Massimo Distilo

Per uno studio delle origini della canzone napoletana: un’ipotesi metodologica


Gugliemo Cottrau, da uno schizzo di Bouchot.

 


Premessa

Per la moderna concezione occidentale un’opera musicale è il risultato della capacità di combinare e coordinare in modo vario, nel tempo e nello spazio, dei suoni prodotti da voci o da strumenti, ordinandoli secondo schemi che prendono in considerazione la loro altezza, la loro durata e la loro intensità.

Secondo Dahlhaus la durata limitata e ripetibile di un’opera musicale è immaginabile da un lato come una pista o un tracciato, dall’altro come un processo dinamico. Egli, facendo l’esempio di un brano che inizia con un’anacrusi di quarta, dice: “Che la nota Do nella posizione metrica di un inizio in levare (anacrusi) sembra condurre quasi obbligatoriamente alla nota Fa come baricentro e battere, che  dunque nella musica, come disse Ernst Kurth, sia attiva una energia o dinamica che avanza di nota in nota, appartiene ai fatti elementari che la musica utilizza per costituirsi come processo”.1

Ascoltando un brano musicale viviamo in realtà in ogni istante un momento dell’evento complessivo.

Non abbiamo un quadro totale della situazione, come può accadere invece osservando un’opera pittorica, in cui tutti i rapporti fra le varie figure sono contemporaneamente disponibili davanti a noi per essere mirati. Sono stati avanzati non di rado in passato dei parallelismi fra opere figurative e musicali. Famoso è rimasto l’esempio di Leonardo da Vinci che affermava che la musica, rispetto alla pittura, è costretta a mostrare il suo disegno pezzo a pezzo.2 Questa concezione sottintenderebbe che l’integrità del disegno, nel caso della musica, sarebbe raggiunta solo quando il brano è giunto al termine, è cessato di esserci. La temporalità sarebbe così solo una circostanza accessoria e non un aspetto connaturato all’evento musicale.3

Nel suo saggio sul cromatismo, Giovanni Piana sottolinea: “Nella musica l’importanza che riceve l’elemento temporale, il fatto che si abbia sempre comunque a che fare con il succedersi di suoni, stabilisce un vincolo inscindibile con la forma del processo”.4

Di questo aspetto temporale, una qualsiasi considerazione sulla musica, proprio per la natura di ciò che è oggetto di osservazione, non può fare assolutamente a meno. La temporalità si presenta come una caratteristica distintiva del fatto musicale, perché connaturata al modo d’essere del suono. Da essa sembrano dipendere non solo i modi e le forme di aggregazione dei suoni, ma anche il tipo di rapporto che noi intratteniamo con essi:5 il suono stesso sembra contenere in sé stesso il bisogno del tempo. Si è tentati di dire, afferma Piana, che lo stesso esserci del suono sia fatto di tempo.6

Uno spartito musicale in realtà è una rappresentazione sincronica di eventi diacronici.7 Noi guardiamo, ad esempio, un intervallo melodico sul pentagramma, ma spesso finiamo per dimenticare che le due note della melodia sono due eventi che si succedono nel tempo e non accadono simultaneamente. Così il rapporto intervallare, in questo caso, non può essere considerato a prescindere dalla componente ritmica che ne rappresenta un aspetto costitutivo.

Alla tematica temporale è perciò strettamente connesso il ritmo il cui principio può essere interpretato in rapporto all’idea di una totalità che si va facendo nel decorso temporale e alla cui base costitutiva è presente la differenza fra il battere ed il levare, movimento pulsante che avanza in un coerente alternarsi di momenti di slancio e di riposo.8 Questi due momenti possono essere illustrati riferendoci all’atto percussivo. Nella tensione e nel dinamismo presenti nel gesto percussivo si possono cogliere la stessa tensione e dinamismo connesse al rapporto fra suono e silenzio.9

Fin qui le considerazioni basate essenzialmente su punti di vista propri di alcuni filosofi della musica.

Interessanti spunti, che hanno sorprendenti connessioni con le tematiche in trattazione, possono giungere però anche dal pensiero dei compositori. John Cage affermava: “Quando mi accorsi che il tempo rappresentava la base rigorosa della musica, dal momento che include sia i suoni che il silenzio, mi accorsi anche che l’altezza, l’armonia, il contrappunto e tutte le cose che erano alla base della musica europea lo erano impropriamente”10.

Quella di Cage è una posizione piuttosto estrema. Essa manifesta però, come notato da Michel Eldred in uno studio sul compositore americano, la profonda comprensione da parte di Cage della nozione che la musica accade nel tempo e che il tempo stesso ne costituisce l’elemento più fondamentale. Il silenzio è lo spazio-tempo nel quale le cose accadono, suoni compresi. Il loro accadimento viene verso di noi dal futuro.11

Cos’è una canzone? Ecco una definizione: “Composizione di struttura strofica, che per lo più è intonata dal canto, ma può essere anche esclusivamente strumentale”12. Eccone un’altra: “Breve componimento lirico destinato a essere anche cantato con accompagnamento musicale”.13

Già queste due definizioni si trovano d’accordo sul fatto che la destinazione principale della canzone sia quella di essere cantata. D’altronde la radice del termine “canzone” è uguale a quella di “canto”.

Entrambe le definizioni danno anche per scontato che debba esistere un testo poetico sulle parole del quale intonare la melodia, anche se, a dire il vero, la prima definizione non esclude la possibilità di un’esecuzione solo strumentale.

