Paolo Marzocchi

L'infinito dei suoni


Vorrei cominciare questa riflessione sul suono e sull’infinito proprio ricollegandomi all’omonimo idillio leopardiano. Il quale, dopo alcune immagini iniziali (il colle, la siepe), già dal terzo verso “
il guardo esclude”: il senso della vista viene meno per dare spazio a quello dell’udito.
Subito dopo le immagini poetiche sono eminentemente sonore: “sovrumani silenzi”, la “
profondissima quiete”, “il vento odo stormir tra queste piante”; e poi ancora “quello infinito silenzio a questa voce vo comparando”, e il ricordo delle “morte stagioni” che si contrappongono alla presente, perché di questa sentiamo il suono (“il suon di lei”).
Mi sembra chiaro che Leopardi faccia esperienza dell’infinito ad occhi chiusi, e che l’infinità in cui s’annega il pensiero del poeta sia un’infinità sonora.

A questo punto è necessario inquadrare l’ascolto leopardiano, senza volerlo con questo impoverire della portata poetica. Leopardi ascolta un “soundscape”, o “paesaggio sonoro”, che induce nel poeta uno “stato speciale di realtà ordinaria”, per dirla con le parole di un altro poeta marchigiano, Gianni D’Elia1. Lo “stato speciale” è la condizione essenziale per l’apparire della poesia. Ma il “soundscape” esiste indipendentemente dalla poesia leopardiana, anche se gli è stato riconosciuto un ruolo autonomo solo di recente. Fondamentali in proposito sono stati gli studi di Murray Shafer, scienziato e “guru” del paesaggio sonoro, il quale sostiene tra l’altro che il paesaggio sonoro nasce ben prima dell’uomo (come dargli torto?). Shafer, musicista e compositore canadese, si dedica da decenni ai “soundscapes” ed è stato l’ideatore dell’ambizioso progetto denominato “World Soundscape Project”, che si propone di creare un archivio globale degli ambienti acustici in via d’estinzione.2
Cos’è un “soundscape”? E’ sostanzialmente l’insieme dei suoni presenti in un determinato ambiente, essenziali alla sua caratterizzazione acustica, che vanno considerati a priori di qualsiasi intervento umano nella loro organizzazione o strutturazione. Per poter fruire questo insieme sonoro “non umanamente organizzato” come se fosse musica, si deve compiere un salto quantico rispetto al nostro comune approccio percettivo (e quindi al nostro approccio estetico).

Si rende qui necessaria una piccola premessa, tenendo ben presente che il punto di vista che si è adottato parte da una decisa critica delle posizioni cosiddette formaliste, le quali – secondo chi scrive – tendono ad “isolare in maniera ingiustificata la musica dai suoi legami con l’esperienza umana, della quale essa è comunque l’espressione e il prodotto”3.

A nostro parere, la musica occidentale ha sempre privilegiato la dimensione narrativa. La musica occidentale racconta una storia, la quale si svolge nel tempo (e viene di conseguenza fruita attraverso la memoria). Possiamo dire che la musica sia in questo caso una sorta di drammaturgia del tempo, i temi sono degli impalpabili personaggi che agiscono, si relazionano, evolvono, si trasformano. In questo tipo di musica l’oggetto primario della nostra attenzione sono principalmente le relazioni formali tra i vari elementi sonori. Il filosofo Mario Campanino definisce questo tipo di approccio come “musica che diventa4. Questo tipo di musica è, per la maggioranza del pubblico non specializzato, “la musica” tout court, come chiariremo meglio più avanti.

Un approccio differente, o per meglio dire opposto, è quello che alla narrazione preferisce la contemplazione, e privilegia l’ascolto del suono in sé, il perdersi dentro il suono. E’ un approccio che, per dirla con Campanino, potremmo definire meditativo, “orientale”:

(...) la musica è ascoltata istante per istante, essa stessa diventa il tempo che, in un certo senso, cessa di scorrere. È un approccio che vorrei chiamare della musica che è.5

