Simone Borghi
La casa e il cosmo  –  Il ritornello e la musica nel pensiero di Deleuze e Guattari.
Ombre Corte, Verona, 2008 (
http://www.ombrecorte.it/default.asp).

 


Ringrazio la casa editrice Ombre Corte, nella persona di Gianfranco Morosato, per avermi accordato il permesso di pubblicare un estratto del mio libro. Molte grazie, inoltre, a Carlo Serra per avermi dato questa possibilità e a Luigi Manfrin. Ho ritenuto qui opportuno pubblicare l’introduzione, per avere una panoramica generale, e un paragrafo di qualche pagina che mi sembra essere rappresentativo. Di seguito, troverete anche un articolo nel quale cerco di ampliare, entro certi limiti, gli argomenti accennati nell’introduzione e di riassumere le tematiche principali del libro.


1. Introduzione (del libro)

2. Motivi e contrappunti territoriali (estratto dal secondo capitolo)

3. Miopia e astrazione (articolo inedito)

 

 

 

1.    Introduzione

    La musica o l’arte in senso lato non sono, secondo Deleuze e Guattari, un’esclusiva dell’uomo e del suo mondo. Nel mondo animale, infatti, possiamo facilmente trovare fenomeni che a tutti gli effetti, dicono i due filosofi, dobbiamo considerare artistici. Certo, per posizionarci in un tale punto di vista dobbiamo, da una parte, lasciarci dietro le spalle la nostra abitudine a porre una distanza o una netta frontiera fra l’uomo e l’animale; dall’altra, non vedere l’opera d’arte come il risultato del lavoro individuale di un soggetto, ma di un divenire espressivo molto più generale. Per queste ragioni, la nostra analisi unirà nella sua prima sezione l’estetica con l’etologia, prendendo in considerazione le teorie sul mondo animale di Von Uexküll e quelle sul territorio di Lorenz, ai quali Deleuze e Guattari fanno esplicito riferimento. In entrambi i casi vedremo come il pensiero dei due etologi venga accolto nel pensiero dei due filosofi francesi.

Il problema non è affatto, comunque, quello di eguagliare l’uomo e l’animale, come neanche di spingerci verso un’ideale primitivismo o un’animalizzazione dell’umano. La vera questione sta invece nel dover porre un piano filosofico sul quale la distinzione fra naturale e artificiale perda di senso, per far posto a nozioni che ritagliano o distribuiscono il reale in modo sensibilmente diverso. Non più uomini, animali o vegetali, anche se continueremo ad usare questi termini, ma milieux (ambienti), territori, agencements (concatenamenti) e piani cosmici. Concetti, questi, che non tengono per nulla conto delle differenze di specie che siamo soliti utilizzare, poiché prendono in considerazione un’unica materia “quasi fluida” per tutti gli esseri, per tutte le realtà concrete o astratte che siano, e dei gradi di stabilità strutturale oppure di potenza creativa che possiamo di volta in volta discernere e valutare.

Queste nozioni non rinviano dunque a strutture o ad archetipi sui quali i viventi si installerebbero, ma a tipologie di agglomerati di materia aventi ognuna le proprie possibilità espressive, così come le proprie forme più o meno rigide. Lo scopo di tali concetti è quello di permettere l’individuazione delle forze o dei movimenti attraversanti ogni essere, cioè di renderle pensabili, proprio nel senso in cui Klee diceva che l’arte deve “rendere visibile” e non riprodurre il visibile. I movimenti che analizzeremo sono: la codificazione, la decodificazione, la territorializzazione,  la deterritorializzazione relativa e assoluta, e la riterritorializzazione.

Analizzeremo dunque le forme di vita che popolano la filosofia di Deleuze e Guattari, dalle più semplici basate su dei codici fino alle instaurazioni di un piano cosmico informale, sul quale un materiale “molecolarizzato” con una sua propria valenza non ha più bisogno di una forma vera e propria che lo strutturi. La loro presentazione sarà sequenziale ma esse non dovranno essere pensate come i termini di un’evoluzione, bensì contemporanee e mescolate l’una nell’altra come all’interno, per così dire, di un caleidoscopio. La loro logica né strutturalista né gerarchica, o quello che potremmo dire il loro “libero gioco”, è ciò che il concetto di ritornello riassume in sé in quanto molteplicità qualitativa. Una logica del divenire che trascina nel suo complicato dinamismo, strutturante ed espressivo allo stesso tempo, a gradi e in modi di volta in volta diversi, tutto il vivente. In sottofondo, la presenza di Spinoza nel pensiero di Deleuze e Guattari è evidente: non più soggetti, non più coscienze o essenze, ma buoni o cattivi incontri, affetti positivi o negativi e gradi di potenza.

L’analisi sul ritornello ci obbligherà inoltre a dover ripensare le nostre classiche categorie di spazio e di tempo, aiutandoci con la riflessione di due compositori contemporanei ai quali Deleuze e Guattari devono molto: Olivier Messiaen e Pierre Boulez. Non più un solo tempo e un solo spazio dove tutti gli esseri viventi si muovono e svolgono la propria vita, ma una pluralità di durate e di spazi diversi a seconda delle situazioni. Non più soltanto il tempo come misura, ma anche come differenza, e non più lo spazio solo come estensione, ma anche come intensità. Raddoppieremo dunque le due nozioni e parleremo di due coppie concettuali in perenne commistione: uno spazio e un tempo tipico di una certa abitudine della materia, o di una ripetitività reiterata, che si mischiano rispettivamente ad un altro spazio e un altro tempo di natura diversa e ben più complicati da capire, appartenenti invece ad ogni atto espressivo o creativo. Gli uni sono sempre già dati, gli altri sono invece da “conquistare”. L’importanza del concetto di ritornello è allora evidente: non soltanto un’originale teoria del divenire, ma anche una nuova concezione dello spazio e del tempo. Dalla più piccola cellula all’organismo più complesso, è il ritornello che imprime o “produce” sia una ritmicità sia uno schema spaziale trascendentale, per il suo sviluppo detto regolare. Ma allo stesso tempo è sempre a causa del suo interno dinamismo che ogni organismo può essere costretto ad intraprendere un movimento espressivo, a rivedere i propri schemi spazio-temporali, e cioè a crearne di nuovi. Il ritornello non è una struttura, non ha una forma, perché è una forza o un complicato movimento che nel suo ripetersi dà di volta in volta risultati diversi. Verranno in luce infatti come due poli o due modi di pensarlo: il piccolo e il grande ritornello.

