Nicola Scaldaferri
Il compositore occidentale e le tradizioni musicali extraeuropee.
Conversazione con Fabio Vacchi


Su gentile concessione di Molimo – Quaderni di Antropologia culturale ed Etnomusicologia, 4, CUEM, Milano 2009, (pp. 69 – 83)



Fabio Vacchi ha sempre prestato, all’interno della sua attività di compositore, attenzione alle musiche extraeuropee ed extracolte, dalle quali spesso trae importanti spunti da inglobare del suo linguaggio musicale. La sua esperienza creativa, se da un lato è perfettamente inscritta nel solco della grande storia occidentale, dall’altro costituisce un significativo caso di contatto tra la musica colta e altre tradizioni musicali.
Nell’ambito del dibattito, oggi assai attuale, sull’incontro tra dimensione artistica e pratica etnografica, la sua testimonianza di compositore interessato all’alterità risulta di particolare interesse. Questo tanto più se si considera che i compositori, talvolta anche prima di altre figure, hanno rivolto il loro interesse alle musiche extracolte; limitiamoci a ricordare qui il caso emblematico di Béla Bartók, uno dei grandi compositori della tradizione occidentale, che è stato nel contempo uno dei fondatori della moderna etnomusicologia nonché pioniere della ricerca mediante la registrazione sonora.
La conversazione con Fabio Vacchi, svoltasi a Milano il 15 gennaio 2009, è stata registrata, trascritta e successivamente rivista dal compositore. Essa è preceduta dal breve testo Alla turca, pubblicato sul programma di sala dell’opera Teneke; composta da Vacchi su libretto di Franco Marcoaldi, l’opera è stata rappresentata nel 2007 a Milano al Teatro alla Scala.
Teneke è tratta dall’omonimo lavoro dello scrittore turco Yashar Kemal ed è una delle creazioni di Vacchi dove è più evidente la tematica dell’alterità anche per via del soggetto dell’opera. La vicenda si svolge negli anni ’50 del secolo scorso ed è ambientata in un villaggio dell’Anatolia; i contadini, afflitti dalla miseria e dalla malaria, sono vittima dei soprusi dei coltivatori di riso, in un atavico e inesorabile immobilismo contro il quale nulla può l’arrivo del giovane kaymakan, che alla fine sarà costretto ad allontanarsi.



Alla turca

Uno dei musicisti suonava lo strumento detto zurna, l’altro il grosso tamburo chiamato davul, legato al suo corpo. Egli picchiava il tamburo in modo diabolicamente selvaggio e per giunta con un pezzo di legno, di modo che non si sapeva se alla fine si sarebbe spaccato prima il suo tamburo o il mio timpano. Avevo ben da vergognarmi del mio povero, miserabile fonografo: scene simili non si potrebbero registrare neanche con il miglior grammofono che esista.
(B. Bartók, Una raccolta di canti popolari in Turchia, 1937)