Lo definiamo impropriamente “orientale” perché proprio di un certo tipo di pratiche meditative più comuni nelle tradizioni orientali, e che del suono fanno un elemento centrale. È altresì un atteggiamento necessario all’ascolto di alcuni tipi di musica inconsistenti dal punto di vista “narrativo”, come certa musica indiana, o come il gamelan, oppure musiche di matrice occidentale più o meno colta, che della tradizione orientale sono fortemente debitrici (si veda ad esempio la musica minimalista, o la cosiddetta sound art). In questi casi effettivamente la musica non racconta nulla, e se ci si aspetta di trovare un qualche interesse o sorpresa nello svolgimento del racconto si rimane inevitabilmente delusi, quando non irritati. Non posso negare che questo era anche il mio atteggiamento, forse un po’ presuntuoso e sicuramente non troppo approfondito. Ma l’errore non era nella musica in sé, quanto appunto nell’approccio percettivo, nella modalità di ascolto. Il leopardiano “s’annega il pensier mio” è la migliore definizione di questo stato d’ascolto. Il suono annulla la percezione del tempo e si rivela come un oggetto da esplorare, sempre diverso nell’omogeneità, ricchissimo di fluttuazioni e continue microvariazioni. Metaforicamente possiamo immaginare di trovarci in volo sopra un paesaggio, che osserviamo e cogliamo con lo sguardo nella sua interezza, ma che poi possiamo esplorare più nei dettagli soffermandoci su un particolare, volando più vicino ad una certa regione, o volgendoci indietro.

Siamo noi a scegliere il nostro percorso di esplorazione, che ci rivela grado a grado nuovi particolari, senza che il paesaggio in se stesso stia mutando.

Questo paesaggio è il suono stesso (sembra proprio il caso di dire “paesaggio sonoro”!), e la sua esplorazione è l’esperienza che ne facciamo come musica.

Una cosa piuttosto curiosa è la non possibilità di adottare simultaneamente entrambe le modalità d’ascolto: se ci concentriamo sul suono perdiamo di vista le relazioni formali, se ascoltiamo una forma (se seguiamo una “drammaturgia”) il suono in sé passa inevitabilmente in secondo piano. In proposito vorrei brevemente riferire di un’esperienza personale, avuta alcuni anni fa, che considero particolarmente esemplificativa. Mi capitò di far ascoltare ad un amico, tecnico del suono e persona dotata di non comune sensibilità per il suono – forse sarebbe più esatto definire questa sensibilità “amore” – una registrazione molto amatoriale su nastro (audiocassetta) di un brano musicale (la Sonata op.1 di Alban Berg). Il pezzo era suonato espressivamente, con un certo slancio, e le intenzioni interpretative risultavano chiare. Il mio amico si entusiasmò del pezzo a tal punto che arrivò a dire che il suono era bellissimo. Io rimasi perplesso, perché il suono era effettivamente di qualità imbarazzante, oltretutto permeato da un fruscio insopportabile. Poco tempo dopo, la stessa persona mi fece ascoltare una registrazione di musiche per organo, da lui effettuata per una casa discografica, e della quale era particolarmente orgoglioso. Rimasi interdetto, perché alcuni registri dell’organo erano così stonati che il risultato generale era a mio parere inascoltabile. Come era possibile che una persona di orecchio così raffinato non si accorgesse del risultato musicale e andasse fiero di quello sferragliare da organetto di barberia? Semplice: l’oggetto dell’ascolto non era la musica, ma il suono, che oggettivamente era molto pulito e permetteva di ascoltare anche i minimi dettagli (dei quali sarebbe stato prudentemente meglio fare a meno). Per questa persona l’ascolto del suono in sé eclissava completamente la dimensione musicale, come viceversa il predisporsi all’ascolto di musica (in senso occidentale) cancellava l’attenzione al suono.

In altre parole: emozioni provocate da due atteggiamenti percettivi opposti venivano percepite come la stessa cosa.

Quindi se ascoltiamo musica non possiamo godere fino in fondo dei suoni e viceversa se ascoltiamo i suoni ci precludiamo il piacere di godere della forma? Ovviamente no. Senza arrivare agli estremi dell’aneddoto precedente, generalmente l’ascoltatore attento passa continuamente da un tipo di ascolto all’altro, come se avesse una sorta commutatore (“switch”) del pensiero, compiendo più o meno la stessa operazione di quando si segue lo svolgersi di una composizione a più voci: sembra assodato che il cervello non riesca a seguire più di una voce per volta, ma può di fatto ricostruire nella memoria l’andamento di una complessa tessitura polifonica spostando l’attenzione rapidamente da una voce all’altra.6