Sembra così esserci accordo sul fatto che una canzone sia una forma di espressione musicale inquadrabile nel contesto della concezione occidentale moderna dell’opera musicale. In quanto tale, essa può essere vista come una successione di eventi che accadono nel tempo. Limitandoci a considerare per esempio la melodia, essa consiste di fatto in un percorso predeterminato che una voce copre in un intervallo di tempo. Le componenti che vi si contemperano sono molteplici: il tipo di vocalità, l’andamento ritmico, le variazioni dinamiche, il testo, l’andamento delle altezze.

In una melodia, ciò che noi ascoltiamo è un impasto di fugaci componenti vocali, ritmiche, timbriche e intervallari che si concretizzano in un dato istante e che mutano continuamente nel tempo.

Pur senza giungere a giudizi estremi, si deve perciò mettere in conto che la temporalità, intrisa di componenti ritmiche ed espressive, queste ultime legate in particolare, nel caso di repertori vocali, alla scansione del testo poetico, non possono essere in nessun caso trascurate.

Facendo pendere l’ago della bilancia troppo dalla parte delle altezze e dei loro reciproci rapporti deriverebbe una distorsione della comprensione del fatto musicale; sarebbe questo un tipo di approccio che alla fine potrebbe risultare insufficiente.

C’è da dire che le prime partiture di canzoni napoletane (per voce e pianoforte), edite dalla Casa Musicale Girard nella prima metà dell’Ottocento, inserite come sono in una tradizione architettonica dello spartito di impianto squisitamente armonico-tonale, non contribuiscono a favorire un allargamento delle prospettive. Essendo però questi i materiali di base su cui condurre uno studio degli inizi della canzone napoletana, non si può in ogni caso prescindere da loro, pur prestando attenzione a non rimanere invischiati nella rete delle sole altezze e trascurando così aspetti altrettanto importanti.

1. Considerazioni generali sulle forme del repertorio

Prendiamo in esame le dodici canzoncine napoletane per canto e pianoforte pubblicate nella prima raccolta dei Passatempi Musicali, apparsa nel 1824 per le edizioni Girard, ad opera di Guglielmo Cottrau. Notiamo subito che un elemento che contribuisce ad unificare questo piccolo iniziale repertorio è costituito, oltre che dalla particolarità della lingua del testo, il vernacolo napoletano, dall’indicazione temporale: tutte e dodici le canzoni hanno una suddivisione in ottavi ad andamento ternario. Il tempo che compare per ben undici volte su dodici è il 6/8. Una sola volta abbiamo invece il 12/8, che è però un’estensione dello stesso 6/8.

Uno studio di ciò che accade a livello melodico in questo repertorio non può prescindere da un dato così eclatante che ne determina, in modo evidente, l’andamento. Si tratta di brani nel corso dei quali non ci sono mai dei cambiamenti dal punto di vista della divisione metrica e dunque la costanza di questo impianto si fa valere di continuo senza momenti di attenuazione. L’ossessività di questa scelta metrica ci induce a chiederci i motivi che potrebbero averla determinata. Il ritmo ternario potrebbe forse far pensare ad un tentativo di allontanarsi da un piano ritmico troppo squadrato i cui confini non sarebbero stati sufficienti a contenere le spinte verso il superamento di alcuni limiti dello spazio musicale, spinte che sembrano connaturate a questo genere di canzone. 14

Altra caratteristica che si evidenzia in questo piccolo repertorio è la presenza di un numero significativo di abbellimenti vocali. La nota principale della melodia viene spesso raggiunta dal basso attraverso una rapida ascensione, o dall’alto tramite una piccola discesa, passando per una o due note ad essa molto vicine. In partitura si nota lo sforzo di riportare (non riuscendo sempre ad afferrare il reale andamento) l’excursus vocale fra piccoli intervalli che questo tipo di esecuzione con caratteristiche di glissando comporta.

Un altro fenomeno che si presenta in forma costante nelle dodici canzoncine sono gli eventi a carattere cromatico che ne infarciscono il tessuto melodico. Una cosa che verrebbe da chiedersi è se considerare tali eventi come di carattere strutturale all’interno del brano, o se intenderli invece alla stregua di episodi a valenza decorativa la cui presenza non ha reale pregnanza ai fini dell’andamento musicale delle melodie stesse.

Come riscontreremo nelle parti in cui prenderemo in considerazione alcuni episodi concreti tratti dal repertorio in esame, non esiste una risposta univoca. Questi episodi cromatici devono essere interpretati di volta in volta e dietro di essi possono essere riscontrate intenzionalità espressive di diversa origine: dai semplici intenti descrittivi a motivazioni più profonde che potrebbero derivare da esigenze di superamento di determinati confini.

Il repertorio dà l’impressione di voler debordare dai confini che lo spazio musicale mette a sua delimitazione. I frequenti cromatismi e abbellimenti, nei quali traspare anche lo sforzo di riportare sullo spartito modalità esecutive di non facile traducibilità nella grafica connessa al temperamento equabile, sono l’indice di una costante esigenza di fuga dalle strutture dello spazio sonoro dato.

2. Presupposti teorici

Oltre alla necessità di esaminare, come detto, dei casi specifici per farci un’idea di ciò che accade in concreto, è necessario cercare di individuare dei presupposti teorici cui fare riferimento ai fini dell’impostazione di un discorso che abbia una sua consequenzialità. A questo scopo può essere di supporto l’opera del musicologo francese Jacques Chailley che si è occupato di problemi connessi alla funzione strutturale degli intervalli nelle linee melodiche ed alle modalità di affermazione ed evoluzione dei modelli scalari.