Leggendo la partitura di Teneke, la prima cosa che passa in mente a un etnomusicologo avvezzo a scorribande in paesi difficili e luoghi disagiati, è che in fondo la miseria si presenta sempre alla stessa maniera. Malaria, guerra dell’acqua, fame e zanzare. E naturalmente loro, i miserabili, che devono essere sempre assai numerosi e fare peso su un piatto della bilancia, in modo che l’altro piatto - quello dei pochi - possa stare in alto. Quanto accade nell’Anatolia raccontata da Yashar Kemal accade quotidianamente nell’Africa nera e, fino a un passato neanche tanto remoto, accadeva anche nelle “Indie d’Italia”, dove i missionari gesuiti andavano a temprarsi prima di partire per le Indie più lontane.
Kemal sottolinea come ogni grande artista crei una propria lingua. Chi ha familiarità con l’epica orale dei Balcani e del Medio Oriente resta colpito dalla maniera in cui Kemal ha saputo inventare un linguaggio narrativo assolutamente unico, assorbendo i toni della tradizione delle sue terre d’origine. Una tradizione che ha preso corpo nel tempo, distillandosi in quel crogiolo di culture che è stato l’impero ottomano: un inestricabile groviglio di etnie, lingue e devozioni religiose, perfettamente simboleggiate dall’identità plurima della polis per antonomasia - Istanbul/Bisanzio/Costantinopoli - ponte tra Europa e Asia e capitale di tre imperi.
Dopo il tramonto della dominazione ottomana, alcune etnie, come quella curda, avrebbero continuato a vivere solo in forma diasporica; altre invece (supportate da potenze europee) avrebbero creato degli stati nazionali, cercando di dotarsi anche di propri tratti culturali identitari, inventandoli ex novo, oppure declinando a proprio uso fenomeni di comune ascendenza e di diffusione assai ampia. E’ la vecchia storia del caffé turco che diventa di volta in volta caffé greco o caffé albanese, del ritmo aksak che diventa ritmo bulgaro, delle melodie ‘ungheresi’ che Bartók registra però in Anatolia.
Albert Lord sosteneva che mettere la penna in mano a cantori come Avdo Mededovic - il macellaio analfabeta di Bijelo Polje che componeva poemi di oltre tredicimila versi – forse non avrebbe fornito loro alcun aiuto, anzi si correva il rischio di farne dei pessimi poeti. Leggendo le opere di Yashar Kemal, si ha un po’ la sensazione che Lord si sbagliasse, e che invece la sua opera narrativa possa essere considerata davvero quella del rapsodo che ha imparato a scrivere.
Non stupisce che un compositore attratto dall’alterità culturale e musicale come Fabio Vacchi sia rimasto affascinato da Kemal e dalla straordinaria cultura che rappresenta; e tantomeno che Vacchi e Franco Marcoladi abbiano attinto proprio da lui per l’ardua impresa di un’opera per la Scala. L’operazione di Marcoaldi e Vacchi colpisce per la capacità di trasferire in scena e in partitura un testo, senza fargli perdere la forza plastica della narrazione originaria; anzi, al contrario, amplificandone ed esaltandone i tratti cruciali grazie al linguaggio del melodramma. Essi attuano una sorta di transcodificazione che sfrutta la forza drammaturgica in qualche modo insita già nel testo iniziale, e di cui era consapevole lo stesso Kemal che ne aveva anche fatto una riduzione teatrale.
Dimensione compositiva multipla e uso consapevole di spunti musicali provenienti da altre tradizioni sono aspetti importanti del linguaggio musicale di Vacchi. Quello per l’alterità musicale è un interesse che il compositore coltiva da tempo, sia sul fronte della curiosità intellettuale che su quello dell’utilizzo, all’interno della pratica creativa, di elementi musicali di origine popolare o etnica. Tali spunti non costituiscono mai degli orpelli sonori, vengono bensì assimilati all’interno di processi dotati di una propria coerenza creativa.
L’arte della composizione richiede innanzitutto grande sapienza artigianale; questa, a maggior ragione, è richiesta laddove si ricorre all’acquisizione di elementi musicali estranei alla propria tradizione culturale. Nella musica occidentale, le innumerevoli volte che i compositori hanno incontrato e utilizzato aspetti musicali (veri o presunti) di origine popolare o etnica, non è mai stata l’ostentazione dell’esotico a fare la differenza; al contrario, l’incontro con l’alterità ha conseguito esiti convincenti sul piano artistico solo quando si è verificata la loro assimilazione in un percorso compositivo assai solido e coerente. Non sono certo i primitivismi, i ritmi asimmetrici e le melodie contadine a rendere il Sacre di Stravinsky e le pagine di Bartók dei capolavori, quanto piuttosto la fusione di tutti questi elementi in una trama, confezionata con abile maestria, dove tutto figura coerentemente metabolizzato. Così come non sono gli hoquetus desunti dalle trascrizioni di ritmi africani (peraltro non percepibili) a rendere accattivante Coro, ma la loro assimilazione in pagine forgiate dall’ineguagliabile abilità artigianale di Luciano Berio.
L’attività creativa di Vacchi si inserisce in piena continuità nel processo storico della musica occidentale. Questo emerge innanzitutto dalla padronanza delle tecniche di orchestrazione della nostra tradizione colta, o nella capacità di modellare strutture musicali in riferimento a procedimenti ben collaudati del passato, accanto a spunti di altre tradizioni, ben assimilati nel suo linguaggio compositivo.
In alcune pagine dei Luoghi immaginari, brani cameristici composti da Vacchi tra il 1987 e il 1992, a un orecchio esperto di musica balcanica suoneranno familiari i gesti strumentali di un clarinetto o di un violino scordato (che ricordano i gesti di strumenti popolari di quella parte d’Europa), che però si sposano con pagine dove invece a riecheggiare è il canto gregoriano (come nel caso dell’Ottetto dedicato a Luigi Nono) o procedimenti timbrici in cui si coglie il meglio della raffinata tradizione dell’orchestrazione occidentale.
Il titolo della recente composizione per orchestra di Vacchi, Mari che fiumi accoglie (2007), è quasi una metafora del modo del compositore di incontrare altre musiche. La presenza di elementi etnici (melodie di origine araba e ritmi di origine africana) è una tappa incidentale di un denso tessuto compositivo; la partitura è un ‘testo’ (nella sua accezione etimologica di textus) dove confluiscono e si fondono innumerevoli spunti. La maestria dell’orchestrazione occidentale, con la sua ricchezza di colori e gesti mediati dalla scrittura, incontra elementi di altre culture, in un mare - appunto - che accoglie contributi diversi, li scompone e li fonde in una realtà nuova che non può più essere la somma delle sue componenti ma diventa qualcosa d’altro.