A priori dell’atteggiamento d’ascolto, vi è però la necessità per l’ascoltatore di riconoscere il flusso di suoni che sta sentendo come musica. Campanino scrive:

(...)La percezione del suono interessa principalmente, per sua propria natura, l’orecchio e il cervello. La percezione della musica, potremmo dire, presuppone la percezione del suono e comporta l’attivazione di tutta una serie di processi cognitivi che hanno come oggetto il materiale sonoro ascoltato. La percezione della musica in un certo senso, dunque, non sta nell’orecchio: qualche volta può anche farne a meno (è il caso del musicista che legge una partitura).7

Il problema è dunque capire quando siamo in presenza di musica. In genere non si hanno grandi difficoltà, ma talvolta le cose si complicano. Ritengo ad esempio che gran parte della fatica che il pubblico meno specializzato incontra nell’ascolto di alcune tipologie di musica, in particolare quella contemporanea cosiddetta di “ambito colto”, consista nel fatto che gli strumenti cognitivi tradizionalmente validi per la sua comprensione si rivelano inadeguati (o apparentemente tali). Questo perché si ha la tendenza naturale a considerare, sia linguisticamente che percettivamente, “la musica” come un insieme sostanzialmente unitario, e non come un complesso sistema, un luogo in cui l’unica cosa che accomuna i vari oggetti che lo abitano è la loro appartenenza al dominio delle vibrazioni sonore. Come già altri hanno fatto notare, non esistono parole differenti per designare una suoneria di un telefono cellulare, una sinfonia di Mahler, o un jingle pubblicitario.8

Ciò che viene continuamente messo in atto ogni qualvolta riteniamo di essere in presenza di musica, è il ricorso a categorie di ascolto che consideriamo adeguate per la fruizione e comprensione della stessa.

Le categorie necessarie e sufficienti per la comprensione di una musica come quella ottocentesca europea di ambito colto, comunemente (e impropriamente) etichettata come “musica classica”, sono possedute – in misura maggiore o minore – da buona parte della popolazione occidentale. Una delle ragioni di questo fenomeno possiamo ricondurla in primo luogo all’abitudine all’ascolto (quando non alla sovraesposizione): l’ascolto consapevole o meno di una musica modellata quasi esclusivamente su principi e strutture mutuate dai periodi barocco, classico e romantico, e di cui la tonalità non è che una delle caratteristiche – forse evidente ai musicologi, ma di cui gran parte della popolazione non sospetta nemmeno l’esistenza9. Stiamo parlando della musica leggera, del jazz, dei film, della televisione, della musica che passivamente incameriamo quando siamo in un supermercato, o in una sala d’aspetto – la cosiddetta musica “ambient”, preconizzata da Satie10, che lentamente contribuisce a formare quello strato sonoro onnipresente definito anche “inquinamento musicale”11 – e, perché no, anche della musica classica che ancora impera nelle sale da concerto. Per le generazioni più giovani bisogna includere tra i vettori di musica anche i videogames, i telefoni portatili e i nuovi gadget digitali, molto spesso equipaggiati con sofisticati sistemi di feedback sonoro.

La quasi totalità di questo “suono organizzato”, per dirla con Varese,12 ha al suo interno diversi tratti che ricorrono: in primo luogo l’essere costituito prevalentemente da tre elementi: melodia, ritmo e armonia.

Di qui una prima ovvia considerazione: la comprensione della musica è proporzionale alla familiarità che si ha ad ascoltarla. Per esempio la musica occidentale ha una spiccata vocazione a prediligere strutture melodiche. Se la normalità può essere assimilata (non è sempre vero) alla massima concentrazione statistica, allora il nostro ascoltatore medio percepirà, ad esempio, come normali tutte quelle musiche in cui sia possibile identificare una qualsiasi forma di linea melodica. Questo vale anche per le musiche che utilizzano sistemi intervallari diversi dal nostro (ad esempio quelle di tradizione araba o dell’estremo oriente), ma che di questi sistemi fanno un uso melodico (o “orizzontale”).

L’ascoltatore percepirà una musica forse “strana”, magari identificando delle connotazioni etniche (specialmente ora che la retorica della “contaminazione” è entrata irrimediabilmente nel mercato musicale), ma non avrà nessun problema a definire quello che ascolta “musica”, o se è il caso, una “canzone”. Analogamente, un brano di Prokofiev, con melodie grottesche e stralunate sarà magari considerato strano o fastidioso (in questo caso è la categoria dell’armonia, non più convenzionale, a mettere in crisi il sistema), ma sarà comunque accettato.

