Giuseppe Scuri
Déserts di Edgar Varèse


Abstract

Déserts (1954), oltre ad essere una pietra miliare nella storia della musica moderna ed il magnum opus dell’ultima fase creativa di Edgard Varèse, si caratterizza come una summa del suo ricchissimo universo poetico e sonoro; essa rappresenta il compimento di un percorso che inizia negli anni Venti, e, nello stesso tempo, il punto di ripartenza, dopo una lunga e grave crisi, verso l’esplorazione di nuove dimensioni creative.

Scopo della nostra riflessione analitica è di prendere in esame i più significativi aspetti interni della concezione e della costruzione musicale, mostrandone caratteristiche e specificità e mettendoli a confronto con le istanze estetiche che ne costituiscono i presupposti espressivi. L’opera musicale sarà presa in esame nelle sue diverse componenti, dalla genesi alla creazione, dalle forze strumentali all’orchestrazione, dalla concezione dei parametri sonori sino agli aspetti formali, per concludersi con un’analisi musicologica dedicata alla prima porzione strumentale acustica, nella quale viene radiografato l’organismo musicale dal punto di vista dell’organizzazione intervallare.


1 - L’origine di Déserts e la dialettica suono-immagine.

Déserts che fu ascoltata in prima assoluta il 2 dicembre 1954 al Theatre des Champs Elysées di Parigi, rappresenta per Varèse la concretizzazione di un sofferto processo di elaborazione estetico-linguistica durata più di un ventennio. Durante questo periodo il compositore aveva cercato di convogliare all’interno di nuove forme musicali, una complessa congerie di stimoli che vanno dalla suggestione sinestica alla multidimensionalità espressiva, dalla ricerca materica alla spazializzazione del suono; la vastità dei campi d’indagine e la complessità delle forze messe in gioco aveva sin dall’origine posto gli obiettivi di Varèse in una dimensione utopica, che impedì a progetti come The One-All-Alone1 ed Espace2 di concretizzarsi in una forma compiuta e definitiva. Oltre a ciò, la difficile condizione psico-fisica del compositore e la scarsa considerazione di cui godeva nell’ambiente musicale, avevano contribuito in maniera decisiva ad aggravare il suo estraneamento, con la conseguenza della quasi completa paralisi creativa tra il 1936 e il 1954.

Déserts acquista un rilievo straordinario nella carriera del compositore in quanto rappresenta il suo primo saggio di musica per nastro magnetico e orchestra e la prima opera musicale licenziata in forma compiuta dopo la lunga parentesi di impasse dei Silent Years, periodo silenzioso per l’inconsistenza di nuove composizioni e per l’allontanamento dalla scena musicale, ma tutt’altro che infecondo dal punto di vista della sperimentazione e dell’elaborazione teorica, acquisizioni che ricoprono un ruolo decisivo nell’ultima fase creativa del compositore.

Déserts nasce e prende forma gradualmente dall’elaborazione e dal fallimento di Espace.

«Per me Déserts è una parola fortemente evocativa. Essa suggerisce spazio, solitudine, distacco. Per me non significa solo deserti di sabbia, mare, montagne e neve, spazi siderali, strade di città deserte, non solo aspetti spogli della natura che evocano la nudità e distanza, ma anche quel remoto spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, un mondo di mistero e di solitudine essenziale. Il titolo è personale e non concepito come una descrizione della musica. Ci sono elementi in Déserts tratti da un lavoro che non ho mai ultimato e che avevo deciso di intitolare Espace.»3

Progressivamente il tema della fraternità universale, uno dei motivi ispiratori della sinfonia cosmico-corale Espace, nutrito di ottimismo modernista e di fervore internazionalista, fu fagocitato dalla tragica escalation che si innesca col fallimento della rivoluzione spagnola per raggiungere l’apice nello scoppio della seconda guerra mondiale, con la bomba atomica e i campi di sterminio. L’orrore, la desolazione, l’incubo, sono temi che pervadono in profondità Déserts; se ne avverte la presenza oscura e destabilizzante soprattutto nelle parti su nastro magnetico, che raggiungono il climax drammatico nella parossistica brutalità fonica dell’ultima interpolazione, la terza.

Non è possibile individuare un preciso punto di demarcazione tra l’orizzonte poeticocostruttivo del lavoro sinfonico-corale progettato negli anni Trenta e quello dell’opera acustico-elettroconcreta realizzata nel 1954. Com’era avvenuto nell’evoluzione progettuale che da The One-All-Alone aveva condotto ad Espace, la congerie di stimoli che non hanno potuto concretizzarsi in un progetto, infine abortito, riemergono, metamorfizzati e riattualizzati, nel progetto successivo. Così le suggestioni, i portati espressivi e le strategie operative che non hanno potuto incarnarsi in forma compiuta in Espace, in primis l’impiego delle risorse elettroniche (il suono organizzato e la spazializzazione sonora) e le implicazioni sinestetiche (il connubio tra suono e immagini, luci e colori) riappaiono, trasformati e ricontestualizzati, secondo le nuove esigenze, tra i motivi genealogici di Déserts.

La prima attestazione ufficiale della nascita di Déserts, è una lettera4 del compositore alla figlia del giugno 1949, nella quale si annunciava la collaborazione con Burgess Meredith5 per la realizzazione cinematografica di un lungometraggio intitolato le Désert.

Il film avrebbe dovuto caratterizzarsi come un pendant visivo (dialettico, non mimetico) alla propria partitura musicale. In realtà l’idea originaria su tale soggetto, il deserto appunto, rimonta ben più indietro, ancor prima della ben nota collaborazione con Arthur Miller (The Gobi Desert): ci riferiamo all’esperienza vissuta da Varèse, tra il 1936 e il 1937, nel deserto del New Mexico. Le due lunghe estati trascorse in New Mexico segnarono profondamente il compositore, che rimase indelebilmente coinvolto dal fascino di quello scenario fatto di vastità e desolazione, di mistero e di verginità primigenia; il contesto espressivo del deserto è sia luogo fisico che metafora della propria condizione esistenziale e spirituale.

Dopo il primo approccio, presto sfumato, con Burgess Meredith6, Varèse comincia la stesura della parte strumentale di Déserts nella seconda metà del 1949. La composizione della porzione acustica si protrae sino al 1952, anno nel quale il compositore inizia la registrazione del materiale poi rielaborato e fissato su nastro nelle tre interpolazioni elettronico-concrete. Durante questo triennio il lavoro di scrittura musicale prende corpo con l’obbiettivo di vederne confrontato il risultato sonoro con le immagini cinematografiche. Già durante gli anni Quaranta il compositore era stato intensamente impegnato nel tentativo di sviluppare una nuova concezione espressiva attraverso il connubio suono-immagine: Déserts prende forma in questo contesto estetico. Uno dei fini era quello di combinare il decorso sonoro a sequenze visive, la musica sarebbe stata suonata in simultanea al film (girato e montato dopo aver completato la partitura) e le immagini si sarebbero sincronizzate o avrebbero contraddetto i suoni, in un serrato confronto multimediale. La sua idea di colonna sonora era innovativa e antitetica rispetto a quella convenzionale: tra il suono e l’immagine non doveva crearsi un raccordo narrativo o una corrispondenza psicologica, ma un contrasto estraniante, un dislivello emozionale, per creare un contrappunto espressivo e stimolare nello spettatore una fruizione più stimolante e interattiva attraverso un evento sinestetico.

Durante questo triennio Varèse tenta a più riprese, sempre senza fortuna, di interessare e coinvolgere l’ambiente cinematografico nella realizzazione della sua opera. In una serie di lettere del 1952 indirizzate all’impresario e critico Merle Armitage, apprendiamo, non senza stupore, che Varèse sperava di realizzare il film nientemeno che con Walt Disney.

Il tentativo di coinvolgere Disney si deve esclusivamente al suo know how economicoorganizzativo e alla sua precedente associazione con Leopold Stokowski7 per Fantasia, film che peraltro Varèse non apprezzava minimamente. Armitage era una figura ben inserita nell’ambiente degli Studios hollywoodiani e, per inciso, anche amico personale di Walt Disney. Nella lettera indirizzatagli il 2 giugno 1952, Varèse descrive il suo progetto:

«Per deserti devono essere intesi tutti i deserti: deserti terrestri (sabbia, neve, montagna), deserti marini, deserti celesti (nebulose, galassie, etc.), e i deserti nella mente dell’uomo.8 Considerando tale concezione multipla del deserto, l’immagine visiva e il suono saranno usati nelle loro singolari specificità col fine di comunicare la bellezza e il mistero della solitudine che trova un’intensa, anche se forse inconsciamente intesa, rispondenza in ogni cuore umano….
Nella realizzazione del mio progetto la partitura sarà scritta prima, eseguita e registrata come colonna sonora. Durata, approssimativamente dai 20 ai 30 minuti. La partitura si caratterizzerà come un’unità compiuta in se stessa. Le dinamiche, le tensioni, i ritmi (o meglio, I
L RITMO, elemento di stabilità), saranno naturalmente calcolati con il film in mente. Il direttore della fotografia si familiarizzerà sempre più da vicino con la partitura ed i dettagli saranno discussi prima di cominciare le riprese. Dal materiale girato sarà operata una selezione, estratta una continuità, nella quale immagini, sequenze, etc., saranno usate per ottenere piani e volumi, che saranno organizzati e così composti al fine di ottenere un montaggio finale che sia idoneo alla già esistente costruzione musicale. Le vedute della Terra, del cielo, dell’acqua saranno filmate in diverse regioni del deserto americano: California (Death Valley), New Mexico, Arizona, Utah, Alaska. Deserti di sabbia, solitarie distese d’acqua ovunque, solitudini di neve, ripide gole desertiche, strade abbandonate, città fantasma, etc. Per le galassie stellari, nebulose, montagne lunari, le fotografie esistenti possono essere usate. Camere: 35 millimetri, bianco e nero, a infrarossi (se desiderabile colore), telescopica. Il tutto deve dare un senso di eternità, di leggenda, di una apocalittica fantasmagoria dantesca. Ho scelto i deserti perche li sento e li amo, e perché negli Stati Uniti questo soggetto offre illimitate possibilità di immagini che sono la vera essenza della poesia e del magico…. Non ci saranno spese per attori, narratore, set cinematografici, etc. Ho pianificato di ricorrere ad un ensemble strumentale di venti persone, e un piccolo coro dello stesso numero. I costi di produzione prefigurati sarebbero: coro, ensemble, direttore, registrazione, riprese, fotografi, fonici, viaggi, etc.
»9

La durata del lavoro, indicata tra i 20 e i 30 minuti, corrisponde alla durata della versione finale di Déserts, mentre il riferimento al coro lo connette direttamente al progetto di Espace. Il piccolo coro sparirà nella versione finale, sostituito dalla presenza della musica per nastro magnetico, che il compositore avrebbe iniziato ad assemblare a partire dal marzo del 1953.

Nonostante Varèse non trovi alcun appoggio, la speranza di realizzare il film non è ancora tramontata. Nel gennaio del 1954, a pochi mesi dalla prima parigina, Varèse parla ancora del progetto Déserts in questi termini:

«Immagine visiva e suono organizzato non si dovranno duplicare. Per gran parte del tempo luce e suono lavoreranno in opposizione, in maniera da causare la massima reazione emozionale. In qualche frangente essi potranno essere congiunti per effetti drammatici o per creare una sensazione di unità. Tali contrasti sono ottenuti mediante la sincronizzazione di simultanei e irrelati elementi, creando una dissociazione d’idee che esalterà l’immaginazione e stimolerà le emozioni10

Tale concezione sull’opposizione tra immagine visiva e immagine uditiva è l’estensione nel dominio visuale della nozione di zone d’intensità11 ovvero zone differenziate secondo densità timbriche, ritmiche e dinamiche, apparsa nella seconda metà degli anni Trenta, proprio durante la prima fase di progettazione di Espace.

La versione definitiva di Déserts, eseguita in prima assoluta a Parigi il 2 dicembre del 1954, si caratterizzerà, com’è noto, in forma puramente musicale. Nonostante questo dato, solo un mese dopo la tumultuosa prima, nel gennaio 1955, nel ciclo d’incontri con l’intellettuale francese Georges Charbonnier, Varèse farà ancora esplicito riferimento alla vocazione multimediale del progetto:

G. C.: Lei desidera che, a proposito di Déserts, si faccia il contrario di quello che si fa d’abitudine? Che si parta dalla partitura per costruire il film?

E. V.: Sì. Déserts è stato calcolato per questo. È necessario che il film sia del tutto in opposizione con la partitura. Solo l’opposizione può evitare la parafrasi. A certe violenze musicali devono corrispondere immagini antagoniste. A suoni violenti si opporranno, per esempio, immagini sprovviste di violenza. Come ho già detto poc’anzi, queste immagini non saranno mai descrittive. Si eviteranno le voci, quindi il dialogo. Non ci sarà alcuna mescolanza tra l’elemento umano, vocale, con il suono organizzato e l’ensemble strumentale.»12

Qui la nozione di zone d’intensità è applicata all’ambito multimediale, nelle quali Varèse prediligeva la completa opposizione tra immagine e suono. Inoltre si nota ancora una volta la presenza dell’elemento umano, vocale, che è ben distinto dalle parti dedicate al nastro magnetico e allo strumentario acustico.

Le parole di Varèse chiariscono che il fine artistico del progetto non è costruire un mero accompagnamento musicale ad un film, non importa quanto astratto, ma invece di creare un lavoro multidimensionale e multiespressivo nel quale visione e ascolto possano coinvolgere attivamente i fruitori, incoraggiando la loro partecipazione all’atto creativo.

Purtroppo l’idea di costruire un film partendo dalla partitura di Déserts andrà ad aggiungersi alla lunga lista dei progetti irrealizzati. Dovranno passare quarant’anni prima di vedere materializzata, seppure attraverso una concezione espressiva totalmente differente rispetto all’originale, l’idea di un film su Déserts, nella pellicola del video artist americano Bill Viola (1994).13

2 - Aspetti della costruzione musicale

«Dicono che nella mia musica cerco i piani, i volumi e le masse sonore. Ho utilizzato degli accordi che Arthur Hoérée ha chiamato “a grattacielo”, perché coprono una grande estensione tra il basso e il sovracuto, accordi basati sullo sfruttamento delle distanze e che, partendo da un pianissimo, raggiungono nello spazio di un secondo volumi di suono imprevisti e letteralmente esplosivi. Il mio linguaggio è nettamente atonale, benché certi temi, certe note ripetute in funzione di tonica, costituiscano degli assi attorno ai quali vengono ad agglomerarsi le masse sonore. In questo modo lo sviluppo si costruisce poco a poco, attraverso la ripetizione di alcuni elementi che si presentano sotto aspetti diversi, e l’interesse viene mantenuto vivo con l’opposizione dei piani e con la mobilità delle prospettive. Se i temi riappaiono, svolgono sempre, ogni volta, una funzione differente entro un nuovo elemento (i volumi).»14

Sin dagli esordi, Edgard Varèse ha caratterizzato la sua avventura creativa attraverso la ricerca di nuove dimensioni del musicale che traggono origine dal suono in sé; è il primo compositore del Novecento che, nella piena consapevolezza del suo significato rivoluzionario, ha pensato il timbro non solo come paritetico rispetto agli altri parametri musicali, ma lo ha anche assunto come dimensione strutturale, come fondamento stesso del processo compositivo. L’esplorazione del timbro, con le sue qualità fisiche e fenomenologiche è certamente l’aspetto più manifesto e caratteristico della sua ricerca.

La sperimentazione di nuovi timbri e l’inclusione del rumore nel dominio del musicale attraverso la nascente tecnologia elettronica applicata all’organologia, e soprattutto, la realizzazione di una nuova concezione materica nell’ambito dello strumentario tradizionale acustico, in primis fiati e percussioni, è stata ampiamente e correttamente sottolineata, tanto da diventare una sorta di luogo comune della critica, che ha sedimentato, in una parte degli studiosi, la convinzione che la portata della proposta varesiana sia da circoscrivere quasi esclusivamente al contributo dato alla causa della liberazione del suono.

In realtà la complessità dell’universo sonoro di Varèse si palesa in altre dimensioni della sua ricerca, che acquistano un rilievo teorico e pratico di pari rilevanza.

La ricerca timbrica non può essere disgiunta da altre due linee-forza che ne caratterizzano profondamente lo sviluppo creativo e che risultano decisive per comprendere, in tutta la sua portata, l’opera ed il peso che storicamente ha esercitato Varèse nell’evoluzione dell’arte dei suoni della seconda metà del novecento ovvero, la concezione spaziale della musica e la formulazione di un nuovo concetto della forma come risultato di un processo, un processo tutto interno alla materia musicale.

Questi tre macro-temi, materia, spazio e forma si presentano interconnessi nell’opera di Varèse ed acquistano un rilievo particolare nell’elaborazione della concezione estetica come nella concreta scelta delle strategie costruttive. Il richiamo agli attributi della spazialità dell’evento musicale, concepito come universo di aggregati dotati di massa e volume che interagiscono nello spazio, assieme alla concezione della forma come risultante di un processo di espansione attraverso il decorso spazio-temporale, sono tematiche che, oltre ad agire sul piano della simbolizzazione e del rinforzo immaginativo, permeano dall’interno le strategie operative e la concreta prassi messe in gioco dal compositore franco-americano.

La centralità del tema dello spazio ha importanti conseguenze sia a livello microstrutturale, ovvero nella scelta di determinati contenuti intervallari, così come sul versante della macrostruttura, ossia dell’organizzazione della forma, che per Varèse è il risultato di un processo di costruzione e trasformazione della materia nello spazio attraverso la densità del suo contenuto.

3 - Musica come ars-scientia

Alla dimensione della spazialità del suono e all’organizzazione formale del materiale vanno ricondotti gli altri campi d’interesse che Varèse ha fatto convergere all’interno del proprio multiforme universo poetico ovvero la scienza e la tecnologia.

La concezione e la pratica dell’arte-scienza e della tecnologia, non hanno nulla a che vedere con l’organizzazione e la costruzione logico-deduttiva del pensiero scientifico, così come l’interesse per le acquisizioni dell’evoluzione tecnologica, non equivale al lasciarsi sedurre dal feticismo della macchina. Entrambi questi domini del sapere non sono per il compositore modelli o strumenti a cui affidarsi e soggiacere, ma sono concepiti come serbatoi d’immagini, di suggestioni e di fantasie sonore, come una costellazione di stimoli euristici nella definizione del proprio universo linguistico ed estetico.