Nel suo Essai sur les structures mélodiques15 Chailley mette in gioco in modo combinato dei principi di carattere fisico con altri legati ad una forma di accettazione psicologica. Si tratta della consonanza fra i suoni, dell’attrazione fra le altezze, della tolleranza, dell’equalizzazione.

Esaminiamo brevemente questi principi. La consonanza fra i suoni risulta essere il principio guida iniziale sulla base del quale è possibile un graduale sviluppo ed un ampliamento dello spazio musicale. Al fondo di tutto ciò ci sarebbe il ciclo delle quinte affiancato ad un’interpretazione di tipo evoluzionistico del fenomeno della risonanza. Dunque l’evoluzione delle relazioni intervallari è il fondamento su cui si sviluppa l’utilizzo dello spazio musicale. Si parte da un singolo suono principale, ad una certa frequenza, intorno al quale, a frequenze incerte e vicine, vengono utilizzati altri suoni secondari. Ci si evolve poi verso uno spazio musicale a due suoni di base, incontrando gradualmente gli intervalli secondo l’ordine degli armonici: dall’ottava alla quinta, alla quarta, alla terza, e così via. In questo percorso la coscienza svolge un ruolo importante per l’assimilazione graduale degli intervalli che si vanno ad affermare. Non appena si presentano, le consonanze appaiono deboli e solamente col tempo e l’abitudine esse finiscono per prendere piede. Un esempio possibile è quello di un terzo suono nuovo (detto pien) che compare in mezzo a due suoni già affermati e che può essere attratto nella direzione di quello più acuto o più grave, il quale esercita così su di esso una sorta di attrazione di tipo quasi gravitazionale. A condizionare il processo di affermazione del nuovo suono entra in gioco la tolleranza, ovvero la capacità dell’utilizzatore (compositore o fruitore che sia) di ammetterlo all’interno di una propria coscienza soggettiva dello spazio sonoro. Altra componente ad influire è l’equalizzazione, ossia una tendenza a correggere l’intonazione naturale per adattarla ai sistemi musicali di origine matematica che si succedono storicamente nel tempo.

Carlo Serra, in uno studio che prende in considerazione le ipotesi di Chailley, sottolinea inoltre che secondo l’opinione del musicologo parigino l’attrazione melodica si fa sentire in modo più forte quanto più ci si allontana dal sistema temperato che è basato su semitoni tutti uguali tra di loro. La suddivisione irregolare conterrebbe dunque un elemento di maggior dinamicità.16

Tutto questo conglomerato di azioni che si sovrappongono e si condizionano vicendevolmente in relazione ai suoni, riorganizza gli assetti scalari all’interno dello spazio sonoro e influisce in modo determinante sull’evoluzione del linguaggio musicale.

L’idea di Chailley che sembra trapelare dallo scritto è quella di un ruolo sostanzialmente passivo della coscienza musicale, ruolo che sarebbe quello di una semplice ratifica, tramite accettazione tollerata, di fenomeni che hanno alla base delle regole generate altrove. Il vero motore dell’evoluzione musicale sembra dunque essere semplicemente un principio che ha connotati di carattere fisico, pur combinati con altri di natura psicologica. Si potrebbe parlare quasi di destino dello spazio musicale.

Sembra opportuno soffermarci sulla nozione di tolleranza, che appare strettamente connessa a quella di abitudine. Da queste due variabili dipende in gran parte il destino dello spazio sonoro, la sua dilatazione o la sua contrazione. Per Chailley la tolleranza è la capacità di assimilazione soggettiva di suoni approssimabili a suoni rigorosamente esatti. Essa subisce anche l’influenza di altri fattori, da lui definiti esterni, connessi al modo di presentarsi dei suoni stessi. Alcuni di questi fattori sono: il timbro, l’altezza, l’intensità. Un suono, ad esempio, può essere più o meno tollerato, a parità di altezza, se si presenta con un timbro piuttosto che con un altro, o magari più intenso anziché flebile; oppure, a parità di timbro, se si presenta ad una certa altezza piuttosto che ad un’altra.17

Più avanti l’autore sembra voler spiegare, sia pur fugacemente, cosa in realtà accada. Parlando della ricomparsa nella melodia, sul finire del XIX secolo, delle strutture determinate dal ciclo delle quinte, afferma che “successivamente la loro naturalità le impone al subcosciente e si fanno sempre più numerose”. Il processo, avendo scaturigine nei territori dell’inconscio, dà quindi l’impressione di essere involontario e sul suo sviluppo non sembra poter esserci alcun intervento di carattere intenzionale.

In tutte queste trasformazioni, come spiega Carlo Serra,18 l’autore si appella anche al concetto di abitudine. Ogni consonanza si installerebbe nella grammatica del linguaggio musicale grazie al consolidarsi di abitudini di ascolto. Alle consonanze, come alle dissonanze, ci si abitua.19 Una attitudine soggettiva, rinforzata dall’evoluzione, è in grado di assimilare forme di spazialità sempre più evoluta. Però, ci mette in guardia Serra, come questo realmente accada rimane in sospeso. Una via, però, egli stesso sembra intravederla nella definizione di “scala come precipitato culturale” in cui si condensano i risultati di scelte espressive, con cui una pratica musicale ha selezionato intervalli, determinandone l’ampiezza.