Per ciò che concerne il ritmo, un gruppo come i Tamburi del Bronx, che “fa musica” in un modo consapevolmente (ci si augura) primitivo, e che talvolta porta i musicisti ad assomigliare ad un manipolo di scimmie antropomorfe, viene riconosciuto come musicale in quanto le strutture ritmiche (prevalentemente elementari) sono immediatamente accettate e riconosciute parte di quella categoria ritmica che si è andata formando nel nostro modo di pensare, la stessa che permette al meccanico sensibile di ascoltare il rumore di un motore a scoppio che gira al minimo e di definirlo un “canto”.

Prendiamo ora in esame due brani di tutt’altro genere: Stimmung, di Karlheinz Stockhausen e Partiels, tratto da Les Espaces Acoustiques di Gerard Grisey.

Nella prima composizione, del 1968, un coro canta – o più esattamente vocalizza – per più di un’ora uno stesso suono, o meglio un accordo composto da note le quali non sono altro che armonici di una stessa fondamentale che non si ode mai nel corso della composizione. Un movimento continuo di pattern sillabici e sottili mutamenti timbrici (notati in partitura attraverso i segni dell’alfabeto fonetico internazionale) non intacca la sostanziale staticità. L’effetto è ipnotico, disorientante. All’ascoltatore più avveduto può far pensare – non senza ragione – a certe pratiche di meditazione dell’India o della Cina (non a caso in Giappone fu un successo clamoroso)13. Dove è finita quella “forma” sulla quale tanto si sono interrogati compositori, musicologi, filosofi?

fig.1 – Karlheinz Stockhausen, appunti per Stimmung

Nel secondo caso c’è forse qualcosa di più vicino alla nostra concezione di musica, nel senso che ascoltiamo suoni prodotti da strumenti musicali, e riconosciamo alcuni elementi che si ripetono. Il riconoscere qualcosa, anche se questo “qualcosa” non è perfettamente comprensibile, crea già un sistema di riferimento. Purtroppo gli oggetti sonori di cui è costituito Partiels non rientrano né nella categoria della melodia, né in quella dell’armonia (a meno di spericolate acrobazie concettuali). Con un po’ di fatica è possibile ricondurre alcuni elementi alla categoria “ritmo”, ma si dovrebbe parlare più che altro di “protopuslaszione”, più che di ritmo vero e proprio.

Gli oggetti di Grisey sono strutture puramente timbriche, anzi si potrebbe dire che è la struttura stessa del suono che ripetendosi subisce una progressiva trasformazione. Tecnicamente si passa gradualmente da un timbro armonico (armonico in senso acustico, nulla a che vedere con l’armonia!) ad uno inarmonico, fino a quando questa inarmonicità non mette in crisi il sistema, facendolo collassare14.

A questo punto, per comprendere questa musica, si rende necessario un mutamento di prospettiva. Nel caso di Stimmung, ad esempio, è possibile sostenerne l’ascolto solo se si adotta la prospettiva della “musica che è” (non a caso Stockhausen aveva progettato uno speciale auditorium di forma sferica, con 50 altoparlanti dislocati nella sala per favorire una totale immersione nel suono)15. In caso contrario dopo alcuni secondi il pezzo risulta insopportabile.

Oppure si possono introdurre nuove categorie, come – ad esempio – nel caso di Grisey, l’armonico e l’inarmonico. Il che é possibile ma, a nostro parere, molto complicato. Per prima cosa il numero di categorie da introdurre sarebbe se non infinito, sicuramente molto elevato, con il rischio che alcune categorie potrebbero aver valore esclusivamente per un certo brano musicale. In secondo luogo, come formare nuove categorie se non incrementando la possibilità da parte del pubblico, di poter ascoltare musiche che le presuppongano, senza dover necessariamente andarsele a cercare?

