fiume."[32] .

Il richiamo al concetto di una totalità melodica che scorre si accompagna all’idea, allora utopica, oggi banalizzata dalla disposizione spaziale dell’amplificazione, si accompagna all’elaborazione del tema della proiezione sonora, "la sensazione […] che il suono ci stia lasciando senza speranza di ritornare per riflessione, una sensazione simile a quella che suscitano i raggi di luce proiettati da un potente riflettore - per l’occhio come per l’orecchio un senso di proiezione, di viaggio nello spazio."[33]. Si esplicita così un’idea di arte musicale, che giochi esclusivamente con lo spazio, proiettando lo spettatore in direzione di qualcosa che lo attrae mentre lo sta abbandonando, amplificando il carattere ontologico temporale che stringe suono e ascolto, in una dimensione rituale, in cui il suono prende ormai il senso di una traccia sonora, come accadeva per l’uomo sonaglio.

La proiezione dinamica del suono nello spazio rimanda ad una profondità che si va spalancando in tutte le direzioni, come quella del raggio che accompagniamo con lo sguardo, nell’esplorazione del buio. Il concerto prende il valore di una ritualità, in cui l’ascoltatore viene messo in condizione di partecipare ad una potente drammatizzazione dello spazio, legata alla natura di evenienza del suono, del suo puro scorrimento, che per un momento attrae su di sé tutta la sua attenzione, come il raggio luminoso, e lo proietta lontano da se stesso.

La ricchezza problematica di tali aspetti, che legano il dinamismo del movimento del suono alla valorizzazione corporea dell’oggetto scosso dal gesto sonoro, viene invece solo sfiorata dalla riflessione sul rapporto suono – spazio – danza, elaborata da Erwin Straus[34]:nello studio legato alle Forme della spazialità[35], infatti, è la stessa nozione di corpo a venire, paradossalmente, sublimata, ma rimando al testo per la discussione del binomio ottico – acustico, cui corrisponde l’opposizione gnosico – patico, che articola un discorso stretto nelle maglie di una serie di contrapposizioni acute, ma solo parzialmente convincenti, prese come sono dall’enfatizzazione del tema della storicità dello spazio.

 
Capitolo Quarto

Il corpo sonoro

§ 1. Immagini del corpo sonoro

Vi sono almeno due immagini, da cui poter aprire un discorso sul corpo sonoro, nella musica novecentesca: intimamente collegate, e fortemente apparentate all’estetica del sublime, esse raccontano bene lo scuotimento interno della forma, lo scomporsi del ritmo nella sfrangiatura delle poliritmie. La prima protegge la partitura de La Mer di Claude Debussy (1903 – 1905): si tratta di una stampa di Hokusai, di una delle Trentasei vedute del Fuji (1826-1833 circa), dove la rappresentazione del paesaggio esprime e proietta dalla, nella natura, una vasta gamma di emozioni, impressioni, stati d’animo: nel Il monte Fuji visto da Kanagawa, più nota come L'onda, la minacciosa massa d’acqua ribollente sembra avvolgere la distaccata serenità del monte Fuji, visto da lontano. L’istante in cui l’onda è sospesa, in cui incombe sulla nave come un artiglio, sembra portare a rappresentazione l’inafferrabilità della forma, un farsi narrativo della materia. L’articolazione ritmica dell’immagine ne determina la potenza tensiva, colloca lo spettatore fuori dal quadro, mentre l’onda sembra volergli mostrare minutamente l’articolazione delle sue fasi, il vincolo ritmico che ne trattiene la massa, scuotendola tutta[36] , mentre il monte rimane lontano, ed immenso.

L’immagine è percorsa dal poliritmo delle fasi dell’onda, che si segmenta magicamente nella polifonia del movimento in mille forme: la massa acquorea sta per indurirsi nello scroscio, il vento dà all’acqua la durezza della montagna, impassibile sullo sfondo: il pittore si incanta di fronte ad un paradosso materico. Per la sovraccoperta de La Mer di Debussy viene selezionato un particolare, scelto forse dallo stesso Debussy, e la scelta decontestualizza l’onda dal rapporto con navi e mentagna. Il processo ritmico viene colto nel momento in cui la grande massa d’acqua sta per perdere la propria forma, e mentre un seconda onda sta per affacciarsi sulla scena: una decomposizione della forma, a favore del materico, una rappresentazione ritmica che coglie la transizione fra uno stato di cose ed un altro, nel momento in cui forma e materia si muovono nella instabilità della figurazione.

 

Debussy fa proprio il momento della costituzione ritmica, tenendoci sospesi su un particolare che decontestualizza l’immagine del mare dal contesto che lo circonda, facendoci assaporare il fuggevole istante della costituzione della forma, il conflitto fra forma che si decompone, ed un vincolo che ne trattiene, per un istante, la forma, in attesa che essa venga rimpiazzata da una seconda figura. Siamo su un crinale in cui il processo di raffigurazione ci lascia dietro di sé, come accadeva per il suono in Manfredi o Varése.

 

Mentre il nostro sguardo si affatica per individuare la forma reale dell’oggetto riproposto in questo modello, cogliamo più di una analogia strutturale fra quanto abbiamo appena visto ed il plastico delle vele che avvolgono lo spazio acustico del padiglione Philips, costruito da Xenakis e Le Corbusier, a Bruxelles, nel 1958, per ospitare il Poème Electronique di Varèse e di Concret PH, di Xenakis[37]. L’astrattezza matematica della parabola, e la metafora biologica dello stomaco che digerisce, elaborata dallo stesso Xenakis, per indicare l’interno del padiglione, dove i visitatori vengono circondati da suoni e luci secondo l’intenzione poetica che abbiamo visto in Varèse, e trasformati, rimandano anch’esse al vincolo ritmico: nel 1951, parlando della nozione greca di ritmo, Benveniste osservava che la parola ruthmos "designa la forma nellattimo in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile, fluido, la forma di ciò che non ha consistenza organica: si addice al pattern di un elemento fluido... a un peplo che si dispone a piacimento, alla particolare disposizione del carattere e dellumore"[38] .

Il ritmo frena le trasformazioni della forma, le vincola elasticamente, impone alle transizioni un ordine, contiene il ribollire della materia, vincolandola ad una successione ordinata di fasi. Il corpo iperbolico del padiglione, pietra che vuol acquisire la consistenza della seta, superficie metallica che respira come una vela, è ritmo scultoreo che protegge la trasformazione.

Musica, architettura e spazialità rimandano così alla metafora dell’oscillazione nel corpo sonoro, agli assestamenti attorno all’asse del proprio equilibrio, scosso fra la periodicità del musicale e l’aperiodicità del rumore. Il ritmo cola nella pietra, la anima come il ritaglio estensionale su cui saltano i danzatori di Schaeffner.

Il suono è dentro, è protetto dal cavo, e così danza attorno all’ascoltatore. Il padiglione è superficie che avvolge, che si modella su un vuoto scosso dal mutamento, pellicola che si altera rispetto al movimento del suono che la abita, come la pelle di un tamburo.

La solidificazione porta dentro di sé le tracce della conquista dell’assetto d’equilibrio, ed il fatto che la statica di questo edificio sia stata così tormentata sul piano progettuale, rimanda al rapporto che legano gli assetti della figura alla sua torsione. Il pensiero di una materia ripensata da un’intenzione musicale è talmente evidente, da aprire la via a giochi linguistici particolarmente elaborati, che entrano a pieno titolo nel gioco di una esplorazione grammaticale, che cerca continuamente analogie con l’evento musicale: così, uno dei più ispirati interpreti di Le Corbusier[39], non esita ad individuare un nesso strutturale fra la scrittura con cui Xenakis indica i glissando per viole, violini e violoncelli all’interno di Metastasis, ed il movimento che anima lo spazio del Pavillon, aprendo un’analogia tra l’evocazione tridimensionale della notazione musicale ed il movimento parabolico delle superfici. Non si tratta di dire se tutto questo sia vero o sia falso, anche se concordiamo sul fatto che il glissando, portando a rappresentazione il continuum dello spazio sonoro, sia un notevole analogon di una superficie scossa dall’eruzione del continuo sonoro, perché il terreno di queste osservazioni si colloca all’interno di un gesto, che cerca di bloccare in immagini la struttura materica dell’evento sonoro, dove si distende il piano dell’immaginazione, ma l’osservazione coglie, con rara pregnanza, che il problema del rapporto suono – luogo, e del movimento spaziale legato al corpo sonoro, va permeando anche l’organizzazione bidimensionale della scrittura musicale, nel tentativo di costruire un nesso suono – segno, che trovi il proprio fondamento in una modalità di designazione, che catturi i caratteri dinamici, e metamorfici, della cosa sonora, proiettandone l’ombra nell’articolazione spaziale che incurva l’idea di superficie[40], la piega, alla ricerca di uno strato divisionista nella matericità del suono.

Il vincolo ritmico protegge la figura nella deformazione ne riorganizza musicalmente l’assetto statico, lasciando che la fluidità del cemento, che gli snodi del movimento che lo percorrono tutto portino ancora su di sé le tracce di quello sforzo, che sospende il movimento dell’onda, mentre si ricarica, proprio come accade per la matericità dell’onda nella stampa giapponese, che nella sua trasparenza fonde fra loro figura e decomposizione.

Il senso di una metamorfosi, di un gioco che illustri le modalità costitutive dell’esperienza dell’ordine, è presente sin dall’ingresso nell’opera, dove gli ascoltatori entrano immediatamente in contatto, attraverso Concret PH, con l’elaborazione elettronica di una delle grandi immagini dell’eraclitismo: le braci che ardono, immagine gemella del flusso ripetitivo delle acque che scorrono, lo scorrere del tempo.