Tutto sta, aggiungeremmo noi, nello stabilire se queste scelte espressive che, in quanto tali, andrebbero forse catalogate fra gli atti liberi della volontà, siano il motore o, al contrario, la conseguenza di un processo che in parte sembra risiedere, secondo Chailley, in territori inconsci.

Nel paragrafo dedicato al cromatismo, Chailley fa un’affermazione piuttosto perentoria: “E’ solo per l’aspetto materiale della tastiera e per il compromesso del temperamento che l’ottava si divide in dodici semitoni. Nella realtà musicale, l’ottava si divide in sette gradi diatonici. All’interno dei toni di questi ultimi vengono combinati dei semitoni di sostegno, necessari allo spostamento dei gradi, ai cromatismi del glissando o delle trasposizioni. Tali semitoni, ridotti al temperamento per approssimazione dopo il XVIII secolo, non hanno alcuna realtà strutturale e rimpiazzavano per tolleranza gli intervalli corrispondenti delle scale reali, tutti irrazionali, come il limma delle quinte (letteralmente “residuo”, che significa resto irrazionale tra la terza minore ed il tono) o il suo equivalente zarliniano. Contrariamente al postulato “atonale” e coerentemente al loro nome, essi non giocano alcun ruolo unitario”.20

Per Chailley gli eventi cromatici, nei quali sono implicati i semitoni, sembrano avere delle caratteristiche controverse: se da un lato i semitoni non avrebbero valenza strutturale all’interno del processo melodico, ma devono essere considerati come gradi dal carattere transitorio che finiscono per essere catturati dal campo gravitazionale delle note di base della melodia, dall’altro proprio questa loro funzione di delimitazione spaziale di un qualcos’altro a cui tendono, ne esalta l’elemento dinamico che sembra essere a loro connaturato. All’interno dello spazio musicale i semitoni finiscono per risultare l’elemento determinante per la modifica dello spazio stesso contenendo in sé le potenzialità per la deformazione di un modello di cui le note strutturali esaltano invece il carattere di staticità.

Questo allontanarsi dal modello contiene però al suo interno sullo sfondo anche la riaffermazione del modello stesso. Come sottolinea Carlo Serra: “Il termine deformazione è piuttosto sconcertante: vi è una deformazione dove vi è un originale ed un modello, cui si venga implacabilmente ricondotti. […] Dovremmo immediatamente chiederci cosa possa implicare un riferimento all’idea di diventar altro da sé, dato che rimaniamo sempre in presenza di una forma che, per quanto possa essere variata, modificata in alcuni tratti, deve comunque trasformarsi in modo tale da non far perdere il riferimento a quell’originale, rispetto a cui l’oggetto deformato rischia comunque di apparire come un depotenziamento, una perdita, una caratterizzazione disarmonica di alcuni tratti, a danno di altri.”21

Il modello dunque dovrebbe la sua individuazione, che è sempre posteriore agli eventi della pratica musicale concreta, all’azione combinata di: elementi che si presentano in modo costante e ne indicano le parti basilari della struttura; elementi che nei pressi dei punti di riferimento di questa struttura di fondo gravitano e che, sia pur ad essi tendendo, ne rappresentano nei fatti una deviazione che, in quanto tale, costituisce una forma di riaffermazione della struttura medesima.

Nel nostro repertorio napoletano ci troviamo di fronte ad un altro problema, cui bisogna provare a dare una risposta ancor prima di gettare le fondamenta di un procedimento che consenta un approccio allo studio sistematico degli andamenti melodici. Le melodie stesse infatti, nella gran parte dei casi, non nascono sulla tastiera equalizzata del pianoforte, la quale fa riferimento ad altezze discrete predeterminate; o, anche se di fatto in alcune occasioni esse sgorgano proprio fra i tasti, in realtà sullo strumento, ed anche in partitura, si verifica una sorta di processo di accomodamento al clima che il temperamento equabile e le procedure grafiche impongono. Si può ipotizzare anche che la musica europea sia predominata da suoni chiaramente individuabili, concepiti come qualcosa di nettamente fissato. I suoni realmente usati in questo contesto culturale si incontrerebbero, nel “continuum” dello spazio sonoro, solo in certi punti, quasi come accade nelle scale della sintonia dei ricevitori radio quando, girando la manopola, solo dopo un certo intervallo incontriamo una stazione. A questo presupposto corrisponderebbe nella musica eurocolta, come sottolineato da Giovanni Piana, un orientamento intellettuale in prevalenza indirizzato più verso la chiarezza e la distinzione che verso “gli oscuri tremori del sentimento”.22 Ci si allontanerebbe così di fatto dallo spirito che dovrebbe permeare l’evento musicale.

Ciò che noi troviamo riportato nel testo musicale è solo un qualcosa che tenta di avvicinarsi il più possibile all’andamento melodico reale o pensato dell’evento; e di questi sforzi in vari punti delle partiture del repertorio in oggetto, ovvero la canzone napoletana delle origini, troviamo traccia.

Dunque, durante l’analisi degli andamenti melodici, dobbiamo tener presente che ciò che è trascritto è un dato che si approssima alla realtà ma non riesce ad afferrarla del tutto. Si tratta di un problema che, pur essendo comune ad altri repertori vocali, in questo caso è particolarmente pregnante in quanto i brani sono sovente costellati di episodi cromatici.

Il saggio di Chailley non chiarisce molto in merito a cosa soggiaccia al nesso fra le relazioni intervallari che si affermano connotando le strutture dello spazio musicale e le esigenze specifiche di carattere espressivo che originano nella soggettività della coscienza musicale.