Come in ogni grande affresco, nella partitura di Teneke colpiscono di primo acchito i grandi gesti, le ampie pennellate e la teatrale funzionalità di certe scelte musicali.
Le scene iniziali del primo atto sono un concertato che fa rivivere i fasti della tradizione operistica italiana; la marcia funebre del secondo atto richiama antecedenti illustri della storia della musica occidentale, nonché nella storia compositiva dello stesso Vacchi (basta pensare alla marcia funebre di un’altra opera di Vacchi, La madre del mostro). Le scene finali del secondo atto sono un autentico “finale secondo”, come prescrivevano le più consolidate convenzioni del melodramma.
Osservando poi da vicino la partitura, l’affresco si scompone in dettagli dai quali emergono i particolari costruttivi. Vi sono sezioni basate su tecniche di contrappunto che riprendono quelle dei maestri fiamminghi, come le dense pagine corali disseminate in vari momenti dell’opera. Oppure procedimenti in cui riecheggiano le grandi orchestre postweberniane (in particolare nella seconda scena del terzo atto); il tutto filtrato dalla particolare attenzione di Vacchi per la dimensione timbrica.
E, naturalmente, vi sono, in Teneke, innumerevoli spunti relativi a tradizioni etniche, nelle sezioni vocali come in quelle strumentali e in quelle registrate. L’arrivo del kaymakan, nel primo atto, viene salutato da clarinetti e percussioni (evocati anche nel libretto), che riecheggiano i gesti sonori di zurna e davul, gli onnipresenti strumenti di ogni circostanza festiva in tutte le aree dell’ex impero ottomano. Compare anche il ritmo aksak, un 7/8, realizzato secondo varie combinazioni di suddivisione ritmica; tuttavia, quasi ad evitarne una connotazione coloristica (e folkloristica), questo ritmo viene trasfigurato in una realizzazione timbrica che ne neutralizza la forte carica materica. Nella seconda scena del secondo atto, troviamo una melodia siciliana (elementi di ispirazione mediterranea ritorneranno più volte nell’opera), mentre la registrazione audio della stessa scena contiene materiale melodico turco rielaborato. Non mancano anche elementi desunti da poliritmie africane, di cui Vacchi fa spesso uso nelle sue composizioni. Nel finale del secondo atto, la penultima scena è costruita sulla celebre melodia di schiarazzule marazzule (notissima anche per la sua presenza in un brano di Branduardi) e già usata da Vacchi in Cjante (2004), per soprano e orchestra; nell’ultima scena elementi sono presenti elementi melodici dell’Anatolia, mentre nell’atto terzo vi sono spunti della tradizione liturgica ortodossa.
Certe volte Vacchi utilizza questi elementi musicali in maniera intenzionalmente dichiarata; altre volte in maniera più sfumata, o solo marginalmente percettibile, o appena intuibile. Ma non ci si trova mai in presenza di oggetti sonori usati in modo accessorio con la mera funzione di citazione; gli spunti etnici, decontestualizzati e rielaborati, diventano mattoni costitutivi organicamente assimilati nella partitura.
D’altra parte nel procedimento compositivo di Vacchi non è mai il gioco delle citazioni musicali o dei rimandi espliciti a svolgere il ruolo principale, bensì è l’amalgama coerente di tutti i pezzi che acquista una funzionalità creativa. L’uso di una coloratura etnica (autentica o reinventata) altro non è se non un tratto in cui si esprime la creatività del compositore; essa risulta sempre inserita all’interno della musica colta occidentale, dei suoi gesti, e delle sue caratteristiche salienti dal punto di vista compositivo, in un tessuto dove gli elementi si uniformano stilisticamente senza perdere la loro forza evocativa.
Nel caso di Teneke, il rapporto dialettico tra azione creativa del compositore con l’alterità musicale è cruciale, alla luce soprattutto del soggetto dell’opera. Poche realtà infatti possono assurgere a simbolo stesso di alterità quanto quella genericamente identificabile, nell’immaginario comune occidentale (e italiano in particolare), come ‘turca’; questa comprende uno sterminato e stratificato repertorio di fatti, simboli, suoni e personaggi – dal calascione turchesco del Bonanni ai turchi di Michelemmà passando per marce turche più e meno famose – che va ben oltre l’ambito musicale, toccando l’immaginario fantastico e perfino il gergo colloquiale quotidiano. Assai spesso tali riferimenti sono simulacri privi di fondamento concreto, ma non per questo meno potenti o evocativi. Essi sono conseguenza della notevole attrazione che nei secoli ha esercitato il mondo che giungeva fino appena oltre l’Adriatico, e di cui si percepiva la minacciosa e fascinosa presenza. Una fascinazione probabilmente non a senso unico, se si considera che già nel 1797 viene aperto a Istanbul un teatro d’opera, alla cui direzione ci sarà anche Giuseppe Donizetti, fratello del più celebre Gaetano.
L’autorappresentazione occidentale, suggerisce Herzfeld, passa attraverso la percezione dell’identità individuale e la celebrazione del singolo; questa finisce per definire l’altro nei termini oppositivi di un’indifferenziata diversità, per cui tutto ciò che è diverso da noi finisce immaginariamente per fare massa - e inevitabilmente - per assomigliarsi. Ben difficilmente l’ascoltatore della Scala riuscirà a individuare tutti gli spunti musicali extraeuropei o extracolti che si insinuano nelle pieghe della partitura di Teneke. Se li coglie, non è detto che riesca a identificarne l’origine, e forse neanche sarà interessato a farlo, così come non era interessato il compositore a una loro ostentazione. Siano essi siciliani, turchi o africani, si tratterà in fondo - appunto - di elementi ‘etnici’. L’ascoltatore ne percepirà soprattutto l’aura di alterità, perfettamente funzionale, in ultima analisi, alla potente forza evocativa di una vicenda turca scaturita dalla penna di Kemal.
L’ascoltatore riconoscerà invece senza ombra di dubbio la melodia fischiettata da Fikret alla fine del primo atto di Teneke: è l’inno alla Gioia, da una delle creazioni più sofisticate e rappresentative della cultura occidentale nonché espressione del genio individuale di Beethoven, la IX sinfonia. E’ curioso notare che si tratta proprio di quella sinfonia che un grande virtuoso di davul, ignaro della musica occidentale e dei suoi mostri sacri, trascinato a concerto da Yuri Arbatzky, bollò come troppo semplice (e forse anche un po’ noiosa). Ovviamente perchè priva dei ritmi aksak e, soprattutto, del diretto coinvolgimento fisico che per un suonatore di davul resta l’essenza stessa della musica: cambiando punto di vista, anche il valore di un monumento può radicalmente mutare - e in fondo l’estetica, come ricordava anche Nietzsche, non è altro che fisiologia applicata.