Le categorie di melodia, armonia e ritmo sono, come si è detto, necessarie e sufficienti perché l’uomo (occidentale) possa comprendere la maggior parte della musica che gli viene proposta. In altre parole perché possa riconoscere nel flusso sonoro qualcosa dotato di una propria identità, un oggetto o struttura che acquisti senso contrapponendosi ad altre strutture. Il comprendere – e qui il terreno si fa più instabile – in molti casi significa “provare un piacere” nell’ascolto, che a sua volta può essere declinato in vari modi, ad esempio dal “[...] ‹‹puro›› godimento estetico per un costrutto sonoro, alla gioia o alla disperazione, che la musica a volte evoca o sostiene, al semplice sollievo dalla monotonia, dalla noia, dalla depressione”16.

Escludendo le variabili interpretative, che giocano comunque un ruolo importantissimo, si è provato ad ordinare le differenti cause del piacere nella fruizione della musica, identificando ad un primo livello:

1. Melodia. Il piacere risiede nel fruire esteticamente una linea melodica che si sviluppa nel tempo.

2. Ritmo. Il riconoscere una pulsazione che si ripete secondo strutture più o meno complesse ma comunque percepibili. È forse il livello più immediato di comunicazione musicale.

3. Armonia. Il godere dell’effetto generato da una sovrapposizione di più suoni, disposti in modo opportuno e percepiti simultaneamente.

Poi, ad un secondo livello:

4. Forma. È un piacere di “ordine superiore” perché richiede una comprensione quantomeno di alcuni elementi primari di una musica come melodie, ritmi e armonie; consiste nell’identificare sezioni, episodi, unità formali e riconoscerli nel loro ripresentarsi all’interno di una composizione. Un livello ulteriore consiste nel cogliere le riproposizioni degli elementi formali quando questi si ripresentano variati o quasi irriconoscibili. La musica si rivela allora per l’ascoltatore come dotata di una struttura pseudonarrativa, portatrice di una sorta di drammaturgia.

5. Polifonia. Il riconoscere e seguire più linee melodiche indipendenti. Anche in questo caso provare piacere nel seguire lo svolgersi di un discorso polifonico richiede abitudine all’ascolto e un certo sforzo intellettuale. L’ascolto distratto non permette di seguire la polifonia, e la conseguenza percettiva può essere una sensazione di fastidio.

6. Poliritmia. Percepire e riuscire a seguire più ritmi che suonano contemporaneamente. Come per la polifonia è necessaria un’abitudine all’ascolto, specialmente per chi è abituato ad ascoltare musiche di tradizione europea o comunque occidentale. Ad esempio, per alcune musiche di tradizione africana sono assolutamente naturali l’impiego e la comprensione di poliritmie molto complesse, come potrebbe esserlo per un occidentale la melodia sostenuta da una base armonica.

7. “Smarrimento”. Ho chiamato così una particolare tipologia di piacere, un piacere se si vuole affine alla paura, che in certi casi può sconfinare nel fastidio. Si manifesta quando ci si trova davanti ad oggetti sonori incomprensibili, ma nei quali si intuisce una coerenza, un ordine o un significato più profondo di quello che riusciamo a razionalizzare. Lo “smarrimento” può essere provocato da un procedimento compositivo, ad esempio quando un compositore ci conduce da un livello di complessità elementare ad uno molto elevato in modo così graduale che non riusciamo ad accorgercene. Quando ne acquisiamo consapevolezza è troppo tardi, e la musica è già al di là della nostra capacità di comprenderla, di “dominarla”. L’effetto di questa perdita di riferimenti, di questo cortocircuito percettivo, è stata descritta dal nostro Leopardi con quella sintesi di cui solo i poeti sono capaci, in un verso dell’Idillio da cui siamo partiti: “(...) ove per poco / Il cor non si spaura. (...)”. Mi sono reso conto per la prima volta di questa sensazione ascoltando da ragazzo la musica di György Ligeti che accompagnava la comparsa del monolito in “2001 – Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick, che mi provocava un disagio profondo, quasi paura. Il brano in questione è il Kyrie, tratto dal Requiem di Ligeti (1963-65), ma secondo me è chiaro che anche il Ricercare a sei voci dell’Offerta Musicale di Bach, come tanta altra musica, è perfettamente in grado di indurre nell’ascoltatore questa sensazione. Lo “smarrimento” può anche essere provocato quando una (o più) delle categorie primarie (ritmo, melodia, armonia, forma) impazzisce: in questo caso la sensazione di smarrimento può sovrastare e cancellare le altre, allo stesso modo di un suono più forte che “maschera” quelli più deboli. Ritengo che lo “smarrimento” possa fungere da ponte tra le diverse attitudini d’ascolto, in quanto presuppone il perdersi nel suono che abbiamo detto essere la principale caratteristica della cosiddetta “musica che è” ma allo stesso tempo può essere esperito nella fruizione di un brano di “musica che diventa”.