Gli ascoltatori non possono riconoscere la fonte sonora della fiamma, il lavoro compositivo l’ha velata, ed il fenomeno acustico si presenta in tutta la sua pregnanza, e la sua opacità: esso deve permettere che si passi dall’immagine al concetto, alla contemplazione della discontinuità ritmica del bruciare, all’esplodere aritmico dei tizzoni, alla granularità di periodi ritmici che non possono essere incardinati in un ordine rigoroso, insomma alla contemplazione della pura materialità del suono: i precipitati delle sintesi offerte da un materiale così poco strutturato rimettono in questione la strutturazione percettiva dell’ascolto, perché di fronte ad una trama tenue, l’ascoltatore costruirà da solo i nessi della struttura, potrà variare, volta per volta, il punto d’ascolto, e le modalità temporali di organizzazione del flusso sonoro, all’interno dei limiti imposti dal materiale. L’incompletezza della struttura diventa poetica del suono, come accade per lo sguardo che insegua le irregolarità materiche di una monocromia, concentrandosi sullo spessore del colore. Non è casuale se, in una situazione così fluida, incontriamo ancora un’idea di spazializzazione, che si affida all’articolazione stereofonica dei due canali, per creare una sorta di piccola polifonia fra eventi, e poter giocare con la possibilità di differenziare le figurazioni sonore per opposizione fra luoghi, fra canale destro e canale sinistro, per mantenere una tenue presa narrativa sull’ascolto, una presa che deve affidarsi all’evento rumoristico come struttura direzionale, che guidi l’ascolto.


§ 2 Deserts e la poetica del Sublime

"Ho scelto il titolo Deserts perché questa è per me una parola magica, che suggerisce corrispondenze all’infinito. Deserts significa non solo i deserti fisici, sabbia, mare, montagne, neve, spazio esterno, strade vuote in città, non solo gli spazi spogli della natura che indicano la sterilità, la lontananza, l’esistenza fuori del tempo, ma anche quel remoto spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, dove l’uomo è solo in un mondo di solitudine essenziale… Preferisco la città alla campagna, e ai suoi insetti, preferisco il bagno di casa mia al ruscello della Pastorale. Il deserto è un turbine rovente che trascende ogni atteggiamento umano[41] .".

Vi è una singolare gradazione drammaturgica nel testo che presenta Deserts (1954): esso illumina una poetica, in grado di chiarire l’estetica del suono, ma lo fa con uno stridente accostamento di registri. Le immagini sono abissali, richiamano l’idea di natura come smisuratezza, e al baratro della solitudine come forma essenziale della soggettività, ma, a fianco ad esse, emerge un’ironia profondamente antiromantica, e antinaturalistica: in Deserts le grandi masse sonore, lanciate dagli strumenti musicali vengono interpolate da suoni trattati elettronicamente e riportati su un nastro magnetico. Le tracce sonore sono il riverbero dei grandi suoni delle fabbriche, "suoni bellissimi", di frizione, percussione, sibili, stridii, sbuffi.

Nel continuo scambio di registri si nasconde l’idea di una dimensione del sublime, dove tutte le categorie estetiche si coagulano, per evocare una dimensione in cui il senso del visivo e quello dell’acustico praticano fra loro continui giochi linguistici, volti ad individuare il significato della vettorialità spazio - temporale, e della propria appartenenza al mondo. Un suono organizzato, dove l’evocazione del grandioso passa ormai attraverso l’immagine del moderno della grande fabbrica, già evocata in Ionisation (1931).

Rumore ritmico e ritmo come rumore: artificiale e naturale non sono fusi assieme, ma vengono contrapposti, creando una dialettica nella fibra sonora che tiene insieme la tessitura materiale del brano: è da questa conflittualità con le categorie estetiche che sostengono l’esperienza del musicale che nasce l’idea di giocare con la perfetta simultaneità di elementi in totale contrasto fra di loro, per sollecitare una dissociazione di idee, in grado di stimolare l’immaginazione, ed il flusso delle emozioni. L’estetica di Deserts è un’estetica della scissione dell’intreccio di dati che costituisce la trama unitaria dell’esperienza del mondo: il gioco non consiste nella deformazione prospettica del cubismo, ma nella dissoluzione della forma nella materia[42].

Ma cosa vuol dire dissociare? Per rispondere, dovremmo individuare cosa significhi riconoscere un suono: proviamo a porci qualche domanda sui problemi connessi all’articolazione del flusso temporale rispetto all’identità del suono, tracciando una linea che ci permetta di passare dal piano dell’immediatezza della percezione a quello del giudizio: ecco così un suono che dura, una nota tenuta su un organo, che schiacciamo più volte, come farebbe un bambino. Cosa accade, in una percezione elementare? Siamo di fronte ad un suono che si mantiene, identico a se stesso. Potremmo esprimerci così: l’identità di quel suono è l’orizzonte di tutti i suoi possibili decorsi e mentre quella struttura si stacca dal silenzio che la circonda, e cade sotto la presa della percezione, il suono dura sempre identico.

Identico nel suo offrirsi, ma siamo proprio sicuri che sia così? All’attacco di ogni suono, vi sono caratteristiche cesure interne, legate al movimento che accompagna il suo emergere dal silenzio: si crea così un contrasto, fra il silenzio iniziale, in cui il suono sembra spuntare dal nulla, e le pause in cui ci si ripresenta il suo prendere corpo nel tempo. Parallelamente, muta anche il modo in cui avvertiamo le cesure interne che ne segmentano le occorrenze. Il processo si ripete, ed il senso di questa ripetizione organizza una serie di attese, rispetto al futuro. Su questo piano, siamo passivi: si fa avanti una struttura sonora, che ha la forma di un processo che si sviluppa nel fluire del tempo.

Nel momento in cui fissiamo, attraverso una serie di concordanze, che si tratta del medesimo suono che appare, muta anche la percezione del tempo, che diventa meno pregnante: siamo ora di fronte allo stesso oggetto che si ripete, esso ha già catturato tutta la nostra attenzione, mentre lo strato temporale passa in secondo piano. Ci avviamo ad una forma di concettualizzazione del fenomeno, in cui prende forza la categoria di identità: il fenomeno, che prima era in un continuo divenire, viene esplicitandosi come relazione logica, ma in questo non è mutato nulla nel fenomeno, mentre va arricchendosi il modo in cui ci poniamo di fronte ad esso, le nostre possibilità descrittive. Potremmo dire che siamo collocati sulla soglia del giudizio: prima, parlare del tempo, come condizione di manifestazione di quell’identità strutturale, era imprescindibile ed avremmo forse detto che le proprietà esibite da quel suono continuavano a durare: fissato il carattere di ripetizione, e di identità del suono (dicendo che è un suono che si ripete) effettuiamo un passaggio appena avvertito, ma gravido di significato perchè se quell’oggetto continua a durare, ed è sempre identico a se stesso, è possibile guardare a questo processo da un altro punto di vista, strettamente correlato al primo, ma pervaso da una prima forma di attività.

Sto passando dall’idea di una continuità nel tempo ad una identificazione attiva dell’oggetto, è come se dicessi che, in questa prospettiva, un suono si dà come identico a se stesso. In questo senso, una sintesi di identificazione ci permette di parlare di un oggetto che ha determinate proprietà, e non di un soggetto che si manifesta attraverso le sue proprietà. Ora è il fattore temporale a perdere pregnanza, anche se il giudizio che abbiamo costruito prendeva forma proprio all’interno del processo di continuazione temporale[43].

Nasce la possibilità di un immediato sviluppo e posso cominciare a fissare le regole della trasformazione fenomenologica connesse alla durata di un suono: da un suono che permane, identico a se stesso, posso iniziare una progressiva frammentazione delle durate. Siamo di fronte ad un’elementare strutturazione ritmica, possibili suddivisioni di tempo che sostengono il presentarsi di un suono, che ora, dopo una sintesi di unificazione, posso indicare come lo stesso suono, la stessa altezza, che, a seconda della partizione temporale che occupa, muta il suo carattere fenomenologico, passando da suono statico, massa che si dilata lentamente, ad un flusso puntiforme, in cui il ripetersi delle occorrenze che suddividono la medesima unità di tempo (il periodo) secondo rapporti che ne raddoppiano progressivamente le occorrenze interne, si ripercuotono sulle proprietà che l’oggetto esibisce. Il suono si fa più o meno percussivo, a seconda del decrescere del valore ritmico, passando da un suono oggetto a un suono flusso, ad una sfumatura dell’oggetto sonoro.

Prendono chiarezza le formulazioni di Varèse, quando insiste sull’idea di strutture formali che si affidino alla categoria della densità: modificare una struttura ritmica, lavorare sul numero delle occorrenze di un evento, significa controllare il carattere delle trasformazioni timbriche attraverso variabili ritmiche. Dire quante volte occorrerà un suono in un intervallo di tempo dato, suddividendolo a piacere, significa articolare la corposità dei suoni, la consistenza della loro dimensione, ed affidare la forma di un brano a questo lavoro di impasto sulla materia sonora, è certamente una scelta sconcertante perchè la corposità del suono, il suo spessore, divengono gli attori della configurazione ritmica di una struttura, e il vincolo relazionale del costituirsi dell’architettura del brano. Ma c’è ancora qualcosa da dire.

Possiamo complicare un poco l’esempio, ponendo ora il medesimo suono, posto in relazione d’ottava: immagine di identità perfetta, perché la stessa nota si ripete disponendosi su due regioni spaziali diverse, con una fusione inerte, tra occorrenze del medesimo elemento. L’ottava rimanda ad una ridondanza che si amplifica, e la disposizione spaziale crea un effetto di saturazione, di chiusura completa, di un intero in cui l’identità si fa tessitura, in una specularità chiusa, senza movimento interno. Un intervallo, una distanza fra due altezze, che porta con sé l’idea di profonda inerzia. La seconda, al contrario, (Fa Sol) è una dissonanza forte, stridente, e porta dentro di sé un contrasto fra i due elementi, una tendenza al movimento. Ci siamo bruscamente allontanati dalla dimensione dell’identità, si preannuncia un decorso, una transizione, alla ricerca di un equilibrio che possa allontanare da quel contrasto.