In questo senso va considerato il grande interesse per la matematica, la fisica e soprattutto per l’acustica. In ciò Varèse manifesta ancora una volta la sua unicità nel panorama musicale coevo. Le correnti egemoni della musica europea perseguivano un rinnovamento linguistico che si articolava attraverso una riformulazione, più o meno radicale, degli elementi costitutivi della sintassi musicale, nella quale la riorganizzazione razionale delle altezze aveva un peso preponderante; Varèse puntava invece alla rifondazione di un linguaggio che partisse dal timbro, dalla materia sonora e dalle sue qualità fisiche e fenomenologiche, nella quale la dimensione intervallare era un aspetto funzionale (accanto a ritmo e dinamica) all’articolazione spaziale della materia nella forma: in questo senso il confronto con la fisica acustica, non ha come fine la razionalizzazione scientifica dell’approccio costruttivo, ma rappresenta un veicolo di ricerca empirica, di apertura verso nuove consapevolezze teoretiche e verso l’esplorazione di nuove frontiere del suono:

«Tra sviluppo scientifico e progresso musicale esiste una solidarietà. La scienza gettando nuova luce sulla natura, permette alla musica di progredire, o meglio, di crescere e mutare in sintonia con i tempi, rivelando ai nostri sensi armonie e sensazioni mai provate prima. Sulla soglia del Bello, arte e scienza collaborano.»15

Sottolineare la centralità del connubio arte-scienza16 evidenzia l’originalità della sua proposta rispetto alle correnti egemoni dell’avanguardia musicale del primo Novecento; l’orizzonte delle scienze gli offre strumenti terminologici e paradigmi simbolici per condurre l’immaginazione creativa verso nuove dimensioni:

«Mi ispiro spesso alla matematica superiore o all’astronomia semplicemente perché queste scienze stimolano la mia immaginazione e mi danno l’impressione di un movimento, di un ritmo. C’è per me maggior fertilità musicale nella contemplazione delle stelle, meglio se attraverso un telescopio, e nella sublime poesia di certe esposizioni matematiche che non nei più ispirati sproloqui prodotti dalle passioni degli uomini. Con tutto ciò non è il caso di cercare pianeti o teoremi nella mia musica. Essendo una forma speciale di pensiero, la mia musica non può esprimere, credo, altro che se stessa.»17

Varèse era sostanzialmente un formalista, i suoi titoli sono infatti allusivi e non programmatici; come ha acutamente sottolineato Gianfranco Vinay il compositore era ostile alla fruizione psicologica della musica, ma non al rafforzamento simbolico, se questo poteva giovare al potenziamento dell’immagine sonora e ad arricchire l’espressione e la fruizione. La definizione compiuta del suo linguaggio musicale e il suo distacco definitivo dalle influenze giovanili avvengono proprio quando tutte le immagini e le fantasie visive e spaziali prendono forma nel linguaggio musicale. Il fatto che Hyperprism, aggiunge Vinay, sia la prima composizione nella quale si compie questa sintesi, senza l’ombra di debiti stilistici (Stravinskij in Amériques e Debussy in Offrandes), corrobora la tesi secondo cui la maturità stilistica fu raggiunta solo quando l’ispirazione geometrico-spaziale cominciò ad agire in profondità nella riflessione estetica e nelle strategie operative.18

Le scienze non sono però l’unica fonte delle fantasie sonore che andranno a sedimentarsi nell’elaborazione di una concezione spaziale del suono e della sua organizzazione formale. Nel corso del primo ventennio del novecento Varèse partecipò attivamente ai movimenti più importanti dell’avanguardia delle arti visive tra Parigi, Berlino e New York; fu un periodo di rivoluzione permanente che trasformò radicalmente il rapporto tra arte e realtà fino a negarlo e superarlo con nuove dimensioni espressive. Futurismo, cubismo, astrattismo, simultaneismo, giocano un ruolo fondamentale in quegli anni di formazione del giovane Varèse; le sperimentazioni degli artisti visuali lo allontanarono definitivamente dai temi letterari-naturalistici, che giocano un ruolo centrale nella produzione antecedente ad Amériques.19 È particolarmente significativo rimarcare quanta parte abbiano avuto le suggestioni provenienti dalle arti visive nell’elaborazione della sua concezione materico-spaziale, così come nella definizione della concreta prassi compositiva: trasmutazioni, intersezioni, proiezioni, opposizioni di masse, aggregazioni sonore, evidenziano la stretta analogia con la concezione volumetrica del cubismo con la proiezione dinamica del futurismo e, nella fusione sincronica degli eventi spaziali con quelli temporali, con i portati espressivi del simultaneismo.20 Un’esempio di questa rivoluzione artistico-concettuale è il nuovo universo multiprospettico e dinamico dello spazio cubo-futurista; esso consente di presentare simultaneamente sulla tela le facce di un oggetto che nella realtà si manifestano all’osservatore in una successione temporale ordinata e consequenziale.

L’intenzione di Varèse di applicare al dominio musicale l’idea dei punti visuali multipli sembra del tutto connessa alla concezione estetica degli artisti visuali.

Per i cubisti in particolare, questa tecnica si caratterizzava come espediente creativo per incorporare la temporalità in pittura. Jean Metzinger, dichiarava: «In passato la pittura prendeva possesso dello spazio, oggi essa regna anche nel tempo.»21 Come le tecniche dell’iterazione e della scomposizione, tipiche del linguaggio cubista, sono elaborate per rappresentare l’irruzione della temporalità nella pittura, così Varèse, attraverso procedimenti affini, si propone di proiettare il decorso musicale nella tridimensionalità dello spazio materico. Gli artisti moderni ponevano la temporalità al centro dei loro nuovi orizzonti poetici e tecnici; simmetricamente Varèse si propone di elaborare una nuova concezione sonora, capace di includere la spazialità nel regno della musica, tradizionalmente considerata un’arte eminentemente temporale: un nuovo concetto di organizzazione basato su una logica costruttiva di articolazione spaziale del materiale sonoro. Le prime 21 battute di Déserts, opera che analizzeremo diffusamente nei prossimi paragrafi, offrono una mirabile esemplificazione di questa morfologia di crescita, tipica dell’organismo sonoro varesiano.

4 - Spazio, densità, forma

Come occupare e organizzare lo spazio? Questo problema costituisce una delle preoccupazioni principali di Varèse; una ricognizione nello specifico delle scelte costruttive del compositore, nella scelta del materiale e nella sua organizzazione melodica e armonica permette di comprendere quanto le suggestioni spaziali assorbite e sedimentate dalle arti visive (pittura, scultura, architettura) come dalle scienze (fisica, acustica, matematica), siano state decisive nell’influenzare e definire le coordinate della sua proposta musicale.

Nessuna opera di Varèse riesce a condensare meglio di Déserts due tra le innovazioni più significative della sua ricerca creativa ossia la concezione di una musica che si caratterizza come spaziale, come interazione di corpi sonori che si muovono liberamente nello spazio - e la nuova visione della forma musicale, che non è più considerata come modello predeterminato entro cui imbrigliare il materiale, ma come forma in formazione, come risultante della libera espansione del materiale; la forma risulterà sempre nuova e sarà stabilita a partire dalle specificità dell’opera.22

La centralità della dimensione formale è sempre stata uno degli aspetti qualificanti della proposta musicale di Edgard Varèse: «In ogni opera d’arte la forma è il fattore dominante, e la mia principale preoccupazione nel comporre è appunto la forma, la struttura dell’opera che ho concepito. La forma di un’opera è il risultato della densità del contenuto23

Non è casuale se la definizione coniata dal compositore per caratterizzare sinteticamente la propria concezione musicale sia esattamente composta dal termine suono più l’aggettivo organizzato, un binomio che vuole specificare come, in sintesi, il processo costruttivo sia incentrato su due fattori principali: il suono24 e la sua organizzazione formale.

La concezione di forma nel pensiero varesiano prende le mosse dalla lezione hanslickiana. Per Varèse, come per l’autore de Il Bello musicale, forma e contenuto sono termini interscambiabili: la forma è la concrezione del contenuto, perchè il contenuto dell’opera detta forme e mezzi di realizzazione.25

La nozione di forma acquista in Varèse un mutamento di statuto rispetto all’accezione classica di morfologia stabile e predeterminata. La forma non è un punto di partenza, un modello da seguire o un contenitore pre-esistente:

«La forma è un risultato, il risultato di un processo. Ciascuna delle mie operescopre la propria forma. Non ho mai cercato di adattare le mie idee alle dimensioni di un qualsiasi recipiente storico. Per poter riempire una scatola solida di forma definita, diciamo una “scatola per sonate”, è necessario qualcosa che possiede forma e dimensioni identiche a quelle della scatola, o che abbia l’elasticità o la consistenza necessaria ad adattarvisi. Ma se si cerca di introdurvi ad ogni costo una cosa che abbia una forma differente e una consistenza più solida, anche ammesso che volume e dimensioni siano equivalenti, la scatola si spaccherà. La mia musica non è fatta per essere contenuta nelle scatole della musica tradizionale»26

Se la musica di Varèse è alla ricerca di materiale mai udito, deve allora inventare delle forme, trovare altri principî d’organizzazione, respingere i modelli abusati e logori, troppo stretti per le sonorità mobili, imprevedibili, inaudite. Viene quindi a configurarsi una nuova concezione della forma musicale non più esclusivamente autoreferenziale, ma che guarda alle scienze, all’architettura, ai modelli della natura. La forma è il risultato di un processo dinamico: tessuta come una rete mobile di relazioni tra eventi sonori, essa è la conseguenza percepibile di una struttura nascosta che unisce l’insieme, crea la coesione e determina l’esistenza dell’opera musicale nel tempo e nello spazio.

Concependo la forma musicale come risultato di un processo, Varèse sceglie di esemplificarne le caratteristiche mediante il richiamo ad un fenomeno fisico-chimico che avviene in ambito mineralogico: la cristallizzazione.

Il cristallo è caratterizzato da una forma esteriore e da una struttura interna ben definite. La struttura interna dipende dalle molecole, ovvero dalla più piccola concatenazione di atomi, che presenta lo stesso ordine e la stessa composizione della sostanza cristallizzata. La crescita di tale molecola nello spazio ha come risultato l’intero cristallo. Malgrado la trascurabile differenza delle strutture interne, il numero delle figure possibili è infinito. La forma stessa del cristallo è quindi una risultante più che una qualità fondamentale. Essa risulta dall’azione reciproca delle forze d’attrazione e repulsione come pure dalla concatenazione degli atomi:

«C’è un’idea, l’origine della struttura interna; quest’ultima cresce, si sfalda secondo svariate forme e gruppi sonori in continua metamorfosi, a velocità e direzioni diverse, a dipendere dall’attrazione o dalla repulsione di varie forze. La forma dell’opera è conseguenze di queste interazioni. Le forme musicali possibili sono innumerevoli come le forme esterne dei cristalli.»27

5 - Continuità e differenza

In Déserts Varèse elabora un contesto espressivo e linguistico paradigmatico, nel quale è possibile mettere alla prova la convergenza tra pensiero estetico e prassi compositiva.

Quest’opera rappresenta la sintesi espressiva di un trentennio di ricerca, nella quale ritroviamo tutte le più tipiche caratteristiche del vocabolario, della grammatica e della sintassi musicale varesiana: valore strutturale del suono con conseguente predilezione per parametri quali il timbro e l’intensità, rivalutazione del ritmo inteso non come funzione metrica, ma come elemento di stabilità e di coesione tra elementi opposti e correlati (supporto della forma), logica costruttiva e non discorsiva attraverso la quale, in alternativa ai consueti procedimenti sviluppativi melodico-tematici, il decorso musicale si costituisce per espansione e trasformazione di aggregazioni materiche nello spazio-tempo.

Altre componenti essenziali del linguaggio varesiano come la predilezione per cellule motiviche generatrici dal contenuto ritmico e melodico di ridotte dimensioni, il ricorso privilegiato a determinati intervalli dissonanti (seconde, none, settime, tritoni), la consueta presenza degli accordi a grattacielo (che in Déserts assumono una morfologia ben più complessa che in passato) nei quali esplode il climax generato dall’interazione e dalla collisione delle masse sonore, la predilezione per uno strumentario nel quale fiati e percussioni esercitano un ruolo di assoluta preminenza, sono motivi che non possono che confermare come Déserts si muova lungo una linea di continuità con i lavori precedenti.

In questo senso l’opera può essere considerata come una condensata ricapitolazione della elaborazione teorica e linguistica di trent’anni di ricerca musicale.

Ma Déserts, oltre a presentare diversi motivi di continuità, si caratterizza per alcune novità, e non ci riferiamo in questo frangente alla presenza del nastro magnetico, bensì a particolari aspetti stilistico-espressivi che pongono la composizione in una dimensione differente ed autonoma, distinguendola chiaramente dalle opere precedenti.

L’elemento di novità più vistoso è una sorta di processo di chiarificazione e di spoliazione del tessuto sonoro; la rarefazione del materiale musicale, lo sfumatissimo trattamento delle dinamiche, l’atomizzazione quasi puntillistica degli eventi sonori sono caratteristiche che manifestano una nuova dimensione della ricerca di Varèse. Da questo punto di vista Déserts dimostra che il compositore franco-americano non era insensibile ai più recenti sviluppi della musica contemporanea coeva, teorizzati e sperimentati dalle nuove generazioni ed in particolar modo dai compositori che la storiografia musicale ha per comodità definito la Scuola di Darmstadt. È importante ricordare che in concomitanza con la stesura della parte strumentale di Déserts, ossia nell’estate del 1950, Varèse fu invitato a tenere una serie di lezioni ai Ferienkurse, avendo così occasione di confrontarsi con la nuova generazione di compositori, un gruppo eterogeneo di musicisti accomunati dal mito-culto di Webern. Il soggiorno a Darmstadt si dimostrò così un’occasione per i giovani di conoscere la musica e il pensiero di un’icona dell’avanguardia storica che l’ambiente musicale aveva colpevolmente marginalizzato o dimenticato, e risultò, allo stesso tempo, un’occasione di confronto e arricchimento per Varèse stesso, che si dimostrò attento, più di quanto esplicitò nelle dichiarazioni pubbliche, al nuovo Zeitgeist musicale.

Detto questo, va sottolineato che le similitudini tra le atmosfere di Déserts ed alcune opere coeve dell’avanguardia post-weberniana non sono il risultato di convergenze tecniche o estetiche; Varèse, da sempre allergico ai dogmi e alle ideologie, fu sempre molto critico anche nei confronti del sistema seriale e dell’orizzonte iperstrutturalista che ne caratterizzava lo sfondo concettuale. Sebbene in Déserts non vi sia traccia palese di procedimenti seriali (il totale cromatico è infatti esplorato e conquistato per altre vie), in particolari frangenti emergono affinità stilistiche con la neoavanguardia, soprattutto nel raffinatissimo trattamento della materia sonora. Come rilevava il compositore Aldo Clementi, rispetto alle opere precedenti gli ostinati si sono fatti meno espliciti, più brevi metricamente e meno frequenti, le note lunghe hanno perduto il carattere melopeico, sono realmente note conduttrici che agiscono da strutture portanti; le masse sonore, con un meraviglioso gioco reciprocamente assorbente, sfiorano i criteri dell’informale materico ed una nuova concezione puntillistica viene realizzata a macche e grumi sonori.28

Le stesse componenti essenziali del linguaggio musicale varesiano, sembrano ripensate e sintetizzate in una dimensione nuova che, pur non rinunciando alla componente vitalistica, viene integrata da una nuova capacità di meticolosa differenziazione cromatica dei timbri, di un sempre più complesso e raffinato trattamento delle dinamiche e di una inedita volontà di frequentare le desertiche plaghe del silenzio.

Nessuna opera di Varèse si era mai spinta con altrettanta determinazione e consapevolezza nell’elaborazione di una poetica del silenzio. Il silenzio è l’elemento primordiale della partitura.

6 - Specificità linguistica

La struttura intervallare di Déserts, così come si articola nella sua porzione acustica, consiste in una serie di altezze e aggregati, che qualificano le masse e i piani sonori; questi vengono posti in relazione mediante scivolamenti, intersezioni, rotazioni nel decorso musicale, manifestando attraverso il suono un costrutto materico-spaziale. I piani sonori collidono e si respingono creando momenti di climax drammatico e di dispersione della tensione, in un processo continuo d’interazione e di mutamento cumulativo e disgregativo. Un’analisi delle scelte micro e macrostrutturali che Varèse opera all’interno dello spazio sonoro, può rendere ragione di come la concezione volumetrica permei in profondità, non solo metaforicamente, il linguaggio musicale del compositore.

Le strategie compositive che Varèse mette in gioco nel campo dell’organizzazione delle altezze, pur non potendo essere inscritte entro le coordinate di qualsivoglia sistema o metodo compositivo codificato, presentano caratteristiche precipue e costanti, che si manifestano lungo tutto l’arco della sua evoluzione creativa; queste tipologie costruttive hanno un’importanza decisiva nella caratterizzazione della sua specificità linguistica.

Fin dal 196629, Chou Wen Chung aveva sottolineato che, nello studio delle opere di Varèse, uno dei capisaldi per un corretto approccio analitico fosse quello di partire dalle parole del compositore stesso; Varèse, come è noto, si oppose in maniera risoluta a qualsiasi forma di analisi30 ed ebbe cura di non chiarire mai esplicitamente la natura delle proprie tecniche compositive; nonostante ciò, dalle sporadiche dichiarazioni del compositore si possono ricavare molti spunti di grande utilità per intraprendere una fruttuosa riflessione in questo ambito.

Una delle considerazioni generali più interessanti sulla propria tecnica, riguarda proprio Déserts:

«L’opera si sviluppa per piani e volumi opposti, producendo la sensazione di un movimento nello spazio31, e ancora: «Il movimento è creato da tensioni e intensità esattamente calcolate che lavorano opponendosi le une alle altre. Il termine intensità si riferisce al risultato acustico desiderato, la parola tensione alla grandezza dell’intervallo impiegato.»32

ed ancora:

«Per quanto a determinare questi volumi e piani contrastanti e in continuo mutamento siano gli intervalli che separano le altezze, essi non sono basati su alcun aggregato fisso di intervalli, come potrebbe essere una scala, una serie o qualsiasi altro criterio musicale esistente; sono infatti stabiliti a partire dalle esigenze di questo particolare lavoro.»33

Come abbiamo precedentemente rilevato a proposito della questione formale, un’indicazione estremamente significativa sul processo costruttivo all’opera in Varèse ci viene dalla analogia con la cristallografia. Nel riferimento alla morfologia di costituzione e crescita dei cristalli, Varèse sembra voler alludere ad un processo di generazionetrasformazione che si costituisce attorno ad un materiale melodico, armonico e ritmico molto semplice e di ridotte dimensioni. L’individuazione delle masse e dei piani sonori e del numero ridotto di note che ne formano il materiale di partenza è una delle chiavi di volta del comporre varesiano.

Alla base dell’organizzazione delle altezze non vi è una serie, un modo o una tonalità, ma un insieme di note pivot che fungono da assi o perni strutturali: «Questo continuo processo di espansione, penetrazione, interazione e trasmutazione, giustifica quella immensa sensazione di organismo in crescita, e illustra il concetto varesiano di suono come sostanza viva. Naturalmente, questa crescita del suono non è soltanto il risultato dell’organizzazione delle altezze, ma la conseguenza di tutte le caratteristiche del suono.»34 Secondo Chou, la presenza di un processo costruttivo basato sulle masse sonoree sulla loro interazione pervade tutta la produzione musicale di Varèse; la sua presenza è ricorrente anche in opere come Ionisation per percussioni, sostanzialmente priva di altezze determinate, o ancora in Density 21,5 dove il concetto di massa sonora si riduce al caso limite della melodia per flauto solo.