Il concetto centrale di questo studio intrattiene poi col suono una stretta relazione, come testimonia la definizione dell’arte musicale dataci da Deleuze e Guattari, in quanto “attività che consiste nel deterritorializzare il ritornello”, essendo quest’ultimo il “contenuto proprio della musica”. Da una parte il presente lavoro è un’analisi del concetto di ritornello e, dall’altra, ha lo scopo di rendere chiara la definizione di musica di cui sopra. In filosofia, come in musica o nelle altre arti, si è creduto per lungo tempo di non poter pensare, comporre o dipingere, senza ricorrere a certe forme o luoghi privilegiati, ritenuti imprescindibili. Si riteneva impossibile fare musica senza le note, così come in filosofia si diceva: “Fuori della persona e dell’individuo, non distinguerete nulla!”. Senza le note c’era solo il rumore, ed al di là del soggetto solo un fondo indifferenziato, la notte dove tutte le mucche sono nere. Ma fra la fine del XIX° e l’inizio del XX° secolo, la nota ed il soggetto hanno subìto a ben vedere lo stesso destino, poiché si è scoperto che al di là di essi c’è un modo informale, e non per questo meno rigoroso, di organizzare i suoni, i pensieri o le proprie affezioni. E non si tratta, ben inteso, di abolire ogni uso delle note o della tonalità, ma di non esserne assoggettati. Presteremo un’attenzione particolare, dunque, ad un certo tipo di musica contemporanea, ma senza la minima intenzione di svalorizzare quella precedente.

 

2.    (Estratto dal) Capitolo Secondo: La logica dell’ espressione territoriale

Motivi e contrappunti territoriali

[ (Nota introduttiva) Come detto all’inizio dell’introduzione, per Deleuze e Guattari l’arte non è una prerogativa dell’umanità e l’espressività ad essa inerente si trova già abbondatemente al di fuori dell’evento chiamato uomo. Un’espressività completamente impersonale e autonoma, che non fa capo ad un soggetto esprimente ma bensì ad un agglomerato di materiali interagenti fra di loro. Materiali viventi e non semplicemente concatenati fra di loro meccanicamente.

Anche se il semplice giglio dei campi esprime già “la gloria dei cieli”, i due filosofi francesi pongono però una linea di demarcazione nel passaggio fra due modi di esistere: la Umwelt (milieu in francese e ambiente in italiano) e il territorio. Con quest’ultimo, dicono, l’espressività diventa costruttiva e per questo esso può essere detto l’inizio dell’arte.

La struttura della Umwelt e le teorie principali del suo inventore, J. Von Uexküll, sono analizzate nel primo capitolo del mio libro. Il biologo tedesco, invece di considerare l’animale in quanto corpo in senso stretto, lo definisce una intimissima rete di relazioni fra dei segnali ben precisi e degli organi atti a recepirli. Gli animali in quanto Umwelt conoscono  soltanto  determinati segnali (non gli oggetti in se stessi) che innescano in loro una reazione. Quest’ultima in molti casi può produrre un segnale per un’altra Umwelt completamente sconosciuta alla prima. Al di là dei segnali della sua Umwelt, l’animale in senso stretto non conosce niente di quello che ad esempio noi uomini potremmo discernere all’interno di un bosco. La zecca sente soltanto l’odore dei mammiferi, quello dei fiori o quello della terra per essa non esistono proprio. Ogni animale in senso stretto e prima di lui ogni sua cellula, dice Von Uexküll, segue nel suo vivere una melodia generale di sviluppo, rintracciabile nei segnali verso i quali dimostra di essere sensibile e intrecciantesi a molte altre nell’enorme spartito della natura.

Il territorio è invece una dimensione vitale che può essere creata soltanto con un atto espressivo che pone una marca territoriale. L’animale può usare qualsiasi cosa appartenga alla sua Umwelt, come una foglia, della terra o una parte del proprio corpo, per marcare un territorio ed affermare: “questa è la mia proprietà, statene lontani!”. In molti animali riscontriamo marche odorifere (come nel caso del cane o del gatto), in altri marche visive con lo sfoggiamento dei colori più accesi (ad esempio nel mondo dei pesci), in altri ancora marche sonore (come gli uccelli) e così via. Ma al di là dei mezzi usati, l’utilizzazione di un materiale appartenente alla propria Umwelt per creare un territorio, non è una semplice risposta ad uno stimolo, ma bensì il prodotto di una espressività che crea uno “chez-soi”. Il materiale usato esce dalla sua funzione ben precisa all’interno di una Umwelt e viene trascinato in un divenire espressivo, cioé in una creazione. ]

 

Il divenire espressivo o l’emergenza delle materie d’espressione [1], sembra così arrestarsi in un nuovo sistema funzionale nel quale abbiamo, da una parte, dei segni con il preciso scopo di indicare una proprietà e, dall’altra, la comparsa di un’aggressività intra-specifica che assurge a ruolo di forza regolatrice della vita biologica degli animali, mettendo in gioco le tre funzioni elencate da Lorenz [2]. In effetti, dicono Deleuze e Guattari, il territorio sembra essere prima di tutto la “distanza critica” fra due esseri della stessa specie: “prender le distanze. Quel che è mio, è in primo luogo la mia distanza, possiedo soltanto distanze. Non voglio che mi si tocchi, grigno se si entra nel mio territorio, metto dei cartelli. La distanza critica è un rapporto che deriva dalle materie d’espressione” [3] . Le materie d’espressione, lo abbiamo visto, sono prima di tutto materie appropriative e l’inizio o il suolo dell’arte rimanda ad una proprietà. Ma questa proprietà, ancor più che rinviare ad un soggetto, ad un proprietario, rimanda già da subito ad un legame. Una distanza critica, appunto, che non ha niente a che fare, come vedremo, con uno spazio geografico oggettivamente misurabile.