Un meccanismo espressivo elementare, che sostiene tutte le riflessioni grammaticali sul suono che abitano l’Estetica di Hegel, sta prendendo piede: l’aspetto fenomenologico è certamente semplice, e tuttavia, già su questo piano, potremmo dire che siamo in grado di costruire, attraverso una serie di giudizi che esplicitino linguisticamente ciò che troviamo nel dato percettivo, una distinzione fra consonanza di dissonanza. I due interi mi stanno di fronte, ma non potrei trovare una differenza più radicale.

Nel primo intervallo, incontriamo un forte legame associativo tra suoni, che sembra tenerci all’interno di un’unità statica. Nel secondo il contrasto sembra rimandare ad un distacco fra due suoni, e nel momento in cui esplicitiamo, sul piano del giudizio, le modalità che tengono insieme la struttura di quell’intero, saremmo portati a dire che quei suoni rimandano ad un processo di allontanamento, ad un decorso carico di dinamismi repulsivi e, di conseguenza, ad una differenziazione fra i due suoni, che rivendicano, per così dire, il loro allontanarsi. La seconda indica così un frantumarsi delle relazioni di fusione, rimanda ad una corporeità che non si declina, ad un articolarsi di un’unità che comincia a scandire i propri momenti a differenziarsi al suo interno.

L’apertura di Deserts offre una dissonanza che si ripete, costruita sull’intervallo di nona. Cerchiamo di capire cosa significhi questo gesto iniziale. Ci viene proposto un intervallo dissonante, che altera la crudezza della prima dissonanza che incontriamo nel sistema relazionale delle altezze, la seconda. La nona è una spazializzazione della seconda, il che indica che fra gli intervalli musicali è possibile costruire una serie di relazioni di ordine ricorsivo, di deduzione e riorganizzazione spaziale degli intervalli all’interno dell’ottava. L’affermazione, per quanto vera, porta dentro di sé un problema velato che dobbiamo esplicitare, perché il distendersi su due regioni differenziate, crea un immediato gioco di tipo timbrico.

La nona ha un colore specifico, perché attenua la dissonanza grazie alla spazializzazione, che ne illanguidisce i contorni. Il carattere di dissonanza permane, ma è intorpidito dalla configurazione spaziale della consonanza, dal fatto cioè che la nota di appoggio, occupando una regione più grave, prenda una consistenza maggiore.

Siamo ben prima di un drammaturgia musicale, e vediamo immediatamente alcune regole prendere forme nell’articolazione elementare del materiale, perché gli intervalli, le consonanze, sono il primo elemento di costruzione di un discorso musicale: il fatto percettivo rimanda al pensiero, ma quel pensiero passa spontaneamente attraverso una sintesi immaginativa, che traduce il rapporto acustico in un’immagine di tipo spaziale. Nell’intervallo, non solo un suono è più in alto dell’altro, creando una dialettica fra tessiture, ma a quel rapporto corrisponde subito la direzione di una dialettica fra inscurimento del suono, ispessimento del suono, e un rischiararsi verso l’alto.

Varèse apre Deserts, presentando la nona in modo insistente, evocando attorno a quell’intervallo il gioco di una musica che inizia sottovoce, che sta nascendo sotto ai nostri occhi. L’intervallo viene intonato con l’indicazione dinamica forte dall’ottavino e piano dal clarinetto in Si bemolle. I due strumenti propongono una nona, Fa - Sol e mentre il flauto passa immediatamente dal forte al mezzo piano, smorzando progressivamente il suono, il clarinetto ammorbidisce la dissonanza, suonando il suo Fa piano, con attenuazione dell’effetto di gravità della nota; contemporaneamente il pianoforte esegue la nona, indebolendo la durezza della dissonanza di seconda, dandone un decorso spazializzato, che ne offusca il carattere. Lo stesso fa lo xilofono, mentre le campane tubolari lasciano risuonare la nona irradiandola nello spazio.

Se la procedura di illanguidimento della seconda è tradizionale, il risultato orchestrale no: fin dall’inizio, lo stesso oggetto ci viene presentato in fasi di costituzione diversificate, e localizzato in regioni sonore ben distinte, facendo cadere l’enfasi sul processo della sua formazione timbrica. La poetica di Deserts stringe la grammatica della composizione, secondo un richiamo ad un concetto caro alla poesia barocca, alla caducità delle cose, colta nel fiorire esuberante delle loro forme: nel momento in cui si rende udibile, ed occupa la scena, l’intervallo va letteralmente smaterializzandosi. L’ascolto lo mostra in modo evidente, nei piccoli ritardi di attacco, che creano sfasature ritmiche, e piccoli fenomeni di cromatismo ritmico.

Ne viene fuori una sonorità intermittente, che si accende e si spegne, ma se la nona appariva lontano, la sua presenza riprende forza, sembra avvicinarsi , nel momento in cui si dissolve, grazie alla sonorità luminosa della campana, che, all’interno di questo impasto di registri, crea un alone sonoro in movimento, attorno all’attacco dei fiati. Il richiamo alla profondità del ciclo costituivo della tessitura sonora, strato dopo strato, si è fatto evento narrativo, immagine riverberante di un oggetto, che non si lascia più cogliere in modo direzionale, moltiplicando attorno a sé i punti prospettici, con un effetto di deformazione assai insistito, in un enorme lavoro di evocazione del chiaroscuro, che mostra bene la maestria timbrica del compositore francese.

Il gioco si ripete per almeno sei battute, e viene rinforzato, nella terza e nella quinta battuta, dal risuonare di due cimbali, sempre in piano: ora l’intervallo si ripresenta su un disegno ritmico, che lo ripropone per nove volte.

L’intervallo appare così lontano, statico, suggerendo un grande senso di distanza, basato sul lavoro sugli attacchi del suono, sul momento in cui il suono, l’altezza prende spessore timbrico. La campana ha certamente un valore evocativo, ma sono le ripresentazioni senza sviluppo dell’intervallo che ci sorprendono: la percussione infatti ha dato un’intensa luminosità all’intervallo, lo porta in evidenza come una fonte luminosa che brilla nella lontananza. Nel suo The music of Edgard Varèse, Jonathan W. Bernard [44]definisce questa situazione come stasi in sviluppo e spiega l’ossimoro concettuale parlando di situazioni in cui gli elementi che vengono presentati all’inizio ne fanno crescere altri, alcuni dei quali possono scomparire o venire rimpiazzati da altri. In effetti alla fine dell’esposizione statica dell’intervallo, alla battuta sette si presenta una sorta di intreccio polifonico, di duplicazione dell’intervallo di nona nello spazio, con lo sviluppo di un tessuto polifonico, in cui l’intervallo di nona si duplica e si spezza in due segmenti, che si espandono occupando lentamente le bande medie.

Tre trombe ripropongono l’intervallo, appoggiandosi ad un tempo debole della battuta ed utilizzando la sordina: si agganciano alla risonanza forte della campana, e a quello in piano dello xilofono. La dinamica oscilla fra piano e pianissimo: è un gesto sonoro, che ora rimanda più esplicitamente alla nozione di eco. Il suono non si è ancora spento, che sembra già riprendere forza, espandersi debolmente, indicando una possibile spazializzazione della risonanza, una profondità dello spazio che ripropone il risuonare dell’intervallo, su un timbro tagliente, ma tenue. Lo stesso ragionamento potrebbe essere svolto per il rapporto fra chiuso ed aperto nella esposizione dei corni. L’eco sta ancora moltiplicando l’oggetto nello spazio, l’intervallo viene riproposto da due flauti, e questa volta, con l’indicazione dinamica sforzando e piano. Sforzando e piano significa spingere in avanti un suono, e smorzarlo immediatamente, portarlo alla presenza, per lasciarlo morire. L’oggetto si sta finalmente spegnendo, ma accade ancora qualcosa di sconcertante: l’intervallo di nona torna, ma viene trasposto su altre altezze, Re Do, e così, mentre un disegno del clarinetto e dei clarinetti bassi crea un disegno ritmico melodico, le due none si raddoppiano, si contrappongono, si dispongono su opposte regioni spaziali, per uscire di scena.

La categoria di densità, che il compositore collegava significativamente al concetto di forma: la forma di un’opera è la densità del suo contenuto. Varèse lavora sul costituirsi del suono: lo sviluppo della nona è affidato ad un procedimento formale che ha di mira la costituzione sonora dell’oggetto. Tensione ed intensità, i due parametri della densità formale nella figurazione, gestiscono così il processo di trasformazione della materia sonora, il prendere corpo degli intervalli ed il loro abbandonare la scena. Lo stesso vale, naturalmente per gli schemi ritmici, che vengono ripresi deformati, espansi in tutta la prima sezione di questa magica composizione.

Il procedimento ha l’andamento di una cristallizzazione, una struttura interna che si espande o si frantuma in forme che si differenziano tra loro o in gruppi di suoni che possano continuamente cambiare direzione, forma e velocità. Piano formale e traduzione concreta, livello percettivo ed elaborazione concettuale si pongono in continuità profonda, come accade, del resto, all’interno delle strutture d’ascolto che abbiamo messo alla prova per catturare il modo con cui la passività della percezione stringe il proprio legame con la spontaneità del giudizio. L’incipit di Deserts obbedisce in pieno al senso di questa poetica: lo stesso oggetto viene presentato secondo diversi piani di costituzione e lo sviluppo, all’inizio, non può essere che una contemplazione del suo farsi, e del suo alterarsi: gli eventi scorrono contemporaneamente. L’intervallo proposto in piano dal pianoforte vibra nella campana, si smorza nell’orchestrazione offerta da piccolo e clarinetto, e viene riproposto per essere apprezzato proprio nel momento in cui cambia di consistenza. L’intervallo è già in un divenire, che va tanto in direzione della differenza che in quello dell’unità: che la compagine orchestrale sia impegnata tutta su quell’oggetto ci spinge verso un giudizio di concordanza, siamo portati a dire che siamo di fronte allo stesso intervallo.