Manca però, in questo elenco approssimativo e parziale, una forma di piacere che forse dovrebbe essere inserita tra le prime posizioni (se non addirittura a priori di quanto si è detto), ovvero:

8. Suono. Il piacere per il “suono in sé”, da cui ha preso il via questa riflessione, e che rappresenta la ragione d’essere non solamente di quelle musiche che fanno della meditazione sul suono il loro oggetto, ma di ogni tipo di musica.

Quest’ultima tipologia di piacere nell’ascolto è in qualche modo connessa a quello che Pierre Schaeffer chiama “ascolto ridotto”17, ovvero l’ascolto del suono in sé svincolato dalla sua origine o sorgente.

L’ascolto ridotto è un processo percettivo “anti-naturale” (nel senso, per esempio, che è naturale associare un suono alla sua sorgente) il quale, spogliando il suono di tutto ciò che non è pura vibrazione, rivolge la sua attenzione su ciò che Schaeffer chiama Oggetto Sonoro
18.

La sola evocazione dell’ascolto ridotto ci fa assumere un atteggiamento nuovo nei confronti del suono: un atteggiamento di attenzione maggiore, di stupore, di curiosità, come se ci trovassimo davanti a qualcosa di inesplorato, qualcosa di mai udito prima. «Una parola nuova è come un seme fresco gettato nel terreno della discussione19»

L’indagine del suono, l’esplorazione del suono come un universo infinito, è alla base ad esempio del canto degli sciamani di Tuva, remota regione della Siberia meridionale. Attraverso una forma di ascolto ridottissimo, una sorta di meditazione sulla voce umana, il cantore di Tuva compie un’operazione di “filtraggio” dello spettro del suono vocalico e sviluppa una tecnica di emissione (che va sotto il nome di canto di gola, in tuvano xöömej, chöömej, o koomei20) in grado di produrre suoni impossibili ad un occidentale se non attraverso sofisticate apparecchiature elettroniche. Lo sciamano di Tuva intona una nota sola, e all’interno dello spettro di questa trova tutto il materiale necessario al suo canto. In pratica è in grado di “suonare” le parziali dello spettro della sua voce come se fossero le corde di un’arpa.

Rispetto alle grossolane modulazioni che noi “occidentali” siamo in grado di compiere quando passiamo da una vocale all’altra è chiarissimo che lo spettro del canto xöömej è molto più composto e controllato (fig. 2 e 3). In questo caso, nonostante la musica sia di fatto un’esplorazione di una nota sola, il risultato è in qualche misura comprensibile all’occidentale, in quanto gli armonici intonati dal cantore sono utilizzati in funzione melodica. Il riconoscere una melodia ci permette di accettare questi suoni come musica senza eccessivi problemi (piuttosto non riusciamo a capire che tali suoni sono prodotti da un essere umano, e l’incertezza della sorgente impone all’ascoltatore un “ascolto ridotto” coatto).

Richard Strauss compie un’operazione simile ma potremmo dire speculare quando compone il celeberrimo tema dell’Also Sprach Zarathustra (composto nel 1896), che trasforma un’analisi di un suono in motivo melodico. Ciò che Richard Strauss ha in mente nel celebre inizio (utilizzato come è noto anche da Kubrick per i Titoli di testa di 2001, a Space Odyssey) non è un tema, ma un timbro, e la potenza inconfutabile di tale gesto sonoro è da ricercarsi prevalentemente nella coerenza assoluta di un suono modellato secondo le leggi della fisica, che segue i principi naturali, che prima di tutto è natura (Gustav Mahler si produrrà a sua volta in un “suono di natura”, il Naturlaut dell’inizio della prima sinfonia). In questo caso il tema affidato a quattro trombe (in Do) intona i primi armonici della fondamentale (un Do profondissimo, affidato a tutti gli strumenti più gravi presenti nell’orchestra, organo incluso).