Qualche considerazione può essere tratta tenendo presente quale ruolo egli assegna agli abbellimenti che, a suo avviso, sono scomparsi dalla pratica del cantus planus, pur avendo con ogni probabilità giocato un ruolo di rilievo nell’esecuzione primitiva e pur giocandola ancora oggi in molte musiche orientali. Il loro ruolo non sarebbe solo ornamentale. Ci sarebbe invece spesso un loro intervento nella struttura stessa del modo con spostamenti di altezza che avrebbero un importante ruolo espressivo o affettivo.

Sul tema degli abbellimenti (o ornamentazioni), pur con sfumature diverse, su una lunghezza d’onda non dissimile sembra muoversi Giovanni Piana che, partendo dalle concrete modalità esecutive dei raga indiani e sulla scorta di un lavoro di McGee sul suono nei canti medievali,23 afferma che “L’ornamentazione come il cromatismo deve essere trattata all’interno di una tematica che ha di mira le categorie generali ed elementari della musica - liberando il termine da inclinazioni di senso verso esteriorità irrilevanti”.24 Una linea netta di separazione fra una visione dell’ornamentazione come aggiunta decorativa e un’altra che la vede invece quale momento centrale di concretizzazione espressiva di una prassi musicale, sembra essere stata tracciata.

L’ornamentazione ed il cromatismo sembrano così avere una radice comune che potrebbe essere individuata in un tentativo di saturazione dell’intervallo melodico.25 Quello che ci interessa sottolineare in questo caso è che sotto tale radice sembra riscontrarsi una esigenza espressiva che potrebbe essere intesa come motore ancora più profondo di queste modificazioni.

Così, mentre la dialettica gravitazionale fra gradi di base e gradi ancora in via di affermazione può descrivere dal punto di vista fisico ciò che avviene nell’evoluzione dello spazio sonoro, la presenza di una esigenza espressiva che guida questi movimenti ci sembra non meno importante, anzi forse più determinante.

3. Un esempio. Episodi cromatici nel repertorio in esame.

Ma entriamo nel campo degli esempi concreti attinenti al nostro repertorio. Consideriamo alcuni episodi cromatici presenti in una delle canzoni della raccolta già citata in precedenza. Si tratta del brano dal titolo “Michelemmà”:

All’inizio della melodia troviamo una figurazione dalla ritmica molto antica. Alternanza di breve e lunga (giambo) su un Do ribattuto che ad un certo punto sale di semitono (Do# ribattuto due volte) e sfocia successivamente in un Re un altro semitono sopra. Considerando l’impianto tonale di Fa maggiore si potrebbe dire che tale melodia parte dal quinto grado della scala e tramite un movimento cromatico sale al sesto da dove poi la frase assume un andamento per salti sempre superiori al semitono.

Quello che vogliamo chiederci qui è il motivo che all’interno di tale melodia determina la presenza del semitono. Il Do# è una nota non essenziale nel modulo scalare in cui la melodia è calata. Niente avrebbe vietato di cantare (al posto di Do Do – Do Do – Do# Do# - Re) una sequenza che evitasse il passaggio dal microintervallo con l’alterazione, ovvero, per fare un esempio: Do Do – Do Do – Re Re – Re.

Se la nota dove alla fine si giunge è il Re, che è a pieno titolo grado essenziale del modulo scalare usato, per quale motivo indugiare sul Do# e negare al Re, come doveroso rispetto richiederebbe, una sua giusta e immediata affermazione? Perché si vuol tentare di andare fuori dal modulo scalare mettendo il Do# addirittura su un tempo forte, ritardando così l’entrata in scena del Re? L’evento cromatico in questo caso cosa vuole esprimere? Da quale esigenza nasce?

Lo spazio sonoro dato, composto dalle note essenziali del modulo scalare, è vissuto in questo caso quasi come una prigione che banalizza l’evento musicale. La presenza di questo episodio cromatico che passa per il Do# (al di là della precisa intonazione di quest’ultimo, equalizzata o meno) è uno strumento essenziale per esprimere un qualcosa che il modulo scalare all’interno del quale ci si muove non sarebbe in grado di contenere. Un’avvisaglia di quanto sarebbe avvenuto all’inizio della melodia è già presente proprio nella prima battuta del brano, quando comincia l’introduzione pianistica. In questa occasione degli intervalli di nona che partono dal Do centrale introducono un episodio cromatico con il Do# che spinge verso il Re, sia pure all’ottava inferiore. Si verifica così una, sia pur momentanea, modificazione dello spazio sonoro. Dallo spazio sonoro dato si esce, si va fuori. Quello che si esprime in questo cromatismo non sembra essere un sentimento specifico che l’evento melodico si preoccuperebbe di riproporre in termini musicali, quasi a guisa di musica a programma.

Sembra esserci un qualcosa d’altro alla radice dell’evento, in relazione con la tensione verso l’uscita da un determinato confine. Il confine che, a livello tecnico, è dato dalla struttura scalare ha un corrispettivo in termini di confine espressivo che sembra correlato con le radici stesse di determinati fenomeni musicali.

L’evento musicale è visto come il superamento di un confine. In determinate culture la musica in sé può essere concepita in questi termini26 e, se i materiali su cui si fonda lo spazio sonoro non sono sufficienti per varcare questo limite, si finisce per deformare lo spazio stesso con l’obiettivo di raggiungere questo traguardo.