La domanda che Varèse sembra volerci porre verte su quanto stiamo ascoltando, su come possiamo identificarlo, e soprattutto su quanti strati costitutivi può giocare una nozione apparentemente ovvia come quella di identità dell’intervallo, che viene confusa ad arte, con una modificazione dello sfondo (non è una scelta casuale che si aloni il suono, dopo le prime occorrenze dell’intervallo, con i due cimbali, che creano un fruscio che appanna immediatamente l’immagine e che lo facciano usando l’indicazione dinamica piano, già scossa dall’orchestrazione).

E’ proprio su questo piano che la connessione fra due possibili livelli dell’ascolto, uno passivo ed uno attivo, entrano in conflitto tra loro, perché l’oggetto è stato costruito in modo che io non possa riconoscerlo, senza oscillare continuamente fra i due piani. In un discorso che sembra tanto astratto, l’ascoltatore perde i suoi riferimenti abituali perché viene messo a contatto con una fase di elaborazione del musicale, in cui forma e materia sono totalmente compenetrate e mettono in luce i modi della loro costituzione.

Varèse è così consapevole del problema, che non esita a far rieccheggiare il fantasma del suono di una campana al termine dell’esibizione di suoni elettronici, che egli mette a punto faticosamente, nella seconda stesura della parte su nastro del brano: nella seconda stesura, fra i suoni delle grandi fabbriche trasformati in effetti percussivi, urla, stridii, immagini sonore che sono un ponte verso Artaud, quel risuonare smaterializzato, che va spegnandosi, suona lugubre, un enorme fossile sonoro, di cui leggiamo ancora la traccia mentre si decompone.

Usciamo dal piano del rumore, che si avvale di glissanti e di altri espedienti narrativi che rimandano alla dimensione dell’eccessivo, e del sublime, grazie all’ombra del suono di una campana. Riconosciamo, e non riconosciamo, l’oggetto nascosto, che assume così valore simbolico: la magia dell’immagine è tutta interna alla sua consistenza timbrica, al suo corpo sfigurato, e opaco, un’ombra che emette armonici, in cui l’ascoltatore possa, finalmente, smarrirsi, per ritrovare le condizioni dell’ascolto. Ma cos’è allora, un’emozione musicale, quali sono i meccanismi che la sostengono?

§ 2 Drammaturgia del corpo sonoro: Kindertotenlieder di Gustav Mahler

Volendo comprendere la forza strutturante del corpo sonoro, non possiamo esimerci da una sommaria analisi musicale di un brano analizzato da una grande filosofa, come Martha Nussbaum, nel suo Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions [45] .

L’oggetto dell’analisi è il primo brano dei Kindertotenlieder, [46] Nun will die Sonn’so hell aufgeh’n. Ne proponiamo la bella traduzione di Quirino Principe, intensa e partecipata quasi dall’interno.

Nun will die Sonn’so hell aufgeh’n

 

Nun will die Sonn’so hell aufgeh’n

Als sei Kein Unglück die Nacht gescheh’n

Das Unglück geschah auch mir allein,

Die Sonne, sie scheinet allgemein.

 

Du must nicht die Nacht in dir verschränken,

Musst sie ins ew’ge Licht versenken

Ein Lämplein verlosch in meinem Zelt,

Heil sei dem Freudenlicht der Welt

 

Ed ora il sole osa ancora sorgere

 

Ora il sole osa sorgere e splendere ancora,

come se una sciagura nella notte non fosse avvenuta.

La sciagura è avvenuta, certo solo a me è toccata,

e il sole splende ovunque, per tutti gli altri, là fuori.

 

Non devi in te la notte rinchiudere, e nasconderla,

ma lasciarla affondare e perdersi nella luce eterna.

Si è spenta nella mia tenda una piccola lucerna,

ma sia gloria alla luce cara e gioiosa del mondo.

Il gioco del testo è molto ricco, contrapponendo la luce al buio interiore, secondo l’idea che il sole continua a sorgere, che assume ora un colore particolarmente drammatico, nel momento in cui la vita di chi scrive è stata irreversibilmente mutata da un evento tragico accaduto nella notte: dopo il lutto, il senso di questa ripetizione è esasperante, il dolore deve affondare, e perdersi nella luce del mondo, mentre la piccola lampada che rischiarava il buio della propria tenda si è spenta. Un testo così, osserva giustamente la Nussbaum, può essere animato dalla musica secondo intenzioni proprie, prendendo un orientamento tragico, ed ambiguo. Il brano è nella tonalità di Re minore (con frequenti passaggi in Re Maggiore):le quattro coppie di versi hanno funzioni strutturali diversificate tra di loro. La prima, la seconda e la quarta presentano, con alcune variazioni significative, il medesimo schema, mentre la terza sezione crea contrasti piuttosto forti. Il primo Lied rimanda alla tematica dell’abbandono, della perdita, che passa attraverso il continuo contrasto fra luce e ombra, giocato ossessivamente nel testo della terza e della quarta stanza, dove si fonde l’immagine del buio nell’interiorità con quella della fiammella nella tenda, cui si contrappongono la luce eterna prima, e la luce del sole poi. I due concetti possono non essere equivalenti, anche in presenza di un poeta dal fervente cristianesimo come Rückert: la luce eterna ha natura ben diversa dall’esplodere del sole, e, rimanda comunque ad un regno di tenebra, mentre la luce del sole rimanda immediatamente alla dimensione del mondo della vita, ad un calore corporeo, contrapponendo l’ordine del giorno a quello della notte, nella speranza, forse, di una loro impossibile conciliazione.

L’inizio del Lied [47] contrappone due melodie, poste in forma contrappuntistica da oboe e corno. L’intero brano è percorso da una andamento polifonico molto libero, in cui voce e strumenti costruiscono il climax espressivo mediante la rielaborazione di frammenti di linee polifoniche, che passano da un gruppo ad un altro. L’indicazione espressiva, come rileva la Nussbaum, è klagend, lamentoso. Klagen ha molti significati, indica il piangere, lo sfogare il proprio dolore con qualcuno, ma rimanda anche al carattere di una rivendicazione, di una lamentela contro qualcosa. Il carattere fortemente interiorizzato del lamento viene enfatizzato dalla dinamica in piano: i due strumenti si muovono sulle linee di una invenzione a due voci, con delle differenze significative, perché l’oboe attacca in solitudine, sul Do posto sul quarto tempo della battuta, in piano e su un tempo debole, mentre la scansione della battuta sta chiudendosi (anacrusi). L’uso insistito della quinta diminuita, ne guida la linea melodica, ricca di frammenti cromatici, in grado di dare un carattere piangente alla melodia, legato all’irrompere di una continuità, che segna le risalite della frase, dalle cadute sulla quinta, che crea ambiguità sul piano dello sviluppo della figurazione musicale, con dissonanze: il disegno tormentato viene dal nulla, e canta sommessamente. Il procedimento compositivo adottato da Mahler per le linee melodiche strumentali allude alla procedura della diminuzione, dell’elaborazione di una linea melodica secondo un procedimento di variazione ed espansione di un modulo elementare.

Elisabeth Dargie, con sensibilità drammaturgica, rileva che questo modo d’attacco rimanda all’idea di un percorso in salita, dove le energie continuano a venir meno [48] . La linea del corno si muove in parallelo, ma su una condotta orizzontale, con incontri sulle consonanze di quarta e quinta: armonicamente, il risultato, pur muovendosi cadenzalmente, non è convenzionale. La relativa indipendenza delle linee suggerisce l’impressione di una musica sospesa, e livida, dove galleggiano frammenti di una melodia, che potrebbe essere iniziata prima, ed anche questo è un atteggiamento che ricorda molto alcuni aspetti della precettistica musicale schopenhaueriana: dell’inizio della vicenda non sappiamo nulla, veniamo inseriti dentro ad un intreccio di voci, dentro ad un dialogo da cui si staglia, una linea melodica tenue, e la voce che canta ce ne farà ascoltare solo il commento, catturato nel solipsismo di chi parla dentro di sé (i segni dinamici e l’andamento, Lento, malinconico ma non strascinando, che implica una scansione estremamente regolare,emergono con chiarezza nelle indicazioni espressive che puntellano la partitura).

Seguendo la poetica di una stasi rassegnata, l’entrata della voce sul piccolo cromatismo La Si b si lega al Do diesis Re tracciato dai fagotti e mentre i due attacchi si fondono in consonanza patetica, lo stesso intervallo viene sussurrato dai corni, costruendo così l’idea di una proliferazione speculare del frammento melodico, che rimanda all’idea di un’amplificazione di un lamento o di un singhiozzo [49].

La natura logica dell’evento, il suo muoversi per configurazioni parallele che si arrestano subito, e che vengono pronunciate in piano, crea così un nucleo in grado di sostenere il primo gioco espressivo: la voce che intona di’ Sonn so hell auf-geh’n, il sole sta per sorgere luminosamente ha un andamento discendente (Si La Sol Fa Mi Fa Mi): è un procedimento classico, in cui l’andamento del testo, il significato letterale di una frase, viene rovesciato da un gioco musicale che ne rovescia l’andamento, rafforzandone, per contrasto, il contenuto emotivo. L’alba è un tramonto, il sole che sale e che sta per illuminare il mondo, rafforza l’idea di un buio che viene dolorosamente trafitto dalla luce, dall’irrompere dell’ordinario. I valori ritmici con cui viene costruita la frase rafforzano, come nota correttamente Peter Russel, la parola Sonn e hell, il Sole e pieno di luce, ma l’andamento discendente, crea immediatamente un gioco semantico più sottile, perché Mahler fa perdere il riferimento al momento in esso cui va sorgendo. Quanto emerge dall’alba è la luminosità abbacinante del sole, non il suo farsi avanti progressivamente, come suggerisce la scelta verbale: il sole sta già, questo è il punto, e non è andato rischiarando nulla, si è presentato con tutta la sua forza, ferisce. Architettura narrativa e testuralità timbrica si abbracciano: ora la voce attacca il canto su l’ultimo tempo della battuta, quando la scansione ritmica va esaurendosi, seguendo lo stesso andamento che aveva proposto, in apertura, l’oboe, in un gioco consapevole con le aspettative dell’ascoltatore, costretto a contare il tempo, partendo da un frammento, che si dilata progressivamente all’interno della scansione a quattro quarti del modulo, solo a partire dall’ultimo quarto, ottenendo così, come rafforzamento, un effetto di dilatazione temporale delle attese.