Il concetto di massa sonora si caratterizza come «un organismo di suoni con alcuni criteri specifici nel contenuto degli intervalli, registro, profilo, timbro, intensità, attacco e decadimento.» Le masse sonore, aggiunge Chou, «sembrano emergere dall’espansione di un’idea – le basi di una struttura interna- nello spazio sonoro. Quando queste masse sonore collidono, l’interazione tende a portare alla penetrazione, durante la quale certi attributi di una massa sonora sono trasferiti ad un’altra, causando così trasmutazioni, cambiando gli attributi di ogni massa sonora.»35

Partendo da una riflessione attorno alla terminologia e alle indicazioni del compositore e da un’indagine sulla loro verificabilità all’interno della partitura, è possibile stilare un insieme di topoi linguistico-costruttivi che definiscono le modalità delle sue scelte nel campo timbrico, intervallare e nell’organizzazione formale, modalità che ne evidenziano la concezione materico-spaziale.

Una ricognizione analitica di Déserts è particolarmente utile per comprendere in che modo le nozioni di materia, spazio e forma si declinano all’interno del costrutto musicale; Déserts, come abbiamo già sottolineato, rappresenta un campo di indagine privilegiato; dal punto di vista dell’invenzione musicale si caratterizza come il risultato più compiuto dell’ultima fase creativa e, nello stesso tempo, rappresenta la sintesi di un cammino di ricerca trentennale.

L’analisi di Déserts, affrontata attraverso la partitura e l’ascolto, si svilupperà secondo due direzioni diverse ma interconnesse che rappresentano l’essenza attorno alla quale si sviluppa il modus construendi di Varèse: la fenomenologia del materiale di base e la modalità della sua organizzazione spazio-temporale. La nostra analisi si concentrerà sia sulle scelte timbrico-organologiche (ensemble strumentale e orchestrazione) che su un’indagine che, muovendo da nozioni direttamente mutuate dalle riflessioni estetiche e dalle tecniche operative del compositore (in primis quella di piano sonoro), mostra come l’organismo musicale prenda forma dal punto di vista dell’articolazione sintattica. I piani sonori, che costituiscono le unità strutturali di base nell’opera, saranno individuati, analizzati e definiti nelle loro componenti intervallari; successivamente si mostrerà come essi vengano posti in relazione nel decorso musicale attraverso i vari processi trasformativi.

7 - Organologia36

2 Flauti (anche Ottavino)
2 Clarinetti in sib (1°anche Clarinetto in mib,
anche Clarinetto Basso in sib)
2 Corni
3 Trombe (1a
in re, 2a e 3a in do)
3 Tromboni
1 Basso Tuba
1 Contrabbasso Tuba
1 Pianoforte
5 Percussionisti:
▪ 1°: 4 Timpani, Vibrafono, 2 Piatti sospesi (acuto e grave), Cassa Rullante, Clavi, Lastra del tuono, 2 Fruste.
▪ 2°: Glockenspiel, Cassa chiara, Tamburo militare, Cassa Rullante, 2 Timbales o Tom Tom, 2 Piatti sospesi (acuto e grave), Campanaccio latino-americano, Tamburello, 3 Block cinesi (acuto, medio, grave).
▪ 3°: 2 Grancasse (media e grave) con piatto annesso, Cassa Rullante, Tamburo militare, Campanaccio, Guiro, Clavi, Tamburello, Campane tubolari.
4°: Vibrafono, 3 Gong (acuto, medio, grave), 2 Lathes, Guiro, Tamburello.
▪ 5°: Xilofono, 3 Block cinesi (acuto, medio, grave), 3 Wooden Drum (acuto, medio, grave), Guiro, Clavi, 2 Maracas, 2 Lathes.

2 Nastri magnetici di suono organizzato elettronicamente, trasmesso su 2 canali per mezzo del sistema stereofonico. 37

Déserts è un’opera concepita per due media differenti: suoni strumentali acustici e suoni elettronico-concreti. Da una parte vi è l’apparato strumentale acustico, composto da un ensemble di fiati (ottoni e legni) e da una pletora di strumenti a percussione ad altezza determinata ed indeterminata; dall’altra abbiamo un impianto stereofonico con altoparlanti, che diffonde le interpolazioni di suono organizzato fissate su nastro magnetico.

La composizione è divisa in sette parti: prima, terza, quinta, settima ed ultima, affidate ad un ensemble acustico, sono interpolate da tre sezioni elettronico-concrete. Questa suddivisione in sette episodi, pur formalmente corretta e banalmente evidente nel suo decorso sequenziale, è però, secondo noi, solo un’approssimazione alla concezione strutturale originaria di Varèse, che pensava le parti su nastro come fratture, interferenze, distonie rispetto ad un unico continuum sonoro prodotto dagli strumenti acustici. I due elementi, acustico ed elettronico, si susseguono antifonalmente, senza sovrapporsi in un gioco concertante, si alternano cioè secondo ambiti e tempi distinti e separati. Non a caso, i tre episodi di suono organizzato sono denominati interpolazioni, in quanto si incuneano tra le sezioni orchestrali38, creando così un contrasto timbrico, un corto circuito emozionale, una destabilizzazione narrativa rispetto a ciò che le precede e ciò che seguirà. Anche senza alcuna sovrapposizione o intreccio tra l’elemento acustico e quello elettronico-concreto, è del tutto evidente che la concezione timbrico-orchestrale è pensata in funzione dell’alternanza/contrasto tra i due elementi. Come sottolineava Varèse descrivendo la poetica e i principi costruttivi di Déserts, la parte strumentale acustica, pur completata in anticipo rispetto alle parti su nastro, è stata concepita tenendo sempre presente il suo rapporto con le sequenze di suoni organizzati.39

Ogni riflessione sulla poetica e il linguaggio di Déserts e di conseguenza sulle forze strumentali messe in campo a partire dalle particolari esigenze del lavoro, non può prescindere dal prendere in considerazione l’opera nella sua completezza, acustica più elettronica, evitando la tentazione, comoda quanto filologicamente discutibile, di espungere le parti su nastro perchè di difficile approccio analitico o, peggio, per inclinazioni personali legate al gusto o all’opportunità.40

8 - La parte strumentale acustica e l’orchestrazione

La tavolozza strumentale che Varèse mette in gioco in questa composizione è composta da un ensemble cameristico allargato o piccola orchestra di venti elementi, all'interno del quale interagiscono dialetticamente le due grandi forze propulsive tipiche del suo linguaggio musicale ovvero un nutrito gruppo di fiati e un variegato armamentario di percussioni. Il totale degli strumenti differenti impiegati è impressionante: più di quaranta, divisi tra aerofoni, membranofoni, idiofoni e cordofoni.

Il gruppo dei fiati, tredici in tutto, è composto in parte preponderante dalla famiglia degli ottoni, dieci tra corni, trombe, tromboni e tube e da un gruppo meno cospicuo nel numero, ma altrettanto importante, che è quello dei legni, con ottavino, flauto, clarinetto e clarinetto basso.

La compagine degli strumenti a percussione è, come di consuetudine di proporzioni eccezionali. Cinque percussionisti si misurano con una miriade di strumenti ad altezza determinata ed indeterminata, che comprende sedici tipi di membranofoni, tredici metallofoni e diciassette percussioni in legno.

Alle due forze strumentali egemoni va aggiunto l'apporto fondamentale del pianoforte, che per la sua essenza ibrida di strumento nel contempo melodico e percussivo, riesce ad interagire con percussioni e fiati su una variegata gamma di livelli espressivi.

Per quanto riguarda il rapporto tra Déserts con le altre opere orchestrali di Varèse, bisogna innanzitutto notare che lo strumentario scelto non ha più alcuna relazione con l’impronta romantica dell’orchestra sinfonica che ancora si respira in Ameriques ed Arcana. Questo organico di 14 fiati, 5 percussionisti e pianoforte, va inteso come programmatico, così come lo è l’inclusione per la prima volta nella sua opera della musica acusmatica, che Varèse indicava col termine Organized Sound. Già nelle prime opere pervenuteci, Ameriques e Offrandes, i fiati dominavano sempre gli avvenimenti accanto allo strumentario percussivo, mentre gli archi svolgevano una funzione quasi accidentale e sovente di mero rafforzamento o raddoppio delle voci dei fiati. Uno dei motivi salienti nella scrittura musicale di Varèse, sin dai primi anni Venti, consiste nell’avvicinare la prassi esecutiva degli strumenti orchestrali tradizionali alla gestualità dello strumentario percussivo.41 La riorganizzazione delle forze strumentali e il riassetto delle loro funzioni nel processo costruttivo è conseguenza della concezione strutturale del timbro, che Varèse pone a fondamento della costruzione musicale; l’ampliamento delle possibilità strumentali, l’estensione del musicale al sonoro e il desiderio di nuovi strumenti, che in Varèse poté essere soddisfatto pienamente solo nell’ultima parte della sua carriera, portò ad un tentativo radicale di far suonare i vecchi strumenti in nuovi modi.

La concezione dell'apparato strumentale e dell'orchestrazione in Déserts rivela non solo la volontà di generare un organismo musicale di estremo impatto ritmico e dinamico, ma indica, nello stesso tempo, una nuova dimensione nella ricerca materica varesiana.

L’elemento di novità più evidente dell’opera, nella sua porzione acustica, è l'esplorazione delle regioni sonore al confine col silenzio. L’orchestrazione e la prassi esecutiva di Déserts sono pensate in funzione di un’infinita gamma di gradazione timbrico-dinamica: dall’estrema rarefazione puntillistica alla massima condensazione nella stratificazione materica. Nonostante molti degli strumenti impiegati siano ampiamente familiari all'interno della letteratura varesiana, in Déserts essi si palesano per la prima volta in una veste del tutto nuova. L' approccio nei confronti della materia sonora si arricchisce di nuove sfumature rispetto ai lavori del passato. La materia sonora non è più solo esperita attraverso i suoi aspetti vitalistici e cataclismatici, ma è indagata nelle sue pieghe più recondite e sottili di variazione timbrico-dinamica. Varèse non rinuncia all'energia eruttiva e allo scontro tettonico della materia sonora, ma la dialettizza con una nuova direzione della sua ricerca musicale, che nasce dal bisogno di esplorare la spoliazione sonora, di delibare l'infinita gradazione dinamica tra il piano e il silenzio.

Sull'alternanza di tensione, che sfocia nei climax armonico-dinamici prodotti da collisioni di piani e aggregati sonori, e di riposo, la rarefazione e ricostituzione della materia sonora dal silenzio, si regge l'equilibrio e la coerenza interna di Déserts. Forse nessun’altra opera di Varèse è riuscita a concretizzare in maniera artisticamente così efficace uno dei temi più qualificanti della sua estetica, ovvero l’interconnessione assoluta di forma e materia: la forma è funzione della densità del contenuto. L’interesse verso una sempre maggior economia dei mezzi espressivi e verso una articolazione sempre più raffinata della materia sonora, ha importanti conseguenze nell'approccio costruttivo all'opera in Déserts, sia dal punto di vista della scrittura (linguaggio melodicoarmonico e coordinate agogico-dinamiche) che delle scelte di ordine organologico che presiedono la costituzione della compagine strumentale. Del primo aspetto ci occuperemo con maggiore attenzione in seguito, mentre in questo contesto è opportuno dedicare qualche riga alle ragioni che hanno guidato Varèse nella scelta degli strumenti musicali più adeguati ad esprimere al meglio la complessa e raffinata concezione timbrica di Déserts.

Ad un primo sguardo la compagine strumentale mostra una stretta contiguità con le scelte operate in passato. Assenza della sezione d'archi, ipertrofia di fiati e percussioni; sono costanti varesiane che non vengono meno neanche in questo frangente.

È sufficiente però addentrarsi un po' più all'interno delle scelte operate dal compositore per rendersi conto che le similitudini con le opere precedenti sono fin troppo ovvie e meno decisive rispetto alle novità che l’opera propone. In questo senso Déserts, pur muovendosi su una linea di continuità evolutiva rispetto al passato, propone problemi diversi e soluzioni nuove, sia dal punto di vista della scrittura che dell’orchestrazione, termini che per Varèse sono assolutamente sovrapponibili: «La stessa composizione è orchestrazione. Non si può dire scrivere un pezzo musicale e poi dire che lo si orchestrerà; i due processi devono compiersi in un solo atto, perchè l’orchestrazione è la risposta al contenuto musicale dell’opera42

Déserts è un esempio illuminante della generatività strutturale del suono e le recenti pubblicazioni degli schizzi preparatori ne danno un’ulteriore conferma. In ogni pagina degli schizzi sono già presenti tutti i dettagli timbrici (strumenti e tecniche esecutive) che si ritroveranno poi nella partitura pubblicata. L’opera presentava sin dalla nascita una precisa connotazione timbrica.43

Per comprendere in profondità l’universo sonoro varesiano è necessario quindi concentrare l’attenzione sulle caratteristiche interne dell’ensemble strumentale e sul ruolo delle sue diverse componenti in sede di orchestrazione.44 In una intervista del 1947 lo stesso Varèse sottolineava:

«L’orchestrazione è parte essenziale della struttura di un’opera. I timbri e le loro combinazioni, o meglio, la qualità dei suoni e conglomerati di suoni a differenti altezze, lungi dall’essere un fatto accidentale, sono parte integrante della forma, in quanto danno colore e contorno ai vari piani e alle varie masse sonore, creando una sensazione di separatezza45

Quest’ultimo termine, separatezza, indica un altro snodo concettuale fondamentale per comprendere l’originalità della concezione timbrica di Varèse.46 La nozione di non blending, che si esplicita in Déserts in sede d’orchestrazione mediante una precisa strategia nella scelta dell’organico strumentale e della prassi esecutiva, caratterizza un obiettivo estetico-costruttivo del tutto divergente rispetto alle coordinate del sinfonismo tradizionale: «L’orchestra sinfonica cerca il maggior amalgama possibile fra colori, io mi sforzo di chiarire all’ascoltatore per quanto è possibile la distinzione tra colori e tra densità.»47 Densità, rarefazione, espansione, condensazione, trasmutazione, conflagrazione, sono parametri della costituzione della materia sonora che prendono corpo attraverso determinate strategie timbriche, scelte strumentali e prassi esecutiva.

9 - La musique percutante

Fin dall’esordio orchestrale Amériques, le percussioni occupano un ruolo di primissimo piano nel linguaggio musicale di Varèse, acquistando uno spessore qualitativo e quantitativo straordinario rispetto agli standard della scena euro-colta coeva.

Varèse non solo ne aumenta il peso relativo nella compagine orchestrale, ma ne rivoluziona il ruolo all’interno del processo costruttivo, un processo nel quale le percussioni assumono funzioni paritetiche agli strumenti ad altezza determinata e in alcuni casi assurgono alla primazìa assoluta come accade in Ionisation, la prima composizione per sole percussioni della musica colta occidentale.48

Varèse è stato il primo compositore moderno che ha lucidamente compreso la potenzialità rivoluzionaria delle percussioni nel rinnovamento del linguaggio musicale.

Per secoli ridotti ad una funzione coloristica ed episodica, gli strumenti a percussione, proprio per le loro qualità peculiari, si mostravano refrattari ad un uso estensivo nel linguaggio musicale occidentale, che per contro si è sviluppato storicamente privilegiando la dialettica delle altezze e relegando in secondo piano parametri quali timbro, dinamica e ritmo.

Nello stesso periodo nel quale Schönberg iniziava a produrre i suoi primi lavori dodecafonici e Stravinskij si convertiva al neoclassicismo, linguaggi antitetici, ma accomunati da una concezione piuttosto convenzionale e rigida del ritmo e del metro, Varèse inaugura una nuova tendenza, esattamente opposta.

Contro la musica delle note Varèse oppone una musica di suoni, ovvero il suono organizzato49, che è un libero processo creativo aperto alla molteplicità delle esperienze sonore. Le percussioni sono l’esplosivo di cui Varèse si serve per far saltare in aria lo spazio sonoro che da secoli costituiva la grammatica e la sintassi della musica occidentale. In questo senso l’uso delle percussioni in Varèse ha delle implicazioni teoriche e pratiche più complesse rispetto ai compositori della sua generazione. Per Stravinskji, per Bartòk o per Milhaud, le percussioni non rimettono in causa il temperamento equabile e il sistema-orchestra, mentre per Varèse rappresentano un fattore rivoluzionario in questo senso, uno strumento dirompente nella battaglia per il rinnovamento linguistico.

In una concezione dell’evento sonoro nella quale l’ascoltatore viene spinto nel vortice dalla materia, una materia sonora che narra se stessa50, è consequenziale la scelta di ridurre drasticamente il peso della melodia e, nello stesso tempo, di moltiplicare gli strumenti ad altezza indeterminata, proprio per la loro valenza anti-melodica:

«Le percussioni hanno un aspetto vivente; un aspetto sonoro che è più vivo degli altri strumenti. Più immediato. L’attacco si avverte più nettamente, più rapidamente: E poi le opere ritmiche per percussione sono libere da quegli elementi aneddotici che così facilmente si trovano nella nostra musica. Appena domina la melodia, la musica diventa soporifera: si è costretti a seguire la melodia appena si manifesta e, con la melodia, è l’aneddoto che s’insinua51

La percussione, lo strumento ancestrale per antonomasia diventa uno dei mezzi espressivi più efficaci per ricercare il nuovo, per rappresentare la modernità. In ciò riaffiora il nocciolo duro dell’estetica varesiana che si muove tra le polarità del moderno e dell’arcaico, tra lo sperimentale e il magico. Il nuovo per Varèse, non è solamente ciò che prima non esisteva, ma è anche ciò che è estraneo alla nostra cultura e alle nostre abitudini percettive; in questo senso le percussioni aprono prospettive ricchissime nell’espansione dell’universo musicale attraverso il superamento della dicotomia suonorumore:

«Ciò che caratterizza la percussione è la transitorietà. La periodicità del suono normale fa addormentare l’ascoltatore. Io non faccio distinzione tra suono e rumore. Quando si dice rumore in opposizione al suono musicale si opera un rifiuto di ordine psicologico; il rifiuto di tutto ciò che distoglie dalla gradevolezza, dal farsi cullare. L’ascoltatore che opera questo rifiuto dimostra di preferire ciò che lo sminuisce a ciò che lo stimola52

Nota (suono ad altezza determinata) e rumore (suono ad altezza indeterminata), sono due aspetti complementari del suono, e tutti i suoni, nessuno escluso, appartengono di diritto alle possibilità della musica.53 L’equiparazione del diritto di cittadinanza del rumore nel regno della musica, aspetto fondamentale nell’estetica e nella prassi costruttiva di Varèse, rappresenta uno dei portati più innovativi e duraturi della sua ricerca creativa e spiega la centralità dello strumentario percussivo all’interno del suo linguaggio. La storia della musica del secondo Novecento ha poi confermato la lungimiranza del pensiero di Varèse; pur nell’estrema frammentazione e molteplicità linguistica, tutta la musica colta occidentale si è caratterizzata attraverso il ritorno al suono in sé e all’ampliamento dei confini del musicale, ambiti nei quale le percussioni hanno ricoperto un ruolo sempre più massiccio e decisivo.

La gamma espressiva della compagine delle percussioni in Déserts è, se possibile, ancora più ricca e variegata rispetto ai suoi lavori precedenti, perchè oltre a conservare le vecchie peculiarità, annette nuove componenti e sviluppa nuove funzioni.

