Silvia Vizzardelli
Filosofia della Musica, laterza, Roma-Bari, 2006


Introduzione

Una filosofia della musica ha almeno un compito: quello di tentare di rispondere alla domanda ‘Che cos’è la musica?’. Un compito ambizioso che rende, come spesso accade, più interessante il viaggio che la meta del viaggio, più significativo il percorso che facciamo, ritagliandolo tra vari possibili, che la destinazione.

Ha ragione chi dice che la filosofia personifica i suoi concetti, li fa vivere come fossero attori in dialogo su una scena. In questo viaggio, infatti, incontriamo due caratteri concettuali, due figure in apparenza contraddittorie: la musica come mondo e la musica come interiorità. Una musica che ha le sembianze del mondo, che è parallela ad esso, che vive sullo stesso piano della realtà e delle sue forme, e una musica che si stacca dall’anonimato e diventa parte intima della nostra vita psichica, quasi fosse espressione dell’interiorità più pura. Una musica che pare venirci incontro dall’esterno, da ciò che ci circonda e una musica che sembra dar voce ai movimenti più indeterminati e nascosti della soggettività.

Nella storia del pensiero, questi due personaggi concettuali hanno creato più o meno estese comunità: abbiamo così da una parte la sfera che si raccoglie intorno all’idea della musica mundana e che comprende le suggestioni esoteriche della linea pitagorico-platonica da Boezio a Galilei e Keplero, e che, contaminandosi, giunge fino a Schelling, Schopenhauer e persino ad alcune figure coraggiose del vicino Novecento; e dall’altra una comunità più introversa, decisa a concepire l’ascolto, essenzialmente, come un autoascolto e di conseguenza la musica come risonanza interiore, voce di profondità nascoste. Una linea, anche questa, che, partendo da San’Agostino, attraverso Rousseau, i Romantici, e poi Hegel giunge, nel secolo appena trascorso, fino all’estremo intimismo di Bloch.

Le rapide conversazioni sono spesso i momenti più adatti a far venire in superficie ciò che realmente si pensa, e ciò in cui si crede. Non è un caso che alcuni tra i maggiori protagonisti della musica contemporanea abbiano scelto queste occasioni meno vincolanti, per dar voce alle due anime della musica, ed abbiano così gettato luce sulle proprie poetiche già consegnate a scritti teorici più complessi e approfonditi.

In nave da New York ad Amburgo, era il 1965, Stravinskij più che ottantenne, cercando sostegno e conferme nello sguardo della moglie perché consapevole di azzardare un po’, rispondeva alle domande incalzanti di un intervistatore: - Come spiega il miracolo, il fenomeno della musica? È possibile vivere senza musica? Chi ha creato la musica? E le sue risposte chiamavano in causa esplicitamente la dimensione mundana in un intreccio fecondo con quella, per così dire, intimistica. Non posso immaginare me stesso, diceva Stravinskij, senza qualsiasi musica, anche quella brutta. La musica fa parte di me. Ma poi aggiungeva: la musica fa parte della gerarchia della creazione, probabilmente è stata creata da Dio insieme al mondo; credo, anzi sono sicuro che la creazione del mondo è un grande rullio di tamburi, di simboli, è musica.

Nel 1981, Stockhausen coglierà la primaria vocazione della musica nella trasformazione di una corrente cosmica sul piano della coscienza superiore, non esitando ad utilizzare un linguaggio molto indicativo per chi voglia seguire la trasformazione delle tradizionali categorie dell’estetica, vale a dire il lento e graduale passaggio dalle nozioni di espressione e imitazione a quelle di intercettazione, captazione e conversione. Il soggetto creativo prende le sembianze di un partecipante universale, e la musica sembra offrire la miglior occasione di un movimento sintonico. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi; l’ondata senza precedenti, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, di teorizzazioni sulla musica ad opera dei compositori conferma in larga misura questo slittamento di prospettiva, perché nasce dall’urgenza di interrogarsi sul significato e sulle possibilità della musica nel mondo contemporaneo a partire proprio da un ripensamento delle tradizionali categorie della riflessione estetica. E ciò accade anche quando il sospetto per l’estetica è così diffuso che la semplice ricorrenza del termine crea disagio.

Dietro il duetto tra mundanità e soggettività, scorre uno scenario che abbiamo voluto indagare da una prospettiva filosofica, nella convinzione che l’esperienza musicale abbia almeno un tratto che la caratterizza universalmente: essa implica sempre una rottura del piano di immanenza, ha sempre bisogno di articolarsi su due livelli rigorosamente distinti, e proprio da questa separazione nasce la possibilità di concepire movimenti di conversione, di intercettazione. Astrazione e percezione, noesis ed aisthesis, scienza e musica, calcolo ed immaginazione sono solo alcuni dei modi in cui la dislocazione dei livelli si manifesta, ma ciò che è veramente importante sottolineare è che il movimento della creazione coincide con la conversione di un piano nell’altro. Il senso di cattura, di essere presi e condotti altrove, di assecondare un movimento, di immergerci in una spazialità affettiva discende direttamente dai processi di transito e dislocazione tra livelli sbalzati di esperienza.

Pensando il fenomeno musicale come forza, impulso, energia, tensione, scambio di attività e passività, il primo capitolo di questo libro è in grado di ripercorrere gli snodi fondamentali della storia del pensiero musicale, con particolare attenzione alla nascita dell’estetica moderna, e, nello stesso tempo, di fare emergere lo scarto di consapevolezza che, a partire dal romanticismo, ha fatto sì che la riflessione filosofica sulla musica prendesse uno sviluppo e un’importanza prima sconosciute. Ciò è avvenuto perché quelle stesse categorie tensive hanno modificato il nostro modo di pensare le nozioni fondamentali della tradizione estetica : l’espressione, l’imitazione, la forma.

È a partire da questa prospettiva che il secondo capitolo rilegge la tradizionale questione del ruolo del sentimento nell’arte dei suoni, inserendosi così in una discussione che è oggi tornata di attualità e occupa gran parte della riflessione dedicata alla musica dall’estetica analitica angloamericana.

Anche la questione della tecnica, di cui si occupa il terzo capitolo, acquisisce grazie all’impostazione teorica qui scelta una rilevanza niente affatto scontata; il confronto con le soluzioni proposte dai grandi autori dell’estetica musicale novecentesca (come Adorno o Dahlhaus) e con le tesi emergenti nell’ambito delle poetiche musicali contemporanee (come Xenakis o Grisey) porterà in primo piano una nozione di tecnica come meccanismo, espediente, artificio agevolante.

L’ultimo capitolo, infine, utilizza la nozione di Atmosfera, oggi al centro del dibattito estetico in Germania, per ripensare il tema del rapporto della musica con le altre arti, qui declinato in particolare con l’esempio saliente del legame tra musica e architettura. Un legame anch’esso dai vari volti, talvolta puramente metaforico, altre volte necessario, intimo, che tuttavia trova un’occasione particolarmente feconda di chiarirsi intorno a quella nozione di spazio affettivo e di sentimento quasi oggettivo, che è centrale in un’estetica dell’Atmosfera.

Molte cose restano fuori, alcune in secondo piano, altre come semplice sfondo, ma è il prezzo che si paga quando, in lavori di così largo respiro, non si rinuncia comunque ad individuare una linea privilegiata e a seguirla il più fedelmente possibile.

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