(Alla turca, di Nicola Scaldaferri; per gentile concessione del Teatro alla Scala di Milano)

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Fabio Vacchi
Non è raro che le mie composizioni nascano dalla rielaborazione di spunti e suggestioni sonore percepite in passato, che hanno spesso una radice nelle tradizioni etniche. Ho praticato le musiche etniche anche in prima persona, apprendendole direttamente per via orale. All’università di Bologna c’erano tanti studenti greci, arabi o turchi. Io possedevo un buzuki, un tanbur turco, un ud arabo.

Nicola Scaldaferri
Li suonavi?

FV Certo. Mi sarebbe piaciuto suonare anche la lira cretese. La musica cretese mi ha affascinato sempre in modo incredibile, soprattutto per via del suo carattere spiccatamente ornato.
L’ornamentazione è un aspetto che mi colpisce molto della musica popolare, forse perchè rende le melodie inafferrabili, da scoprire. In questo credo si concentri l’eredità più evidente che ho ricevuto dall’universo etnico. Da sempre cerco di evadere la linearità melodico-narrativa di tipo tradizionale non ricorrendo ai presupposti di tabula rasa teorizzati da certa avanguardia, ma forzando dall’interno i limiti del suono. Rendendolo dinamico, ambivalente, in movimento. Il suono, nella mia musica, proviene da un punto e prosegue verso un punto, non viene mai dato in quanto tale. Questo vale per le singole altezze, scardinate timbricamente dall’interno, come per le microcellule, le frasi e così via fino agli organismi più ampi e alla forma complessiva. In un incastro di instabilità nel quale cerco di rimettere in gioco equilibri e strutture portanti della tradizione colta occidentale. Per questo, spesso, il mio rapporto con le tecniche messe a disposizione dall’elettronica e dal suono digitale è simile a quello che ho con i materiali etnici. Delle une e degli altri amo la duttilità, l’apertura, l’imprevedibilità, e la possibilità di utilizzo per ottenere un linguaggio teso, emotivo, benchè solidamente appoggiato su una tecnica compositiva ferrea. Spesso l’ornamentazione, nella musica etnica, soverchia l’importanza della melodia aggiungendo un’incredibile ricchezza espressiva a una linea di per sé semplice e comune. Il che la rende particolarmente adatta, a parer mio, a un proficuo accostamento alle immagini. Nelle musiche che ho scritto per il Mestiere delle armi di Olmi, ma anche per Gabrielle di Chereau, la matrice etnica è fondamentale proprio per questo.

NS Osservando le tradizioni etniche, talvolta notiamo che certi comportamenti e certe pratiche musicali, anche per quanto riguarda gli aspetti più rigorosamente strutturali, spesso si presentano simili pur provenendo da culture musicali lontane tra di loro.

FV Fu Roberto Leydi a farmi notare, quando ero ancora ragazzo, come nelle ballate piemontesi troviamo strutture pentatoniche presenti in Scozia e in Cina. In fondo, forse questa è una delle lezioni più alte che ho ricevuto dalla frequentazione e dallo studio accanito della musica etnica. La ricerca di una densità di senso e significato in cui vi sia ancora spazio per un materiale sonoro la cui matrice antropologica lo renda in qualche modo astorico, privo di tempo, comune a tante e diverse civiltà, portatore di un valore aggiunto di carattere universale, sincretico, traversale, interrazziale.

NS Leydi, tra l’altro, è stato uno degli studiosi della musica cretese; la considerava di estremo interesse soprattutto perchè la posizione dell’isola nel cuore del Mediterraneo le ha consentito di ricevere influssi musicali sia da oriente e da occidente.