Le percussioni, generatori di proliferazione materica, sorgenti di energia cinetica che mette in moto cellule e aggregati sonori, si ritagliano in Déserts un ruolo del tutto nuovo, speciale, autonomo, creando zone rarefatte, sfrante, espoliate, dove sembra placarsi il dramma del continuo sviluppo e collasso della materia per far spazio ad oasi di silenzio dalle quali, a poco a poco, si rigenerano lentamente i germi di un nuovi microrganismi sonori. In questi contesti l'apparato strumentale percussivo abbandona la sua vocazione al dinamismo e al parossismo per convertirsi ad una dimensione più inconsueta, intima e sottile, dove la gradazione tra il piano e il silenzio viene declinata attraverso una rarefazione pulviscolare, puntillistica, non così distante dalle atmosfere sonore della neoavanguardia postweberniana.54

Prima di addentrarci nelle problematiche interne a Déserts è necessario aggiungere qualche considerazione sulla nozione di ritmo. Varèse separa totalmente il ritmo dalla metrica: ritmo e metro sono due parametri distinti dei quali solo il primo ricopre un ruolo strutturale, mentre il secondo è solo un aspetto funzionale e secondario. A questo proposito le dichiarazioni di Varèse sono molto nette:

«Il ritmo viene troppo spesso confuso con la metrica. La scansione delle successioni regolari di battere e degli accenti ha ben poco a che fare con il ritmo della composizione. Il ritmo in musica, dà all’opera non solo la vita, ma la coesione. È l’elemento di stabilità.»55

La concezione ritmica in Varèse ha come prima conseguenza la quasi totale e costante disgregazione della pulsazione isocrona, d’ogni apparenza di regolarità nella figurazione e nei patterns. Questa tendenza ha le sue radici nella sua formazione estetica; Varèse disdegnava ciò che considerava la monotonia della ripetizione, ciò includeva ovviamente mezzi espressivi convenzionali quali il rinforzo metrico.

Pensare il ritmo, come lasciava intuire la precedente citazione, va ben oltre la dimensione dell’organizzazione delle durate. In un altro frammento tratto dalla conferenza di Princeton si legge:

«Nelle mie opere il ritmo proviene dall’interazione reciproca e simultanea di elementi indipendenti che intervengono per lassi di tempo previsti, ma irregolari. Ciò corrisponde maggiormente alla concezione che del ritmo si ha in fisica e in filosofia, e cioè di una successione di stati alternativi, opposti o correlativi.»56

Il ritmo, implica quindi un contrasto, un’oscillazione tra due stati contrapposti, un campo di tensione tra due polarità opposte. Per Varèse il ritmo è essenzialmente la modalità con la quale il suono si diffonde e irradia nello spazio; un supporto della forma.

Il ritmo è concepito quindi come variazione dinamica della densità, della forma d’occupazione dinamica dello spazio: onde di tensione, spirali aperte, movimenti rotatori, attorno ad un asse, irraggiamenti, condensazioni, rarefazioni, etc. Il ritmo in Varèse, prendendo a prestito una definizione di Hugues Dufourt, può essere inteso come il mantenimento di un ordine attraverso le proprie deformazioni continue.57

10 – Le percussioni

Iniziamo la rassegna organologica con le percussioni ad altezza determinata, il gruppo strumentale che assieme a piatti, ottavino e flauto è protagonista dell’emblematico incipit dell’opera.

Il primo dato interessante nel capitolo delle novità presenti in Déserts è la presenza di uno strumento come il vibrafono58, completamente assente nelle precedenti opere, che assume un’originale funzione timbrica ed armonica; spesso alona gli aggregati sonori con i quali entra in contatto e in brevi frangenti si ritaglia momenti solistici, come nell’ ultima sezione strumentale (batt. 280-282)59, dove ripropone, smaterializzato, il serpeggiante motivo a semitoni, enunciato per la prima volta60 dal clarinetto basso nella seconda sezione strumentale. Tranne nell’unico frangente in cui entra a far parte di una stratificazione a grattacielo (batt. 30)61, il suo range dinamico rimane sempre tra il p e il ppp. Nel finale, con flauto e pianoforte è l’ultimo strumento a lasciare la scena; dopo aver esalato all’unisono l’ultimo immateriale mib62 consegna Déserts al silenzio.

Gli altri strumenti a percussione ad altezza determinata come il glockenspiel, lo xilofono e le campane tubolari, assumono un'importanza ancor più consistente rispetto alle composizioni precedenti. I primi due, glockenspiel63 e xilofono vengono utilizzati specialmente nel registro acuto, imponendosi all’attenzione nella zona centrale della seconda porzione strumentale. Lo xilofono soprattutto, emerge dalla tessitura sfranta con una serie di raggelanti settimine di sedicesimi, marcatissime e inchiodate sulla stessa altezza, che si ripresentano secondo gradazioni dinamiche sempre cangianti (m. 157- 164)64.

Alle campane tubolari65, assieme ai gong e ai piatti sospesi, è affidato un ruolo fondamentale, quello di creare infinite risonanze e aloni, di espandere orizzontalmente la materia sonora nello spazio, prima che essa si sia condensata e fatta deflagrare nella verticalità degli accordi a grattacielo. Le prime 21 battute, che costituiscono una sorta di esposizione affidata ai fiati, sono scandite dal rintocco prima isocrono, poi sghembo delle campane, che sospende il decorso temporale e deforma la fissità ipnotica del gioco delle altezze nello spazio.66 Al concetto di risonanza67, centrale in tutta l'opera, è da ricondurre la particolare funzione di questi strumenti, che, accanto al pianoforte, creano un'atmosfera sonora espansa, atemporale e trasformano ogni altro strumento o gruppo strumentale in una sorta di campana, di voce risonante.

Raffinatissimo è l’impiego dei piatti sospesi68, capaci di portentose escursioni dinamiche dal silenzio al fortissimo e dei tre diversi gong (acuto, medio, grave)69 che invece irradiano metafisicamente la loro presenza, mantenendosi sempre tra il piano e i limiti dell’udibilità (pppp).

L'apparato percussivo è inoltre composto da una vastissima gamma di strumenti ad altezza indeterminata o ad altezza relativa, come preferiva chiamarli Varèse, allora ancora poco conosciuti ed utilizzati nella musica colta occidentale. Stiamo parlando di strumenti della tradizione musicale asiatica e latino-americana. Soprattutto la variegata liuteria afro-cubana occupa un ruolo di assoluto riferimento nella tavolozza timbrica di Déserts, con percussioni come guiro70, clavi71, campanaccio72, maracas73 e timbales.74

Molti di questi strumenti furono introdotti in ambito colto solamente a partire dagli anni Venti, dallo stesso Varèse e da compositori latino-americani con i quali fu in stretto contatto in quel periodo come Amedeo Roldan75, Carlos Chavez76 ed Heitor Villa- Lobos.77

La liuteria di origine asiatica è rappresentata oltre che dall’ampio set degli idiofoni (piatti e gong) da due tipologie di percussione in legno come i Chinese Blocks78 e la Wooden Drum.79 Entrambi gli strumenti, allora pressoché sconosciuti al pubblico occidentale, sono già dagli anni Venti presenze fisse nell’ensemble percussivo varesiano.

Assieme allo xilofono occupano la regione più acuta nella tessitura, ma rispetto a quest’ultimo, sono entrambi caratterizzati da un timbro più morbido e sonoro e ovviamente dall’intonazione indeterminata.

Meno esotica ma altrettanto ingente e composita è la sezione tamburi che attraversa tutte le gradazioni di registro dalla Gran Cassa grave80 sino al tamburello, passando per tre differenti tipi di rullante: la cassa chiara (Snare Drum)81, il tamburo militare (Field Drum)82 e la cassa rullante (Side Drum).83

I timpani si manifestano in Déserts attraverso una presenza poderosa, scultorea e secondo modalità espressive sempre differenti: come elemento concertante, come incalzante rinforzo ritmico, come forza solista capace di generare da sé nuove entità sonore, come detonatore che innesca la conflagrazione dei piani sonori nei caratteristici climax armonico-dinamici. Inoltre i timpani per la loro stessa natura di tamburi intonati, sono abilmente giocati come cerniera, tra i membranofoni ad altezza indeterminata e gli strumenti a fiato. Accanto ai quattro timpani, nello strumentario del primo percussionista troviamo anche la lastra del tuono.84

Chiudiamo la rassegna sull’armamentario percussivo segnalando una bizzarra presenza, inedita nell’instrumentarium varesiano, il singolare strumento chiamato Lath.85

Si tratta di una novità assoluta nel panorama della liuteria percussiva, innanzitutto perchè è uno strumento che, dal punto di vista organologico, non affonda le sue radici nella pratica musicale. Il Lath è sostanzialmente un’assicella di legno, lunga e sottile, dotata di impugnatura; è una sorta di evoluzione di un attrezzo da carpentiere: il frattazzo. Varèse si serve di due particolari modelli di questi strumenti, creati ad hoc per ottenere una specifica e inaudita sonorità. Hanno una lunghezza di circa 50 cm., ed il loro impiego prescrive differenti tecniche esecutive: percossi contro una superficie morbida o una dura, o ancora contro un pad86 o un cuscino di pelle. Dal punto di vista timbrico possiedono un attacco schioccante e sonoro che ricorda l’effetto della frusta, anch’essa presente in partitura, ma rispetto a quest’ultima, la coloritura del suono è più scura e morbida. La loro presenza è estremamente significativa sia come arricchimento timbrico nella tessitura, sia come agente del contrappunto ritmico giocato con tamburi, timbales e block cinesi (m. 140-141).

Ad arricchire le possibilità timbriche di un arsenale strumentale già così composito e articolato vi sono le peculiarità delle tecniche esecutive richieste ai performers.

Le innovazioni di Varèse in questo campo hanno rappresentato non solo acquisizioni decisive nella storia della percussione nella musica d’arte del Novecento, ma in una prospettiva ancora più vasta, hanno segnato tappe significative nell’esplorazione dell’universo sonoro nel senso della progressiva emancipazione del timbro.

La complessità delle parti per percussione, unitamente alla peculiarità delle tecniche richieste agli esecutori, sono frutto di un amore incondizionato e di una conoscenza straordinaria della liuteria e delle tecniche strumentali che non ha paragoni in nessuno dei grandi compositori coevi. Proprio perchè l’essenza stessa della sua musica si fonda su qualità timbriche specifiche e sulla dinamica, in partitura troviamo indicatori di tipo dinamico e istruzioni rispetto alla qualità e alle modalità di produzione del suono per ogni minima figurazione ritmica e spesso per ogni singolo atomo sonoro.

In Déserts la prassi esecutiva nelle sue svariate modalità di emissione sonora (forme d’attacco, profili del timbro e dell’intensità) diventa quasi un saggio di morfologia fonetica. I timpani, per esempio, vengono suonati con cinque tipi di battenti diversi; i timbales con le mani (dita e palmo della mano) o con mazzuole da timpani; i piatti e i gong sono fatti risuonare con modalità sempre differenti (sull’orlo, sulla cupola, sul bordo, con sordina87, dal centro al margine o viceversa)88.

La minuzia delle indicazioni richiede all’esecutore un notevole sforzo tecnico e interpretativo, che si misura attraverso una sorprendente successione di variabili esecutive. Le innovazioni strumentali nel campo delle percussioni, che la nostra riflessione ha appena sfiorato, sono tra le acquisizioni più preziose della ricerca creativa di Varèse; Déserts ne esibisce un campionario straordinariamente ricco e significativo.

11 – Gli strumenti a fiato

La presenza massiccia e strutturale degli strumenti a fiato e, per contro, la riduzione sia quantitativa che funzionale della sezione archi, si manifestano sin dagli esordi come tratti distintivi del linguaggio musicale di Varèse. In un’intervista del 1922, Varèse così si esprimeva a proposito della sua poetica costruttiva e dell’obsolescenza dei vecchi mezzi musicali:

«Per quanto riguarda gli aspetti tecnici della musica moderna, noi lavoriamo a una contrapposizione di piani armonici e di volumi sonori. Il fatto di contrapporre armonie anzichè singole note potrà sembrare curioso a chi pensa esclusivamente in termini di strumentazione tradizionale, ma la cosa diventa comprensibile a chiunque pensi che gli archi devono rinunciare alla loro supremazia [] Il violino è uno strumento del XVIII secolo, inadeguato per potenza di suono a un’orchestra di oggi.»89

Il riassetto delle forze strumentali all’interno dell’organico varesiano, già annunciato nei primi due lavori Ameriques ed Offrandes, si manifesta in tutta la sua radicalità a partire da Hyperprism, la prima composizione nella quale Varèse manifesta un linguaggio assolutamente autonomo, affrancato definitivamente dalle reminiscenze debussiane e stravinskiane. In Hyperprism per la prima volta Varèse oblitera completamente gli archi, affidando esclusivamente ai fiati le funzioni melodico-armoniche. L’organico rappresenta, nella distribuzione delle forze e nella proporzione, un esempio emblematico della morfologia di base dell’insieme orchestrale tipo di Varèse, nel quale confluiscono i tre mezzi espressivi essenziali del suo linguaggio ovvero i fiati, le percussioni e i nuovi strumenti musicali, questi ultimi incarnati dalla proto-elettronica delle sirene. Nella sua sintesi espressiva e timbrica questa composizione rappresenta un antecedente genealogico di Déserts.

Dal 1923 sino alla morte su dieci composizioni pubblicate solo due, Arcana e Nocturnal, prescrivono una sezione d’archi e una terza, Octandre, la presenza del solo contrabbasso; tutte, tranne Ionisation per sole percussioni, prevedono l’utilizzo di strumenti a fiato.

Un organico dotato di simili caratteristiche nel timbro e nella texture, non ha più nulla in comune con l’orchestra tradizionale e con le convenzionali relazioni gerarchiche tra gruppi strumentali. Tale concezione della tavolozza strumentale, nella quale il ruolo dei fiati assume uno spessore straordinario, acquista certo in Varèse connotati specifici e rivoluzionari, ma si inscrive in una tendenza timbrico-costruttiva di cui la tradizione musicale aveva già mostrato diversi esempi. È significativo ricordare che tra i compositori del passato, che Varèse ha più volte citato come influenze determinanti nella propria formazione, spicchino i nomi di Monteverdi, Beethoven, Berlioz, Wagner e Richard Strauss; tutti creatori che hanno esaltato la presenza e la qualità dei fiati, ne hanno esplorato la gamma espressiva e accresciuto il peso specifico all’interno della compagine orchestrale.

Ma non è solo nella tradizione euro-colta che Varèse può trovare parallelismi sul fronte della rifondazione dell’organico orchestrale. Un simile approccio nel riequilibrio delle forze strumentali, che privilegia accanto all’armamentario percussivo una poderosa sezione di strumenti a fiato, è una delle caratteristiche peculiari dell’orchestra jazz: la jazzband. Il jazz, linguaggio musicale che, strettamente parlando, non ha costituito un’influenza diretta, rappresenta per Varèse una significativa manifestazione dello Zeitgeist moderno e può essere citato come segno dei tempi nuovi nella contrapposizione tra orchestra classica e jazzband:

«Mettete quindici, venti musicisti jazz nella Carnegie Hall o in un altro posto qualsiasi, poi sostituiteli con un’orchestra sinfonica. L’orchestra sinfonica è un elefante idropico. L’orchestra jazz, una tigre. La prima ha perduto la sua vitalità. É dolciastra. Come non lo è la nostra epoca.»90

La presenza pervasiva dei fiati nell’orchestra varesiana è da considerare strutturale perchè risponde alle nuove istanze espressive del suo linguaggio musicale. Per le loro stesse peculiarità organologiche, tecniche e timbriche i fiati rappresentano mezzi ideali attraverso i quali è possibile evidenziare la sua concezione materica, volumetrica del suono. Gli strumenti a fiato possiedono infatti un’evidenza sonora che non ha eguali, oltre a possedere una duttilità di impiego che può essere sfruttata secondo le nuove esigenze della tecnica varesiana.

L’ensemble di fiati in Déserts è composto da 14 strumentisti: 4 per i legni, con flauto e ottavino, clarinetti (clarinetto in sib e quartino in mib) e clarinetto basso e 10 per gli ottoni, con 2 corni, 3 trombe (2 in do e una in re), 3 tromboni, basso tuba e contrabbasso tuba. La prima considerazione che emerge dalla semplice osservazione della ripartizione delle forze nella compagine, non può che riguardare l’evidente ipertrofia della sezione ottoni. Una sezione decisamente più ampia rispetto a quella dei legni, quest’ultima senza la presenza di alcuno strumento ad ancia doppia (strumenti timbricamente ricchi, ma ben più limitati nell’escursione dinamica rispetto ai clarinetti). Queste scelte nella strumentazione sono connotate da una precisa strategia espressiva; l’ensemble strumentale esprime una composita miscela alchemica che va dalle forze ctonie, scure, grevi di tube e tromboni sino alle siderali altezze metafisiche di flauti e ottavini.

Non è un caso se gli ottoni rappresentano la forza timbrica più massiccia, centrale e caratteristica nell’orchestra varesiana. Conoscendo i presupposti estetico-espressivi del suo linguaggio musicale, secondo i quali il processo di costituzione sonora avviene mediante un’articolazione eminentemente spaziale del suono, attraverso cioè una morfologia di crescita e trasformazione materica dell’oggetto nello spazio (alla quale presiedono oltre al timbro anche ritmo, intensità e altezze), non solo nell’immanenza della partitura, ma anche nello spazio fisico nel quale risuona, si può facilmente comprendere perchè gli ottoni, con la loro specificità timbrica, fatta di una qualità sonora plastica, robusta, tridimensionale, ricca di risonanze armoniche e di grande evidenza fonica, svolgano un ruolo così decisivo nella drammatizzazione sonora di Varèse.

Qualche considerazione del compositore a proposito degli ottoni si può rintracciare nelle poche schegge rimaste, pubblicate nella biografia di Ouellette, e tratte da una serie di lezioni d’orchestrazione tenute a Santa Fe del 1937: «Gli ottoni: sono pieni di sole. Sono in grado di salire direttamente da un pianissimo fino ad una potenza fantastica; capaci di attacchi imponenti, sanno ricadere con altrettanta prontezza al piano.»91 E ancora, a proposito del trombone e della tuba92: «Il trombone è probabilmente lo strumento che ha più possibilità dal punto di vista del timbro, perché non ha chiavi e produce i suoni per mezzo di una colonna d’aria e dell’utilizzo delle labbra. Il suono della tuba ha una qualità abbastanza similare a quella dei corni, pur essendo più pieno e pesante »93

Trombone e trombe assumono all’interno della compagine degli ottoni un peso eccezionale, in quanto assumono funzioni di primo piano, sia solistiche che d’insieme.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, si veda per esempio la loro funzione di asse strutturale nei climax sonori, i caratteristici, aspri, aggregati armonico-dinamici che si verificano nell’incontro e collisione tra due o più piani sonori; tra l’etremità grave del registro, occupato dalle tube (la gravità materica) che costituisce le fondamenta della costruzione, e l’estremità acuta, che rappresenta il vertice della stratificazione verticalizzata, nel quale agiscono clarinetti, flauto e ottavino (la proiezione siderale), i tromboni e le trombe caratterizzano sempre il corpo centrale e più cospicuo dell’aggregato sonoro. Per quanto riguarda i legni, accanto a strumenti ampiamente familiari nella tavolozza varesiana come flauti (ottavino) e clarinetti, ci colpisce la presenza, tutt’altro che marginale, del clarinetto basso. Questo strumento dal bellissimo timbro misterioso e crepuscolare, assai raro in veste solistica nella letteratura musicale fino alla fine dell’Ottocento94, fu impiegato in maniera significativa in due capolavori epocali della musica moderna come il Pierrot Lunaire e la Sacre du Printemps, opere che Varèse conosceva ed amava e che avevano segnato profondamente la sua formazione. Al clarone sono riservati diversi interventi solitari, nei quali emerge dalla tessitura rarefatta o dal silenzio, interventi nei quali gli viene spesso affidato il serpeggiante motivo a semitoni, quella sorta di trillo che a partire dalla seconda sezione acustica (misura 118) costituirà l’elemento motivico più ricorsivo di tutta l’opera.