La presenza reiterata in questo piccolo repertorio da noi preso in considerazione, di eventi a carattere cromatico sembrerebbe indicare, pur con le dovute precauzioni, che gli strumenti che lo spazio sonoro utilizzato mette a disposizione non sono sempre sufficienti per contenere le spinte connaturate verso il superamento di un confine, superamento su cui il repertorio stesso dà in parte l’impressione di fondarsi.

Della stessa canzone esiste anche una seconda versione, pubblicata da Ricordi, di circa cinquant’anni posteriore rispetto alla prima. Ecco il frammento iniziale della melodia:

In questo inizio melodico, come si può notare, cambia una sola nota dell’evento cromatico rispetto alla precedente versione. Il Do# non è ripetuto due volte, non si afferma più come prima. Possiamo fare due ipotesi.

Una prima ipotesi potrebbe essere che il Do “naturale” croma che lo precede non abbia in realtà la stessa altezza del Do semiminima che si trova ancora prima, ma sia invece un qualcosa che, in termini di altezze, sta in mezzo alle due note che sono ai suoi lati. Dunque si ipotizzerebbe la presenza di un intervallo inferiore al semitono che però nella grafica musicale usata non può essere tradotto. La cosa può essere interpretata nei termini che se cinquant’anni prima avevamo un Do# che si ripete come nota che rompeva gli schemi dello spazio musicale, ora questo Do# non è più necessario riaffermarlo più di tanto; sorge invece un’altra nota intermedia (che graficamente non compare), che non è Do ma qualcosa di leggermente più in alto come frequenza, che non è neanche Do#, ma che verso il Do# tende.

Un’altra ipotesi potrebbe essere esattamente contraria. Sarebbe la prima versione che contenendo due Do#, cioè due note alterate rispetto alla scala usata, indicherebbe la prima di queste due note come intermedia fra Do e Do#, sia pur non essendo possibile rappresentarla graficamente. L’autore avrebbe potuto marcare come Re bemolle la prima delle due note alterate ma, trattandosi di un brano per pianoforte in un contesto di temperamento equabile, questo tipo di indicazione grafica sarebbe stata fuori luogo.

Esaminando altri episodi cromatici di altri brani dello stesso repertorio, che vedremo fra poco, ci sembra più opportuno propendere per questa seconda ipotesi.

Sembra che per raggiungere l’effetto espressivo desiderato il confine cui abbiamo prima accennato deve essere varcato in termini consistenti. E in tal caso l’ipotesi di un’accentuazione cromatica, nel primo o nel secondo dei casi, sia pur non visibile in partitura, non sembra del tutto peregrina. Il gioco d’altronde non è del tutto nuovo, visto che secondo McGee anche il “Sound del canto medievale è caratterizzato soprattutto da sonorità fluide, da ondeggiamenti appena percepibili dell’altezza, da impennate del suono e dai suoi cedimenti - dunque dal gioco tra il suono solido e il suono liquescente”.27

Ma facciamo un altro esempio sempre prelevato dal nostro repertorio. Prendiamo l’inizio del brano “Fenesta vascia”:

Anche qui notiamo subito all’inizio della melodia un episodio cromatico di quattro note. Dal Re si giunge al Fa, dunque un intervallo di terza minore, passando per il Mi bemolle ed il Mi. La via più naturale per arrivare al Fa poteva essere una scala ascendente che ad inizio battuta, dopo il Si bemolle, partisse dal Do e toccasse nell’ordine Re, Mi bemolle e Fa. Oppure, volendo evitare di includere il Do e lasciando così invariato l’intervallo Si bemolle-Re, si poteva seguire il percorso Sib-Re-Mib-Mib- Fa. Quest’ultima soluzione, come si vede, avrebbe previsto un Mib ribattuto. La prima delle nostre due soluzioni prospettate si realizza di fatto in una versione della stessa canzone, edita da Ricordi, cinquant’anni dopo:

Come mai l’evento cromatico presente nella versione di Guglielmo Cottrau degli anni venti dell’Ottocento, viene completamente soppresso in questa edizione curata da Vincenzo De Meglio?

Perché il confine dello spazio musicale che la prima versione del brano dava l’impressione di varcare viene riaffermato in modo del tutto ortodosso in questa nuova edizione a distanza di cinquant’anni?

Difficile trovare una risposta che sia attendibile. Si può pensare ad un lavoro di conduzione del repertorio entro un alveo che fosse al riparo da sorprese. Il repertorio sembra dunque cristallizzarsi ed i gradi deboli, estranei al modulo scalare adottato, quasi come meteore, finiscono per cadere completamente, parafrasando Chailley, nel campo gravitazionale dei gradi strutturali.

Concludiamo con un altro esempio di cromatismo relativo al brano “Zi monacella”:

Gli episodi cromatici in questa occasione sono forse riconducibili nell’ambito di uno spazio musicale che sostanzialmente non viene più di tanto trasgredito. Ci troviamo stavolta nella tonalità di Re minore, quindi il Do# con cui inizia la melodia del pezzo, e che apre il primo episodio cromatico, è compatibile con la relativa scala. Anche il Mi bemolle successivo potrebbe essere inquadrato in una tradizione affermata, quella della scala minore napoletana che si caratterizza per il secondo grado abbassato di un semitono. Vero è che in tutto il resto del brano compare sempre il Mi naturale, tranne che nella ripresa del tema iniziale a battuta n. 12, ma potremmo in generale dire che questo Mib in fondo non ci sorprende più di tanto.