Nello sviluppo del brano che segue la prima strofa l’oboe riprende la linea melodica della voce, come un’eco strumentale che ripete commossa quanto è stato cantato (Mahler scrive p espressivo), per sottolineare il carattere quasi di parafrasi, e di monologo interiore, della chiusa della frase, che ora, nel commento dell’oboe, riverbera il suo dolore attonito sul mondo. L’apparizione della seconda linea melodica ha carattere diverso: la voce canta il verso successivo (Als sei kein Unglück die Nacht geschehen),[50] dando un orientamento ascendente alla linea melodica, ma ora sale come nota Russell[51], semitono per semitono, con grande sforzo, fino a toccare prima il Si bemolle nella battuta 13, per poi ricadere sulla tonica alla battuta 15, con una lunga cadenza sulla parola Nacht, che conclude la frase, e non è senza conseguenze che la linea melodica sviluppata dalla voce mostri dentro di sé le alterazioni cromatiche ascendenti che caratterizzavano il solo d’oboe d’apertura. La curva ha una sorta di doppia funzione, perché, proprio nella cadenza su Nacht, effettua un salto di sesta, accompagnata da viole e violoncelli, segnato in pianissimo: gli archi in sordina sostengono la voce, nel suo salto attorno alla parola Nacht, ed il gesto, interpretato dai musicologi secondo diversi orientamenti, è interessante, perché rimanda immediatamente all’andamento vocale di un singulto, reso ancora più credibile, come calco, dal fatto che Mahler desidera che si passi immediatamente ad un pianissimo, ad un perdere consistenza della voce, mentre essa sale. Il venir meno dello spessore fonico della voce accentua il senso della profondità, dei piani sonori, e rimanda all’immagine di un dolore la cui presenza fa sprofondare la voce nel lontano, nella dimensione del passato. Nel torcersi della linea vocale su Nacht è il passato che incombe, che vuol ingoiare il presente, secondo una visione edipica del tempo, che ha strette analogie con l’interpretazione dell’istante elaborata da Schopenhauer nel Mondo come Volontà e Rappresentazione.

Non appena si chiude la cadenza sulla parola Nacht, è il corno a riprendere il rapporto di sesta in piano, mentre ora emerge in modo deciso il disegno d’accompagnamento in sordina degli archi, che hanno accompagnato l’inerpicarsi della voce, in pianissimo, su quel salto. Corno e clarinetto si affidano a delle figurazioni ascendenti che riprendono l’andamento vocale della seconda strofa. Rimane così un alludere all’idea di continuità, attraverso la rifrazione degli intervalli, che passano da un gruppo ad un altro, dove il registro espressivo degli strumenti prende forza nel gioco di continua imitazione che funge da cesura nel discorso, perché il fiorire di abbellimenti, e di diminuzioni, rafforza la coesione orizzontale del brano, individuando piccoli incisi tematici che vengono interrotti dal ritorno della linea dell’oboe, del corno e della seconda linea vocale: il tessuto vocale viene continuamente riassorbito in quello orchestrale

E’ proprio durante la transizione fra i segmenti testuali, che prende forma uno degli eventi salienti, e più sorprendenti, della partitura: prima che la voce attacchi la seconda strofa, infatti, udiamo il timbro argentino del glockenspiel scandire la coda di questa prima sezione, e trattenersi sull’inizio della seconda. Il rintocco del glockenspiel è suggestivo e la sua funzione simbolica è stata letta dagli interpreti dell’opera, secondo vari intendimenti. Per Donald Mitchell [52] il suono del glockenspiel rimanda contemporaneamente alla campana o al gioco del bambino, per Constantin Floros rimanda alla musica angelica, come segnala Russell. Le interpretazioni, naturalmente, prendono spessore a seconda dello stile in cui viene inteso il testo, che si presta a letture controverse: per Mitchell, quel rintocco, ad esempio, è un simbolo della luce che irromperà, pacificando la tensione latente nel brano. Il problema filosofico che si pone, in questi casi, è chiarire su cosa si appoggino tali interpretazioni, leggere in filigrana, attraverso le relazioni che legano i suoni fra loro, e chiarendo le modalità delle loro configurazioni, cosa le renda possibili: non vi è dubbio che, nella tessitura scura in cui sta sviluppandosi tutta questa sezione, quelle piccole figurazioni ritmiche, diano, in generale, un senso di luminosità e di non finito. Il suono del glockenspiel, in piano, assume la natura di un punto luminoso, la cui pulsazione si articola un andamento ritmico, di tipo binario. Mahler dispone il sintagma (le due occorrenze del glockenspiel, in realtà, formano un’unità che trova senso compiuto solo nel venir fusa in una figura) sul terzo e sul quarto tempo della battuta, quando l’unità di riferimento temporale tende a chiudersi ed in questo essi rimandano immediatamente alla dialettica temporale che caratterizzava l’apertura dell’oboe, sul tempo debole.

Osserviamo che, alla scansione del ritmo nel tempo, alla sua possibilità di far germinare al suo interno una nuova figura, corrisponde immediatamente una sintesi sul carattere della scansione del passo nello spazio. La linea del glockenspiel rimanda sommessamente ad una scansione simmetrica, lineare, che viene accennata, per poi sparire, facendo avvertire una diversa architettura della scansione del tempo, all’interno del medesimo processo di scansione: la nostra attenzione viene spostata su un altro strato del tempo, su un’altra suddivisione che sta prendendo rilievo, in modo intermittente, in quell’area delicatissima in cui un processo temporale sta per chiudersi, e l’ascoltatore è sollecitato da una serie di attese verso l’iterazione dell’unità di riferimento nella scansione temporale. Il glockenspiel batte il quarto, rispetto alla scansione in ottavi dell’arpa, e lo fa attraverso la sua timbrica luminosa: ma l’emergere di una modificazione nell’organizzazione ritmica degli eventi viene accentuato dal parallelismo fra andamento del glockenspiel e suddivisione ritmica effettuata dall’arpa, che scandisce il tempo in ottavi, anziché in quarti. Mahler vuol farci cadere in preda al problema della grammatica temporale dell’evento, legato alla dialettica del suo scandirsi: la suddivisione del glockenspiel, staccandosi sullo sfondo della suddivisione temporale, viene scandita in modo più rarefatto: è in questa segmentazione del tempo, che prende rilievo il contrasto espressivo, e timbrico fra la corda dell’arpa che vibra, scandendo il tempo in modo veloce, ed il suono del glockenspiel, che si irraggia intorno a sé, rallentandolo e proiettandolo su una nuova linea che le tre occorrenze sembrano aprire, portare in primo piano, e poi allontanare, rispetto al modificarsi del contesto del brano. L’idea di irraggiamento sonoro, di corpo che vibra tutto nella diffusione dell’onda, secondi una celebre immagine husserliana, può essere rappresentato dalla gravità del tocco di campana, o dalla leggerezza puntuale del timbro del campanellino, che diffonde attorno a sé un punto di luce, che prende maggior pregnanza fra i colori tenui di quest’orchestrazione mahleriana.

La sequenza si ripete tre volte, ed alla terza occorrenza, accade un altro episodio straordinario, perché la struttura formale del brano riporta il canto dell’oboe in primo piano, come una cesura che prepara alla seconda stanza. Quel tintinnare, che era salito in primo piano grazie alla pregnanza dell’intreccio temporale, e timbrico, ora passa, identico a se stesso, sullo sfondo.

La figura sprofonda nel passato, con una sorta di effetto di dissolvenza, fra i due gruppi di eventi. La particolare accentuazione ritmica si allontana, senza che si modifichi la sua dinamica: è il gioco dei volumi che lo circondano, la natura degli eventi timbrici, il colore, ed il ritorno della prima figura, in cui dialogano oboe e corno, che ne rendono la presenza sempre più flebile. La lettura della partitura mostra bene l’opacizzarsi di tutte le relazioni temporali, l’effetto dissolvenza con cui quel gioco ritmico viene cancellato.

Il glockenspiel può ora allontanarsi (l’effetto di spazializzazione del suono pensato dalla distribuzione dei pesi orchestrali, e dagli attacchi degli strumenti, è sorprendente, perché il tintinnare dal bordo incerto che caratterizza la miniaturizzazione del suono di questo strumento viene letteralmente ingollato dall’orchestra), mentre torna in primo piano il contrappunto fra l’oboe e corno, che aprivano il Lied. Mahler muta ancora qualcosa: l’intensità con cui gli strumenti scambiano le linee polifoniche ancora più debole, rispetto all’inizio (l’indicazione passa dal piano al pp), e senza espressione.

Il problema che Mahler deve affrontare è proprio quello della morbidezza della transizione da un episodio ad un altro: sul glockenspiel si suona ancora piano, poi si passa ad una sonorità ancora più tenue, per lasciar emergere la voce, che intona Das Unglück geschah auch mir allein. La dinamica dello scambio polifonico fra gli strumenti, attenuandone i caratteri espressivi, rimanda ad una ieraticità dell’andamento, e al senso di una ripetizione, che contrasta con il tono lamentoso dell’apertura, per poter dar maggior rilievo all’enunciazione del dolore da parte della voce.