La gamma d’impiego dei fiati nel corso di Déserts è talmente ricca e variegata che risulta impossibile, nel quadro di questo lavoro, renderne conto in maniera particolareggiata. Sovente la compagine è utilizzata in onde massive, che partono dal grave per espandersi verso l’acuto, altre volte è frammentata in schegge solitarie, con insistenti note prolungate oppure marcatissimi staccato che evocano immaginari linguaggi Morse. L’aspetto che colpisce di più nel trattamento dei fiati è il loro ruolo all’interno delle frequenti sezioni spoglie dell’opera, zone di vuoto dalle quali emergono, tra le frequenti pause, evanescenti fantasmi di suono e metafisiche klangfarbenmelodien in pianissimo (mis. 199). Raffinatezza nell’articolazione timbrica, nei contrappunti ritmico-melodici, e, soprattutto, nella dialettica delle dinamiche, ambito nel quale l’intensità non è più trattata come parametro accessorio ma assurge a dimensione  strutturale della costruzione musicale: la sezione fiati rappresenta la quintessenza della straordinaria maestria di Varèse come orchestratore.

12 - Le sezioni su nastro magnetico

Parlare di strumentazione o di orchestrazione in riferimento alle interpolazioni può apparire discutibile e forse improprio; trattandosi di musica acusmatica95, la fonte sonora, nastro magnetico-riproduttore-altoparlanti rappresenta qualcosa di molto diverso rispetto ad un ensemble strumentale composto da esecutori in carne ed ossa.

Ciononostante, le parti su nastro sono concepite e costruite secondo un approccio non dissimile da quello che ha guidato Varèse nell’organizzazione delle sezioni strumentali ovvero secondo una precisa strategia timbrico-espressiva.

Ognuna delle sezioni su nastro è orchestrata secondo precise caratteristiche e in funzione del posto che occupa all’interno della composizione; così le caratteristiche timbriche e morfologiche delle interpolazioni sono pensate in rapporto a ciò che le ha precedute e ciò che le seguirà. Il rapporto che intercorre tra le sezioni acustiche e quelle elettronico-concrete è quello dell’antitesi, del contrasto, della cesura; questo portato espressivo rappresenta un aspetto particolarmente significativo e affonda le sue radici nel nucleo dell’estetica di Varèse un’estetica nella quale la ricerca del nuovo viene esperita attraverso la dialettica tra elementi opposti e dissonanti, nel continuo scambio di registri; il precategoriale e il futuribile, l’alchimia e la scienza, le percussioni e l’elettronica. In Déserts questa dialettica di esprime nell’alternanza-contrapposizione tra le sezioni acustiche e quelle elettronico-concrete.

Entrare nello specifico dell’orchestrazione delle interpolazioni vuol dire innanzitutto capire come Varèse ha operato, nella scelta del materiale e nella sua elaborazione, nel lavoro di assemblaggio e nel mixaggio definitivo su nastro.

Le tre parti su nastro magnetico sono costruite mediante un processo di elaborazione elettronica di materiali sonori eterogenei, catturati da Varèse mediante registratore a bobine. Per questo motivo è improprio catalogare le tre interpolazioni secondo la convenzionale dicitura musica elettronica; la strategia costruttiva messa in atto da Varèse è profondamente differente rispetto all’estetica e alla prassi dell’elettronica propriamente detta, quella purista, che proprio in quel periodo stava muovendo i primi passi negli Studi della Radio di Colonia.96

Le interpolazioni di suono organizzato costituiscono per Varèse la prima occasione per misurarsi con i nuovi strumenti, i mezzi espressivi agognati da un trentennio: un sogno che si avvera alla soglia dei settant’anni.

Curiose sono le circostanze nelle quali questa esperienza nasce e prende forma. All’inizio del 1953, Alcopley97 e la moglie Louise, sotto le spoglie di un anonimo benefattore, fecero pervenire al compositore un regalo: un magnetofono98 Ampex 401A accompagnato da una serie di accessori per la registrazione.99 Con questo semplice supporto Varèse cominciò, a partire dall’aprile 1953100, la registrazione di un campionario di suoni e rumori industriali nei dintorni di Philadelphia, a Westinghouse, Diston e alle Manifatture Budd: «Ho sempre considerato il mondo industriale come una fonte di bellissimi suoni, una miniera inesplorata di musica in embrione.»101

Oltre a rumori di segherie, acciaierie e macchinari industriali, Varèse registra una serie di suoni di strumenti a percussione. La qualità dell’equipaggiamento tecnico non gli avrebbero comunque consentito di andare oltre la prima fissazione del materiale sonoro che, successivamente, avrebbe dovuto essere elaborato, trasformato e mixato in uno studio professionale.

In queste circostanze ebbe un ruolo decisivo l’apporto della compositrice Ann McMillan. Conosciuta durante il 1953, la McMillan, che lavorava alla RCA Victor, divenne allieva e assistente di Varèse dall’inizio del 1954. Assieme registrarono del materiale supplementare: alcune parti di organo nella chiesa di St. Mary the Virgin a New York. Successivamente, la compositrice fornì un’assistenza preziosissima nella fase di trasformazione del materiale registrato nella forma musicale desiderata, quella che caratterizzerà la prima versione delle Interpolazioni eseguite nel corso della prima parigina (2 dicembre 1954).

La storia della genesi delle interpolazioni prosegue con un’altro capitolo decisivo: l’invito ricevuto da Pierre Schaeffer a trasferirsi a Parigi per lavorare negli studi del Groupe de Musique Concrète. Mediante le risorse tecnologiche messe a disposizione dal Club d’Essai e dalla radio francese (R.T.F.), Varèse completò la seconda interpolazione e produsse la terza, coadiuvato dall’assistenza di Pierre Henry.102

Subito dopo la prima dell’opera del 9 dicembre 1954, Varèse, insoddisfatto del risultato ottenuto, tanto per il contenuto, quanto per la qualità plastica, intraprese un faticoso lavorìo di modifica fatto di aggiustamenti e rielaborazioni.103 Due ulteriori versioni intermedie furono prodotte prima di quella definitiva del 1961104, elaborata presso gli studi del Columbia-Princeton Electronic Music Center con l’assistenza tecnica dei compositori Bülent Arel e Mario Davidovsky e dell’ingegnere del suono Max Mathews.105

In un testo di presentazione di Déserts Varèse ci da una descrizione generale delle interpolazioni eletronico-concrete:

«La prima e la terza sono basate su suoni industriali (suoni di frizione, di percussione, sibili, stridii, sbuffi) prima filtrati, trasposti, trasmutati, miscelati, etc. con procedimenti elettronici e poi composti secondo le esigenze prestabilite dal piano dell’opera. Combinati con questi suoni come elemento strutturale e stabilizzante (specialmente nella terza interpolazione) ci sono poi dei frammenti di percussione strumentale, alcuni dei quali già presenti in partitura, altri nuovi. La seconda interpolazione è per un insieme di percussioni.»106

Già da una veloce comparazione tra la prima versione e quella definitiva è evidente il miglioramento sia nella qualità sonora che nella organizzazione della materia musicale.

La versione del ’61 rispetto a quella del ’54 è più complessa, multistratificata; Il decorso musicale più plastico e continuo, i riferimenti alle fonti sonore originarie sebbene ancora individuabili, sono trasfigurati e ricomposti; i suoni s’intrecciano e si muovono non solo attraverso lo spazio, ma cambiano morfologia e carattere attraverso le nuove tecniche di inviluppo e trasformazione della forma d’onda.

Nella versione definitiva, quella che oggi abitualmente accompagna le esecuzioni di Déserts, le tre Interpolazioni su nastro magnetico (Columbia University Computer Music Center), hanno rispettive durate di 2 m. e 26 sec., 3 m. e 14 sec., 3 min. e 9 sec.

La Prima Interpolazione è caratterizzata da continuum sonoro allucinatorio dominato da rumori industriali filtrati, elaborati e spazializzati. Inizia con un vigoroso attacco di percussioni subito metamorfizzato in un martellante continuo di colpi metallici, fischi, sibili, sonorità perforanti e acidi sovracuti; le fonti sonore originarie sono elaborate elettronicamente in modo tale che risulti praticamente impossibile, attraverso l’ascolto, ricostruirne la provenienza. I glissandi, quasi del tutto assenti nella versione del 1954, abbondano, connettendo gli oggetti sonori attraverso diverse aree di altezza e di registro.

L’Interpolazione presenta un decorso sonoro multistratificato che sprofonda l’ascoltatore in un viaggio onirico, o meglio, in un incubo sonoro di straordinaria intensità drammatica.

La Seconda Interpolazione, la più lunga delle tre, è la più semplice nei suoi elementi costitutivi, e costituisce una sorta d’intermezzo, una parentesi di allentamento della tensione al centro di Déserts, tra la seconda (la più lunga ed articolata) e la terza sezione strumentale acustica. Il materiale musicale è tratto quasi in toto da suoni registrati da strumenti a percussione trattati elettronicamente. Nella prima parte si ascoltano soprattutto metamorfosi di irraggiamenti di piatti sospesi e gong; sonorità espanse e risonanze spazializzate si sovrappongono a colpi lenti, lontani di membranofoni irriconoscibili, ronzii e raschiamenti elettrici, scrosci di rumore bianco. Verso la metà della sezione i suoni si diradano, occorrenze sporadiche di colpi di percussioni, forse un chinese block o uno xilofono trasformato elettronicamente in una sonorità che ricorda lo sgocciolìo, punteggiano il decorso, dapprima sporadicamente poi con occorrenze ravvicinate fino alla reiterazione maniacale. Su uno sfondo incastonato di poche e irregolari esplosioni sorde di sonorità deformate di timpani e tamburi, lo sgocciolìo si sdoppia in due entità sonore distinte che si intersecano crescendo di intensità sino al vigoroso attacco dei timpani che segna l’inizio della terza sezione strumentale.

Nella Terza Interpolazione Varèse mette in campo tutte le forze dell’armamentario e della tecnologia elettroacustica a sua disposizione; non solo tra le tre sezioni è la più impegnativa dal punto di vista compositivo e la più scioccante dalla prospettiva dell’ascoltatore, ma rappresenta altresì il punto di più alta intensità drammatica, il climax catartico dell’opera nel suo complesso. Il nastro inizia con una varietà di glissandi che si evolve presto in serie di improvvise e staccate sovrapposizioni di suoni elettronici gravi e acuti che frammentano la continuità del decorso sonoro e si concludono con una verticalizzazione verso l’acuto, che non è altro se non una stilizzazione elettronica del tipico accordo a grattacielo (0:31 sec. dall’inizio). I glissandi ritornano in primo piano muovendosi lentamente nella zona grave del registro per poi spostarsi verso l’acuto e il sovracuto. Un suono lacerante emerge crescendo in intensità: è una voce umana in distorsione, un grido disperato che s’impenna glissando verso l’alto. Il grido si prolunga nello spazio e presto si sovrappone a una ridda di suoni sporchi e deformati di colpi di percussione e a mostruose sonorità di propulsori e seghe industriali. Un breve intermezzo di rarefazione del tessuto nel quale si intrecciano corte onde e spirali eletroniche acute, anticipa il crescendo drammatico della seconda parte dell’interpolazione. Quest’ultima parte si apre con rabbiosi clusters di organo stratificati su interpunzioni percussive e su un perforante glissando che si frantuma appena prima di lasciare spazio ad un altro raggelante e lunghissimo glissando, un urlo umano, metallico ed elettrico ad un tempo.

Il movimento si arresta; lenti, foschi e remoti colpi rimbombano gravemente all’orizzonte: trasfigurazioni sonore di martelli pneumatici, del greve passo di un gigante o forse di lontane detonazioni di bombe. Riappaiono brevi e rallentate parabole glissanti nella zona grave, che ricordano le sonorità delle sirene, quando vengono fatte funzionare per un brevissimo lasso temporale, accese e subito spente prima di farle raggiungere un’alta frequenza. Contemporaneamente acidi e acuti aggregati rumoristici industriali collidono tra di loro. I materiali sonori coinvolti iniziano un processo di stratificazione in complessi sempre più densi, sino a morphizzarsi107 in due bande, una che occupa la zona acuta e l’altra quella grave del registro, che procedono in parallelo in un continuum progressivo che cresce lentamente in altezza: il perforante crescendo continua impietosamente fino ad un climax, nel quale sparisce la banda più grave lasciando in primo piano la sola banda acuta, un sinistro grido elettronico che squarcia lo spazio per diversi secondi prima di lasciare spazio alle percussioni dell’inizio della quarta e ultima sezione strumentale. L’Apocalisse rumoristica della Terza Interpolazione è veramente l’acme drammatico-espressivo di Déserts; la seguente sezione acustica finale infatti può essere considerata come una sorta di Coda o di epilogo nella quale il materiale sonoro andrà vieppiù diradandosi e smaterializzandosi fino a svanire nel silenzio.

Secondo le esplicazioni fornite da Varèse, le parti su nastro avrebbero dovuto suggerire l’idea di deserto nudo, impersonale, inflessibile, mentre le parti strumentali suggerirebbero il lato umano di questo dialogo. In realtà le fonti rumoristiche, seppur elaborate elettronicamente, rimandano ad immagini più concrete che non le combinazioni di suoni affidate agli strumenti acustici.108 L’antifonia acustico/elettroconcreto potrebbe essere interpretata, ed all’ascolto pare un’ipotesi convincente, come l’antifonia tra la dimensione conscia, razionale, creativa, di contro a quella inconscia, irrazionale, distruttiva. Le tre Interpolazioni rappresentano ancora oggi, un’esperienza sonora letteralmente scioccante. La loro brutalità fonica sconcerta noi, fruitori del terzo millennio, avvezzi alle più radicali sperimentazioni elettroacustiche e rumoristiche degli ultimi cinquant’anni, possiamo facilmente immaginare l’effetto provocato sugli ascoltatori di allora. Il memorabile scandalo della prima parigina del 1954 fu in gran parte causato proprio dalle traumatizzanti Interpolazioni su nastro magnetico.109


13 - 30 battute di Déserts: un’analisi intervallare

La prima parte strumentale di Déserts, ed in particolar modo l’incipit stesso, costituito dalle prime 21 misure, rappresenta una sorta di esposizione del materiale musicale e, in sintesi, una anticipazione della morfologia del processo costruttivo che troverà un’articolazione più vasta e complessa nel prosieguo dell’opera. Déserts prende forma dal silenzio, introducendo l’ascoltatore in un’atmosfera ieratica, sospesa, arcaicizzante, nella quale campane tubolari, xilofono, pianoforte, ottavino e clarinetto, e poi piatti e trombe in sordina, rintoccano ed espandono, in iterazione risonante, l’intervallo di nona [fa4-sol5] l’aggregato armonico che costituisce il primo piano sonoro dell’opera (m. 1-6).

Negli esempi seguenti tratti dalla partitura abbiamo scelto, per velocizzare l’individuazione, di caratterizzare cromaticamente i diversi piani sonori. Il primo piano sonoro è evidenziato col colore giallo {vedi ex. 1}.

Tale aggregato (la nona) è una sorta di cellula sonora generatrice; sarà l’attore principale della drammatizzazione musicale nelle 21 battute d’esordio ed andrà a generare capitali conseguenze a livello sintattico e formale nell’articolazione sonora complessiva. Nell’ultimo quarto della sesta battuta, dislocata in una zona più grave del registro, una nuova entità prende corpo: è il secondo piano sonoro. I due corni e il pianoforte enunciano un’altra nona maggiore, l’intervallo [re2-mi3], nell’esempio caratterizzato dal colore rosso {vedi ex. 1}. È interessante notare come già da queste primissime battute emerga l’essenza stessa della concezione costruttiva varesiana che si fonda su una dialettica elementare del materiale sonoro, fatta di una estrema economia nelle risorse armonico-melodiche di base, ma declinata nella più ricca articolazione timbrica, ritmica e dinamica. Si veda per esempio la raffinatezza nella differenziazione delle curve dinamiche, le modalità di attacco ed estinzione del suono, l’entrata binaria degli strumenti, che enunciano le due note intonando l’intervallo secondo l’indicazione dinamica dal forte al mezzo piano da parte dell’ottavino (sol), e piano dal clarinetto (fa), attenuando ed offuscando così la spigolosità della dissonanza, mentre pianoforte e piatti (in piano) e campane tubolari (forte e laissez vibrer) espandono la nona orizzontalmente nello spazio.

Nell’incedere delle campane tubolari, che scandiscono ieraticamente il decorso sonoro delle prime 21 misure (fino al primo climax sonoro), è possibile osservare un esempio particolarmente indicativo del procedimento costruttivo varesiano. La costruzione dell’oggetto e del processo generativo e trasformativo si genera da una cellula motivica minima di base, costituita anche da una sola nota o intervallo che viene enunciato, articolato e differito all’interno di una perpetua (spesso sottocutanea) variazione ritmica, dinamica, timbrica. Le prime battute di Déserts esemplificano in maniera mirabile i portati espressivi che sorreggono le strategie costruttive di Varèse ovvero la trasformazione materica del suono nello spazio-tempo e l’idea di forma, che scaturisce da una dinamica processuale fondata sulla densità degli eventi.

In questa prima porzione strumentale (fino alla m. 13) i due piani sonori (due none) procedono in parallelo in differenti zone dello spazio sonoro, senza giungere ad un reale confronto esplosivo. Unico accenno di contrapposizione è l’episodio tra la misura 11 e la 13: dall’orizzontalità rarefatta del tessuto sonoro emerge, una sovrapposizione piramidale dei due piani sonori, nel quale le due none [re-mi] [fa-sol] sono accatastate, una sull’altra, in una sequenza enunciata da tuba, tromboni e trombe, che va dal grave all’acuto per poi tornare al grave. È il primo corrugamento della superficie sonora di Déserts, una sorta di rilievo orografico di suono, che emerge e presto scompare negli abissi della tessitura. Alla battuta 7, nella breve figurazione enunciata da clarinetto e clarinetto basso (con un sommesso corno in pp) e col sostegno della campana tubolare e del pianoforte, irrompono due nuove altezze, do5 e la3, che dividono simmetricamente le due none d’apertura in segmenti equivalenti, frantumando lo spettro sonoro e la regolarità della scansione ritmica delle prime 6 misure {vedi ex. 2}.

