Edmondo Filippini
Il principio ritmico del teatro Nō: Jo - Ha - Kyū



Nota

Per i nomi giapponesi si è scelta la loro forma originale in cui il cognome precede sempre il nome.
Spesso si troverà la particella no, questa ha il significato di, quindi Fujiwara no Michinaga sarà Michinaga di Fujiwara.
La trascrizione in caratteri latini e la relativa pronuncia per la corretta lettura dei nomi originali segue il sistema di traslitterazione Hepburn, in cui le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti all'inglese:

ch è un'affricata sorda, es: cercare, ciliegia.
j è usata con la sua pronuncia standard, es: Giappone.
g e k sono velari, es: ghirlanda, chiara.
s è sorda, es: salterio.
z è come in rosa.
ts è affricata sorda, es: zucchero.
sh è una fricativa sorda, es: scintoismo.
h sempre aspirata, es: hotel.
w viene pronunciata come uomo.
y viene pronunciata come ionico.
he, ha, wo usate come particelle si leggono e, wa e o.
le vocali lunghe o, e, u indicate con ¯ si leggono come doppie vocali.
Le vocali ei si leggono ee.
Le i e le u sono inoltre spesso mute.
Si è in qualche caso fatto uso dell'apostrofo “ ' ”, questo è servito per dividere un nome che altrimenti avrebbe avuto una lettura scorretta, es: Gen'nichi.


INTRODUZIONE
:

Uno degli argomenti più complessi ed affascinanti nel momento in cui si affronta la grande varietà musicale della tradizione antica giapponese è la comprensione delle strutture e delle leggi che governano e che sottendono ad ogni genere di musica, che nella maggior parte dei casi risulta essere non solo differente e distante dal sentire occidentale, ma anche di difficile comprensione ad un semplice ascolto.

Da questa prima difficoltà nasce quindi l'errore, molto comune, di un approccio “all'occidentale”, tentando di identificare possibili parallelismi con il senso europeo del sentire musica e tentare di scoprire possibili collegamenti che sono, nella maggior parte dei casi, assai fuorvianti1.

Uno degli esempi più evidenti di tale diversità è dato proprio dall'osservazione superficiale del patrimonio musicale occidentale che ci permette di renderci immediatamente conto del divario presente tra le due culture, se nella prima vi è un continuo gioco di “contrasto”2 sia di intensità (dinamica) che di velocità (agogica) che permette un'immediata comprensione da parte di un orecchio occidentale, restituendo una materia piena di varietà e ricchezza, tutt’altro concetto sta alla base della tradizione “colta”3 giapponese, dove l'idea di qualsivoglia contrasto viene completamente annullato, per non dire che non è mai stato presente nelle menti dei “compositori” tanto che potrebbe essere definita una musica quasi “statica” a cui non viene aggiunto nessun cambiamento, cosciente, ed in cui ogni piccola variazione assume, di rimando, un enorme significato che può variare di significato a seconda delle situazione in cui è inserito.

Il jo-ha-kyū (序破急) trova il suo contesto estetico nel pensiero tradizionale giapponese proprio sull'annullamento della “brutalità” del contrasto in nome di una concatenazione continua fortemente legata ed ancora su una eliminazione da tale contesto di ogni ricerca intellettuale in nome di una percezione psico-fisiologica del “ritmo continuo” più immediata in cui il jo (序) crea una situazione drammatica che viene sostenuta e sviluppata in un crescendo lento sino al parossismo, dallo ha (破) al kyū (急) finale
4.

“...questo schema non impronta soltanto il modo di essere del racconto, ma anche il tempo psichico interiore, cioè pone al centro il fluire delle emozioni.”5

E ancora:

“Gli esseri umani non possono percepire il modo cosciente e letterale l'ininterrotto scorrere delle particelle di tempo; in qualche modo ne devono interrompere il flusso continuo e così, dalla discontinuità che ne deriva, possono finalmente percepire in modo cosciente la durata del tempo. Questo rendere discontinuo si opera con un frazionamento. Ci sono dei casi in cui il frazionamento si fa in base a vuoti o cesure, e altri in cui si basa sulla percezione di una differenza nella materia, sul contrasto ad esempio di pieno e vuoto. Il frazionamento crea un tempo discontinuo, grazie al quale dal tempo della natura si passa al tempo ricomposto della vita umana, preservato dalla memoria. Certamente anche nel tempo naturale esiste un frazionamento, che esiste implicitamente anche nell'uomo dalla nascita.”6

Questo “ritmo continuo”, unito alla quasi totale mancanza di emozionalità evidente, rende quindi molto difficile ad un orecchio occidentale, ma potremmo dire anche ad un orecchio nongiapponese, la comprensione di tale musica che come tale non porta a nessun tipo di appagamento, almeno non nel senso che noi attribuiamo a tale termine.

Un altro illustre musicologo, Hoshi Akira, si spingeva anche oltre tale spiegazione affermando che:

“...persone che si accostano alla musica giapponese con questo atteggiamento o che si lamentano di non ricevere da essa alcuna emozione forse diranno anche che la musica europea del periodo medievale o del rinascimento non sono interessanti.”

Da qualunque punto di vista si voglia partire, le difficoltà di ascolto e comprensione sono evidenti e più ci si avvicina alla musica destinata alla nobiltà e alla casta guerriera, quali il gagaku ed il , più questa difficoltà tende a salire esponenzialmente.