Contemporaneamente a questa stratificazione della materia, poi, generante un regime di segni, per garantire un equilibrato svolgimento della vita di una specie animale, i territori fanno scaturire due ulteriori fenomeni di natura ben diversa. In effetti, le materie d’espressione non si arrestano, secondo i due filosofi francesi, allo stadio di semplice marca territoriale. Bensì, entrando in relazione l’una con l’altra, fanno scaturire dei “rapporti mobili che potranno «esprimere» il rapporto del territorio che esse tracciano con l’ambiente [milieu] interno degli impulsi e con l’ambiente esterno delle circostanze” [4]. Questi due nuovi rapporti o fenomeni, che sono, è bene ripeterlo, perfettamente contemporanei alla nascita delle funzionalità in seno al territorio, vengono chiamati motivi e contrappunti territoriali. I primi, riguardano la relazione fra il territorio e il milieu interno degli impulsi dell’animale proprietario, mentre l’altro, la relazione del proprietario e del suo territorio con tutto ciò che viene percepito come esterno ad esso. A prima vista, sembrerebbe che i due filosofi vogliano ripresentare lo stesso schema interpretativo usato per i milieux.

Se ci domandiamo, però, perché questi motivi e contrappunti territoriali vengano definiti “mobili”, si intuisce da subito  che questi fenomeni devono presentare una natura diversa dai loro analoghi in ambito di milieux. Sappiamo che i milieux si costituiscono a partire da un codice, cioè sulla ripetizione di una loro componente. Da questo punto di vista, abbiamo poi affermato che un territorio è qualcosa di ben diverso da un milieu, in quanto esso è il risultato di un’espressività ritmica che decodifica una o più componenti di milieu per farne una firma o, come diceva Lorenz nel caso dei pesci della barriera corallina, un cartellone pubblicitario. Ripensiamo ora per un momento all’analogia fra Umwelt (o milieu) e melodia dataci da Uexküll [5], e con la quale Deleuze e Guattari si trovano pienamente d’accordo. Non solo l’animale, dice l’etologo tedesco, ma anche ogni piccola cellula si comporta o si sviluppa secondo una linea di condotta per la quale, alla ricezione si un determinato stimolo, risponderà sempre con un’azione specifica. Dalle cellule agli organi, e da questi all’animale, che all’interno del suo milieu ha, da una parte, le sue specifiche percezioni dette sonorità passive e, dall’altra, le sue azioni dette sonorità attive. Queste sonorità, poi, mettono in comunicazione i vari mondi animali fra loro perfettamente sconosciuti, in modo contrappuntistico. Nell’esempio delle farfalle notturne, abbiamo visto che il grido del pipistrello, che ha un ruolo amichevole nella Umwelt di questo, assume un valore di sonorità pericolo in quella della farfalla, che fuggirà di conseguenza dal suo predatore. L’orecchio della farfalla è perfettamente sintonizzato, già da sempre, sulle frequenze sonore del pipistrello. Il caso del ragno e della sua ragnatela, poi, è ancora più interessante, in quanto mette meglio in evidenza il carattere trascendentale, regolato da codici ben precisi, di questo contrappunto naturale. Il ragno tesse la sua tela, infatti, ancor prima di aver visto una mosca e dunque senza aver ricevuto una cosiddetta sonorità passiva, proveniente dal milieu della sua preda. Per questo motivo Deleuze e Guattari dicono, come abbiamo visto, che il ragno ha come una melodia di mosca “in testa” o un frammento di codice del milieu della mosca mescolato al suo. Risulta già a questo punto forse evidente, che il termine mobile sia completamente inadatto per descrivere le melodie e i contrappunti fra milieux. Sarebbe come dire che i codici dei milieux possano mutare con facilità, come se la farfalla dovesse intonare continuamente il suo orecchio su una nuova frequenza di pericolo, o se il ragno dovesse tessere una tela diversa ogni giorno, perché le mosche cambiano continuamente di grandezza o migliorano le capacità del proprio organo visivo [6]. Come abbiamo visto, i milieux sono al contrario strutture “segnaletiche” molto rigide, e purché mantengano un’apertura verso il caos da cui sono nati, hanno un grado di decodificazione molto ridotto, situato come dicono Deleuze e Guattari, ai loro margini. Cerchiamo quindi di capire cosa spinga i due filosofi francesi a definire mobili i suddetti fenomeni territoriali.