Il riverbero del passato si proietta sul presente. Ma potremmo anche rovesciare il senso del discorso, guardando la cosa dal punto di vista della pulsazione dell’arpa: in quel caso il discorso volgerebbe ad un futuro anteriore, in cui il senso dell’azione sia già stato narrato. L’idea di un conflitto fra pulsazioni si conserva comunque, e rimanda ad un tempo comunque lontano, ed irraggiungibile, il tempo della perdita, e del lutto.

L’effetto di ritardo della scansione del glockenspiel fa parte della costituzione ordinaria delle forme temporali, e ci fa avvertire lo scorrere del flusso del tempo, attraverso un gioco creato da oggetti ontologicamente temporali come i suoni.

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Nella seconda stanza, in Die Sonne die Sonne sie scheinet allgemeine il sole splende ovunque, Mahler attraverso la ripetizione della parola Sonne, e un’accentuazione ritmica su Scheinet, enfatizza ancora l’idea di una presenza pervasiva della luce, in grado di illustrare il senso di separazione fra chi canta, rassegnato, ed il mondo che lo circonda: non vi è l’espressione di una rivolta, ma quello di una constatazione del dolore, nel continuo rigenerarsi della vita. Russel[53] osserva che l’accentuazione ritmica sulla prima sillaba di Scheinet, che Mahler prescrive chiaramente in partitura e che pone alla fine di una figurazione cromatica ascendente, quando cioè la tendenza della chiusura della successione sul Si viene rinforzata dalla doppia percussione sulla nota, secondo un raddoppiamento del valore ritmico dell’altezza, prima che la linea discenda morbidamente fino al salto di sesta.

La funzione del ribattuto ha incisività semantica: puntando alla sollecitazione ritmica, Mahler crea una forte tensione interna, nella sviluppo della frase, rafforzata dalla cadenza. L’inarcarsi della voce sulla sesta, ed il suo perdere spessore vocale nella salita, rimanda al lamento e alla rivolta della volontà. La luce che vede, e non agisce, è ulteriore fonte di dolore, e la scelta drammaturgica mahleriana isola il sentimento di chi prova il dolore rispetto al mondo che lo circonda attraverso la ripetizione sul melisma di Nacht E’ un modo per illustrare il concetto secondo cui il dolore del singolo è, per il resto del mondo, insignificante, ma che la constatazione non toglie che esso sia in grado di sommergere chi lo prova ed il mondo che lo circonda, attraverso la contemplazione del suo significato. Dopo il ritorno della melodia, ed un breve postludio del corno, che sviluppa una sorta di controcanto, su una linea discendente dei violoncelli, rientra l’oboe, questa volta su una linea ascendente, che viene indicata heftiger, più veemente. Il rovesciarsi della direzione dell’oboe indica una trasformazione in atto, che copre tutta la terza stanza, nettamente più drammatica delle precedenti, e che presenta uno sviluppo assai interessante sul piano sintattico.

Sta nascendo un gioco di diminuzioni sulla melodia, che comporta un ulteriore incupimento del colore orchestrale, da cui si esce attraverso scambi di brandelli melodici, incroci polifonici, che creano una vera e propria torsione del disegno originario: l’intervallo di un semitono, che come un singhiozzo si espande per tutta l’orchestra, intonato da flauto, clarinetto, e rafforzato dal disegno discendente del fagotto e dell’arpa, fa da sfondo cangiante al riemergere di un singolo colpo del glockenspiel, che si sposta ritmicamente , dopo aver battuto su due tempi forti, su un tempo debole, anticipando la chiusura dell’interludio strumentale, e preparando all’ingresso della voce e dell’oboe, che presentano ora, contemporaneamente, la stessa linea melodica rovesciata.

La voce ora intona [54]Du musst nicht die Nacht in dir verschränken, e si prepara ad una lunghissima frase musicale sulle parole Musst sie ins ew’ge Licht versenken, dove deve salire progressivamente di un’ottava, affrontando un difficile melisma su ew’ge: la linea della voce sale, l’oboe, il suo doppio, predilige curve melodiche discendenti, in un intreccio speculare straniante, rievocazione di un monologo interiore che spacca la soggettività, in grado di rovesciare tanto il senso del testo, che le forme strutturali ed armoniche della melodia. Sullo sviluppo della rievocazione melismatica prende forma quello che è forse l’aspetto più sorprendente del brano, e per la nostra argomentazione, il più interessante: accompagnando la voluta melodica della voce, i violini intonano una melodia su ottavi, ma dopo la cadenza vocale, dopo questa fase estatica, inizia un prepotente sviluppo, che Mahler indica come Un poco più mosso, con espressione appassionata

Donald Mitchell [55]ha ben mostrato quanto le figurazioni melodiche dei violini prima, e del flauto poi, rielaborino tutte delle figure apparse in precedenza, in particolare la linea melodica di Nacht, ed una figura enunciata dal violino solo, durante la cadenza vocale della terza strofa, che è semplice variante di quel gesto espressivo. Il marchio è il salto di sesta, la nota espressiva è la particolare inflessione vocale, la Stimmung espressiva, giocata sulla lacerazione melodica e timbrica, a cui quel salto rimanda. Il nesso interno nella ripetizione ossessiva di quella cellula tematica, rimanda, attraverso la profilatura melodica, ad un intrecciarsi di significati, di portati emotivi.

La struttura percettiva, che sostiene le possibilità espressive, emerge, mettendo in gioco una complessità di sensi possibili: non tutti gli ascoltatori possono identificare quell’intervallo, come intervallo di sesta, ma l’ascoltatore è in grado di recepire che si ripete quella relazione, che sosteneva la figurazione incorporata in Nacht. Si stabiliscono così nessi interni, poggiati sulle articolazioni in cui il melisma della voce diventa elemento grammaticale, almeno all’interno del pezzo: un contenuto semantico, ed il salto attorno all’intervallo si condensano in una cellula motivica, che si fa canto senza parole.

Se qualcuno osservasse che il passaggio dal piano di una sintesi passiva al riconoscimento attivo dell’intervallo è complesso, e che l’esplicitarlo in un giudizio esplicito, rimanderebbe a competenze specifiche, ad un addestramento che è sempre interno alle tematiche afferenti il musicale, concorderemmo con lui: ma questo non significa che l’ascoltatore non possa riconoscere che fra un gruppo di suoni vi sono delle relazioni, che ne organizzano le occorrenze, che egli non avverta con chiarezza quello che il compositore gli offre esplicitamente nella struttura che ha costruito, appoggiandosi all’intervallo come ad un materiale di costruzione privilegiato.

Possiamo indicare i disegni, che trovano sempre la propria matrice nella tenue deformazione di un precedente, il melisma su Nacht, figura x, figura y e figura z, come fa Donald Mitchell: tale aspetto, a differenza della inversione melodica del canto fra oboe e voce, è riconoscibile, proponendo sempre il tratto caratteristico del salto di sesta, incamerando dentro di sé il gesto sonoro; per una comprensione dei giochi espressivi agitati da queste efflorescenze melodiche, che sembrano pensate in modo affine all’idea di variante che abita le morfologie vegetali goethiane, non è senza importanza, che, ad esempio, nella figura x e nella figura y, l’accostamento intervallare sia costruito alternando un semitono ad una sesta ascendente, rendendo più facilmente avvertibile la dialettica fra intervallo breve ed intervallo lungo, fra un dilatarsi della figurazione nello spazio, ed il suo contrarsi[56] .

 

La contiguità fra i due intervalli rafforza il riferimento ad un andamento irregolare, che alterna un passo breve ad un passo lungo, ma l’immediatezza di questa trasposizione significa che cogliamo quella relazione perché è interna ad una successione di intervalli, perché possiamo riportarla nel contesto specifico elaborato nella figura, ma questa osservazione equivale a dire che, muovendo dal piano percettivo, quelle relazioni sono state riconosciute sul piano qualitativo della forma espressiva. La struttura che sostiene l’organizzazione degli intervalli nella figura viene percepita immediatamente anche dall’ascoltatore musicalmente ingenuo, alla cui schiera ci accodiamo con entusiasmo, perché questo strato di ingenuità è quello che ci permette di seguire il decorso di un brano musicale nelle sue tendenze sintetiche interne: il passaggio al giudizio impone un passaggio attraverso una gradualità, in cui acquisiamo un approfondimento del piano della ricerca sulle strutture logico-espressive, che sostengono l’uso dei materiali musicali.

Lo stesso procedimento di riduzione viene elaborato per la lunga frase disegnata dal flauto alla fine di questa sezione, che riprende dentro di sé i disegni del terzo interludio dell’oboe, dialogante, in chiusura di questa terza sezione, con il flauto stesso, dando ancora linfa polifonica all’interscambio fraseologico strettissimo e compatto fra strumenti che Mahler usa come suggestione per tutta l’opera. Ora egli fa suonare i secondi violini con la sordina, con un effetto di forte attenuazione della loro presenza, ma indicando la dinamica mezzo forte, mentre i primi violini, senza sordina e perciò molto più sonori, suonano in pianissimo. In questo modo si crea un articolarsi dei piani sonori, per cui ciò che dovrebbe stare sullo sfondo emerge in primo piano, mentre ciò che sta sullo sfondo si sbilancia in avanti. Mitchell nota correttamente che la prima nota dell’entrata dei violini, il Si bemolle, viene eseguito dagli strumenti in sordina con uno sforzato.

L’immagine dell’accentuazione di un suono, che si affida all’attacco percussivo, ma che rimane sordo, ha un valore espressivo notevole, e viene percepito appena, per creare una piccola differenziazione timbrica. L’inizio della frase enunciata dal suono del violino arriva da lontano, da un secondo piano e deve emergere indebolita come un’immagine che torni dal passato: ma la continuazione del disegno viene immediatamente riportata in primo piano da tutta la sezione, rimandando ad un’idea di polifonia, come addensamento delle voci attorno ad un punto che va prendendo forza, rigonfiamento di una massa sonora. Il piano del corpo sonoro sta emergendo in tutta la sua potenza espressiva, perché il timbro di quell’attacco dà spessore alla disperazione mossa dal testo.