FV Nel ciclo compositivo Luoghi immaginari, c’è un pezzo che si richiama alla lira cretese, anche se non l’ho mai apertamente dichiarato; è il brano dove compare un violino scordato con sordina, con un timbro assai modificato.

NS L’ascolto di quel brano dei Luoghi immaginari mi ha sempre colpito in modo particolare; penso che pur non sapendo che il tuo “modello” acustico è stato la lira cretese, l’ascoltatore intuisce comunque che quel tipo di sonorità non proviene dal mondo del nostro violino classico.

FV Potrei definire il modello cretese “fantasmatico”. Per questo ho chiamato quei brani Luoghi immaginari. Sono luoghi sonori che perdono la loro specificità e diventano luoghi della mente. Ed è proprio in questi brani che per la prima volta mi sono reso conto della direzione verso cui stavo andando nel mio percorso compositivo. Da qui ne deriva un altro insegnamento impartitomi dalla musica etnica, non solo e non tanto come serbatoio immenso di spunti e di riferimenti, più o meno espliciti, più o meno segreti, ma anche e soprattutto come sorgente di un sano orrore per i dogmi stilistici, metafora di quelli politici, religiosi, sociali.

NS Sempre all’interno dello stesso ciclo colpisce molto anche il modo particolare in cui utilizzi il clarinetto.

FV In questo caso il “modello fantasmatico” è la pipitza.

NS Chi ha familiarità con le musiche dell’est Europa e dei Balcani in effetti coglie questi echi sonori, e certamente ne percepisce il profumo di alterità rispetto alla tradizione occidentale.

FV Chi invece non ha familiarità ... un illustre cattedratico, sentendo il quartetto dei Luoghi immaginari, dove il clarinetto è usato alla maniera della pipitza, l’unica cosa di cui si accorse era la presenza, ogni tanto, di una nona di dominante, e mi fece il gesto “eh quella nona...”.

NS Una costruzione accordale messa in relazione con la pipitzsa...mi fa venire in mente alcuni modi di procedere di Béla Bartók, che partendo da alcuni rapporti intervallari delle melodie popolari costruiva delle strutture melodiche e degli edifici armonici.

FV Bartók poi spesso integrava, con effetti straordinari di politonalità, l’armonia mancante alla melodia. Una cosa che mi affascinò molto da studente fu la prima delle Improvvisazioni per pianoforte op. 20: c’è una melodia ripetuta, accompagnata da armonie triadiche ogni volta diverse, dotate di straordinario effetto straniante.

NS Tu ascolti solitamente musiche di altre culture?

FV Spessissimo. Per me è una fonte di ispirazione continua, insostituibile. Di recente sentivo musica per duduk e dijeridoo, il che mi ha spinto a riascoltare e ad analizzare l’inizio della Sagra della primavera di Stravinskij. C’è un terreno comune a tutta la musica, un terreno percettivo e fisiologico. Qualche cosa di materiale, che ci lega al nostro corpo e alla terra. Perché la musica non diventi un gioco astratto fine a se stesso, puramente concettuale, ma neppure una forma corriva di comunicazione, bisogna conoscere, sperimentare, attraversare la nostra storia musicale occidentale, colta e popolare, nonché l’avanguardia e poi superarle. Tutto sommato, è questo ammaestramento che scaturisce dalla musica e dalla teoria di Schoenberg. Al di là dell’assurda antitesi tra tonalità e atonalità, quasi si trattasse di due entità metafisiche contrapposte. Antitesi che oltre a farmi spavento come tutte le contrapposizioni dogmatiche, trovo anche assai grossolana in questo momento storico (non, ovviamente, quando doveva servire come provocazione forte per consentire l’esplorazione di nuovi orizzonti), perfetta oggi per coprire vuoto di talento e di ispirazione con astratti pregiudizi. Penso sia indispensabile piegare tonalità e atonalità, nella loro accezione più ampia e stratificata, al proprio stile, e questo vale anche per il passato remoto o prossimo e per il presente, per gli altri generi (jazz, pop-rock, popular music compresi) e per le altre culture. Ma solo dopo averle profondamente conosciute e sempre avendo in mente che il punto di osservazione-rielaborazione, il nostro, è altro, ha una sua peculiarità e una sua storia. Ecco, mi sento di dire che devo queste mie convinzioni alla conoscenza e all’amore per la musica etnica. E all’ascolto continuo che ne faccio e che propongo anche ai miei allievi. Inevitabile, quindi, che abbia anche letto, analizzato, chiosato, un’infinita letteratura sul repertorio popolare. La ricerca etnomusicale, mettendo a confronto forme e comportamenti delle diverse società, ha costretto a rimettere in discussione il concetto stesso di musica. Penso anche agli studi transculturali di Sachs, di Rouget, o di semiologia della musica, con Nattiez, e di psicologia della musica, con Imberty. Un capitolo a parte richiederebbe il discorso sul film etnomusicologico.