L’intervallo o distanza critica che intercorre fra due animali territoriali, deve essere controllata assiduamente. Il proprietario di un territorio non conosce nessuna tregua, i confini sono labili e precari, una piccola distrazione potrebbe far precipitare nel nulla l’ordine territoriale costituito, oppure far soccombere l’animale a vantaggio di un altro. Siamo in una situazione ben diversa da quella ad esempio del milieu della zecca, nella quale quest’ultima può aspettare anche per molti anni l’arrivo del segnale, l’odore dell’acido butirrico [7], che la spingerà a farsi cadere sul corpo del mammifero. I modi di difesa e di mantenimento del proprio territorio possono poi essere molteplici e presentarsi anche laddove non sussista minimamente una circostanza oggettiva che possa in qualche modo giustificarli. È facile notare, ad esempio, che i cani domestici effettuano molte azioni come annusare, braccare, travolgere o scuotere una preda, senza aver assolutamente fame oppure senza la presenza effettiva  di essa. Questa semplice osservazione testimonia che esiste già, anche se i territori non nascono mai da soli, un motivo che esprimerebbe esclusivamente il rapporto del territorio col suo proprietario. Un altro esempio, forse più singolare, è invece quello del pesce chiamato spinarello. Il maschio di questa specie di pesci, infatti, durante il periodo dell’accoppiamento, compie una bizzarra danza a zigzag nel momento in cui una femmina, in determinate ore del giorno, si avvicina al suo territorio. Secondo molti etologi, questo pesce si troverebbe combattuto fra due istinti opposti, esternati dai movimenti della sua danza: lo “zig” in direzione della femmina deriverebbe dal suo impulso all’attacco, mentre lo “zag” rivolto verso il suo territorio da quello sessuale con il quale invita la femmina all’interno della sua dimora. Anche in questo caso, come in quello precedente, possiamo osservare come il milieu interno degli impulsi dell’animale sia affetto dalla sua relazione con il territorio. Ma oltre a questo fatto, siamo anche in presenza di un altro elemento, cioè il pesce di sesso femminile, che viene a complicare le cose. Ne può derivare anche una sequenza piuttosto lunga di azioni, a seconda della presenza o meno di altre circostanze esterne e non controllabili. Ad esempio, la femmina può accettare l’invito ad entrare nella dimora del maschio, deporvi le uova, compiere dei movimenti magari imprevedibili ai quali il maschio dovrà rispondere sempre danzando, come un ballo dunque per certi versi improvvisato. Le cose potrebbero complicarsi anche di più: basti immaginare che un qualcosa di estraneo non solo al territorio e al suo proprietario, ma anche alla relazione con la femmina, entri in scena, ad esempio un nemico o una forte corrente d’acqua inattesa. La danza dello spinarello continuerà in ogni caso, perché il pesce cercherà per ogni nuovo elemento di trovare un contrappunto con un movimento del suo corpo. Come si vede, un motivo territoriale è ben più complicato rispetto alle melodie riscontrabili nei milieux. Il motivo territoriale sembra caratterizzato da un’imprevedibilità non presente nei milieux. Invece di essere un azione dettata da una funzione, a partire dal suo innescamento fino al suo termine, pare farsi “strada facendo”, interagendo momento per momento con gli elementi esterni che di volta in volta entrano in contatto con il territorio e il milieu degli impulsi dell’animale.

Ma è forse il mondo degli uccelli ad offrirci gli esempi di motivi e contrappunti territoriali più interessanti, caratterizzati da una considerevole mutevolezza e virtuosità sonora. Com’è noto essi possiedono svariati modi per esprimersi, ma considereremo qui il loro canto, che si suddivide essenzialmente in tre categorie: i canti territoriali, i canti ad impulso amoroso e i canti gratuiti. Quelli territoriali servono ovviamente per marcare un territorio, difendere il proprio ramo, il proprio nido, il proprio spazio di caccia, o per affermare la possessione di una femmina. Un uccello che si avvicina al territorio di un altro con intenzioni espansionistiche, ingaggia una vera e propria lotta canora con il proprietario: colui che canta meglio, vince. L’invasore se ne andrà una volta appurato che il proprietario canta così bene da non potergli rubare il posto o, viceversa, il proprietario lascerà la propria dimora all’altro, nel caso sia l’aggressore a dimostrare doti musicali più spiccate. Si tratta di occupare delle frequenze sonore. Ogni uccello, infatti, crea il proprio territorio occupando una serie di frequenze, proprio come avviene con le radio, e deve essere un bravo cantante per saperle riprodurre con esattezza. Il secondo tipo di canto è quasi esclusivamente appannaggio dei maschi, viene usato prevalentemente durante la primavera, ed è accompagnato da altri elementi espressivi come le qualità di volo o la messa in risalto del proprio piumaggio per sedurre la femmina. La caratteristica interessante di questo tipo di canto è l’efficacia con cui più mezzi espressivi, diversi fra loro, vengono consolidati insieme per creare un unico “motivo amoroso”. Questi due tipi di canti possono essere molto complessi e mutevoli, nonché molto espressivi. Il terzo ed ultimo tipo però, presenta un aspetto diverso dagli altri perché non è diretto verso una funzione sociale. Per questa ragione vengono definiti dei canti gratuiti e vengono emessi, in generale,  in relazione con gli effetti della luce nascente o di quella morente. Un tipo di tordo presente della regione chiamata Jura, nell’Australia settentrionale, non solo intona un canto diverso a seconda del tipo di luce, all’alba o al tramonto, ma a seconda dell’intensità di essa, intona in modo sensibilmente diverso, più o meno intenso, il proprio canto. Regola dunque la propria voce in base alla luce di ogni giorno, verso la quale dimostra una grande sensibilità, e nient’affatto per occupare un territorio o per sedurre una femmina.

[...]

Abbiamo dato diversi esempi di comportamenti territoriali che hanno una mobilità o mutevolezza piuttosto evidente, ma non sempre essi si presentano ai nostri occhi come tali. Ora, quello che secondo Deleuze e Guattari è innanzi tutto fondamentale capire riguardo a questi fenomeni territoriali, è questo: anche se possiamo osservare che gli animali ripetono in molti casi le stesse azioni per controllare o difendere il proprio territorio, queste non sono, come abbiamo accennato, dettate da un codice o da una funzione che direbbe in modo esatto il da farsi all’animale. La danza dello spinarello, invece di essere una semplice marca territoriale o il risultato di un duplice impulso è, dal punto di vista dei due filosofi, un movimento espressivo che “esprime” il rapporto fra il milieu degli impulsi del pesce con il suo territorio e di quello contrappuntistico dovuto alla presenza in prossimità della sua proprietà di un individuo di sesso femminile o di altri elementi estranei. “Esprime”, appunto, perché non dettata da codici. E ancora una volta, come nel passaggio dai milieux ai territori, questa espressività non appartiene affatto all’animale, ma ha bensì una sua autonomia, è impersonale. È l’espressività infatti di una zona, di un luogo o di uno spazio (domaine) in cui, tutte quelle parti di un territorio, del quale l’animale con il suo corpo fa parte, divengono materie d’espressione una volta trascinate in un motivo o in un contrappunto territoriale.