Proprio per questo una corretta comprensione delle strutture generali (non possiamo infatti parlare ne di melodia ne di armonia) di questi vasti repertori non possono che aiutare chiunque voglia avventurarsi in questi luoghi sterminati.

ORIGINI E SVILUPPI:

Uno degli elementi centrali per la comprensione del pensiero, non solo musicale, giapponese è senza dubbio la struttura “tripartita” detta jo-ha-kyū, alla base di innumerevoli teorie che spaziano dalla filosofia alla sociologia e che è una delle strutture portanti, se non la fondamentale, di tutto il teatro , di cui parleremo tra poco.

Questa, che si presenta come micro e macro struttura al contempo, è formata, o meglio divisa, da tre unità fondamentali, come anche i tre ideogrammi suggeriscono: jo[introduzione] è l’introduzione che va a porsi come parte iniziale, ha [rottura] che va ad infrangere l’introduzione, costituisce lo svolgimento ed infine il kyū, [accelerazione] che è la conclusione7, quindi la parte finale.

Non esiste una traduzione univoca e specifica di questi tre termini, la più utilizzata in epoca contemporanea è sicuramente “introduzione, sviluppo e conclusione” ma spesso la si trova con altre traduzione altrettanto possibili e pertinenti quali “esposizione, sviluppo e ricapitolazione” o ancora “introduzione, esposizione e conclusione finale”.

Originariamente tale prassi era appartenente al bugaku, antiche danze facenti parte del vasto repertorio gagaku (letteralmente “musica raffinata”), l'antica musica di corte o anche detta musica continentale, poiché importata nel VII secolo dalla Cina e successivamente elaborata sino alla cristallizzazione del repertorio avvenuto in epoca Heian, divenendo la musica della nobiltà e della casa imperiale. Tanabe Hisao a proposito di questo ebbe a scrivere:

“La perfetta struttura del bugaku comprende tre parti: jo-ha-kyū. Il jo è una musica suonata mentre il danzatore sale sulla pedana e prende il suo posto. Il tutto con i saluti rituali.
In questa sezione, il ritmo non è basato su una scissione in piccole unità ma su ampi intervalli delimitati dall'interruzione del taiko. Nello ha i danzatori iniziano a cambiare [il ritmo] prima molto lentamente, poi accelerando[...] la danza successiva designa la rapida fine.”

Bisogna precisare che all'interno di tale musica, il jo-ha-kyū ha una funzione limitata, più precisamente serve come mera struttura ritmica al tutto e non è possibile individuare una sua funzione estetica, poiché precisa solo la modalità d’esecuzione di ogni brano.

Sebbene il suo utilizzo sia predominante nel (come vedremo tra poco), tale forma viene utilizzata anche in altre due forme, la prima ancora teatrale, la seconda letteraria, il gidayūbushi (義 太夫節) e la poesia in forma renga (連歌).

Il primo è un genere musicale sviluppatosi all'interno del teatro di burattini bunraku (文楽), caratterizzato da notevoli variazioni di tempo per poter adattare la narrazione ai movimenti di questi con molti passaggi declamati, questi spesso senza un metro sillabico preciso.

Ognuno è composto da cinque o da tre atti (dan) e prendono il nome rispettivamente di gidayūmono e sewamono, entrambi obbedienti al concetto sopraesposto di jo-ha-kyū.

Prendendo ad esempio esemplificativo il gidayūmono in 5 atti, si verifica il seguente schema: jo) 1° atto: Genesi o causa del fatto; ha) 2° atto: Il cattivo imperversa e fa soffrire il buono; 3° atto: Il buono soffre e si giunge all’apice della tragedia; 4° atto: La situazione del cattivo peggiora e il buono comincia a riprendersi; kyū) 5° atto: Il cattivo perisce e il caso di risolve.

Ogni atto viene inoltre diviso in tre parti, 1) kuchi [bocca], 2) naka [mezzo] e 3) kiri [taglio, cioè conlusione], solo il 5° non è diviso.

Il renga (letteralmente Poesia (歌) a catena (連)) è un genere poetico sviluppatosi agli inizi del XII° secolo, come il titolo stesso suggerisce era un tipo di poesia creato a più mani che coinvolgeva solitamente un massimo di tre poeti, anche se esistono casi di un solo autore caratterizzata anche da una lettura a più voci.

In questo caso il jo era scritto in una forma che riflettesse l'idea di evento sociale, con ogni poesia scritta e letta lentamente ed in maniera molto solenne, nello ha si introducono temi non precedentemente menzionati e che possono spaziare tra vari generi quali amore o religione ed infine il kyū è un finale veloce, in netto contrasto con il jo sia per ritmo che per stile poetico, dove la poesia diventa più simile ad una conversazione continuamente interrotta di grande velocità ritmica.

IL JO-HA-KYŪ NELLA FORMA TEATRALE DEL NŌ:

Per affrontare a livello pratico il concetto di jo-ha-kyū all'intero della musica e del teatro (能), è indispensabile comprendere la struttura generale di tale teatro, spiegando in seguito il fondamentale apporto che uno dei più grandi drammaturghi del teatro orientale, Zeami Motokiyo8 (circa 1363 – circa 1443) anche teorico e attore, dette a tale repertorio.