Mitchell ha portato alla luce una serie di caratteristiche legate all’opacità del suono musicale, e alla enorme semplicità dei suoi materiali: se dovessimo commentare sul piano fenomenologico quello che abbiamo ascoltato, potremmo solo dire che la figura qui è diventata materia, l’immagine del lamento si è fatta timbro orchestrale, un timbro che Mahler elabora con un raffinato accorgimento nella distribuzione delle parti e degli accenti. X ed y non sono solo un sintagma linguistico, anche se dovrei parlare in termini delle loro occorrenze, perché è l’apparire di queste cellule che dà coerenza all’ascolto, e pregnanza semantica al brano. Non è certo casuale che, dopo esserci appellati all’immagine della luce, dopo che la voce ha cantato Non devi in te la notte rinchiudere, e nasconderla, ma lasciarla affondare e perdersi nella luce eterna, vediamo esplodere con questa forza l’immagine della notte, delle sue risonanze interiori. Possiamo aggiungere un particolare: il suono prodotto dalla massa degli archi ha il carattere di un fondale, di una luce che si diffonde nello spazio profondo, corporeo, che la timbricità attribuisce alle altezze musicali: quel colore è ora un fluido, un impasto attraverso cui quelle figurazioni avvolgono l’ascoltatore. Il colore, che la scrittura aveva solidificato nel timbro dei strumenti, per assicurare la trasparenza della forma si è diffuso, ha perso la propria identità, è diventato profondità che avvolge, un raggio di luce che modifica tutti gli assetti cromatici degli strumenti. L’intonarsi immaginario dell’ambiente, assimilabile ad una luce colorata [57] , che altera i valori di trasparenza, modificando la tonalità in cui prendono forma i giochi linguistici fra i colori dei gruppi strumentali.

L’incresparsi della voce su Nacht infatti dipende strettamente dal modo in cui si orienta l’attacco vocale, ma anche dalla morbidezza della curva melodia, dal fatto cioè che essa compia un piccolo salto indietro, rispetto alla linea discendente su cui è orientata la melodia. L’indicazione pianissimo che viene imposta alla voce nella salita asseconda una tendenza interna all’articolazione dello spazio musicale: nel salire verso l’alto, il suono perde spessore, si assottiglia [58], mentre nella discesa del flusso sonoro, percepiamo una sorta di appesantimento del suono. Sono aspetti fenomenologici che diventano ora caratteri espressivi di una figurazione:nel flusso ascendente vi è un richiamo alla corposità del sonoro, al suo assottigliamento o al suo spessore, legato al conflitto fra regione grave e regione acuta, in cui si muove il medesimo flusso. Spazio e materia, attraverso la forma intonativa, disegnano il carattere intonativo della voce.

In un contesto dove la timbrica adottata rimanda all’opaco, dove la forma polifonica agisce ossessivamente, rimandando all’immagine del sacro, della passione, quel balzo verso l’alto, quella controtendenza rafforza l’immagine del ferale, come ferale è lo squillare del campanellino. Ma questo significa semplicemente che l’immaginazione musicale, e l’emozione che si produce, ha un disperato bisogno di contestualizzare il senso che sostiene un portato espressivo, e che all’interno del brano le scelte d’orchestrazione, la natura timbrica di cui i suoni si fanno portatori, fungano da indici espressivi.

Il richiamo al corporeo è così interno alla stessa nozione di senso, tale relazione sostiene, fin dall’inizio, ogni interpretazione del dato musicale: in questo senso, ogni suono nasce con un riferimento interno alla concretezza, attraverso cui prende forma, una concretezza che non è legata soltanto all’identificazione del corpo che lo produce, ai formanti dell’onda acustica, ma alla voce, al richiamo corporeo, che emerge nella sua emissione, e così, in senso lato, al modo in cui il suono si diffonde occupando una spazialità. Nella componente sensibile, prende forma l’idea, forte, di spazialità. Il corpo sonoro, ora, può brillare tra le lacrime.

 


Note

[1] A. Schaeffner, Origine degli strumenti musicali, introduzione di Diego Carpitella, Sellerio, Palermo, 1999, p.33- 34.

[2] L'esempio è tratto dal primo volume della splendida antologia Les voix du monde. Una anthologie des expressions vocales, curata da Hugo Zemp: LE CHANT DU MONDE CMX 374 1010 12.

[3] Cfr. Musica Corpo Espressione: pp. 31 - pp. 39

[4] Cfr. l'esempio è tratto dalla raccolta di incisioni curate da Steven Feld Bosavi Rainforest Music from Papua New Guinea, a 3-Cd Anthology, SFW CD 40487, Smithsonian Folkways Recordings, 2001, Cd II, Traccia 5.

[5] Per questa sezione, cfr. Musica Corpo Espressione, pp. 38 - pp. 48.

[6] Alla dialettica che lega il luogo al tempo, e la risonanza alla dimensione del sentimento, è dedicata l'ultima sezione dell'appagante testo di Silvia Vizzardelli ,Filosofia della musica, Editori Laterza, Bari, pp. 152 - 176: si tratta di una posizione del problema relativo al rapporto fra musica, spazio ed affettività, che ha spunti di notevole ricchezza teorica. Sul tema delle atmosfere, vedi anche Tonino Griffero, Buona la prima. Per un'estetica atmosferica della prima impressione: http://www.lettere.unimi.it/~sf/dodeca/griffero/copertina.htm. A queste posizioni, andrebbero aggiunte le discussioni che agitano il lavoro di ricostruzione dello spazio sonoro, effettuato da Steven Feld, in lavori straordinari come le due raccolte di Soundscapes denominate The Time of Bells I. Soundscapes from Italy, Finland, Greece and France, EarthEar/VoxLox, B000CAME8E e The Time of Bells II, Soundscapes from Finland, Norway, Italy and Greece, EarthEar/VoxLox, B000BZ58NI, che hanno preparato il terreno ad ulteriori ricerche svolte in Ghana e in Giappone: in Italia, vorrei citare Giovanni Giuriati, Sergio Bonanzinga, Antonello Ricci e Nicola Scaldaferri, che hanno recepito con ricchezza lo sviluppo di queste discussioni, probabilmente l'elenco potrebbe essere molto più lungo, dato che il campo di ricerche etnomusicologiche si sviluppa in modo assai più articolato di quanto non possa spiegare l'elusività di una breve nota a piè di pagina.

[7] Su questi temi, rinvio direttamente alla voce "Materia", in Giovanni Piana, Filosofia della Musica, Guerini e Associati, Milano, 1991, che oggi è scaricabile gratuitamente dall'Archivio dei testi di Piana, reperibile su: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/ ~piana/filosofia_della_musica/fdm_idx.htm.Rimandiamo così anche alla lettura del bellissimo saggio intitolato Il cromatismo: non esiste edizione cartacea del testo, ma anch'esso è stato pensato in edizione informatica, ed è scaricabile con esempi musicali, all'indirizzo, http://filosofia.dipafilo.unimi.it/-~piana/cromatismo/cromatismoidx.htm Sul concetto di ornamentazione, vedi anche il ricco saggio di Sergio Lanza, Il concetto di ornamento in musica. Tensioni ed estensioni, pubblicato nel settimo numero dell'Annuario on line De Musica: http://users.unimi.it/~gpiana/dm7/lanza/lanza0.htm.

[8] Per questa sezione, cfr. Musica Corpo Espressione, pp. 48 - pp. 60.

[9] Il testo della trasmissione radiofonica di Artaud è stato tradotto in italiano, e curato, da Marco Dotti : Antonin Artaud, Per farla finita con il giudizio di dio, Stampa Alternativa Nuovi Equilibri, Viterbo 2000. L'edizione è completata dalla riproduzione fonografica, purtroppo incompleta, perché priva di un'interpolazione percussiva, della trasmissione, censurata dal governo francese.

[10] Patrizia Laspia, Omero linguista. Voce e voce articolata nell'enciclopedia omerica, Edizioni Novecento, Palermo, 1996, pp.54 e sgg.

[11] Il,Q, 394 - 401.

[12] P. Laspia, op. cit., p. 55.

[13] Steven Feld, Sound and Sentiment. Birds, Weeping, poetics and song in Kaluli Expression, University of Pennsylvania Press, University of Pennsylvania, 1982, p. 45, e, da maggio 2008, sarà reperibile un'edizione, con Cd e supporti multimediali, ed apparati curati dallo stesso Feld: Steven Feld, Suono e sentimento, a cura di Carlo Serra, tr. it. di Melinda Mele, Il Saggiatore, Milano, 2008.

[14] Musica Corpo Espressione, pp. 63 - 95: non tento neppure di riassumere la discussione su questo problema, rinviando direttamente al libro.

[15] Ibidem. Per le trascrizioni delle parole Kaluli abbiamo usato l'alfabeto latino.

[16] Cfr. Musica Corpo Espressione, pp. 78 - pp. 80.

[17] Traggo le informazioni dal CD Rainforest Soundwalks (Earth/Ear, 2001), che contiene la registrazione di alcuni paesaggi sonori della Nuova Guinea. Si tratta di straordinarie fotografie sonore dell'ambiente in cui vivono i Kaluli, che ricostruiscono in modo eloquente i materiali messi in gioco nelle sintesi immaginative determinate da quel contesto sonoro.

[18] Steven Feld, Sound and Sentiment. Birds, Weeping, poetics and song in Kaluli Expression, University of Pennsylvania Press, University of Pennsylvania, 1982,, p.77 - 85.

[19] Per questa sezione, vedi Musica Corpo Espressione, pp. 84 - pp.87.

[20] Cfr. Feld, Sound and Sentiment cit., p.180.