Un nemico che si avvicina o la pioggia che comincia a cadere, non sono affatto vissuti in ambito territoriale, allo stesso modo dei segnali percettivi tipici dei milieux. Il territorio instaura una distanza critica, che invece di essere uno spazio oggettivo geograficamente individuato e misurabile, è per Deleuze e Guattari un ritmo. Questo, lo abbiamo visto, non ha niente a che fare con una misura o una cadenza, in quanto esse riposano sempre su un sistema di codici prestabilito, mentre il ritmo, essendo differenza, sta o passa “fra” due codici o due milieux. Abbiamo anche parlato della differenza che i due filosofi pongono fra il ritmato e il ritmo. Il primo è ciò che possiamo individuare sul piano dell’esecuzione e annotare sullo spartito, mentre il ritmo rimanda sempre ad un altro piano virtuale, che travalica quello dei codici, dei milieux, e li fa comunicare. Possiamo applicare questo schema ai fenomeni territoriali: i comportamenti animali in relazione con il proprio territorio e con le circostanze ad esso esterne, si presentano spesso sotto la stessa forma ripetutamente, dando la possibilità ad un osservatore di poter annotare quel comportamento come qualcosa che “scandisce” la vita dell’animale almeno in determinate circostanze; i motivi e i contrappunti territoriali però, non consistono nella sequenza o ripetizione di questi determinati comportamenti da noi osservabili, per la stessa ragione per cui il ritmo non è la sequenza degli accenti più o meno forti, all’interno di una data misura, annotabile su uno spartito. Questi fenomeni territoriali devono dunque, secondo Deleuze e Guattari, essere affrancati da tutte le loro manifestazioni sul piano attuale della vita dell’organismo. Anche se essi possono presentarsi sotto la stessa forma ripetutamente, non sono né costanti né variabili, ma bensì, appunto, mobili e “non pulsati”. Una sorta, potremmo dire, di “melodie ritmiche”. Gli stessi termini motivo e contrappunto, vengono dai due filosofi lasciati da parte in favore di altri due concetti, che meglio di questi riescono forse a rendere conto o a gettare nuova luce sui suddetti fenomeni: i personaggi ritmici e i paesaggi melodici. Questi due concetti sono stati ispirati dalla riflessione del compositore francese Olivier Messiaen.

 

3.    Miopia e astrazione

 

Cercherò qui di seguito di ampliare, entro certi limiti, gli argomenti accennati nell’introduzione e di riassumere le tematiche principali del mio libro.

Cominciamo con un esempio molto semplice: immaginiamo di essere in un treno che va ad una certa velocità, non molto veloce. Guardiamo fuori dal finestrino e possiamo facilmente, anche soprappensiero, distinguere o riconoscere molti oggetti accanto alla ferrovia oppure all’orizzonte. Per esempio un albero, poi un altro, distinguiamo dell’erba, poi una casa, un piccolo animale, uno grande e così via. Ma cosa accade se siamo in un treno ad alta velocità? Supponiamo che il mezzo viaggi a una velocità molto elevata, a quel punto i contorni delle cose suddete si dissolvono, spariscono... A partire da quel momento forse ci annoiamo di guardare fuori dal finestrino perché non c’è niente da vedere e magari cominciamo a leggere o a parlare con qualcuno. Ma se ci sforziamo un po’, oppure se qualcosa coglie la nostra attenzione, e continuiamo a guardare fuori dal finestrino, realizziamo che forse c’è qualcosa da vedere. Forse, addirittura, saremo trascinati via da quelle linee in continuo movimento, linee con traiettorie e sfumature di colori diverse, intrecciantesi l’una con l’altra, ognuna con la sua propria velocità e il suo proprio carattere. A quel punto forse intravedremmo la possibilità di una nuova percezione. È un po’ come passare da una pittura figurativa ad una di Kandinsky. Nuova percezione resa possibile soltanto forzando i nostri occhi a guardare oltre quello che sono abituati a vedere o riconoscere.

Facciamo un altro esempio similare ma concernente i nostri orecchi e la musica. Se ascoltiamo della musica basata su frequenze prefissate dal sistema armonico tradizionale, è per noi in linea di massima semplice di riconoscere o di ricordare una melodia. Dipende da caso a caso ovviamente, ma in generale il nostro orecchio non deve fare un grande sforzo per ascoltare o memorizzare ciò che ascolta. Per esempio, associamo facilmente una melodia a un posto, una persona o un periodo della nostra vita, e questo non sarebbe possibile se non fossimo riusciti precedentemente a individuarla in quanto entità. Com’è noto, purché ancora usato in molti casi, il sistema armonico occidentale ha però perso certamente molta della sua importanza. I musicisti hanno cominciato a considerare il suono in sé stesso e non solo in quanto frequenza, distruggendo la netta divisione creatasi nel corso dei secoli fra i suoni “buoni” per fare musica e ciò che veniva chiamato rumore. Dall’inizio del ventesimo secolo, infatti, si è cominciato a fare musica con qualsiasi oggetto capace semplicemente di produrre un suono. Ora, ascoltare della musica che non fa riferimento al  sistema di frequenze o di intervalli stabilito dal sistema armonico, una musica senza melodie ben definite o con melodie costruite su frequenze inusuali, richiede certo al nostro orecchio uno sforzo maggiore. Ma come nel caso dell’occhio, questa forzatura dell’organo uditivo ci ha appunto permesso di scoprire un nuovo tipo di ascolto. Un nuovo campo percettivo musicale dove ha perso di senso la distinzione fra suoni adatti a far musica e ciò che veniva chiamato rumore e dove non abbiamo più per forza bisogno della presenza di melodie o armonie.

Ho voluto fare questi due esempi sull’occhio e sull’orecchio perché quello che ho detto riguardo a questi organi può essere applicato anche al pensiero. Il pensiero, come l’occhio e l’orecchio, spesso si blocca su certi punti, concetti, processi, sistemi e via dicendo, che gli rendono per così dire la vita più facile. Ma ho anche parlato della possibilità per l’occhio e l’orecchio di essere forzati a fuoriuscire dal campo visivo e sonoro abituali, ed è proprio questo che Deleuze e Guattari hanno fatto con il pensiero. Forzare il pensiero a muoversi al di fuori dei sistemi di concetti che via via si sono formati e affermati con più o meno forza; forzarlo a “pensare l’impensabile” come dicevano i due filosofi francesi, che equivarrebbe in musica a “udire l’inudibile”. Ma udire l’inudibile non significa semplicemente suonare suoni che non appartengono al nostro campo sonoro abituale, fissato per garantire il funzionamento del sistema armonico occidentale. E allo stesso modo che per la musica, pensare l’impensabile non significa semplicemente pensare al di fuori dei concetti che siamo soliti utilizzare.