Senza addentrarci troppo con i problemi relativi alla sua genesi che sarebbero in questa sede insolvibili e poco appropriati, è bene chiarire l'esistenza di due grandi classificazioni in cui il teatro si distingue, queste sono i Mugen Nō e i Genzai Nō, il primo può essere letteralmente tradotto con del sogno e si riferisce a quelle opere in cui compaiono spiriti ed altri esseri super umani, generalmente il personaggio principale (shite) appare ad un viaggiatore (waki) a cui racconta una storia di quel luogo per poi scomparire alla fine del primo “atto” per poi ricomparire, come spirito, nel secondo vestendo il personaggio principale della storia raccontata precedentemente e narrandola nuovamente attraverso la danza, il secondo tipo è invece il suo esatto opposto, infatti in esso compaiono quei drammi in cui i personaggi vivono e si muovono nel mondo reale.

Prendendo in esame la prima di queste classificazioni, utile a titolo esemplificativo, cioé quella dei Mugen Nō, si può ora descriverne la struttura base attraverso una serie di possibili livelli di classificazione progressiva:

  • Primo livello: Il si suddivide in due parti principali, Mae-Ba (lo shite, o mae-jite, travestito da narratore) e Nochi-Ba (lo shite, o nochi-shite, rivelato), tra i due un kyōgen, detto ai-kyougen, racconta una storia (katari) legata al testo che si sta mettendo in scena ed in cui può spiegare il contesto storico o sociale dell'azione
     

  • Secondo livello: I due ba sono a loro volta suddivisi in cinque dan così scanditi: 1) entrata del waki, 2) entrata dello shite, 3) dialogo tra shite e waki, 4) rappresentazione dello shite, 5) allontanamento di quest'ultimo.
    Proprio qui c'è la prima suddivisione di jo-ha-kyū, il primo dan corrisponde al jo, il secondo, terzo e quarto dan allo ha ed infine il quinto dan al kyū.
     

  • Terzo livello: Ogni dan viene suddiviso al suo interno da una serie di shō-dan, unità diverse tra loro che possono essere legate alla funzione drammatica, al ritmo ed anche al linguaggio.
    Nonostante il diverso nome, il concetto di base è identico a quanto detto sopra, infatti per formare un dan è necessaria una disposizione di tre parti chiamate: jo-ka, o passaggio introduttivo in forma cantata, jo-shō, o passaggio recitato ed infine lo hon-ka che è il principale passaggio, posto alla fine, in forma cantata.
    Ognuna di queste tre parti viene composta internamente da due o più shō-dan che ne determineranno lo stile.
     

  • Quarto livello: A volte uno shō-dan può essere diviso in due parti, chiamate setsu, caratterizzati da una diversa recitazione o da alcune scansioni ritmiche del tamburo.

Esiste anche una quinta forma di divisione, chiamata ku, che si riferisce alla divisione in battute del testo (in questo caso frasi di otto battute), dove esso rappresenta l'unità isolata, ma questo è un tipo di classificazione particolare che solo alcuni studiosi decidono di adottare.

In definitiva e schematizzando quanto sopra detto:

 



Date queste poche premesse possiamo solo ora iniziare a comprendere quando Zeami scriveva che il concetto di jo-ha-kyū è presente in ogni ambito del teatro , anzi, proprio con lui questo concetto inizia ad essere applicato al teatro in maniera quasi sistematica tanto da arrivare a teorizzare, nel più noto dei suoi trattati, il Fūshikaden
9 (Trasmissione dello stile, della figura e del fiore), detto anche Kadensho (Trattato sulla trasmissione del fiore), che questi non è una struttura che si limita ad “esistere” solo nel suo aspetto ritmico applicato al teatro, ma permea ogni cosa della vita sensibile e non, in questo senso egli fu il primo ad individuare in esso le potenzialità per una possibile applicazione ai propri drammi, tentando quindi una via pratica a quanto egli sosteneva.

Innanzitutto, egli spiega, esso è presente nella vita dell’attore, in un programma di (contando che un programma durava l’intera giornata in cui venivano rappresentate cinque e più opere in successione ma con un solo kyū, come vedremo in seguito), in una singola opera e in una singola scena all’interno di un’opera, sino ad arrivare all’affermazione che anche all’interno di un’interpretazione, intesa in senso spirituale, è presente un jo-ha-kyū.

Ma il concetto potrebbe essere allargato, diminuito e traslato, sino ad arrivare alla successione di mattino-mezzogiorno-sera all’interno di una giornata, il portare a termine un lavoro oppure la vita intera di una persona sono tutti regolati da tale, nascosta, struttura interna; Si comprende come questo possa quindi essere applicato quasi all'infinito, in un percorso che si muove biunivocamente dal microscopico al macroscopico; ed ecco che egli aggiunge, allora, che la mattina all’interno di un giorno, nella primavera all’interno di un anno e in un periodo della vita vi possono essere le fasi del jo-ha-kyū.

Nel programma di teatro di una giornata vengono eseguite nell’ordine un’opera del primo, secondo, terzo, quarto e quinto tipo e tra di essere vengono inserite opere di Kyōgen (di solito quattro in tutto) di carattere comico; questa è la pratica tradizionale, anche se oggi molti programmi consistono in due o tre pezzi di e uno di Kyōgen10.