In questa occasione non possiamo forse parlare propriamente di confine varcato o, se esso è stato varcato, lo è stato comunque da un po’ visto che i suoni usati rientrano nell’ambito di strutture da tempo affermate poste a connotazione dello spazio sonoro.

Rientra invece meno in questa categoria l’episodio cromatico di battuta n. 6 dove compare un Sol# ad inizio di una sequenza che sembra riproporre in modo esatto l’episodio precedente, semplicemente trasponendolo all’altezza del quinto grado. Confrontando però le parole del testo cantato, i due episodi cromatici di questo brano potrebbero essere interpretati nei termini di un tentativo di esprimere uno stato d’animo di sofferenza della protagonista della canzone, ossia della “monacella” costretta a rimanere sola. Essi andrebbero visti dunque quasi come episodi descrittivi.

Sarebbe questo un cromatismo di scaturigine assimilabile a quello evidenziato da Giovanni Piana in un esempio tratto dalla Passione secondo Giovanni di J. S. Bach (BWV 245, n. 18, Recitativo).28

Nell’episodio bachiano l’evento cromatico ha la funzione di descrivere musicalmente la frase “E pianse amaramente” (und weinete bitterlich) presente nella narrazione dell’evangelista, ovvero il “pianto di Pietro” che rammenta il proprio tradimento. Il girovagare melodico senza meta che tocca i dodici suoni della scala cromatica ha la funzione di rendere percepibile questo stato d’animo. Questo genere di cromatismo avrebbe dunque funzioni descrittive, quasi pittoriche e non sembra dare luogo a momenti espressivi dai presupposti più profondi.


Conclusioni

Come abbiamo visto dunque dai pochi esempi considerati, gli interrogativi che possono nascere dall’esame di questo sia pur ristretto ed iniziale repertorio della canzone napoletana, sono numerosi e il tentativo di individuare una strategia formale da collocare sullo sfondo di tutta una serie di situazioni musicali diversificate che coinvolgono scelte ritmico-metriche, melodiche, espressive e di altro tipo, può far entrare in gioco diversi presupposti teorici. In tal senso, il contenitore metodologico che ci è sembrato adatto ad inglobare una buona parte degli eventi specifici che si presentano nel repertorio preso in esame, è quello cui fa riferimento Chailley nel suo trattato sulle strutture melodiche nel quale molti eventi, a cominciare ad esempio dai cromatismi, vanno a ricadere in un territorio che ha alla base una visione evolutiva dei modelli scalari.

La prassi musicale concreta è il luogo in cui rapporti tensivi fra diverse componenti dello spazio sonoro trovano terreno fertile per una interazione che innesca una deformazione dello spazio stesso, la quale è alla base di un processo evolutivo delle strutture melodiche. Nello stesso tempo due principi guida di tipo psicologico, la tolleranza e l’abitudine, intervengono, sia pure in modo piuttosto controverso, ad accomodare la direzione verso cui lo spazio musicale sembra essere destinato.

L’aspetto più interessante venuto maggiormente alla luce in queste prime brevi riflessioni sembra essere così quello di una deformazione a fini espressivi degli intervalli vocali. Tali deformazioni, pur interpretate nel contesto teorico che fa riferimento alle teorie di Chailley sull’evoluzione delle strutture melodiche, ricevono luce anche da teorie di altri autori, come Giovanni Piana, che in alcuni momenti sembrano muoversi in territori nei quali l’attenzione è posta più verso la fluidità dello spazio sonoro, connessa a specifiche esigenze di carattere espressivo, che non verso componenti che ne esaltino invece la staticità..

Dagli esempi presi in esame è scaturita poi la necessità di individuare di volta in volta, nei singoli casi, quale connessione esista fra la concreta realizzazione musicale e la specifica esigenza espressiva, profonda o di superficie, che sta alla sua base. Questo tipo di lavoro può alla fine restituire un quadro più chiaro che dia conto di quali spinte propulsive iniziali si sia nutrito un genere musicale andatosi gradualmente ad affermare nel corso di un secolo e mezzo.