Si tratta piuttosto di rendere sensibile un piano inudibile e impensabile che da sempre attraversa la musica e la filosofia, ma divenuto più “palpabile” durante il ventesimo secolo. Inudibile o impensabile è ciò che crea o passa attraverso tutti  i concetti usati dal filosofo cosi come attraverso i suoni usati dal musicista. Com’è noto (e come ricordo nell’introduzione qui pubblicata), Paul Klee affermava che l’arte invece che riprodurre il visibile deve rendere l’invisibile. Nel suo libro sull’arte moderna [8] fa questo esempio: se scriviamo su un foglio di carta la parola vino, il foglio e l’inchiostro sono materiali che ci servono per fissare in noi per una certa quantità di tempo l’idea di vino. Deleuze e Guattari, con affermazioni del genere “udire l’inudibile” o “pensare l’impensabile”, volevano dire esattamente la stessa cosa, ma al posto dell’inchiostro o del foglio possiamo usare ovviamente suoni e pensieri; e soprattutto al posto di idee, come quella del vino, ciò che deve essere reso sensibile, udibile o pensabile, sono cose molto più vaghe e difficili da cogliere, cioé forze o movimenti di strana natura.

Forze o movimenti astratti, non separati dalla realtà ma al contrario del tutto in contatto con la materia. Per questo motivo non possono essere denominati astratti secondo il significato comune di questa parola, ma bensì astratti e reali allo stesso tempo. Sono movimenti e forze che passano attraverso l’intero mondo in ogni momento; passano attraverso tutte le entità e gli oggetti esistenti, ma naturalmente a gradi diversi. Nella filosofia di Deleuze e Guattari non è questione di trovare concetti più veri di altri, ma crearne di tali che possano darci la possibilità di pensare le forze impensabili che attaversano tutte le forme viventi, che le creano, che le modificano o che le distruggono. Forze e movimenti del piano di immanenza attraversanti  ogni forma in generale, intendendo per forma ogni oggetto intelligibile, astratto o concreto che sia. Passano attraverso i concetti così come attraverso il mio corpo fisico, il mondo animale o i muri della mia casa. A gradi diversi. Deve essere chiaro che nessuna entità è mai totalmente chiusa in sé stessa e nasce sempre in connessione con almeno un’altra. Ogni forma ha almeno una piccola fessura per la quale queste forze possono passare, rinforzandone la struttura, oppure modificandola, talvolta facendole acquisire nuove connessioni o talaltra distruggendola. A volte magari la fessura è quasi impercettibile, soltanto “ai bordi” come dicono Deleuze e Guattari riguardo ai milieux. Essi sono infatti strutture fortemente codificate ma contenenti in sé stesse un potenziale di decodifiazione, di espressività, che può dare vita a un territorio per esempio. Parlo di “fessure”, di buchi da dove queste forze passerebbero, ma è soltanto un modo di parlare: queste forze non sono certo entità propriamente fisiche con la possibilità di passare da qualche parte.

Forze del piano di immanenza, chiamato anche talvolta da Deleuze e Guattari piano di consistenza oppure caos. Ma quest’ultimo non nel senso che solitamente attribuiamo a questa parola: questo caos non è “la notte dove tutte le mucche sono nere”, non è semplicemente qualcosa di caotico e casuale e soprattutto non è una situazione sorpassata una volta per tutte dal mondo delle forme. Nasciamo e viviamo in mezzo alle forme, siamo strutturati da mille punti di vista e questa è sicuramente una buona cosa: se posso parlare, camminare o suonare, è grazie alle forme. Il mio corpo ad esempio è una struttura con molte parti complesse e senza la sua organizzazione sarei semplicemente morto. Ci sono strutture anche di altra natura ovviamente, come la famiglia, lo stato, la scuola ecc... Oppure strutture che possiamo chiamare mentali. Ma nessuna di queste forme è eterna e nessuna di esse ha definitivamente superato una situazione precedente supposta essere completamente casuale e sensa senso. Ci sono forme nel mondo che sembrano eterne soltanto a causa della loro forte rigidità strutturale, ma è solo una apparenza di eternità. Il caos non è qualcosa di finito, ci viviamo dentro, e le sue forze permeano tutte le forme in qualsiasi momento. Dunque, il piano di imamnenza o caos di Deleuze e Guattari non fa alcuna distinzione fra naturale e artificiale e non smette mai, con i suoi movimenti astratti e reali allo stesso tempo, di rinforzare le strutture già esistenti, distruggerle o modificarle a gradi diversi. 

Ho detto che categorie o essenze non esistono nella filosofia di Deleuze e Guattari, per esempio quelle dell’uomo e dell’animale non esistono. In altre parole, categorie o essenze esistono in generale come concetti inventati per distinguere, ad esempio, cosa possa essere chiamato uomo da ciò che invece deve essere detto animale. Oppure per riconoscere nell’uomo quella parte etichettata come animalesca. Ma uomini o animali non sono tali in base alle loro essenze e non sono neanche separati gli uni dagli altri. Categorie o essenze sono concetti che contengono il pericolo di farci credere in un altro mondo diverso da quello in cui viviamo, lontano, puro, trascendente, e fatto di strutture e architetture supposte dare una forma e un senso a quello in cui viviamo. Potremmo forse dire che sono concetti astratti nel senso negativo del termine secondo i due filosofi francesi, non abbastanza astratti oppure non astratti e reali allo stesso tempo. I classici concetti di categoria ed essenza presumono sempre in qualche modo che questo mondo sia fatto di materia bruta, senza senso e senza valore, e che soltanto una volta applicata una forma a questa materia bruta possiamo dire che qualcosa è da noi riconoscibile o interessante e non semplicemente casuale. Se crediamo nelle essenze, un animale è un animale grazie all’essenza che imprime la sua forma in lui; prima non era niente, solo materia bruta appunto. Questo modo di pensare, in termini di forma e materia bruta, è stato molto influente nel corso dei secoli nel mondo occidentale. Una materia senza valore e una forma che gli conferisce non solo un contorno ma anche un senso.