L'ordine con cui questi erano rappresentati era scelto in base al loro tipo, cioè in base alla storia che raccontavano.

All'interno di un programma di , ogni opera era classificata secondo un particolare tipo (in tutto cinque), questi era dettato dal carattere della storia stessa.

Sarà bene ora riassumere il programma, di una giornata di , secondo lo schema classico per chiarire come anche in questo caso fosse presente l'idea jo-ha-kyū.

Jo:

  • Primo tipo (Waki-Nō): Lo shite interpreta lo spirito di un kami (un Dio) o di un drago. Viene anche chiamato Kami-Nō. (Es: Takasago, Oimatsu, Chikubu Shima, etc...).

Ha

  • Fase iniziale:

    Secondo tipo (Shuramono): Lo shite interpreta il fantasma di un guerriero della guerra Genpei (La guerra tra le famiglie Taira e Minamoto (1180-1185) che si concluse con la vittoria di Minamoto no Yoritomo). (Es:Yashima, Atsumori, Yorimasa, etc...)
     

  • Fase centrale:

    Terzo tipo (Kazuramono): Lo shite interpreta lo spettro di una bellezza femminile o lo spirito di una pianta che prende le sembianze di una bella donna e racconta una storia. (Es: Izutsu, Yuya, Matsukaze, Kochō, etc...)
     

  • Fase finale:

    Quarto tipo (Zatsumono): All'interno di questo genere sono presenti tutte le opere non classficabili nei precedenti tipi e viene di solito suddiviso in:

1. Kyouranmono, o opere di follia ( Es. con shite donna: Sumidagawa, Hyakuman, Hibariyama, con shite uomo: Ashikari, Yorobōshi)

2. Yūkyōmono o Yūrakumono, o opere di divertimento: Jinenkoji, Kagetsu, Tenko, Tōsen, etc...

3. Shūnen’onryōmono, o opere che hanno come soggetto spiriti maligni ossessionati da sentimenti di vendetta: Kayoi komachi, Akogi, Fujito, Ayano tsuzumi, Aoi no ue, Dōjouji.

4. Ninjoumono, o opere che hanno come soggetto sentimenti umani di genitori e figli, amici, signore e servitore etc...: Kagekiyo, Shunkan, Hachi no ki, etc...

5. Genzaimono [gli shite sono tutti uomini, non indossano maschere e interpretano personaggi realmente viventi: lo waki è un personaggio contemporaneo al protagonista [shite] e ha un rapporto di contrasto non esso]: Ataka, Kogō, Yatōsoga, Hashi Benkei, ecc.

Kyū:

  • Quinto tipo (Kiri-Nō-mono): Lo shite interpreta un essere super umano (come un demone o lo spettro di un morto). (Es.: Kokaji, Kuruma tengu, Ukai, Adachi ga hara (Kurozuka), Momijigari, Ōeyama, Tsuchigumo, Rashoumon, Funa Benkei, Yamanba, shakkyō, etc...).

In Zeami, infine, tale struttura assume un profondo senso ritmico, particolarmente evidente nelle parole11:

“Dimenticando la voce sappiate le modulazioni; dimenticando le modulazioni sappiate il tono; dimenticando il tono sappiate il ritmo.”

E questo viene spiegato, utilizzando ancora le sue parole del capitolo “Della giusta intuizione del momento propizio”12, affidandosi anche alle capacità attoriali dell'interprete:

“...Dunque, uscirete da dietro le quinte, procederete sul ponte e li vi fermerete, guarderete in tutte le direzioni e nell'istante stesso in cui il pubblico, unanime nell'attesa, penserà “Ecco, sta per cantare!”, intonerete il canto. Questo, [cioè] cantare quando sentite l'attesa del pubblico, è la giusta intuizione del momento propizio. [...E'] un istante critico che l'attore percepisce con l'intuito. [...V]i è un momento propizio per conquistare lo spirito dell'uditorio. Anticiparlo è male, lasciarlo passare sarebbe peggio. Nell'istante preciso in cui la gente dice: “Ora sta per intonare il canto!”, e in quello stato di attesa [ricettiva] impone la calma alla mente e alle orecchie, dovete cominciare a cantare. In quel preciso momento [...].”

In conclusione è essenziale comprendere come anche il palco del (Fig.1) sia interessato in tale processo “ritmico”, infatti le varie parti possono essere suddivise secondo uno schema molto preciso in cui l'area più vicino all'agemaku (il sipario) nell'hashigakari è definibile come jo (terzo pino), la metà di questi diventa lo ha (secondo pino) e la parte più vicina al palco (primo pino) il Kyū.

Quest'ultimo viene ulteriormente suddiviso secondo lo stesso schema tripartito (Fig.2)

Fig.2


I
L JO-HA-KYŪ E LA MUSICA DEL NŌ

Solo ora possiamo parlare quindi dell'aspetto più strettamente musicale e di come esso si lega al principio strutturale del jo-ha-kyū, ma prima sono necessarie alcune precisazioni sulla musica in senso pratico.

I cinque elementi costitutivi della musica del , chiamati go sei, possono essere riassunti come segue:

Utai, il canto.
Fue
, il flauto, chiamato nōkan.
Kotsuzumi
, il tamburo da spalla.
Ootsuzumi, il tamburo da anca, chiamato anche ōkawa.
Taiko, strumento a percussione.