Note

1 C. Dahlhaus-H. H. Eggebrecht, Che cos’è la musica, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 134. Ci piace evidenziare questo concetto di base del filosofo tedesco, anche se più avanti, nella stessa opera, egli sottolinea che la quarta non è solo un processo ma anche una struttura alla base del processo stesso. La consonanza Do-Fa, fondata su proporzioni numeriche, sarebbe concepibile a suo avviso, sulla scia della fenomenologia di Husserl, anche come un “oggetto ideale” che, in quanto relazione matematica, è in via di principio sollevata dal vincolo temporale.
2 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, cit. in G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, 1991, p. 147
3 G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, 1991, p. 165.
4 G. Piana, Il cromatismo, http://www.filosofia.unimi.it/piana/cromatismo/cromatismoidx.htm, p. 64
5 Cfr. G. Piana, Filosofia della musica, cit. p. 145. L’autore si chiede anche: “Come potrebbe una riflessione sulla musica, che porta questo rapporto alla massima elaborazione, evitare di porre questo tema al centro dell’attenzione?”. Viene messo in risalto che il richiamo alla tematica temporale sembra orientare l’attenzione verso una soggettività essenzialmente riflessiva, ovvero indirizzata più verso sé stessa che verso il mondo esterno. Ogni vissuto è anzitutto un processo. “I vissuti e le loro relazioni sono momenti interni di un processo unitario che è la soggettività stessa. Sullo sfondo di questo problema, la natura temporale della musica non appare più come un limite, ma come una caratteristica essenziale che fa della musica un’arte della vita interiore”(p. 148).
6 G. Piana, Filosofia della musica, cit. p. 152
7 La distinzione sincronia-diacronia ha in verità origini linguistiche, essendo stata introdotta da Ferdinand de Saussure per differenziare uno stato di lingua come sistema di elementi (sincronia) dalla successione degli stati sincronici di una lingua (diacronia). Nel nostro caso è stato effettuato un adattamento dei due termini agli aspetti rappresentativi di uno spartito musicale, a prescindere dal loro significato originario, anche se interessanti parallelismi potrebbero forse scaturire dal considerare lo spartito come rappresentazione grafica di un linguaggio, quello musicale.
8
G. Piana, Filosofia della musica, cit. p. 171 e seg.
9 G. Piana, Filosofia della musica, cit. p. 182 e seg
10 J. Cage, Lettera a uno sconosciuto, Socrates, Roma 1996, p. 106
11 M. Eldred, Heidegger, Holderlin & John Cage, Semar, Roma, 2000, p. 54.
12 Enciclopedia della Musica, UTET, Torino, 1996.
13 Enciclopedia Treccani
14
E’ stato evidenziato come anche in altri generi musicali esistano conseguenze derivanti dalla tendenza costante alla modifica dello spazio metrico musicale. Massimo Donà (Filosofia della musica, Bompiani, Milano, 2006, pp. 172-73 ) afferma che il jazz ci trasforma in abitanti del tempo a venire, ci rende inattuali, ovvero sempre in anticipo sul tempo, o in ritardo rispetto al già accaduto. Come dire: uomini sincopati, o anche oltre-uomini, come avrebbe detto Nietzsche. Uomini di un oltre sempre di là da venire - e perciò solamente e irrinunciabilmente “sperabile”.
15
J. Chailley, Essai sur les structures melodiques, Revue de Musicologie XLIV, Dic. 1959. Traduzione italiana di Carlo Serra.
16
C. Serra, Le funzioni della quinta nella costituzione dello spazio musicale. Jacques Chailley e la rete del discreto, De Musica, 2006, pp. 1-43.
17 L’indicazione da parte di Chailley di alcuni parametri del suono come variabili che influenzano la tolleranza, sembra rendere forse possibile un allargamento del discorso al concetto di “gusto”; ovvero alla dialettica fra le posizioni che consideravano il gusto come espressione della “costituzione primitiva” del singolo e della sua personale “organizzazione”, e quelle che lo facevano ricadere su piani più intersoggettivi. Posizioni forse riassunte in Kant che vedeva sì la radice del piacere nella “autonomia del soggetto”, ma che evidenziava come tale radice non privava il giudizio di gusto di una “validità universale a priori” (P. Gozza-A. Serravezza, Estetica e musica, Clueb, Bologna, 2004, pp. 116-117).
18
C. Serra, Morfologie dello spazio tra curvatura melodica e linearità scalare. Introduzione a “Essai sur les structures melodiques” di Jacques Chailley, De Musica, 2001, pp. 1-40.
19 Sul concetto di abitudine interessante l’opinione di Eggebrecht che, in riferimento alla barriera che ostacola la recezione della musica moderna, o di quella antica, afferma che tale barriera può essere ridotta o addirittura del tutto rimossa attraverso l’abitudine (l’assiduità d’ascolto) e la comprensione cognitiva (C. Dahlhaus-H. H. Eggebrecht, Che cos’è la musica, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 60).
20 J. Chailley, Essai sur les structures melodiques, cit. Trad. Ital. di Carlo Serra.
21
C. Serra, Le funzioni della quinta nella costituzione dello spazio musicale. Jacques Chailley e la rete del discreto, op. cit.
22 G. Piana, Il cromatismo, cit. p. 55.
23
T. J. McGee, The Sound of the Medieval Song. Ornamentation and Vocal Style according to the Treatises, Clarendon Press, Oxford, 1998.
24 G. Piana, Il cromatismo, cit. p. 66
25 G. Piana, Il cromatismo, cit. p. 64
26
Interessante a questo proposito riportare le caratteristiche dell’esperienza musicale secondo una definizione di Silvia Vizzardelli: “L’esperienza musicale avrebbe almeno un tratto che la caratterizza universalmente: essa implica sempre una rottura del piao di immanenza, ha sempre bisogno di articolarsi su due livelli rigorosamente distinti, e proprio da questa separazione nasce la possibilità di concepire movimenti di conversione, di intercettazione. Astrazione e percezione, noesis ed aisthesis, scienza e musica, calcolo ed immaginazione sono solo alcuni dei modi in cui la dislocazione dei livelli si manifesta, ma ciò che è veramente importante sottolineare è che il movimento della creazione coincide con la conversione di un piano nell’altro. Il senso di cattura, di essere presi e condotti altrove, di assecondare un movimento, di immergerci in una spazialità affettiva discende direttamente dai processi di transito e dislocazione tra livelli sbalzati di esperienza” (S. Vizzardelli, Introduzione a Filosofia della musica, Laterza, Roma-Bari, 2006).
27
T. J. McGee, The Sound of the Medieval Song. Ornamentation and Vocal Style according to the Treatises, Clarendon Press, Oxford, 1998, cit. in G. Piana, Il cromatismo, cit. p. 67.
28
G. Piana, Il cromatismo, cit. p. 41.

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