NS Prima si citava il duduk, la tradizione cretese... mi pare di capire che le aree che partono dal Mediterrano per spostarsi verso oriente siano tra quelle che hai frequentato di più musicalmente.

FV Non solo musicalmente. In Grecia ci andavo, qualche volta mi hanno scambiato per un indigeno perché avevo i baffoni e suonavo il buzuki. Una volta fischiettavo per strada una canzone greca con le ornamentazioni “tipiche” e mi hanno preso per un locale, perché, d’istinto, veniva recepita come una lingua madre. Ma apprezzo e conosco la musica italiana, americana, indiana, africana, giavanese...Quando viaggio, vado sempre a cercare tesori nascosti, informandomi prima. L’ho fatto quando ero a Boston come a Pietroburgo, a Bruxelles come ad Asiago, dove amo andare perché, tra una sciata e l’altra, vado a scavare nella splendida cultura cimbra, sonora e no.

NS Una cosa che colpisce di molte tue composizioni è la presenza di trascrizioni di registrazioni di musica tradizionale; penso, ad esempio, ai ritmi “africani” che compaiono nel melologo Mi chiamo Roberta, o in modo davvero massiccio nel finale dell’opera Teneke.
La scelta dei materiali da usare in questi casi risponde solo a criteri puramente estetici o c’è dell’altro?

FV L’attrazione verso le culture altre ha ragioni estetiche ed etiche. Cerco ciò che può essere utile e funzionale a una costruzione musicale autonoma, coerente. Ma allo stesso tempo credo che in un mondo da un lato sempre più aperto e libero, anche nella comunicazione, dall’altro sempre più manovrato da poteri che enfatizzano la xenofobia, sia un fatto anche etico. I due aspetti non sono scindibili, almeno per me. Comunque, la citazione, il pastiche, non mi interessano assolutamente. Con lo svelamento reciproco delle culture avvenuto nel secolo scorso, e soprattutto con la rivoluzione tecnologica degli ultimi anni, ci vuole davvero poco a sovrapporre, fondere, rimestare, in modo da ottenere effetti piacevoli, avvincenti, ipnotizzanti. Ma questo vale per qualsiasi materiale. Anche usando stili del passato o schemi dell’avanguardia anni Sessanta – Ottanta si possono confezionare prodotti tanto suggestivi quanto superficiali. Tutto ciò non solo non mi interessa, ma penso che in generale conduca a un lento ed esiziale sfaldamento di un patrimonio la cui sapienza è nata da talento individuale, partecipazione collettiva, stratificazione di culture, artigianato, nonché esercizio, pratico, mentale, emotivo. Patrimonio che è interesse delle società che si dichiarano evolute tutelare. Come l’ambiente, come i diritti umani acquisiti. Mi spiego: se le forme più banali della musica leggera poco incidono sulla distruzione della musica colta e sulla perdita di memoria della musica popolare ed etnica, un brano che opera nel mondo della musica classica, composto oggi, e scritto in modo farraginoso mescolando suggestioni varie (che vanno, ripeto, dall’accademia del passato a quella dell’avanguardia, dalle formulette da piano bar ai prestiti dal rock) ha un ruolo ben più grave nella sua demolizione profonda. Il problema non è il tipo di materiale, ma come lo si usa.

NS In un’opera come Teneke, la tematica dell’alterità è piuttosto evidente. Questo forse non tanto nello specifico del linguaggio musicale (che da questo punto di vista si pone in linea di coerenza con le altre tue creazioni) quanto nel soggetto stesso dell’opera.

FV Poiché appunto la musica fa parte della più ampia sfera dell’umano, è inevitabile che sia ricettiva rispetto a tutto ciò che sta avvenendo. Come si può non essere attratti dalla ricchezza di un mondo sonoro legato a diverse tradizioni? Oggi che almeno in parte è più facile viaggiare, cercare, connettersi via internet, entrare in contatto con altre civiltà. Eppure sappiamo bene che veniamo martellati ogni giorno sulla necessità di conservare la nostra presunta supremazia culturale e politica. E’ naturale, quindi, che in un’opera come Teneke, ma non solo, l’ambientazione turca derivi da un mio interesse per le civiltà differenti dalla nostra, anche se spesso, come in questo caso, vicine e cariche di memoria comune.
Le civiltà non si scontrano, si incontrano, dialogano, si arricchiscono reciprocamente. Questo criterio è etico, ma risponde anche a un’esigenza estetica. Che chiamerei relativista, usando volutamente un termine così disprezzato di questi tempi. E così legato a ciò che penso del compromesso nella vita, nella politica, nell’arte.

NS Nella partitura di Teneke, tra le altre cose, mi ha colpito l’uso rielaborato dei ritmi aksak. Tuttavia dettagli come questo vengono colti solo da chi conosce bene la struttura e il funzionamento di questi ritmi; nella partitura essi appaiono di fatto trasformati e assorbiti all’interno del tessuto orchestrale.