Questi ultimi quattro formano quella che è l'orchestra, hayashi, chiamata a volte Nō bayashi per distinguerla dall'hayashi del teatro kabuki, o ancora shi byoshi, termine interpretabile come le “quattro percussioni”, a cui si aggiungono altri tipi di suoni tra cui i battimenti dei piedi degli attori sul palco durante la rappresentazione, nel cui sottosuolo sono poste anfore risonanti.

UTAI:

La parola utai deriva originariamente dal termine uta, che può avere la doppia valenza di canto e di poema, nel viene quindi utilizzata sia riferita al testo che fa procedere l'azione sia al canto vero e proprio.

La voce nel canto, sempre intesa come naturale, jigoe e mai in falsetto, uragoe, può essere trattata in vari modi.

Oltre a risultare molto lontana dal concetto di bella voce, quanto quello di bel canto secondo i parametri occidentali del resto, il suo timbro è reso intenso e quasi “sporco” grazie ad una particolare tecnica di respirazione che permette di produrre il suono del diaframma fino alla cassa risonante della gola, assumendo a sua volta differenti accenti che esprimono differenti stati d'animo:

Ō, voce orizzontale: forza e fermezza.
Shū
, voce verticale: gentilezza.
Shūgen
, esprime felicità e si usa sono nello stile tsuyogin.
Bōoku, esprime la tristezza, ad esempio nel ricordo e si usa nello stile yowagin.

Il testo dell'utai è ancora ancorato ad un linguaggio risalente all'epoca Muromachi, il suo stile prende il nome di sōrōbun, poiché senza una prosa ritmica, quest'ultima costituita sia di frasi con metro poetico che non.

La prosa in senso stretto, chiamata generalmente con il nome di kotoba, parola, non segue un disegno ne ritmico ne melodico ed è utilizzata solo da chi è destinato alla sola recitazione.

Diversamente i versi, sia con metro poetico che senza, sono distribuiti tra gli attori, yaku utai ed il coro, jiutai.

Quest'ultimo si divide a sua volta in due stili ben caratterizzati da un punto di vista ritmico yowagin e tsuyogin, inoltre una volta scelto uno stile, esso viene mantenuto costante per l'intero brano.

Yowagin, il canto melodico, letteralmente sarebbe canto debole ed è chiamato anche jūgin, canto tranquillo, viene usato nel come espressione per la tristezza o per situazioni che richiedono un particolare tipo di pathos dove la stessa pronuncia viene alterata e la melodia, strutturalmente molto semplice, diviene di non facile ascolto.

La "scala" viene suddivisa in quattro parti con la nota più grave posta intorno al mi3 e quella più alta al mi5 con altrettante note per le modulazioni tra il la3 ed il si bemolle4:

1. Ge, parte bassa.
2. Chū, parte mediana.
3. , parte alta.
4. Kuri, parte più alta, una terza diminuita superiore al .

In totale ricopriamo quindi quasi due ottave13, anche se in un canto si usa di solito non più di un'ottava, a cui vengono associati diversi nomi dalla nota più bassa fino alla nota più alta:

Mi3: teiryo.
Fa3: kōryo.
Si3: ge, inizio della seconda parte della scala.
Mi4: c, inizio della terza parte della scala.
Fa diesis4: chū uki.
La4: , inizio della quarta parte della scala.
Si4: jōuki.
Do5: kuri.
Mi5: kanguri.

Inoltre le note usate per la modulazione sono:

La3: kezushige.
Re4: ge no chū.
Mi4: corrisponde al nota del c.
Sol4: sashi jō.
La4: corrisponde al .
Si bemolle4: kaeru kuri.

All'interno di questo sistema tripartito (parte bassa, mediana e alta) ci si muove in modo fisso, se si comincia il canto nella parte alta esso si concluderà sempre nella parte mediana, se è invece nella parte mediana lo si troverà sempre terminante nella parte bassa e questo sarà determinato soprattutto dai ruoli che vengono interpretati, se personaggio maschile l'intero canto muoverà da un punto basso e diversamente, se femminile, da un punto più alto.

Tsuyogin, chiamato anche gōgin è un tipo di canto estremamente ritmico, usato per esprimere situazioni solenni o sentimenti quali eccitazione o anche coraggio ed è inoltre completamente privo di una vera e propria melodia come nel caso del canto in stile yowagin.

Infatti non vi sono particolari cambiamenti per quanto riguarda il canto, se non un'accentuazione o un rallentamento dell'andamento ritmico variando fortemente l'intensità e sforzando quasi all'estremo ogni singola sillaba pronunciata e creando una specie di monotonia interrotta solo da note e salti discordanti.

La scala è identica allo stile precedente con la parte mediana e la parte alta identificate come pressoché uguali.

FUE:

L'unico strumento a fiato dell'intera strumentazione del teatro è il nōkan, formato da sette fori per le dita, chōshi guchi ed uno per la bocca chiamato uta guchi.

Differisce sensibilmente dagli altri flauti traversi giapponesi quali il ryūteki, viene costruito con otto strisce di bambù, legate da sottili parti di legno di vite e laccato internamente.

Tra le principali caratteristiche che lo rendono unico è il nodo, gola, posto vicino alla testa, kashira, del flauto in cui viene inserita una “lastra” di cera d'api.