Nella filosofia di Deleuze e Guattari invece che di forma e materia bruta dovremmo piuttosto parlare di un’unica materia “quasi fluida” per tutte le entità, le astratte come le concrete. Una materia non bruta e insignificante ma al contrario contenente in sé un certo valore o una certa energia. Ed essa non deve ricorrere a strutture o ad archetipi supposti darle una forma, perché contiene in sé le forze per creare agglomerati di materia che hanno la loro più o meno grande specifica rigidità strutturale così come le loro proprie possibilità espressive. Per espressività intendo, detto brevemente, una qualsiasi fuoriuscita da una struttura o da un codice, ciò che passa attraverso le maglie di una formalizzazione. Comunque, nella filosofia dei due francesi non dovremmo neanche più usare termini quali uomo, animale o pianta. Questi termini rinviano a categorie trascendenti e a divisioni più o meno nette fra l’uomo e l’animale o fra il naturale e l’artifciale.

Come scrissi nell’introduzione al mio libro dovremmo parlare in termini di milieux, territori, agencements e piani cosmici, che indicano agglomerati di materia mai chiusi in sé stessi e contenenti strutture non imposte dall’esterno. Questi quattro tipi di agglomerati sono le forme di vita che popolano il mondo nella filosofia di Deleuze e Guattari. Questi concetti ci danno la possibilità di ritagliare il reale in modo diverso da quello a cui siamo abituati. Sono concetti creati per aiutarci a cogliere i tipi di movimenti di cui sopra, cioé per rendere pensabili forze e movimenti astratti e reali che non lo sono normalmente. La questione non è trovare concetti più veri di altri, ma creare concetti che possano permetterci di pensare le forze impensabili attraversanti tutte le forme viventi. La famosa formula che definisce i concetti “attrezzi del pensiero” ci porta piuttosto a chiederci: funzionano? Ci danno la possibilità di pensare o sentire movimenti che non riusciamo a cogliere normalmente?

Dunque, quattro concetti che ritagliano il reale: milieu, territorio, agencement e cosmo. Il primo è il concetto di Umwelt preso in prestito da Von Ueküll,  che in italiano è tradotto con il termine ambiente. Possiamo parlare prettamente di milieu dalla più piccola cellula esistente, o meglio da qualsiasi cosa che nel mondo possa segnare una divisione fra un interno ed un esterno, fino agli animali senza territorio. Gli animali in quanto milieu sono una struttura di vita fortemente codificata, fatta di segnali e di organi atti a recepirli, così come di organi atti a produrre nuovi segnali per altri milieux spesso completamente sconosciuti all’altro. Funzionano un po’ come le funzioni matematiche: “all’arrivo di x fare y”. La zecca ad esempio sa sempre esattamente cosa fare, malfunzionamenti sono previsti, sia benchiaro, ma essa difficilmente avrà dubbi su come agire nel momento in cui sente l’odore di un mammifero. E può aspettare non giorni, ma anche anni, l’arrivo del segnale. Per questo Deleuze si è molto interessato a Uexküll, perché invece di concentrare le sue ricerche sul corpo in senso stretto dell’animale, come sembrerebbe logico, ha cercato i segni verso i quali l’animale, in quanto corpo, dimostra una certa sensibilità.

Per conoscere un animale dobbiamo conoscere “la lista dei suoi affetti”, diceva Deleuze.  Questi affetti caratterizzano l’individuo ancor più di quella che chiamiamo la sua specie o la sua categoria.  In un’intervista del 1977 [9] Deleuze afferma, ad esempio, che c’è più differenza fra un cavallo da corsa e uno da traino, che non fra quest’ultimo e una mucca. La lista degli affetti del cavallo da traino è molto più simile a quella della mucca e per questo possiamo dirlo più vicino a quest’ultima che non al suo compagno di specie (per essere precisi il cavallo e la mucca non sono milieux bensì agencements, ma quanto detto vale allo stesso modo per gli uni che per gli altri).

Riguardo al territorio, non dobbiamo pensare che esso sia soltanto uno spazio geografico dentro il quale un soggetto possa muoversi come su uno sfondo di cartapesta. Il territorio è un agglomerato di materia vivente, una dimensione della quale quello che individuiamo normalmente come soggetto fa parte con i suoi organi e le sue percezioni. Questo è il primo passo per capire il concetto di territorio: non vederlo come un semplice spazio geografico che serve solo da sfondo per un soggetto che su esso si muove. Il secondo passo è più astratto: dobbiamo pensare al territorio come a ogni cosa che lega ciò che chiamiamo normalmente un soggetto a un oggetto qualsivoglia, dandogli una certa stabilità o più in generale la sensazione di sentirsi “a casa propria”. Si può creare un territorio con ogni tipo di oggetto e ci sono territori più o meno evidenti. Ognuno di noi ha molti territori, a volte consci a volte no, e possiamo essere territorializzati su un libro, un sistema di pensiero, una melodia o una bicicletta come nel caso del personaggio del romanzo Molloy di Beckett.

L’agencement è un concetto importante che ingloba in sé tutte le caratteristiche tipiche del territorio, inclusi i suoi tipici movimenti, per transporli all’intero campo del reale, nel mondo animale come in quello umano. Si può parlare di agencements amorosi, agencements statali, agencements familiari ecc... Per questo Deleuze e Guattari dicono che il territorio può essere detto il primo agencement, l’agencement di base. Milieux, territori e agencements sono sempre mescolati l’uno nell’altro e il mondo, potremmo dire, è fatto di bilioni di milieux e di agencements, quest’ultimi creati proprio a partire dai primi. Nella stessa intervista di cui sopra [10], Deleuze afferma che l’unità minima reale del mondo non è la parola, l’idea o il concetto, ma l’agencement. Per essere precisi potremmo dire che l’unita minima reale è il milieu.