L’accordo-timbro “naturale” che si forma (Do maggiore), basato sulla serie armonica, viene poi immediatamente negato dal suo opposto (l’accordo di Do minore), qui a rappresentare la razionalità (Apollo). Essendo dichiarato il rapporto di filiazione tra l’opera di Nietzsche e quella di Strauss, è possibile sostenere (semplificando brutalmente il pensiero nietzscheano) che il conflitto interiore tra le  due nature dell’uomo, la prima istintiva, naturale e più profonda (dionisiaca), e la seconda razionale che tenta di tenere sotto controllo la prima (apollinea), sia qui espresso con una sintesi estrema, e con un’efficacia che Strauss stesso non sarà più capace di eguagliare.21 La tonalità minore sarà alla base di tutte le sezioni in cui è protagonista la ragione (Von der grosse Sehnsucht, Das Grablied, Von der Wissenschaft), come quella maggiore lo sarà di quelle in cui prevale l’istinto dionisiaco (Der Genesende, Das Tanzlied, Das Nachtwanderlied).

La tentazione di divagare è fortissima ma – dato che ci stiamo avviando alle conclusioni rimanderemo i discorsi straussiani ad un altro momento.

Un’ultima considerazione.

Ciascuna delle modalità di ascolto sopra delineate, così come le cause del “piacere” nella fruizione musicale che sono state elencate, può generare nell’ascoltatore un grande numero di emozioni diverse; parimenti emozioni affini possono avere cause differenti. Ad esempio una sensazione di potenza, esaltazione o grandezza può essere causata dall’armonia, così come dal ritmo o da una melodia, oppure dalla combinazione delle tre. Allo stesso modo un sentimento di tristezza può essere indotto da una melodia, ma anche da un’armonia magari combinata con un ritmo appropriato.

Una sensazione o uno stato d’animo “negativo” è comunque il risultato di un piacere nell’ascolto22, un piacere che si esplica nell’esplorazione del negativo (per esempio come assistendo ad una tragedia).

Per chiudere vorrei però esprimere una personale perplessità. Credo che in fondo a tutti i discorsi sull’attitudine all’ascolto e sulle emozioni che la musica può attivare, ci sia anche un problema molto pratico, che chiamerei di “libertà emotiva”. La sensazione che alcune musiche (come la contemporanea colta, tanto per ripetermi) siano sistematicamente escluse dall’esperienza comune è un dato di fatto, che si traduce per il pubblico in una riduzione della possibilità di provare emozioni. Se in altre parole ci viene impedito di conoscere qualcosa che potrebbe indurre in noi un’emozione, è la stessa libertà di provare emozioni che viene limitata, è come vivere in una sorta di prigione emotiva. Potrei provare un’emozione bellissima, ma ciò mi è negato perché mi è negato sapere della sua esistenza.

Mi rendo conto che questo argomento ricade in alcune annose (e di fatto irrisolvibili) questioni sull’educazione musicale, e sono forse anche intuibili alcune delle ragioni che non permettono alla situazione attuale di evolvere (una per tutte il mercato). Quello che mi auguro sia possibile modificare almeno in parte è il sistema di educazione al suono, e di conseguenza all’ascolto.

fig.2 – Sonogramma di un canto xöömej (Tuva). La fondamentale è a 172 Hz.

fig.3 – Sonogramma di una voce maschile europea che vocalizza “A-E-I-O-U” su una nota di frequenza 172 Hz.

 


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Varese, E. Il suono organizzato, Ricordi-Unicopli, Milano 1985

 