FV Cerco, tra quanto emotivamente ed eticamente mi muove nel profondo, ciò che può piegarsi a ragioni puramente costruttive. Ed ecco che, ad esempio in Teneke, materiale di ascendenza noniana si fonde con elementi della tradizione melodrammatica - come un’esplicita reinvenzione-citazione di due concertati dalla Cenerentola di Rossini - e con riferimenti etnici come i ritmi africani del finale. Ci sono molte suggestioni derivate dal patrimonio musicale turco, ma c’è anche un famosissimo canto popolare friulano per me dotato di una storia e quindi di un carico simbolico in profonda sintonia con il senso generale dell’opera, essendo nato ad Alessandria d’Egitto e giunto nel nord Italia seguendo i costumi trasgressivi dei benandanti.

NS Nel processo di assimilazione strutturale che metti in atto in Teneke, in fondo i ritmi aksak e i ritmi africani si trovano sullo stesso piano di elementi della tradizione colta occidentale; citavi appunto i concertati rossiniani, ma penso anche a taluni procedimenti della polifonia fiamminga.

FV Infatti, in Teneke compaiono anche procedimenti post-dodecafonici, materici, così come faccio largo uso del contrappunto di matrice fiamminga, di cui amo il punto di confluenza tra massima astrazione matematico-concettuale e massima espressività timbrico-corporea, con una ridondanza espressiva, con una carica emotiva fortissima che però scaturisce dalla lucidità più assoluta. Ci sono un paio di scene che mi sono costate, solo dal punto di vista squisitamente contrappuntistico, mesi di lavoro.

NS Quello che dici mi fa venire in mente un altro tuo lavoro, Mari che fiumi accoglie; questo titolo potrebbe essere quasi una metafora del tuo modo di intendere una composizione musicale, soprattutto in riferimento alla ricchezza ed eterongeneità di spunti che vi possono confluire.

FV Il presupposto di quel brano è un’utopia sociale, la metafora di una collettività che accoglie elementi disparati e li fa propri in una convivenza armonica. Dal campo musicale si giunge ad altre implicazioni, e viceversa.
Quando ero studente ero spesso insoddisfatto di lavorare con i materiali astratti, come ad esempio le linee vocali che non prestavano attenzione agli aspetti fisiologici, antropologici direi, del canto.
Una volta un mio insegnante mi disse che se mi interessava la materia, dovevo lasciar stare la musica e andare all’accademia a fare scultura. Consiglio che non seguii.

NS I tuoi anni di formazione come studente hanno peraltro coinciso con un periodo di intenso dibattito sul significato e il ruolo di certe nuove avanguardie musicali, soprattutto laddove si andava marcando la distanza con il pubblico. Ma ha senso secondo te la definizione di “musica contemporanea”?

FV Pensandoci bene, risulta improprio. La musica è sempre stata contemporanea.
Il problema nasce insieme alla definizione, che di fatto tende ormai a indicare musica di difficile se non di impossibile ascolto, legata a presupposti ideologici che ne hanno accelerato il processo di frattura con il pubblico. Se non era radicalmente dissonante e disgregata, radicalmente incomprensibile, non era culturalmente rispettabile; non era musica progressista, dunque era regressiva. Oltretutto questo modo di fare musica era diventato, per un periodo, emblema di chi si schierava, anche politicamente, da parte della solidarietà sociale e dell’affrancamento delle masse dalla servitù. Questo ha generato degli equivoci spaventosi, oggi non ancora del tutto dissipati: un simile modo di concepire la musica infatti è essenzialmente spiritualista, dunque tutto il contrario di un approccio materialista in cui credo.

NS Tornando alle tue composizioni più recenti che utilizzano spunti di materiali etnici, mi viene in mente un’altra opera, La Madre del mostro; anche qui non mancano richiami immaginari a sonorità desunte da tradizioni extracolte.

FV Una di queste ad esempio è la scena dell’antennista, composta pensando al canto a tenores della Sardegna. Purtroppo una cosa che so di non poter ottenere da un cantante professionista è l’emissione vocale assolutamente straordinaria di un cantore popolare.

NS E perchè non coinvolgi qualche cantore popolare autentico?

FV Perchè spesso è un problema dal punto di vista pratico. Devo scrivere la musica e quindi ci vuole un cantore che la sappia leggere. Oppure ci vorrebbe la volontà, il tempo, la motivazione e la struttura, da parte degli enti che mi commissionano i brani, per creare le condizioni di lavoro ottimali tra me e l’interprete. Possibilità di studiare, provare insieme. Inoltre, spesso gli ingaggi ai cantanti passano attraverso agenti o comunque prassi, abitudini e conoscenze, che, per lo più, nei teatri, gravitano intorno al melodramma tradizionale e quindi ai cantanti con voce impostata. Ma non dispero, prima o poi. In ogni caso, non di rado ho trovato cantanti con grande disponibilità e addirittura curiosità, entusiasmo, nei confronti della natura delle mie linee melodiche e delle loro origini extracolte. Talvolta questo ha creato una sinergia importante nell’esecuzione delle mie opere, aprendo prospettive impensate prima anche agli stessi interpreti. Ancora una volta, un compromesso costruttivo.