Le due fascie sonore originali si duplicano, diventando così il risultato della sovrapposizione di due quinte, [fa4-do5] + [do5-sol5] nel primo piano sonoro e di altre due quinte, [re2-la3] + [la3-mi3] nel secondo. La sovrapposizione di complessi intervallari di quinta ha importanti conseguenze nella costituzione e nello sviluppo della materia musicale di Déserts. Considerando, in una virtuale estensione del complesso delle quinte, che la quinta inferiore alla nota d’appoggio del primo piano sonoro (complesso di due quinte sovrapposte fa-do-sol) è si naturale, e la quinta superiore al secondo piano sonoro (quinte re-la-mi) è sib, possiamo verificare che la nuova entità sonora, che Varèse introduce a partire dalla misura 14, che possiamo considerare come il terzo piano sonoro, è esattamente costituita dall’intervallo [sib2-si3], un’altra nona, questa volta minore, enunciata da trombone, tuba con sordina e pianoforte. Alle due altezze (sib-si) si aggiunge poco più tardi, alla misura 17, il do#4 del secondo trombone e del pianoforte, che completa il terzo piano sonoro (colore blu), posizionandosi alla distanza di una nona maggiore sopra il si3 {vedi ex. 3}. Va notato che questo terzo piano sonoro, essendo costituito da un tricordo formato da una nona min. + una nona mag., si caratterizza come una nuova sintesi cumulativa, nella progressiva occupazione per none dello spazio sonoro. Questa struttura di none, maggiori e minori si dispiega nel decorso musicale sovrapponendosi ai due complessi intervallari d’apertura [fa-sol], [re-mi] che campane e pianoforte, ora con accenti differiti, continuano a scandire e ad irradiare nella texture.

Questo procedimento costruttivo genera espansioni e stratificazioni armoniche, che intersecate con le altezze delle prime misure che ancora sono presenti, dividono lo spazio sonoro in quinte e tritoni sovrapposti. Lo spostamento degli accenti delle percussioni e dei fiati e la loro voluta ambiguità negli attributi timbrici, che ora sono luminosi ed ora più opachi, ora densi, ora smaterializzati, danno all’ascoltatore la sensazione di instabilità e di una tensione latente. Questo incedere, unito alle intermittenti apparizioni della terza nota dei tre differenti piani sonori (il do, il la, il do#) crea un effetto destabilizzante anche nei confronti delle none, che invece normalmente sarebbero percepite come entità più stabili.

La ricorrenza del numero nove, palese e dissimulata, a partire dagli intervalli strutturali di questa prima suddivisione formale, le none appunto, sino alle note che costituiscono i primi tre piani sonori, sempre nove, induce a soffermarsi brevemente sull’emergere di questa curiosità numerologica. Alcune ricorrenze; nove misure dopo l’esposizione dei primi due piani sonori (di none) che si completa alla misura 13 (numero di semitoni racchiusi in una nona minore), si verifica il primo climax armonico-dinamico (misura 22). Esattamente nove misure dopo questo primo climax, esplode, alla misura 31, il secondo climax. Inoltre, complessivamente, i climax sonori veri e propri, quelli di grande magnitudo, sarebbero sempre nove. Sulla scorta di queste suggestioni è possibile rintracciare diverse corrispondenze in questo senso; preferiamo non soffermarci su una trattazione particolareggiata di questi aspetti, che potrebbe aggiungere molte curiosità, ma forse non ci porterebbe molto lontano nella reale comprensione della struttura del costrutto sonoro.110

Ci interessa di più evidenziare un aspetto, che invece pare disvelare una significativa e reale connessione strutturale tra l’intervallo di nona e la forma globale dell’opera. Ci riferiamo all’ultima nota che chiude Déserts: il mib. Considerando il mib come fondamentale, la nona ascendente è il fa, ovvero la nota principale, il confine più grave dell’aggregato intervallare che costituisce il primo piano sonoro dell’incipit (la nona fasol).111 L’intervallo di nona caratterizza quindi il nucleo della microforma, dal quale prende avvio il processo di costituzione ed elaborazione sonora e, nello stesso tempo, presiede organicamente la macroforma armonica, come manifesta l’epilogo dell’opera che rievoca, ormai rallentata ed evanescente, la cineticità rappresa e la stasi intervallare delle battute d’apertura. L’inerte decorso evolutivo del materiale sonoro delle prime venti misure, che Jonathan Bernard ha definito come stasi in sviluppo112, è interrotto bruscamente dalla prima significativa trasformazione del materiale. Le espansioni e le suddivisioni derivate dalle premesse armoniche delle quali si è detto, portano alla prima drammatica conflagrazione di piani sonori di Déserts, che si verifica nella misure 21-22.

Un senso di urgenza emerge alla alla fine della misura 20 e, dopo l’ultimo rintocco delle campane tubolari, sulla nona minore [sib-si] enunciata da tuba e corno, si innesca il caratteristico accordo a grattacielo, che agglomera e impenna le strisce sonore di ottoni e legni (col sostegno massiccio del pianoforte) in una stratificazione verticale in crescendo, subitanea, aspra e parossistica. Va notato che il materiale che prende parte alla prima collisione di piani sonori nella misura 21 è costituito sia da componenti del secondo piano sonoro (rosso) e dal terzo (blu) che da due nuove altezze, nell’ordine il do# e il sol# che evidenziamo in verde nella nostra esemplificazione grafica {vedi ex. 4}. Nel climax, il nuovo materiale si interseca nella stratificazione di quinte e none in una costruzione che, in un lasso temporale brevissimo, sale dalla regione medio-grave del registro (ottoni) sino alla regione acuta (legni). Considerando il movimento sonoro complessivo che va dalla base, fine della misura 20 (il sib grave della tuba), sino al vertice acuto della misura 22 (mi dell’ottavino e del clarinetto), dal punto di vista armonico l’aggregato si caratterizza come una spazializzazione della quarta eccedente ovvero di un mega-tritono. Questo intervallo è una delle componenti più tipiche e significative della grammatica sonora di Varèse. L’aspetto interessante del caso specifico è dato dal fatto che un complesso così fortemente aspro, dissonante, asimmetrico nella sua morfologia timbrica, armonica e dinamica, è sorprendentemente costruito su una perfetta simmetria a specchio.

L’ordine degli intervalli dal basso all’alto è esattamente uguale a quello dall’alto al basso: sol#-re (tritono)→re-la (quinta) → la-mib (tritono) → mib-sib (quinta) → sib-mi (tritono). Esaurito il parossismo fonico della stratificazione verticalizzata, pur tuttavia alcune componenti di essa della regione acuta, come ottavino, flauto e tromba proseguono il loro corso sonoro, proiettando orizzontalmente flebili ma costanti strisce luminose sulla risonanza espansa con pedale del pianoforte (mis. 22-29). Dal punto di vista armonico ci troviamo ancora all’interno di rapporti intervallari di tritono (sib-mi) e nona minore (mib-mi). Nonostante la rarefazione del tessuto sonoro, la status di tensione non è risolto. Scorie del climax appena concluso emergono a punteggiare la fissità sospesa del decorso sonoro; le percussioni riemergono in primo piano, prima con i timpani che riaffermano un tritono discendente re-sol# (m. 23), poi con gong, grancassa e piatto sospeso. Figurazioni ritmiche si intersecano tra percussioni e clarinetti (mis. 24- 28); prima una nota isolata del clarinetto (la) e poi una figurazioni ritmico-melodica sincopata, eseguita da clarinetto e clarone, (ancora un nona e un tritono, mis. 26-27) si alternano a due sonori interventi del tamburo militare e della cassa chiara, un’acciaccatura con rullo pressato113 (m. 26) e un gruppetto (m. 28) {vedi ex. 5, pag. precedente}. I tre wooden drum (dal grave all’acuto) preannunciano, in forma stilizzata, il secondo climax sonoro, che innescato dalle bocche di fuoco dei timpani (tritono e nona minore), esplode con violenza nella misura 30.

Il secondo climax, che inizia a misura 29 (timpani) e raggiunge l’apice nelle misure 30-31 (ottoni, legni e pianoforte), contiene una maggiore spinta motoria ed una più vasta estensione nel registro rispetto al primo {vedi ex. 4 ed ex. 6}. Anche nella morfologia di crescita della stratificazione esso presenta una maggior complessità. Il primo climax si caratterizzava con una progressione in crescendo che partiva dal centro, si inabissava verso il grave per poi impennarsi in rapida sequenza di strati attraverso la zona media verso l’acuto. Il secondo climax invece, dispiega la sua crescita dinamica secondo una morfologia più tormentata ed articolata; gli strati si affastellano in rapida successione dal medio al grave, risalgono al medio, ridiscendono al grave per poi impennarsi verso la zona acuta del registro.

Anche sul versante della densità intervallare questo secondo climax è ben più composito del primo. Nel climax precedente (mis. 21-22, ex. 4) prendevano parte alla stratificazione le altezze del secondo piano sonoro, re, la, mi, quelle del terzo, sib, si, do#, più le due nuove altezze emerse proprio in quel frangente ovvero sol# e mib. Il  secondo climax è caratterizzato dalla presenza delle quattro altezze principali del secondo e terzo piano sonoro, armonicamente la nona maggiore [re-mi] e la nona minore [sib-si], già presenti nel precedente, sommate alle altezze del primo piano sonoro, fa, do, sol alle altezze sol#, mib (scritto come re#), con aggiunta di una nuova entità, il fa#, evidenziato con il colore verde, che potrebbe considerarsi come la terza componente del nuovo piano sonoro {vedi ex. 6}. Quest’ultima nota, il fa#, ed è importante sottolinearlo, è proprio la dodicesima altezza che mancava al completamento del totale cromatico. La progressiva occupazione dello spazio sonoro delle altezze si compie. Se il primo climax dal punto di vista armonico poteva essere considerato un tritono su grande scala, il secondo può essere definito come una grande nona minore, nonostante la radiografia minuziosa dell’aggregato mostri come la macro nona sia in realtà il risultato di una stratificazione di none e seconde minori, quinte giuste e seste minori. La conferma che la stratificazione sia essenzialmente la spazializzazione di una nona minore è data dallo sviluppo successivo del materiale musicale.

Concluso il secondo climax, linea di demarcazione tra la prima e la seconda suddivisione micro-strutturale, la ricostituzione e la trasformazione del costrutto sonoro riparte dalla zona più profonda del registro, dove tuba bassa e contrabbassa enunciano e ribadiscono un nuovo complesso intervallare composto, guarda caso, da do e si (mis. 32- 43), una settima maggiore {in arancione, ex. 6}: l’inversione o rivolto della nona minore.

Come abbiamo potuto osservare, la costituzione e trasformazione del materiale musicale,

dal punto di vista del parametro altezze, si articola secondo una progressiva occupazione del totale cromatico che prende le mosse da un materiale di base di ridottissime dimensioni. Nel prosieguo dell’opera il procedimento costruttivo si articolerà attraverso ulteriori fasi di elaborazione melodico-armonica, ma la strategia nel campo delle altezze confermerà le modalità di organizzazione che abbiamo rilevato in questa prima porzione di Déserts.

La progressiva occupazione dello spazio sonoro si origina da un intervallo di nona. La nona è una spazializzazione della seconda e la seconda (minore) è l’intervallo più piccolo, l’unità di suddivisione della scala cromatica, la distanza minima tra due entità diverse nello spazio sonoro del sistema temperato. A questo riguardo è importante sottolineare che sarà proprio l’intervallo di seconda minore a costituire l’entità sonora più importante di Déserts a partire dalla misura 118: una figurazione melodica per semitoni enunciata in solo da corno, clarinetto basso, e verso il finale anche dal vibrafono che si insinua ricorsivamente nel decorso sonoro, declinata attraverso una raffinata variazione timbrica, dinamica e melodica (mis. 118-120, 122, 156, 178, 197-198, 280-281, 285 286, 288). La preferenza di Varèse verso costruzioni armoniche che si strutturano attraverso successioni e aggregati di seconde (none), tritoni e settime è una delle qualità più tipiche del suo linguaggio musicale. Esempi probanti sono facilmente rintracciabili nel corpus delle composizioni del suo catalogo ufficiale, che va da Amériques (1921) a Nocturnal (1965), ma sorprendenti evidenze sono riscontrabili anche nelle strategie operative messe a punto nella fase di apprendistato, il periodo precedente alla Grande Guerra nel quale furono composte varie opere che furono smarrite o distrutte dal compositore prima della morte. Già in un famoso testo dello storico della musica moderna Hans-Heinz Stuckenschmidt si leggeva: «Edgard Varèse ha potuto dimostrare di aver realizzato, intorno al 1910, costruzioni di settime e di none, che, trasportate nella prassi della composizione, stabilivano una specie di equilibrio fra le dodici note.»114

Tra i documenti del lascito post-mortem di Varèse, acquisiti e riordinati recentemente dalla Paul Sacher Stiftung, è riemerso un manoscritto datato 1910, che qui sotto proponiamo115.

Questo Tree of Life, come lo ha chiamato Chou Wen Chung, il compositore e studioso che per primo lo ha segnalato e analizzato116, rappresenta in un diagramma le 12 altezze della scala cromatica disposte su un doppio esacordo.

La costruzione intervallare sale dal do al fa in none minori e scende da fa# al si per settime maggiori (rivolto di nona minore). Le diagonali in successione, che partono dal do, connettono le adiacenti altezze e i tritoni dei due esacordi117: esse rivelano un ordine degli intervalli nel quale la metà alta e la metà bassa sono costituite da inversioni retrograde (7M 2m, 2M 7m, 6M 3m, 3M 6m, 5 4), con, al centro, come asse, il tritono [la-mib]. Perfetta simmetria dello spazio sonoro. Da notare, alla la sommità del doppio esacordo l’intervallo di seconda minore [fa-fa#] e alla base una settima maggiore [do-si], collegate tra loro da due tritoni [do-fa#] e [si-fa]. La seconda e la sua spazializzazione ovvero la nona, la settima (la sua immagine speculare), il tritono: i fondamenti armonici della grammatica sonora di Varèse e i principali agenti nel processo di organizzazione intervallare di Déserts.

La conferma finale alla centralità strutturale dell’intervallo di nona ci viene dalle battute conclusive di Déserts. Lo sviluppo del materiale musicale è ormai compiuto (mis. 309); le ultime misure (310-325) costituiscono una coda, l’estremo prolungamento del suono nello spazio, un suono che va illanguidendosi nella lontananza, prima di essere riassorbito dal silenzio. Le ultime tenui forme sonore a lasciare la scena assieme al mib, sono l’intervallo di nona minore [sol-lab] dei tromboni, che abbiamo evidenziato cromaticamente col colore ciclamino e il suo alter ego armonico, l’intervallo di settima maggiore [mi-mib] dei corni, caratterizzato graficamente dal colore arancio {vedi ex. 7}.

Simultaneamente nell’accordo del pianoforte ritroviamo la somma dei due intervalli: una grande settima maggiore che racchiude una nona minore.

Simmetria costruttiva e unità organica: Déserts si chiude ad arco, svanendo nel silenzio dal quale aveva preso forma (Beat the Silence).

 