[21] A. Schaeffner, Origine degli strumenti musicali cit, introduzione di Diego Carpitella, Sellerio, Palermo, 1999, p. 40.

[22] Ibidem, p. 46.

[23] Per l'esempio Maori e per quello filippino mi sono valso della bellissima antologia MAN'S EARLY MUSICAL INSTRUMENTS, curata da Curt Sachs e pubblicata da Folkways Records, nella serie FE 4525, nel 1956. Il libretto è scaricabile presso il sito già citato in precedenza. L'esempio dell'angklung, dell'arco musicale e del nari arriva invece da INSTRUMENTS DE MUSIQUE DU MONDE, LE CHANT DU MONDE, LDX 274675, curata da Hugo Zemp e pubblicata nel 1990.

[24] Per tutta questa sezione, vedi i paragrafi "Vuoto che suona" e "La dialettica luogo - rumore nel corpo che danza" in Musica Corpo Espressione, pp. 104 - pp. 113.

[25] Cfr. il testo d'accompagnamento del CD Unesco Central African Repubblic, Aka Pigmy Music, Musics and Musicians of the World, 1971, ora reperibile nel CD AKA PYGMY MUSIC. UNESCO/AUDIVIS D 8054

[26] A.Schaeffner, Op. cit., p.38.

[27] Ibidem, p.49

[28] Gli scritti di Edgar Varèse sono reperibili in italiano ne Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Ricordi- Unicopli, Milano, 1985.

[29] Ibidem, p.76.

[30] Ibidem, p.136.

[31] Ibidem, p.102.

[32] Nel discorso di Varèse, la nozione di totalità melodica è, anzitutto, polifonia, crescente indipendenza delle linee musicali, che non disegnano solo disegni vocali, ma strutture sonore in dialogo tra loro, ben localizzate timbricamente, e così capaci di parlare degli strati costitutivi dell'evento ritmico, come origine del suono. Il fiume, ancora, scorre come il tempo, ma le sue correnti raccontano le forme di scansione che ne articolano il movimento.

[33] Ibidem: Varèse ne conclude che queste forme musicali segnano l'inizio di un nuovo primitivismo, non in linea con le ricerche effettuate dal Surrealismo, in grado di scoprire di nuovo il valore magico dell'esperienza musicale.

[34] Cfr. Musica Corpo Espressione, pp. 118 - 137.

[35] Die Formen des Raümlichen apparve prima in "Der Nervenartzt", 1030, 3, pp. 633 - 656 e poi nell'opera di Straus "Psycologie der menschlichen Welt. Gesammelte Schriften", Julius Springer, Berlin, u. a., 1960, pp.141 - 178. Il testo è oggi reperibile nella traduzione italiana di Paola Quadrelli sotto il titolo di Le forme della spazialità all'interno della raccolta di testi curata e finemente prefatta da Andrea Pinotti: Erwin Straus, Henry Maldiney "L'estetico e l'estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia", Mimesis, Milano, 2005, pp. 35 - 68.

[36] Per questa sezione, cfr. Musica Corpo Espressione, pp. 139 - 146.

[37] Sul problema, vedi Alessandra Capanna, Le Corbusier. Padiglione Philips, Bruxelles, Universale di Architettura 67, Testo & Immagine, Torino, 2000.

[38] Émile Benveniste, La notion du "rythme" dans son expression linguistique, Journal de Psychologie, 1951, oggi in Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966, tr. it. Problemi di linguistica generale, (trad. italiana di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, 1971, p.396.

[39] Cfr. Amedeo Petrilli, Acustica e architettura. Spazio, suono, armonia in Le Corbusier, Marsilio Editori, Venezia, 2001, pp. 82-83. Sul tema, vedi Charles Edouard Le Corbusier, Le Poème Électronique Le Corbusier, Editions de Minuit, Paris, 1958.

[40] Tali aspetti sono ben indicati nell'indispensabile libro di Marc Treib, Space calculated in seconds, Princeton University Press, Princeton, 1996 e, naturalmente, in Iannis Xenakis, Musica Architettura, Spirali, Milano, 2003. Vedi anche il saggio di Alessandra Capanna, Iannis Xenakis Architetto della luce e dei suoni: il saggio apre anche su una lista di link decisamente esaustiva, ed è scaricabile presso:http://www.emis.de/journals/NNJ/Capanna-it.htm.. Sul tema segnalo anche il notevole saggio di Thomas Campaner Iannis Xenakis: strutturalismo e poetica della sonorità oggettiva, reperibile su internet all'interno del nono numero dell'Annuario on - line De Musica (2005): http://users.unimi.it/-~gpiana/-dm9/-campaner/xen.htm.

[41] Edgar Varèse, Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Ricordi- Unicopli, Milano, 1985, p.143: si tratta di una lettera ad Odile Vivier, del 1954.

[42] Per tutta questa sezione, che riassumo rapidamente, vedi Musica Corpo Espressione, pp. 145 - 162.

[43] Tali aspetti percorrono continuamente le tematiche fenomenologiche in Esperienza e giudizio di Edmund Husserl, dove si costruisce un continuo passaggio dalla dimensione passiva della percezione alla dimensione logica del giudizio. Su quel testo, così prezioso per ogni interpretazione fenomenologica, rimando alla sezione dal titolo "Il Pensiero" nel testo di Giovanni Piana Elementi di una dottrina dell'esperienza, Milano, Il Saggiatore, 1979, pp. 174 - 230, oggi reperibile presso il sito Spazio Filosofico: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/-~piana/elementi/e_idx.htm. Su Esperienza e giudizio, sconsigliabile nella traduzione italiana, rimando allo studio analitico di Paolo Spinicci I pensieri dell'esperienza. Interpretazione di esperienza e giudizio di Edmund Husserl, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1985, in particolare pp. 82 - 89.

[44] Jonathan W. Bernard, The Music of Edgard Varèse, New Haven Yale University Press, 1987 pp. 154 - 156.

[45] Martha Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001. (tr. it. di Rosaria Scognamiglio, Martha Nussbaum L'intelligenza delle emozioni, Società editrice Il Mulino, Bologna, 2004). La ricostruzione puntuale della discussione delle tesi di Martha Nussbaum,che occupa l'ultima sezione del libro, esce dagli intenti di questa pagina, e così rimando direttamente a Musica Corpo Espressione, pp. 162 - 195.

[46] Il ciclo Kindertotenlieder ha una complessa vicenda creativa, che va almeno accennata. I versi furono composti dal poeta romantico Friederich Rückert fra il 1833 ed il 1834, a seguito della perdita dei due figli, Luise ed Ernst, che perirono, all'età di tre e cinque anni, per un'epidemia di scarlattina, e non furono pubblicati vivente l'autore, a causa del loro carattere estremamente privato. Nel 1872 passarono in pubblicazione, e da una delle edizioni che ne derivarono, non sappiamo quale, Mahler selezionò i cinque Lieder che mise in musica tra il 1901 ed il 1904. Nel 1907 Mahler perse la figlia Anna Maria, sempre per una febbre originata dalla scarlattina, ma i rapporti del compositore con l'orrore della morte infantile erano iniziati molto prima, a quattordici anni, con la perdita dell'adorato fratello Ernst, scomparso per malattia cardiaca a dodici anni, e, già negli anni precedenti, egli aveva perso altri fratelli. Entriamo così in un'opera particolarmente densa, fitta di riferimenti incrociati alla biografia di un artista inquieto, che anche su questi dolorosi argomenti ha visto costituirsi una bibliografia sconfinata, che inizia con lo studio di Theodor Reik, The Haunting Melody. Psychoanalitical Experiences in Life and Music, Grove Pres, New York, 1953: citiamo solo l'agile testo di Peter Russell Light in Battle with Darkness. Mahler's Kindertotenlieder, Peter Lang, Berne, 1991 ed il fondamentale saggio di Donald Mitchell, Gustav Mahler, Songs and Symphonies of Life and Death, Faber and Faber, 1985

[47] Sulla liederistica mahleriana, rimando a Mary E. Dargie, Music and Poetry in the Songs of Gustav Mahler, Lang, Berne, 1981. A quel bellissimo testo, rimandiamo chi voglia apprezzare un'analisi mahleriana di rara perspicacia.

[48] Elisabeth Dargie, Op. cit., p.472.

[49] Gustav Mahler, Kindertotenlieder, Kirsten Flagstadt, Wiener Philharmoniker, Sir Adrian Boult, DECCA Legends 19/05/1957, 028946848623.

[50] Come se nessuna sciagura fosse accaduta nella notte.

[51] Peter Russell, Op. cit., p.70: Russell nota anche, con Mitchell, che questa cadenza occorre anche nella Marcia Funebre della Quinta Sinfonia.

[52] Donald Mitchell, Gustav Mahler Songs and Symphonies of Life and Death, The Boydell Press, Woodbridge, 2002, p.78.

[53] P. Russell, Op. Cit., p. 71.

[54] Gustav Mahler, Kindertotenlieder, Christa Ludwig, Berliner Philharmoniker, Herbert von Karajan, 8 -9/05/1974, Deutsche Grammophon, 1996, B000001GY6.

[55] Donald Mitchell, Op. Cit., pp.106 - 108.

[56] Sulla fenomenologia dell'intervallo, rimando al saggio di Giovanni Piana, L'intervallo, che comprende una ricostruzione della nozione teorica di intervallo, ed una sezione dedicata al tema del riconoscimento intervallare: il testo esiste solo in formato digitale, con esempi musicali, ed è scaricabile all'indirizzo: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/intervallo/intervallo_idx.htm

[57] Traggo queste indicazioni da una serie di lezioni che Giovanni Piana ha dedicato al tema del colore, e della sua diffusione, nel Corso "Problemi di fenomenologia dell'esperienza ", Anno Accademico 1978 - 1979.

[58] Per queste osservazioni, vedila sezione dedicata all'analisi dello spazio in Filosofia della Musica.

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