Può essere suonato sia con che senza le altre quattro percussioni seguendo due tipi di ritmo, awase buki, o ritmo congruente oppure ashirai buki, ritmo non congruente.

Quest'ultima soluzione viene adottata per arricchire notevolmente sia la melodia che la parte vocale in modo da rendere al meglio le psicologie che animano i personaggi.

Anche in questo caso non è possibile definire le note ad un'altezza predefinita, nonostante si parli di uno strumento artigianale e non più della voce umana, ma in modo del tutto non univoco, individuando due registri:

Ryo, registro basso: do4, re bemolle4, mi bemolle4, fa4, sol4, la calante, si eccedente, re bemolle5.

Kan, registro alto: do5, re5, mi bemolle5 eccedente, fa5, sol bemolle 5, sol5 eccedente, la5, si bemolle5.

La ragione di tale difficoltà è accresciuta anche dal fatto che non esiste una taglia standard di questi flauti che differiscono, anche se di poco, in lunghezza l'uno dall'altro.

KOTSUZUMI:

Il più piccolo degli strumenti a percussione, il kotsuzumi è costruito similmente a tutte le altre percussioni del , con un corpo a clessidra, , costituito da due teste, kawa guchi, sotto cui si trovano una foro risonante, kazakiri, una camera risonante, su e la parte che viene poi avvicinata alla spalla, kata.

Sopra le due teste vengono poi poste le pelli, kawa, in maniera tale che la parte esterna sia la parte vibrante e quella interna la parte riverberante.

Esse sono accordate mediante corde inserite in fori, shirabe ana, appositamente posti ai lati delle pelli e la parte percossa, chōshi gawa, è indicata da un cerchio centrale chiamato keshōwa.

Il tono dello strumento viene variato continuamente grazie alle corde, shirabe, che, tenute in mano, vengono tese e rilasciate dal suonatore.

Perché questo strumento abbia un buon suono, quest'ultimo deve passarlo prima con un panno leggerissimamente umido, oppure inumidirlo con il fiato.

OOTSUZUMI:

Il tamburo da anca o altrimenti chiamato ōkawa, larga pelle, è costruito utilizzando pelle di bue e legno secondo lo stesso principio del precedente tranne che per un piccolo particolare decorativo posto al centro del corpo a clessidra, un piccolo nodo che ne facilita anche l'impugnatura, fushi.

Il suo suono, di tono alto e secco, non ha possibilità di variazioni, anche se munito di corde infatti, queste sono solo ornamentali.

Circa un'ora prima di ogni esecuzione viene passata una piccola brace per asciugare e rendere tese il più possibile le pelli, contrariamente a quanto accadeva per il kotsuzumi.

Durante l'esecuzione ogni suono viene reso attraverso colpi in cui la mano sinistra compie ampi gesti.

Poiché non esiste un direttore di questi strumenti, nel momento in qui il taiko non suona e lo ōtsuzumi a rivestire la particolare funzione di segnalare, durante l'esecuzione, agli altri membri quando inizia e finisce l'accompagnamento musicale.

TAIKO:

Costruito con una forma molto più larga rispetto ai precedenti, come per lo ōtsuzumi è a intonazione fissa, sospeso da una piccola struttura in legno, dai, che lo tiene rialzato da terra ed ambato verso il suonatore, inoltre il metodo di percussione non sono più le mani ma due bacchette, utilizzate in maniera tale da non colpire eccessivamente forte le pelli, anche in questo caso, di cavallo.

NOTAZIONE:

Nel Nō esistono essenzialmente tre tipi di “notazione”, una per il canto, fushi, una per il flauto, shoga, ed infine per le percussioni, tsubu tsuke.

Fushi: la notazione del canto viene “costruita” grazie alla combinazione di più elementi tra loro che si ripetono sempre uguali, essa viene notata accanto al testo del , scritto verticalmente e letto da destra a sinistra, mediante un complesso sistema di simboli che suggeriscono il movimento della voce, uno per ogni sillaba pronunciata, potrebbe essere inoltre associata ad alcune tipologie notazionali del medioevo quali la notazione neumatica.

I tipi di fushi si dividono in tre categorie:

Sugu, diretta, segni simili ai semi di sesamo, da cui poi il nome di goma bushi che è anche il segno base dell'intero sistema, ognuno di essi può corrispondere ad un battito.

Hiki, dipinta, indica che la sillaba viene tenuta per più battiti senza cambiamento di intonazione.

Mawashi, girare, indica sia un cambiamento dell'intonazione, sia un allungamento delle sillabe.

goma bushi, o segni di sesamo, è il segno base dell'intera notazione, in base al suo orientamento, in su, in giù o orizzontale, suggerisce se la nota cantata è superiore o inferiore o mantiene la stessa intonazione rispetto alle precedenti.

haru, dilatazione, indica un movimento ascendente della voce. Viene usato nel caso che la nota precedente si collochi in un range più basso rispetto al e significa quindi che la sillaba deve essere cantata nuovamente entro tale scala.

u, da uki, fluttuante, indica un movimento ascendente dalla nota jō uki, se invece notato accanto ad un punto in cui ci si trova in chū, indica un innalzamento dell'altezza della nota cantata sino al chū uki.

o, da otoshi, caduta, indica un movimento intervallare discendente, temporaneo, nella melodia. Se non viene seguito da altri fushi, la melodia tornerà all'altezza precedente alla sillaba successiva.