Note

1 The One All Alone altrimenti conosciuta come l’Astronome è il titolo di un’opera multimediale che Varèse cominciò a progettare a partire dal 1926. Avrebbe dovuto caratterizzarsi come un’opera in musica senza precedenti in quanto accanto alle tradizionali risorse sonore coinvolgeva elettronica, pantomima, danza, letteratura, immagini e luci. L’elaborazione del progetto, al quale contribuirono una sequela di scrittori ed artisti, tra i quali Alejo Carpentier e Antonin Artaud, si protrasse per un decennio, assumendo progressivamente rimaneggiamenti e trasformazioni, per essere infine abbandonato. Il fallimento finale, dovuto anche alle insormontabili difficoltà tecniche dell’epoca, e la conseguente sparizione o forse distruzione del materiale musicale composto per quest’opera, può considerarsi la più grande tragedia nel percorso creativo di Edgard Varèse.
2 Sinfonia corale, per ensemble, voci ed elettronica, alla quale Varèse cominciò a lavorare dal 1936. Anch’essa, come The One All Alone, rimase sempre in uno stato proteiforme e mai consolidato in forma definitiva. Al progetto, poi abortito, collaborarono André Malraux e Henry Miller. Una piccola porzione del lavoro compiuto per Espace finirà nel meno ambizioso Étude pour Espace, opera ascoltata solo nel 1947. La partitura dell’Étude non è mai stata pubblicata sino ad oggi.
3 EDGARD VARÈSE, My Titles, note inedite; Varèse Archive, National Library of Canada, Ottawa. Cit. in OLIVIA MATTIS, Varèse’s Multimedia Conception of Déserts, in «The Musical Quarterly», 76, 1992, p. 559.
4 EDGARD VARÈSE, Lettera alla figlia Claude, 13 giugno 1949, Collection Claude Varèse.
5
Oliver Burgess Meredith (Cleveland, 1908 – Malibu, 1997) è stato un attore, regista e produttore cinematografico statunitense.
6 Olivia Mattis cita un altro potenziale operatore cinematografico con il quale Varèse avrebbe abbozzato una collaborazione per il film su Déserts: Raymond Creuze. Creuze, un mercante d’arte all’epoca troppo giovane e senza esperienza per affrontare un’impresa così complessa, declinò l’invito del compositore. Nei ricordi dell’esperienza Creuze parla di un progetto filmico di sei ore di immagini senza parole in congiunzione con la musica. [OLIVIA MATTIS, Varèse’s Multimedia Conception of Déserts, in «The Musical Quarterly», 76, 1992, pp. 559-560.]. 7 Ricordiamo che Leopold Stokowski (1882-1977) diresse le prime esecuzioni di Intégrales (1925), Amériques (1926), Arcana (1927). In una delle sue ultime interviste Varèse dichiarò: « Ci ha aiutati molto generosamente. È stata una figura incredibile nella musica moderna.» [Intervista di Claude Samuel del 1964, Les sept jugements d’Edgard Varèse, «Candide», n. 238, 15-21 novembre 1965. Trad. it. in EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 171.].
8 È interessante notare la somiglianza con le parole usate da Varèse nella descrizione di Amériques: «Non considero affatto il titolo Amériques come puramente geografico, ma come il simbolo delle scoperte di nuovi mondi sulla terra, in cielo e nello spirito degli uomini». [ODILE VIVIER, Varèse, Editions de Seuil, 1972, p. 35.].
9 Lettera di EDGARD VARÈSE a Merle Armitage, 4 luglio 1952, in OLIVIA MATTIS, Varèse’s Multimedia Conception of Déserts, in «The Musical Quarterly», 76, 1992, p. 561-562, trad. mia.
10 ABRAHAM SKULSKY, Varèse Set to Launch Electronic Music Age, New York Herald Tribune, 24 gennaio 1954, trad. mia. In OLIVIA MATTIS, Varèse’s Multimedia Conception of Déserts, in «The Musical Quarterly», 76, 1992, p. 562.
11 Estratto di una Conferenza di Varèse alla Mary Austin House di Santa Fe, estate 1936. Trad. it. in EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 102.
12 Entretiens avec Edgard Varèse par Georges Charbonnier, INA-Mémoire Vive, IMV075, 2007, CD n. 2, traccia 1, Opéra - Image - Musique. Trascrizione e traduzione mia. Si tratta di otto incontri, registrati a Parigi tra il dicembre 1954 e il gennaio 1955.
13 BILL VIOLA (1951), Déserts (1994), video (28:09 min.), musica di Edgard Varèse, registrazione dell’esecuzione dell’Ensemble Modern, diretta da Peter Eötvös. Commissionato da ZDF (Televisione tedesca) e Ensemble Modern. È stata più volte proposta, recentemente anche in Italia, nella forma di proiezione video accompagnata dall’esecuzione orchestrale live. Il video di Viola si articola secondo due modalità tecnico-espressive differenti, che sono correlative alla dialettica musicale tra suono acustico e suono elettronico. All’ensemble strumentale convenzionale si accompagnano immagini di aridità desertiche e edifici abbandonati girate da una telecamera mobile, a velocità normale. Alle parti su nastro magnetico si relaziona invece una sequenza di un uomo in una stanza, girata in slow motion da una telecamera fissa. Senza entrare in giudizi di merito sul video, le scelte poetiche e filmiche di Viola non sembrano tenere in grande considerazione l’orizzonte espressivo prospettato da Varèse nella lettera a Merle Armitage.
14 Intervista di J. ANDRÉ, Edgard Varèse y la musica de avanguardia, «La Nacion», Buenos Aires, 20 aprile 1930, ora in EDGARD VARÈSE, Il suono orgnanizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 76.
15 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli 1985, p. 102.
16 «I filosofi del Medioevo dividevano le arti liberali in due branche: il Trivium, comprendente le arti della ragione nella loro applicazione al linguaggio (grammatica, retorica, dialettica) e il Quadrivium, con le arti della ragione pura, quelle che oggi chiameremmo scienze. È tra queste ultime che la musica trovava posto, in compagnia della matematica, della geometria e dell’astronomia. Oggi la musica è più affine alle arti dl Trivium. A me pare però che si sottolinei un po’ troppo quello che potremmo chiamare la grammatica musicale.» Conferenza tenuta presso l’Università della California del Sud nel 1939. [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi-Unicopli, 1985, p. 112].
17 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi-Unicopli, 1985, p. 53.
18 GIANFRANCO VINAY, Varèse e l’utopia sonora, in «Festival Varèse», Milano Musica, 1994, p. 21.
19 Sulle opere giovanili composte prima del 1915 vedi LUCA CONTI, Le opere di Varèse fino al 1914, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», 32, 1-4, 1998, pp. 43-50, e HEIDY ZIMMERMANN, The Lost Early Works: Facts and Suppositions in FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, pp. 44-53.
20 GIANFRANCO VINAY, Varèse e l’utopia sonora, in «Festival Varèse», Milano Musica, 1994, p. 21
21 JEAN METZINGER, Cubism and Tradition (1911), cit. in JONATHAN W. BERNARD, The Music of Edgard Varèse, 1987, p. 12.
22 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 144.
23 Cit. in DAVID EWEN, American Composers Today, H. W. Wilson Co., 1949, p. 265, ora in EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 136.
24 «Che cos’è la musica? Qualcosa che deve venire dal suono.» Corso di orchestrazione a Santa Fe (agostosettembre 1937) in FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, pp. 152-153.
25 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 148.
26 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 159.
27 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 160.
28 ALDO CLEMENTI, Prefazione a Varèse, in «Musica/Realtà», XIII, 39, 1992, p. 156.
29 CHOU WEN-CHUNG, Varèse: A Sketch of the Man and His Music, «The Musical Quarterly», 52, n. 2, 1966, pp.151-70.
30 «L’analisi è sterile per definizione: spiegare con i suoi mezzi vuol dire decomporre, mutilare lo spirito dell’opera.», Edgard Varèse, Jérôm s’en va-t-en guerre, (1923), in EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 50.
31 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985,, 1985, p. 144.
32 FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, p. 182.
33 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 144.
34 CHOU WEN-CHUNG, Varèse: A Sketch of the Man and His Music, «The Musical Quarterly», 52, n. 2, 1966, p. 161, trad. mia.
35 CHOU WEN-CHUNG, Open Rather Than Bounded, in «Perspectives of New Music», 5, n. 1, 1967, p. 3, trad. mia.
36 L’elenco seguente rappresenta l’organico strumentale di Déserts nella sua completezza: esso presenta aggiunte rispetto all’instrumentation pubblicata (in inglese) da BMG Ricordi a pag. III; quest’ultima risulta incompleta rispetto alle forze strumentali effettivamente presenti in partitura.
37 La nozione di suono organizzato assume in Varèse due diverse connotazioni. Nella sua accezione più generica, la locuzione è utilizzata in sostituzione di musica: la composizione musicale per Varèse è essenzialmente organizzazione della materia sonora. In una seconda accezione, che è quella alla quale fa riferimento questa nota, suono organizzato è sinonimo di composizione elettronico-concreta su nastro magnetico.
38 Questa sensazione di frattura, provocata dall’incunearsi delle interpolazioni nel continuum del decorso sonoro affidato agli strumenti acustici, è significativamente rappresentata graficamente in partitura mediante il simbolo \O.S./, che indica il punto d’ingresso delle tre bande magnetiche. L’acronimo O.S. sta per Organized Sound.
39 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 144.
40 Déserts ha avuto una complessa fase di gestazione. In origine concepita come un’opera multimediale che avrebbe unito musica ad immagini cinematografiche, fu successivamente completata nella forma di composizione acustico-elettroconcreta senza l’ausilio della parte visuale. Sappiamo anche che la porzione strumentale fu completata prima delle interpolazioni di suono organizzato, circostanza questa che ha offerto il pretesto ad alcuni direttori, come Pierre Boulez, per espungere le parti su nastro magnetico, come è accaduto nelle due registrazioni per la Sony Columbia del 1984 e del 1996, che propongono solo la parte strumentale acustica.
41 In un saggio del 1966 Milton Babbitt, analizzando la strumentazione nelle prime misure di Déserts, notava che «gli strumenti percussivi di intonazione non determinata acquisiscono un’altezza temporanea per come sono collocati nella composizione, mentre gli strumenti di intonazione determinata vengono usati più volte come mezzi di proiezione ritmica.» [MILTON BABBITT, Edgard Varèse : A Few Observations of his Music, in «Perspectives of New Music», IV (1966) 2, pp. 14-22, ora in «Perspectives on American Composers», New York, Boretz-Cone, 1971, pp. 40-48; trad. it. in «Musica/Realtà», XIV, 40. 1993, pp. 223-231.].
42 Intervista di M. SPERLING, Varèse and Contemporary Music, «Trend», II/3, New York, maggio-giugno 1934, p. 125.[ EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 96.].
43 Un esempio particolarmente significativo rintracciabile negli abbozzi preparatori, è quello della porzione che va dalla misura 194 alla 199; Varèse scrive una serie di altezze su un singolo pentagramma, ognuna delle quali è contrassegnata da uno specifico strumento. Nella partitura pubblicata tutto ciò diventerà la raffinatissima Klangfarbenmelodie in ppp distribuita nella tessitura strumentale tra fiati, vibrafono e glockenspiel (misura 199). [DENISE VON GLAHN, Empty Spaces: The Conceptual Origins of Déserts, in FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, p. 298-307.].
44 Di questo aspetto era ben consapevole Henry Cowell che scrisse il primo saggio analitico sulla musica di Varèse, pubblicato nel 1928. Nello scritto Cowell sostiene che una chiave d’accesso preferenziale alla comprensione di Varèse è data dal fatto che nel processo compositivo «egli è più interessato a trovare una nota che suoni in un determinato modo in un dato strumento, e quindi risuoni all’interno del tessuto orchestrale, che non semplicemente alla posizione che quella nota occupa nell’armonia, stante l’ovvio rapporto tra la sua posizione armonica e il suo emergere nella segnatura. [...] Ho spesso osservato che quando Varèse prende in esame una nuova partitura, egli appare più interessato all’orchestrazione che al contenuto musicale, ma per quanto brillante nessuna partitura desterà il suo interesse verso un’opera vecchio stampo.» [HENRY COWELL, Edgard Varèse, in «Modern Music», V (1928), pp. 9-19, trad. it. in «Musica/Realtà», XIII, 37, 1992, pp. 165-167.].
45 Edgard Varèse and Alexi Haieff questioned by eight composers, «Possibilités I», settembre 1947. [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 129].
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La nozione di separatezza si ricollega a ciò che Varèse chiamava zone d’intensità, ovvero zone caratterizzate da differenti timbri e colori e da un diverso volume di suono. Come sottolinea Varèse in uno scritto del 1936: «Il ruolo del colore e del timbro si affrancano dall’accidentale, dal sensuale e dal pittoresco, per diventare elemento di delineazione, come i diversi colori su una carta geografica separano aree diverse; verrebbe insomma a far parte integrante della forma.» Conferenza tenuta alla Mary Austin House, Santa Fe, estate 1936. [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 103.
47 Intervista di A. FRANKESTEIN, Varèse, Worker in Intensities, «San Francisco Chronicle», 28 novembre 1937. [ Trad. it. in EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 110.].
48 Ionisation è considerato il primo esempio nella musica euro-colta moderna di una composizione per soli percussionisti. Varèse non fu il primo compositore in assoluto nel Novecento a produrre un lavoro per sole percussioni in quanto anticipato di qualche mese dal compositore cubano Amedeo Roldán (1900-1939) con le sue Ritmicas n. 5 e n. 6 (1930). Nella critica e nella storiografia musicale del Novecento, spesso non aliena da pregiudizi eurocentrici, prevale la tesi circa la primogenitura varesiana, considerando i lavori di Roldán di matrice essenzialmente folklorica.
49 «Poichè il termine musica sembra essersi progressivamente ridotto sino a significare molto meno di quello che dovrebbe, preferisco ricorrere all’espressione suono organizzato, così da evitare la tediosa questione: ma è musica? Suono organizzato sembra cogliere più precisamente l’aspetto duplice della musica, che è insieme arte e scienza, con riferimento alle recenti scoperte di laboratorio che ci hanno permesso di sperare in una sua incondizionata liberazione; il termine poi, si addice agli sviluppi della mia musica e a ciò che essa richiede». Citazione da Varèse di HENRY MILLER, The Air-Conditioned Nightmare, Part.1, (With Edgard Varèse in the Gobi Desert), New York, New Directions, 1945. [Trad. it. HENRY MILLER, Con Varèse nel deserto di Gobi in Incubo ad aria condizionata, Einaudi, 1962, p. 171.].
50 CARLO SERRA, La drammatizzazione del rapporto rumore-spostamento nello spazio in Varèse, in Musica, corpo, espressione, Quodlibet, 2008, p. 123.
51 Entretiens avec Edgard Varèse par Georges Charbonnier, INA-Mémoire Vive, IMV075, 2007, CD, trad.mia.
52
Entretiens avec Edgard Varèse par Georges Charbonnier, INA-Mémoire Vive, IMV075, 2007, CD, trad. mia.
53 GIOVANNI PIANA, Filosofia della musica, Guerini e Associati, 1991, p. 101. Sul tema del timbro e del rapporto suono-rumore si veda tutto il capitolo primo intitolato Materia, pp. 65-124.
54 Nell’estate del 1950, periodo nel quale era in gestazione la porzione strumentale di Déserts, Varèse venne invitato da Wolfgang Steinecke a tenere un corso di composizione ai Ferienkurse di Darmstadt. In quella occasione si eseguì la prima europea di Ionisation con Hermann Scherchen, lo stesso direttore che quattro anni più tardi presenzierà la turbolenta prima mondiale di Déserts a Parigi. La figura di Varèse costituì una rivelazione per molti partecipanti al corso, tra i quali Luigi Nono, Bruno Maderna e Dieter Schnebel, compositori che più tardi hanno riconosciuto l’influenza determinante di Varèse nella loro formazione musicale. Sul fronte opposto, ovvero sulle eventuali influenze della giovane generazione sul vecchio Varèse, all’epoca sessantaseienne, la letteratura critica non ha ancora espresso giudizi definitivi anche perchè il problema non è mai stato vagliato in maniera approfondita. Varèse ha sempre negato, in sede teorica, l’impiego della tecnica seriale. Questo dato è confermabile in tutte le opere pubblicate nel suo catalogo. Anche la nostra interpretazione analitica tenderebbe ad escludere procedimenti costruttivi seriali all’interno di Déserts (vedi paragrafo specifico). Secondo la studiosa americana Von Glahn, in Déserts un richiamo alla dodecafonia, sarebbe più di una mera apparenza. La recente pubblicazione degli abbozzi preparatori della composizione, ha consentito di scoprire alcune indicazioni manoscritte che potrebbero confermare un approccio costruttivo pseudo dodecafonico più che seriale in senso stretto. [DENISE VON GLAHN, Empty Spaces: The Conceptual Origins of Déserts, in FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, p. 304].
55 EDGARD VARÈSE., Estratto di una conferenza del 4 settembre 1959 all’Università di Princeton. [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 158.].
56 EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 159.
57 HUGUES DUFORT, Art et Science, in FRANÇOIS-BERNARD MÂCHE, Varèse vingt ans après, «Revue Musicale», 378/387, Richard-Masse, 1985, p. 97.
58 Il vibrafono fu perfezionato nei primi anni Venti, diffondendosi prima nella musica da ballo e nel jazz e, solo più tardi, nella musica colta. I primi compositori ad integrarlo nell’organico orchestrale furono l’italiano Giulio Cesare Sonzogno in Dai nevai dell’Ortles (1931) e Maurice Ravel nelle Chansons de Don Quichotte à Dulcinée per baritono e orchestra del 1932. Seguirono Milhaud con l’Annonce faite a Marie (1933) e Alban Berg con la Sinfonia dalla Lulu (1934). Negli anni Cinquanta il vibrafono diventò una presenza tipica nello strumentario dell’avanguardia d’estrazione post-weberniana; un esempio fra i tanti, Le Marteau sans maître (1955) di Pierre Boulez.
59 EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, p. 73
60 EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, batt. 119, p. 30.
61 EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, p. 6.
62 EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, batt. 323, p. 82.
63 Diversamente rispetto a quanto avviene in Ionisation, nel quale è richiesto un glockenspiel nella versione dello strumento a tastiera con risuonatori (Glockenspiel à clavier), in Déserts Varèse prescrive l’uso dei campanelli a battente nella versione più comune tradizionale.
64 EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, pp. 41-44.
65 Le campane tubolari, in partitura indicate con la denominazione Chimes o Tubular Bells, oltre a Déserts, sono presenti nella letteraratura musicale varesiana solo in Ionisation.
66 EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, p. 1-4.
67 L’effetto d’irraggiamento e di risonanza richiesto ai metallofoni (piatti, gong e campane tubolari e vibrafono) è evidente dalle indicazioni in partitura, nella quale spesso troviamo l’acronimo l. v. ovvero laissez vibrer oppure l’espressione inglese Keep vibrating (batt. 1-21). [EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, pp. 1-4.].
68 Nell’Instrumentation che precede la partitura di Déserts pubblicata da Ricordi, oltre all’indicazione generica 2 Suspended Cymbals (high and low), non compaiono ulteriori specificazioni sulla qualità e sulla tipologia dei piatti richiesti. È importante ricordare che termini quali crash, ride o splash, oggi così familiari, fino agli anni Quaranta non erano ancora stati adottati e i fabbricanti assegnavano ai piatti i nomi più diversi, spesso derivati da suoni onomatopeici come ping, pang, etc.(o come nel caso di splash e di crash). [GUIDO FACCHIN, Le percussioni, EDT, 2000, p. 100.]. Tenendo presente le caratteristiche degli strumenti prodotti all’inizio degli anni Cinquanta dalla più importante fabbrica di piatti, la Zildjian, possiamo ipotizzare che gli strumenti a cui Varèse pensava erano due piatti del tipo crash (grande e piccolo) o forse un grosso crash ed uno splash.
69 Tra i termini gong e tam tam si fa spesso confusione, per il fatto che generalmente si attribuisce a questi strumenti, indifferentemente, uno dei due nomi. Nei paesi di lingua inglese la parola gong indica tutti i vari gong e tam tam, mentre nelle altre lingue europee il termine viene usato solo per il gong vero e proprio. [GUIDO FACCHIN, Le percussioni, EDT, 2000, p. 29.]. Nel caso specifico di Déserts, la profonda conoscenza della liuteria percussiva da parte di Varèse, tenderebbe ad escludere ogni confusione terminologica. Varèse possedeva sia un gong (54 cm. di diametro e 14 cm di altezza) che un tam tam (91 cm. x 8 cm.), quest’ultimo regalo del suo allievo cinese Chou Wen-Chung. Entrambi sono visibili in una serie di fotografie del 1962 del suo appartamento-studio in Sullivan Street a New York. Già dall’elenco degli strumenti percussivi in Amériques (1918-21) si nota la distinzione tra gong e tam tam. Un’ulteriore conferma ci viene dalle già menzionate note tecniche poste in prefazione a Ionisation, dove sono presenti entrambi gli strumenti; la differenza è chiaramente riscontrabile dal disegno esplicativo che raffigura le differenze di base tra i due strumenti. [EDGARD VARÈSE, Ionisation for Percussion Ensemble of 13 Players, New York, Colfranc, p. 6]. In occasione della prima mondiale di Déserts del 2 dicembre 1954, il musicologo André Schaeffner prestò a Varèse, in via eccezionale, il più bel gong della collezione del Musée de l’Homme. [ODILE VIVIER, Varèse, Editions de Seuil, 1973, p. 155.].