NS Quando componi passi sempre attraverso la scrittura?

FV Normalmente, proprio per la mia primaria necessità di rigore, sì. E’ infatti il ricorso alla scrittura che mi consente di metabolizzare, anzi mi obbliga a metabolizzare. Ma, all’interno di questa volontà di controllo e di approfondimento del materiale, mi capita anche di sfruttare la creatività dell’interprete. Non in senso vagamente stocastico e casuale, ma offrendo delle griglie sulle quali l’esecutore possa inserirsi con variazioni ed elaborazioni. Questo può avvenire quando mi trovo a che fare con uno strumentista o un cantante che siano in grado di farlo. E’ avvenuto, ad esempio, nel caso del materiale percussivo di origine africana di Mi chiamo Roberta. Lì, l’idea portante legata alla fatica del lavoro precario, voleva passare attraverso la fisicità della pietra. Ho quindi fatto costruire uno strumento apposito, nel quale la pietra (il lavoro, lo sforzo di forgiare, di estrarre, di piegare) canta. E lì il materiale etnico era sottoposto a varianti sia attraverso l’uso del computer, sia attraverso gli interventi improvvisativi delle percussioni.
In ultima analisi tutto questo grande patrimonio diventa per me una specie di linfa vitale, dalla quale “rubo”, ma non copio. Durante il periodo di formazione in conservatorio, il mondo della musica etnica fu per me una bombola di ossigeno, perchè compensava un percorso nel quale mi sentivo asfissiato. Non dimenticherò mai la prima volta che ascoltai la musica cretese con lira e laouto; mi ha dato una percezione di sole, di aria.

NS A proposito della formazione in conservatorio, mi fai venire in mente Berio, quando sosteneva che lo studio del contrappunto, anche se in apparenza arido, è comunque importante in quanto serve a collegare le orecchie al cervello e certamente fornisce una buona tecnica artigianale. La figura del compositore in occidente in qualche modo è legata anche all’evoluzione di processi di tipo tecnico. In fondo essa nasce e si sviluppa nella storia della musica occidentale assieme alla scrittura musicale e alla polifonia. Mi sembra che, da questo punto di vista, tu abbia una chiara coscienza del tuo ruolo di compositore sia in rapporto alla nostra storia della musica che in rapporto alle tradizioni musicali diverse dalla nostra.

FV Il contrappunto e la polifonia sono il frutto forse più alto, astratto, concettuale, di uno studio che ha attraversato e direi addirittura determinato la nostra tradizione occidentale. Anche l’opera di Berio ne è esempio sommo. Con tutta la preziosità della pratica artigianale, dell’esercizio, fisico e mentale, dello scontro e della vittoria sulla complessità delle regole. Proprio il mondo popolare mi ha insegnato, forse ancor più della tradizione colta, quanto la musica sia antropica e non possa sottrarsi a una dimensione etica che le è congenita. E la polifonia è di per sé la scienza che studia la possibilità di compresenza di elementi strutturalmente autonomi in un organismo che sappia inglobarli senza sminuirne il senso ma anzi enfatizzandone le potenzialità. La polifonia insegna a compenetrare senza snaturare, ad accrescere il valore estetico in sé di ogni elemento in un tutto che sia il risultato di un pensiero. Credo nell’autonomia della scrittura musicale, credo che la tradizione musicale colta occidentale sia un patrimonio importante, collettivo, da coltivare e far sopravvivere, con le sue specificità che possono davvero mettere un freno alla banalizzazione stereotipata, al bombardamento unilaterale di messaggi volti a rendere passive e manovrabili le persone. La musica nasce con i bisogni dell’uomo, esprime le sue aspettative, i suoi desideri di cambiamento, consola e lenisce mentre crea e quindi oppone a un mondo così com’è un altro mondo possibile. Perciò mi interessa il suo carico simbolico antropologico e la sua immediata carica emotiva, simpatetica. Per questo non smetto di dire ai miei allievi di ascoltare e studiare la musica etnica. Mi ha aiutato e mi aiuta a inseguire un compromesso che non ha nulla a che fare con un banale stare in mezzo e infatti non conduce a un punto d’arrivo, ma è da intendersi come tendenza verso un equilibrio da rideterminare in base a dinamiche in continuo movimento. Una faticosa ricerca, dunque, di un punto d’incontro tra controllo strutturale e abbandono affettivo, tra regole tramandate dalla tradizione e ulteriormente filtrate e rielaborate dall’avanguardia (regole quindi di pensiero, in qualche modo arbitrarie, dettate da convenzioni) e leggi della percezione (in qualche modo, invece, non arbitrarie, ma dovute a lente elaborazioni antropologiche, condizionate anche da confini e impulsi naturali, innati, comuni a tutte le epoche). Compromesso, quindi, tra natura e cultura, sperimentazione e sedimentazione storica collettiva.

 

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