Note

1 Gianni D’Elia, L’eresia di Pasolini, Effigie, Milano, 2005
2 Di Murray Schafer si vedano Ear Cleaning ed. BMI Canada 1967, The New Soundscape: A Handbook for the Modern Music Teacher, BMI Canada 1969 e The Tuning of the World, New York, ed. Knopf 1977 (tradotto in italiano in: M. Schafer, Il paesaggio sonoro, LIM, Lucca 1998).
3 Alessandro Bertinetto, Peter Kivy e il dibattito sul “Formalismo arricchito”, in P. Kivy, Filosofia della musica – un’introduzione, Einaudi 2007.
4
M. Campanino, Forma e percezione – alcune note sulla fruizione musicale, in “De musica”, anno VIII, 2004, Internet, <http://users.unimi.it/~gpiana/demus.htm>.
5 ibid.
6 La questione è comunque piuttosto complessa. Per approfondimenti si vedano: W.J. Dowling The perception of interleaved melodies in “Cognitive Psychology”, n.5 1973; R.M. Shriffin e W. Schneider Towards a unitary model for selective attention, memory scanning and visual search, in Attention and performance 6, a cura di S. Dornic, Hillsdale, NJ, Erlbaum, 1977; J. Sloboda, The Musical Mind. The Cognitive Psychology of Music, Oxford University Press, 1985, trad. italiana La Mente Musicale, il Mulino, Bologna 1988. Di quest’ultimo in particolare il cap. 5.3 “L’attenzione nell’ascolto musicale”.
7 M. Campanino, op. cit.
8 Si veda ad esempio l’interessante libro Che cosa è la musica?, di C. Dahlhaus – H. H. Eggebrecht, il Mulino, Bologna 2004
9 J. Blaking How musical is man? London, Faber, 1976, trad. it. Come è musicale l’uomo? Ricordi-LIM, Milano 1986.
10 E. Satie, Quaderni di un Mammifero, Adelphi, Milano 1980.
11 C. Cuomo (a cura di): Musica Urbana – il problema dell’inquinamento musicale, CLUEB, Bologna 2005.
12 E. Varese, Il suono organizzato, Ricordi-Unicopli, Milano 1985.
13 K. Stockhausen, Robin Maconie, Stockhausen on music: Lectures and interviews, Marion Boyars Publishers, 1999
14 L. Manfrin, Gérard Grisey: periodicità, oscillazioni e risonanze in Tempus ex machina al limite tra udibilità e inudibilità, in “De musica”, anno XII, 2008, Internet, <http://users.unimi.it/~gpiana/demus.htm>.
15 K. Stockhausen, Robin Maconie, Stockhausen on music: Lectures and interviews, cit.
16 J. Sloboda, La mente musicale, op. cit.
17 Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, Seuil, Parigi 1966. In relazione con l’aneddoto di pag. 3 cfr. anche C. Paolmba, Pierre Schaeffer: alla ricerca dell’oggetto sonoro, in “De musica”, anno I, 1997, Internet, <http://users.unimi.it/~gpiana/demus.htm>: “La verità, dice Schaeffer, è che i musicisti non hanno orecchio: sono abituati a fare musica, a pensarla, a scriverla, a immaginarsela, ma non sono abituati a rivolgere la loro attenzione all’oggetto sonoro in quanto tale. Schaeffer sostiene che gli unici in grado di ascoltare l’oggetto sonoro sono i tecnici del suono”.
18 Il processo percettivo di cui si sta parlando è la “riduzione fenomenologica” di Husserl applicata all’ascolto (cfr. Edmund Husserl, Die Idee der Phänomenologie, Fünf Vorlesungen, Husserliana, Vol. II, a cura di W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag 1950, tr. it. di A. Vasa, a cura di M. Marino, L’idea della fenomenologia, Il Saggiatore, Milano 1981). Cfr. anche Giovanni Piana, I problemi della fenomenologia, seconda ed. a cura di V. Costa, Mondadori, 2000; e Michel Chion, Guide des Objets Sonores Eds. Buchet/Chastel, Paris 1983: “Ascolto ridotto e Oggetto sonoro sono strettamente collegati; si determinano vicendevolmente, e si definiscono rispettivamente come attività percettiva e come oggetto della percezione”.
19 Cristina Palomba, Pierre Schaeffer. Alla ricerca dell’oggetto sonoro, cit. Il corsivo è tratto da Ludwig Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, Surkamp Verlag, Frankfurt am Main 1977, trad. it. Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980
20 si veda in proposito il libro di Roberto Laneri La voce dell’arcobaleno – origini, tecniche e applicazioni pratiche del canto armonico, Il punto d’incontro, 2002.
21 Tra il 1911 e il 1915 Richard Strauss lavora ad un altro poema sinfonico ispirato a un testo di Nietzsche, Der Antichrist, che poi, forse per ragioni di “marketing” intitolerà Eine Alpensymphonie. La composizione si apre con una notte e con il seguente sorgere del sole. Nonostante la fantasia dell’orchestrazione e i colori impressionistici, la potenza evocativa di questo incipit è a nostro parere decisamente meno intensa di quello di “Also sprach Zarathustra”.
22 Vedi P. Kivy, Filosofia della musica, cit.

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