i, da iro wo tsukeru o irodoru, aggiunta di colore, significa aggiungere un abbellimento tale da non cambiare l'altezza base della nota cantata.

mitsu biki, è una combinazione di più fushi che suggerisce il prolungamento della nota ma nella scala più bassa.

a, da atsukau, trattenuto, indica un particolare tipo di abbellimento tale che la voce non cambi la nota intonata di partenza, viene utilizzato nel caso si voglia suggerire situazioni di particolare carattere drammatico.

altro caso di simboli combinati, una i ed un nomi bushi , indica un suono fortemente nasalizzato in cui la pronuncia della sillaba viene distorta.

questo simbolo non ha una vera connotazione musicale per la melodia, quanto è uno dei pochi esempi di segno grammaticale musicale, infatti indica la fine di un periodo, nonché il punto in cui il cantante può prendere fiato.

infine, questo simbolo non appartiene alla notazione del canto, ciò non di meno, fa parte della notazione ritmica, posta alla sinistra del testo, che indica, in questo caso, la fine del periodo ai cantanti e l'inizio della nuova frase. Questo particolare tipo di notazione viene anche chiamata ya-a no ma dal tipico suono, ya-a, emesso dagli strumentisti.

Shoga: come per tutti gli strumenti a fiato, la notazione del flauto viene prima appresa cantandola (solfeggiando) e solo dopo è applicata all'esecuzione, da cui il modo di dire, cantare-suonando.

Diversamente dal testo, il flauto viene notato in una griglia a più colonne con otto divisioni per ognuna, kusari, quasi una rappresentazione della battuta occidentale, entro cui vengono segnati una serie di simboli fonetici, questi, seguendo l'andamento della voce, sono: o-hya-i-to (オ-ヤ-イ-ト).

Ad ognuno di questi suoni corrisponde una precisa configurazione delle dita sui fori del flauto, ad esempio:

 

Con le nota più alta, hishigi, e la più grave, tsusune, prodotte in questo modo:


 

Anche se il nōkan non è munito di chiavi, come nessun flauto giapponese del resto, ed è munito di solo sette fori, la varietà delle note prodotte rimane comunque alta, poiché ogni flautista deve essere in grado di variare queste attraverso l'emissione del fiato, nonché la posizione delle labbra che produrranno suoni differenti, anche si di poco, tra loro.

Tsubu tsuke: La notazione delle percussioni si esprime soprattutto attraverso simboli geometrici, contrariamente ai simboli fonetici della notazione del flauto ed a quelli pittorici-fonetici per la voce, diversificata in base a quale dei tre strumenti a percussione fa riferimento, kotsuzumi, ōtsuzumi e taiko, caratterizzata da cerchi, punti triangoli, variamente notati all'interno di una griglia:

Kotsuzumi:

Ootsuzumi:

Taiko:
 

Questi suoni possono essere raggruppati in unita ritmiche, te, combinate in vario modo, tegumi e scritte in volumi staccati dal testo del Nō, chiamati tetsuke.

Sono stati identificati circa centosettanta te per il kotsuzumi, duecento per l'ōtsuzumi e cento per il taiko, il che permette, combinati ulteriormente tra loro, il realizzarsi di un'elevatissima varietà ritmica.

RITMO:

Da quanto si può già intuire dalla descrizione degli strumenti sopra, la musica del è essenzialmente composta da strutture ritmiche, regolate secondo il principio del jo-ha-kyū.

Il ritmo è quindi misurato secondo un metro di otto battute, kusari, divisibile a sua volta in due parti.

Ogni kusari avrà propriamente un jo, uno ha ed un kyū e la sequenza di tutti i kusari rispetteranno questa stessa prassi:

 

Tra un kusari e l'altro si inserisce un “battimento muto” o “battimento del ma”, poiché si lega a quella filosofia, con la funzione di dividere i kusari tra loro in modo che il processo ritmico possa ripetersi in continuazione. Per traslato il senso di ma, si inserisce anche all'interno del silenzio tra un battimento e l'altro che si riduce via via che si arriva all'ultima colpo.

L'intero processo ritmico viene regolato grazie anche al senso ai “battiti positivi” o omote byōshi e “battiti negativi” o ura byōshi a cui si inseriscono sopra questi ultimi i gridi degli strumentisti, kakegoe, che supportano ulteriormente il ritmo.

Con questi due termini si intendono, seguendo una terminologia occidentale, i colpi in levare, il primo, con cui si inizia usualmente un brano di , ed in battere, il secondo. Il ritmo, se trascritto quindi in notazione, si presenterebbe quindi come sincopato-staccato.

TEMPO:

Contrariamente a quanto avviene nella musica in occidente, nella musica del non esistono indicazioni di tempo, il che significa che ogni brano può essere eseguito con andature molto variabili.

Le uniche indicazioni che abbiamo sono, ad esempio nei testi per il canto, iscrizioni all'inizio di ogni brano che recitano sarari, allegramente, shikkari, regolare e shittori, delicatamente, usate unicamente come suggerimento “in linea di massima” su come deve essere interpretato il brano.