70 È uno strumento latino-americano a raschiamento, di origine africana. Il güiro afro-cubano è costituito da una zucca oblunga, lungo la cui superficie superiore sono incisi o limati dei solchi. Il suono viene ottenuto tramite il raschiamento alternato per mezzo di una bacchetta. Il modello più diffuso oggi è quello in legno, che ricalca la versione messicana dello strumento. Nel caso specifico di Varèse, possiamo ipotizzare, con buone ragioni, che il guiro previsto, come accade in Ionisation, fosse l’originale cubano. Una conferma è data da una fotografia dei primi anni Trenta, che ritrae Nicolas Slonimsky, le premier Ionisateur, il direttore d’orchestra che diresse la prima a New York nel 1933, che mostra alcune percussioni usate nell’opera: nella mano destra del direttore si nota il tipico güiro afro-cubano. [Foto pubblicata in ODILE VIVIER, Varèse, 1973, p. 80]. Il primo compositore europeo ad includerlo in orchestra fu Igor Stravinsky nel Sacre du Printemps (1913), seguito da Milhaud, ne Le Boef sur le toit (1920). [GUIDO FACCHIN, Le percussioni, EDT, 2000, p. 265.].
71 Le claves sono uno strumento tipico della musica cubana; costituite da due piccoli cilindri di legno duro. Sono state introdotte nell’orchestra moderna proprio da Varèse in Ionisation (1929-31).
72Nulla a che vedere con i campanacci alpini. Si tratta del Cencerro, tipico strumento metallofono della tradizione afro-cubana.
73 Sul mercato mondiale esistono maracas in una smisurata gamma di modelli e materiali differenti. Nelle indicazioni esecutive di Ionisation, Varèse specifica che le migliori sono quelle cubane, con pallini di piombo (Ammunition) all’interno della zucca. [EDGARD VARÈSE, Ionisation for Percussion Ensemble of 13 Players, New York, Colfranc, p. 2.].
74 La differenza macroscopica tra i timbales e i tom tom da concerto, (Varèse in Déserts prescrive i tom tom in alternativa ai timbales) è più di origine che di sostanza. I primi appartengono alla tradizione musicale latino-americana mentre i secondi alla cultura nativo-americana o secondo altri studiosi, a quella asiatica. In entrambi i casi si tratta di tamburi cilindrici monopelle di varia larghezza e profondità, secondo le esigenze di registro. I tom tom del tradizionale Drum Set sono invece dotati di doppia pelle.
75 Amedeo Roldan (1900-1939) è il compositore cubano autore di Ritmicas n. 5 e n. 6, che contende a Varèse (Ionisation) il primato storico per quanto riguarda la prima composizione per sole percussioni della musica occidentale. Il compositore franco-americano conosceva personalmente Roldan ed i suoi lavori. Alejo Carpenter, amico del compositore cubano, in Varèse Vivant, ricorda che Varèse non era tanto colpito dal suo linguaggio musicale quanto dall’uso che faceva dell’ensemble percussivo: «L’unica cosa che lo interessava era il modo in cui le percussioni venivano usate, con un completo arsenale di tamburi (differenti rispetto a quelli dell’orchestra tradizionale), guiros, claves, maracas e bongos, tutti strumenti il cui potenziale percussivo lo riempiva di meraviglia. Varèse studiava la particolare notazione delle percussioni in Roldan e le peculiarità delle tecniche esecutive» [ALEJO CARPENTIER, Varèse Vivant, Le Nouveau Commerce, 1980, p. 21.].
76 Il compositore messicano Carlos Chavez fu amico di Varèse a partire dal 1924. Il duo assieme ad Henry Cowell fondò nel 1928 la Pan American Association of Composers (P.A.A.C), istituzione nata per l’esecuzione e la promozione della musica americana.
77 La frequentazione tra Varèse e Villa-Lobos risale al periodo del suo ritorno a Parigi (1929). Alcuni aspetti della scrittura per percussioni, direttamente ispirati al folklore brasiliano, suscitarono interesse da parte di Varèse, come dimostrano le copie manoscritte e commentate di due lavori di Villa-Lobos, ritrovate nel lascito post-mortem. [FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, p. 222.].
78 Strumento a percussione che, nella versione prescritta da Varèse, consiste in un blocco di legno cavo a forma di parallelepipedo, simile al Wood Block, che percosso dà un suono secco e penetrante. Varèse prevede un set di tre Chinese Blocks di diverse dimensioni e intonazioni. Spesso vengono confusi con i Temple Blocks, dei quali sono parenti stretti e sovente sono usati in loro vece nelle orchestre moderne. Nelle ricche note esplicative sull’armamentario percussivo incluse nella partitura di Ionisation, troviamo una nota che recita: «Usare i Chinese Blocks (o gli equivalenti Wood Blocks) di tre diverse altezze. Non usare i Temple Blocks». [EDGARD VARÈSE, Ionisation for Percussion Ensemble of 13 Players, New York, Colfranc, p. 4.].
79 Strumento idiofono a percussione consistente in una sorta di scatola di legno, sulla cui parte superiore possono essere presenti o meno, fenditure che dividono la superficie percuotibile in diverse regioni di registro. Si suona con speciali bacchette e produce un timbro similare al Chinese Block, anche se rispetto a quest’ultimo ha un’alonatura più morbida.
80 In Déserts Varèse prescrive due grancasse (media e grave) ognuna delle quali ha un piatto annesso (fissato al fusto dello strumento). Storicamente, la combinazione grancassa/piatti, largamente impiegata all’inizio dell’Ottocento, cadde successivamente in disuso, tanto che bisognerà attendere quasi un secolo per ritrovarla nella compagine orchestrale delle Sinfonie di Gustav Mahler (Prima, Terza, Quinta e Settima). Altre due importanti composizioni del primo Novecento che ne prevedono l’uso sono Petruska di Strawinskij e Wozzeck di Berg.
81 Cassa chiara, traduzione dall’inglese di Snare Drum. È il tradizionale rullante (acuto) del set classico della batteria, con fusto sovente in metallo dell’altezza di circa 15-20 cm. e doppia membrana del diametro di 35 cm. Le corde vibranti (cordiera) sono collegate al fusto mediante un congegno che stacca le corde dalla pelle quando necessario.
82 Varèse considera il termine tamburo militare equivalente a Field Drum o a Parade Drum. Così il Field Drum varesiano ha dimensioni inferiori rispetto agli standard della liuteria tradizionale. Nella sostanza è un tamburo rullante con cordiera, più grande della cassa chiara. Ha un’intonazione a metà strada tra la Snare Drum e il Side Drum. Queste peculiarità delle dimensioni dei tre tamburi rullanti sono inferibili sia dalla notazione in partitura ( la parte di Field Drum è scritta un rigo sopra il Side Drum), sia dalle prescrizioni fornite dall’autore nelle opere precedenti (per esempio quelle indicate in Ionisation a p. 4).
83 In inglese Side Drum, letteralmente tamburo laterale, perché, originariamente, era appeso alla spalla e inclinato sul fianco sinistro del performer. La sua funzione era quella di poter essere suonato durante la marcia, come tuttora si può notare nelle sfilate delle bande militari. Il modello che prescrive Varèse ha dimensioni maggiori rispetto al consueto, risultando omologo nel registro al Tenor Drum, senza cordiera e simile ad una piccola grancassa. Il primo compositore a prevederne l’uso in orchestra sembra sia stato Marin Marais (1656-1728) nell’opera Alcione (1706). [GUIDO FACCHIN, Le percussioni, EDT, 2000, p. 531.].
84 In inglese Thunder Sheet; è una superficie rettangolare in lega metallica, lunga sino a 2 metri, sospesa verticalmente mediante intelaiatura, che percossa o scossa emette uno spettro sonoro che nel timbro ricorda il fragore del tuono. In questa veste descrittivo-meteorologica è stato utilizzato soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La lastra del tuono, originariamente usata nei teatri come effetto per le scene di temporali, fu introdotta nella musica d’arte da Henry Purcell nell’opera in tre atti Dido and Aeneas (1689).
85 In partitura si legge 2 Lathes, senza nessuna informazione che possa indicare la tipologia degli strumenti a cui Varèse faceva riferimento. Purtroppo la letteratura critica varesiana non è di alcun aiuto nel chiarire la questione; di questi lathes nessuno sembra essersi occupato. Innanzitutto è evidente che la traduzione letterale del termine inglese lathes cioè torni (il tornio meccanico), pur essendo ipoteticamente plausibile, visto l’amore di Varèse verso i suoni industriali, non ha nessun aggancio con gli effettivi strumenti impiegati in Déserts. Non industria, ma edilizia: il fantomatico strumento è una speciale versione del frattazzo. Un attrezzo che serve a spianare e lisciare malte e altri impasti su superfici piane (intonaci, pavimenti).
86 Il pad è un supporto costituito da una superficie di legno (o materiale plastico) ricoperta da uno strato di gomma. È usato in abbinamento a tamburi (sovrapponendolo alla zona da percuotere) o anche da solo, in questo caso come supporto silenzioso sostitutivo del tamburo, sul quale il percussionista può esercitare i rudimenti tecnici e la destrezza nelle fasi di studio (in inglese practice pad).
87 In partitura si legge muffle o muffled, letteralmente smorzato, attutito. Troviamo in un paio di frangenti questa indicazione con riferimento non solo al piatto sospeso (da m. 314 alla fine) ma anche alla cassa chiara (m. 110). La smorzatura del suono può esser prodotta direttamente dall’esecutore, manualmente, oppure con una particolare sordina chiamata muffler o muff’l, costituita da una membrana circolare di materiale plastico, gomma o altro, applicabile ai tamburi o ai piatti.
88 Un esempio significativo della perizia e della minuzia varesiana nell’impiego delle percussioni lo troviamo nella seconda sezione strumentale acustica (batt. 144-145). Alla battuta 144 si prescrive l’uso contemporaneo delle due mani: una impugna una bacchetta metallica, che viene sfregata sul gong più acuto, l’altra deve percuotere la parte centrale del gong medio con una mazza pesante. Nella battuta seguente l’esecutore deve percuotere il gong acuto al centro con una mazza alquanto pesante. [EDGARD VARÈSE, Partitura di Déserts, BMG Ricordi, 2006, p. 37.].
89 Intervista di W.P. TRYON, New Instruments in Orchestra are Needed says Mr. Varèse, «Christian Science Monitor», Boston, 8 luglio 1922, p. 18, [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 42.].
90 Entretiens avec Edgard Varèse par Georges Charbonnier, INA-Mémoire Vive, IMV075, 2007, CD n. 2, trad. mia.
91 FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, p. 144.
92 A proposito della tuba, è importante sottolineare il giudizio assolutamente positivo sullo strumento da parte di Varèse, che smentisce quanto qualche critico ha incautamente riportato. Carapezza per esempio parla della tuba come di uno strumento del quale il compositore diffidava e per questo motivo lo ha usato raramente [PAOLO EMILIO CARAPEZZA, Macrocosmo – micrologo, in ANTONINO FIORENZA, Comporre arcano, 1985, p. 21.]; dato facilmente falsificabile. Questo malinteso è generato, probabilmente, dalla pessima e incompleta traduzione dall’originale in francese, contenuta nell’edizione italiana degli scritti di Varèse pubblicati da Ricordi-Unicopli. A pag. 104 si legge: «La tuba: bellissima sulla carta, ma sempre in disaccordo con l’orchestra» [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 104.]. Nel testo di Ouellette si legge testualmente: «Il note, au sujet des tubas de Wagner: Ils paraissent bien sur papier, mais, en fait, ils sont toujours en désaccord avec l’orchestre.» [FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, p. 144.]. La traduzione italiana, omettendo di specificare che Varèse parlava di tube wagneriane e non delle tube vere e proprie, tradisce completamente il significato originario dell’enunciato. La problematicità della tuba wagneriana, nell’intonazione e nella sua refrattarietà all’amalgama con i tradizionali strumenti dell’orchestra, è, d’altra parte, un aspetto ben noto ai direttori d’orchestra e ai compositori, tra i quali lo stesso Wagner, che la inventò e la introdusse nel Ring.
93 FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, p. 144, trad. mia.
94 Nella sua forma moderna fu brevettato da Adolphe Sax, il noto inventore del sassofono. L’utilizzo in orchestra si diffuse progressivamente, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento. Il primo caso d’impiego si segnala nella partitura di Meyerbeer Les Huguenots (1836); più tardi lo incontreremo sia in Verdi (Ernani, La Forza del Destino, Aida) che nella compagine orchestrale wagneriana.
95 L’espressione musica acusmatica (acusmatico secondo il termine preso a prestito da Pitagora, designa l’ascolto di una sorgente nascosta), utilizzata soprattutto nei paesi francofoni, si è diffusa a partire dagli anni Settanta per designare opere musicali realizzate interamente in studio o su supporto materiale, quale che sia l’origine dei suoni.
96 Lo Studio della W.D.R. fu fondato nel 1952. Il purismo elettronico di Colonia si differenzia dal concretismo francese sia per la scelta del materiale sonoro di partenza che per procedimenti operativi e costruttivi. Mentre nella musica concreta il materiale sonoro di base è sempre precostituito, al contrario, nella musica elettronica propriamente detta ci si serve solo di suoni prodotti sinteticamente attraverso generatori di frequenza, di rumori, di impulsi, di onde. Questa corrente della neo-avanguardia, fortemente caratterizzata dal pensiero seriale post-webwerniano, avrà come suo organo ufficiale la rivista Die Rehie e trai suoi più attivi membri Herbert Eimert, Karlheinz Stockhausen e Gottfried Michael Koenig.
97 Alcopley al secolo Alfred L. Copley (1910-1992) era un medico-scienziato-pittore americano, già fan di Varèse prima di averlo conosciuto personalmente. Divenne amico del compositore a partire dal 1948.
98 Dopo la seconda guerra mondiale, il perfezionamento tecnico del magnetofono costituì una rivoluzione tecnica straordinaria nel campo della registrazione musicale. Tra il 1947 e il 1949 il suo utilizzo si era diffuso negli studi professionali, liberando la registrazione da tutte le limitazioni alle quali soggiaceva il disco. Il nastro magnetico apportò numerosi perfezionamenti alla presa di suono e al lavoro in studio: lunga durata delle registrazioni (30 minuti contro i 5 del disco), ascolto immediato (il disco abbisogna di ulteriore trattamento in laboratorio), copiatura immediata, editing del suono (durante la copiatura si possono aggiungere riverberi, filtri,etc., il nastro può essere riprodotto all’inverso e a varie velocità), montaggio, miraggio, registrazione multipista. Inoltre il magnetofono era leggero, pratico e, se paragonato a un’apparecchiatura d’incisione su disco, era un supporto economico. La registrazione magnetica venne realizzata per la prima volta nel 1898 dallo scienziato danese Valdemar Poulsen tramite un dispositivo chiamato Telegraphon. Durante gli anni Trenta AEG e BASF svilupparono le acquisizioni precedenti approntando il primo magnetofono moderno, il Magnetophon (1934), presentato all 11° Salone della Radio di Berlino. Il primo magnetofono destinato alla creazione musicale fu quello dello Studio d’Essai di Pierre Schaeffer (ottobre 1950). [MARC BATTIER, La scienza e la tecnologia come fonti d’ispirazione, in JEAN_JACQUES NATTIEZ, Il Novecento, Einaudi, 2001, pp. 365-366.].
99 La difficile condizione economica del compositore non gli permetteva di accedere ad apparecchiature dai costi piuttosto elevati. Alcopley sapeva bene con quanta forza Varèse desiderasse misurarsi attraverso i nuovi mezzi di produzione sonora; si accollò così gran parte delle spese d’acquisto dell’apparecchio. Senza il suo generoso gesto la storia di Déserts avrebbe avuto un altro corso. [FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, p. 332].
100 Molti studiosi, tra gli altri Olivia Mattis e Malcolm Macdonald, hanno spesso indicato l’ottobre del 1952 come data delle prime registrazioni su nastro magnetico. In realtà il registratore Ampex entrò in possesso del compositore solo il 22 marzo del 1953, come conferma una lettera di Varèse ad Alcopley del 26 marzo dello stesso anno. [FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, p. 332.].
101 Testo su Déserts, in «Musical Quarterly», XLI/3, luglio 1955, p. 372 [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 144.].
102 La prima interpolazione era composta da due piste sovrapposte, che scorrono alla velocità di 38 cm al secondo. La seconda: due bande, ciascuna delle quali a due tracce di riproduzione e registrate alla velocità di 76 cm./sec.. La terza: un’unica banda, nella quale erano mixate due tracce alla velocità di 76 cm./sec. [FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, p. 183.].
103 La prima versione delle interpolazioni (1954) è stata pubblicata nel 1977 nell’L.P. Finnadar Records SR 9018. Questo disco, oltre alle tre interpolazioni riproduce esattamente il contenuto e la veste grafica del primo microsolco dedicato a Varèse: il leggendario E.M.S. 401 Complete Works of Edgard Varèse Vol.1.
104 La seconda versione fu ascoltata in prima esecuzione l’8 agosto 1960 a Stratford in Canada. La terza fu trasmessa da Radio Canada il 19 aprile 1961 durante una trasmissione curata da Fernand Ouellette. [FERNAND OUELLETTE, Edgard Varèse, Christian Bourgois Ed., 1989, pp. 203-204.].
105 La nuova e definitiva versione delle interpolazioni compare in prima assoluta nella registrazione di Déserts del 1962 di Robert Craft.
106 Testo su Déserts, in «Musical Quarterly», XLI/3, luglio 1955, p. 372, [EDGARD VARÈSE, Il suono organizzato, Ricordi Unicopli, 1985, p. 144.].
107 Termine italianizzato dall’inglese morphing, che designa la trasformazione fluida, graduale e senza soluzione di continuità da un timbro ad un altro dalle differenti caratteristiche; non si tratta di una fusione per sovrapposizione come si può realizzare fra due strumenti dell’orchestra, ma di una vera e propria metamorfosi.
108 GIANFRANCO VINAY, Varèse e l’utopia sonora, in «Festival Varèse», Milano Musica, 1994, p. 26.
109 Il 2 dicembre 1954 la Radio francese (ORTF) diffuse l’opera in stereofonia. Fu la seconda esperienza del genere; la prima fu tentata nel 1950 con Une larme de diable di René Clair. Secondo alcuni cronisti dell’epoca lo scandalo della prima esecuzione di Déserts sorpassò in clamore tutti i precedenti nella storia della musica. Bisogna ricordare che l’infelice scelta di intercalare Déserts tra la Grande Ouverture in si bemolle di Mozart e la Sinfonia Patetica di Tchaikowski, (due compositori che Varèse non amava), non contribuì a facilitare una corretta ricezione da parte del pubblico. Il pubblico in sala, accorso in massa sia perché il concerto era gratuito sia per la presenza in programma di due autori popolari, non era formato da ascoltatori selezionati e consapevoli. Dopo pochi secondi dall’esordio della prima Interpolazione i fischi, le imprecazioni, il chiasso cominciarono a salire in sala, con sempre maggior frequenza e intensità, proseguendo poi lungo tutto il corso dell’opera. Le intemperanze dell’audience impedirono letteralmente la regolare esecuzione del lavoro. Varèse, che ritornava a Parigi dopo venti anni d’assenza, rimase sbalordito ed affranto dall’ingenerosa accoglienza dei suoi ex concittadini.
110 Un’ampia gamma di corrispondenze numerologiche, incentrate sulla ricorrenza del numero 9 (con multipli e radice quadra) all’interno della partitura, sono state rilevate dallo studioso americano Michael Sprowles. [MICHAEL DAVID SPROWLES, Geometric Pitch Structure and Form in Déserts by Edgard Varèse, Univesity of Louisville, 2004, pp. 63-64.].
111 MICHAEL DAVID SPROWLES, Geometric Pitch Structure and Form in Déserts by Edgard Varèse, Univesity of Louisville, 2004, p. 64.
112 JONATHAN W.BERNARD, The Music of Edgard Varèse, Yale Univ. Press., 1987, pp 154-156.
113 In inglese nel linguaggio tecnico delle percussioni (nel caso specifico) l’acciaccatura è denominata drag. L’aggettivo pressato è equivalente al termine buzz.
114HANS-HEINZ STUCKENSCHMIDT, La musica moderna, Einaudi, 1960, p. 101.
115 Edgard Varèse, diagramma esacordale (1910) in FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press., 2006, p. 357.
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In un recente saggio Chou ha applicato il diagramma del Tree of life alle prime 30 misure di Déserts, mostrando come esso possa essere utilizzato come una sorta di mappa topografica per ricostruire le startegie varesiane nell’organizzazione delle altezze. Il manoscritto riporta la didascalia Berlin 1910. Chou sostiene che la datazione non sia veritiera. Questo diagramma sarebbe una copia dell’originale, disegnato da Varèse in un periodo posteriore. [CHOU WEN-CHUNG, Converging Lives: Sixteen Years with Varèse, in FELIX MEYER e HEIDY ZIMMERMANN, Edgard Varèse. Composer Sound Sculptor Visionary, The Boydell Press, 2006, pp. 356-360.].
117 La progressione intervallare del diagramma (da settima maggiore a seconda minore) presenta due stranezze. Nella successione a zig-zag ascendente delle diagonali che congiungono l’esacordo sinistro con quello destro (dal basso a salire) manca il passaggio tra il sol e il fa (settima minore); forse una dimenticanza. Un’altra incongruenza è la diagonale che congiunge il si basso al mib, che Varèse indica come tritono: un errore.

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