Ecco che interviene quindi uno degli elementi chiave del , quello di kurai, livello, concetto più ideale che reale, determinato dal cantante in maniera soggettiva (regolato dal suo buonsenso) e legato a tre elementi base:

1. Carattere dell'opera rappresentata, quindi del suo protagonista, lo shite: ad esempio un di donna avrà un tempo diverso da un in cui si parla di una persona anziana, risultando quest'ultimo, quindi, più lento, rispetto all'altro.

2. La qualità e l'eleganza degli abiti: questo interviene direttamente anche sul punto sopra esposto in quanto maggiore sarà la ricchezza e la bellezza degli abiti utilizzati nella rappresentazione e più lento sarà il tempo con cui il testo viene interpretato.

3. La posizione del testo di in base alla suddivisione del jo-ha-kyū.

Questi tre elementi uniti insieme richiedono quindi uno sforzo di analisi continua da parte dell'interprete poiché devono essere tenuti in considerazione contemporaneamente, adattandosi di volta in volta allo shite ed agli altri interpreti.

Questo comporta un ragionamento inverso rispetto all'ordine occidentale di operare, dove usualmente si porrebbe una scansione di battuta ad inizio brano poi mantenuto più o meno uguale sino alla fine, nel Nō l'attore fa l'esatto opposto, cioè prende il tempo generale da lui stabilito, secondo il kurai, e ricava da questo il tempo di ogni singola parte da lui eseguita, a sua volta quest'ultima ovviamente con una scansione ritmica rispettosa dell'inizio lento, sviluppo e finale veloce.

In conclusione, il jo-ha-kyū come si è ormai ampiamente compreso, è una struttura nel , più che in qualsiasi altra arte performativa e musicale giapponese, pressoché onnipresente, che attraversa trasversalmente tutti gli elementi che lo costituiscono. Quasi una legge universale, come suggeriva anche Zeami, di ritmo della vita, ma anche di impostazione del proprio modo di pensare.

Se si potesse quindi riassumere in una frase quanto fino ad ora preso in esame, potremmo definire la musica del come “un invocazione ed un requiem il cui ritmo richiama i fantasmi che danzano una danza di preghiera per il loro riposo...interpretata secondo la filosofia del Ma ed eseguita seguendo il principio del jo-ha-kyū14.
 


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ZEAMI, MOTOKIYO, Il segreto del teatro Nō, Adelphi, 1987.


Note

1
La situazione non sarebbe diversa anche se fossimo di un'altra cultura e tentassimo di addentrarci all'interno della nostra cultura, poiché saremmo comunque portati a sovrastare con la nostra concezione culturale qualsiasi altra al fine di poterla comprendere.
2 Riferendoci in particolar modo alla tradizione che va dal barocco ai nostri giorni.
3 Utilizzo qui il termine occidentale “colto” per distinguere la musica di tradizione nobiliare e borghese dalla musica folklorica che ha invece altre regole ed un diverso metodo di ricezione.
4 TAMBA, AKIRA, Musicques traditionnelles du Japon, du 15° siècles à nos jours, Paris, Cité de la musique/Actes Sud, 1985, pag.14.
5 HIROSHI, MINAMI, Cos'è ma, in Ma, la sensibilità estetica giapponese, a cura di Luciana Galliano, Edizioni Angolo Manzoni, 2004, p.20.
6 HIDEO, JINGŪ, Psicologia di ma, in Ma, la sensibilità estetica giapponese, a cura di Luciana Galliano, Edizioni Angolo Manzoni, 2004, p.52.
7 Il concetto di introduzione è però una sistema occidentale di pensare questa terza parte, nel pensiero giapponese viene infatti recepito in altro modo, se vogliamo più sfumato, comunque non come una conclusione perentoria.
8 A volte il suo nome viene anche pronunciato Kanze Motokiyo (観世元清), figlio del noto attore e drammaturgo, Kan'ami Kiyotsugu (1333 – 1384) da cui erediterà la concezione artistica, il suo testo è tradotto in italiano come Il  segreto del teatro Nō.
9 Una raccolta di scritti di vari anni a loro volta trasmessi segretamente all'interno di due scuole sino all'epoca moderna in cui vennero riscoperti e resi pubblici
10 E’ curioso notare che un simile modo di allestire gli spettacoli Nō-kyougen-Nō-kyougen (un’alternanza di opere serie e comiche) assomiglia molto alla pratica di inserire intermezzi di contenuto comino negli intervalli tra gli atti dell’opera principale nelle opere liriche del periodo barocco.
11 ZEAMI, MOTOKIYO, Il segreto del teatro Nō, Adelphi, 1987, p.69.
12 ZEAMI, MOTOKIYO, Il segreto del teatro Nō, Adelphi, 1987, pp.155-157.
13 Prima di proseguire è bene fare una precisazione, per quanto queste "note" risultino rappresentabili secondo la scala occidentale, le "note" del sono molto lontane dal poter essere espresse con questo sistema, tra le prime difficoltà vi è inoltre il problema che ogni canto è riadattabile, cioè ogni voce sia maschile che femminile può adattare ogni linea melodica alla propria voce, senza tenere in gran conto la giusta altezza, fermo restando che essa si colloca comunque in una scala molto bassa, da qui l'impossibilità di notare sul pentagramma in modo univoco la melodia, ma solo per sommi capi, in modo tale da restituirne l'andamento più che l'esatta forma.
14 In KOMPARU, KUNIO, The Nō theater, principles and perspectives, Tōkyō, Tankosha, 1983, pag.168.
 

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