Nel caso dei milieux possiamo parlare di codificazione e decodificazione, nel caso dei territori o degli agencements di territorializzazione e di de/riterritorializzazione. Nel caso dei piani cosmici invece possiamo parlare di deterritorializzazione assoluta. Questi movimenti portano la nostra attenzione  sulle aperture e sulle chiusure delle forme di vita, fermo restando che quest’ultime non possono mai essere né completamente chiuse né completamente disciolte, il che significherebbe la morte. I gradi di apertura o di chiusura che provocano i suddetti movimenti, indicano invece in che misura una forma di vita è trascinata qua e là a trovare nuovi assetti, nuove strutture o connessioni che le permettano di sostenere la propria vita. Oppure, in altre parole e dall’altro punto di vista, quanta vicinanza con il caos e con i movimenti presenti in esso può sopportare.

I piani cosmici possiamo capirli a partire da quest’ultime considerazioni. Non sono affatto qualcosa di lontano o che concerne una qualsivoglia teoria cosmica. Essi sono agencements che hanno raggiunto un’aperutra massima e all’interno dei quali la tendenza allo strutturare, che sia per sentirsi a proprio agio o per dare un ordine significante a del materiale, non viene abolita ma ridotta al minimo. Il cosmo, come scritto nell’introduzione qui sopra, potrebbe essere detto il muro più sottile per difendersi dal caos. Esso è secondo Deleuze e Guattari una conquista del ventesimo secolo. Il cosmo, nel mondo dell’uomo, è venuto in luce nel momento in cui in filosofia, nell’arte o in altre discipline si è scoperto di poter creare al di là di forme più o meno definite e magari prestabilite, qualcosa di non semplicemente caotico e senza senso.

È una questione di piani percettivi, queste forze astratte e concrete di cui parlano i due filosofi sono state portate diciamo più vicine alla superficie, grazie a schermature strutturali ridotte al minimo. Pensiamo alla differenza di percezione che possiamo discernere in un territorio e quella che troviamo in un milieu di cui parlo nell’estratto qui pubblicato. Non è una differenza da poco, e la relazione con il caos è del tutto diversa. Gli animali senza territorio non sono certo presi dall’ansia come quelli che ne hanno uno, i quali devono darsi un gran da fare per non soccombere o per trovare un partner e procreare. Certamente di volta in volta, a seconda dell’animale considerato, potremmo arrivare a estrapolare aspetti e sfaccettature diverse, ma la differenza generale fra territorio e milieu è proprio questa. Comunque, detto brevemente, non è assolutamente mai questione di essere un milieu, un agencement, un piano cosmico, oppure di trovarsi disperso nel caos. Non si è mai completamente chiusi nella propria forma di vita e mai del tutto all’interno del caos.

C’è una commistione completa e perenne, e tutto quanto detto fin qui va pensato come mescolanza. Quanto appena detto è estremamente importante, altrimenti sembra di trovarsi di fronte ad una scelta per la quale il caos creativo viene esaltato e tutto quanto è strutturante visto invece come soffocante. E non dobbiamo neanche pensare che prima ci sia uno slancio verso il caos, come se si superasse un confine, e che poi magari presi dalla paura si reimmetta un po’ di forma come se non potessimo farne a meno. Si crea un territorio, ad esempio, con un atto espressivo destrutturante che fa apparire però da subito anche un sistema segnaletico al suo interno con regole precise. Commistione, sempre, e contemporaneità: ci si decodifica territorializzandosi o ci si deterritorializza riterritorializzandoci.

Ora possiamo dire qualcosa sul ritornello. Consideriamo il seguente passo preso da Mille piani: “Proprio come gli ambienti [milieux] oscillano fra una situazione di strato e un movimento di destratificazione, i concatenamenti [agencements] oscillano fra una chiusura territoriale che tende a ristratificarli e un’apertura deterritorializzante [...] Non c’è quindi da stupirsi se la differenza che cercavamo passa non tanto fra i concatenamenti e qualcosa d’altro, quanto fra i due limiti di ogni possibile concatenamento, cioé fra il sistema degli strati e il piano di consistenza” [11]. Esiste una differenza di fondo, che è una differenza fra due tendenze o movimenti rigorosamente contemporanei (oppure un movimento contemporaneo in due direzioni opposte): l’uno stratificante (o strutturante che dir si voglia) e l’altro espressivo (o destrutturante che dir si voglia). Il primo è tale perché crea strutture più o meno rigide che danno una certa stabilità. O in altri termini fa nascere una temporalità e uno spazialità che rendono possibili la nascita di un organismo e di un campo percettivo. L’altro è espressivo perché sprigiona una forza di mutamento che spinge alla creazione di nuovi assetti, che obbliga o trascina ad esempio un organismo a trovare una nuova organizzazione. Passare da un agencement ad un altro richiede di volta in volta una più o meno accentuata creatività.

In base al brano appena citato, codificazione e territorializzazione sono dunque due nomi per uno stesso movimento, ma a diverse intensità e colto in situazioni diverse. Lo stesso vale per la decodificazione e la deterritorializzazione: si usano termini diversi per marcare una differenza, ma parliamo sempre dello stesso movimento di fondo. I concetti di milieu e territorio (o agencement) sono attrezzi concettuali che vivisezionano il reale e che ci permettono ad esempio di vedere una differenza fra due diversi prodotti di questo duplice movimento. Oppure ci danno la possibilità di intravedere due diversi piani percettivi con differenze espressive e strutturali, due diverse relazioni con il caos. Ma le loro differenze sono solo relative rispetto al piano di immanenza che unico esprime una differenza di fondo. Il ritornello serve a farci pensare questo duplice movimento contemporaneo in due sensi opposti in tutta la sua assoluta astrattezza. Ovviamente non si parla dell’astrattezza nel senso comune della parola ma di una astrattezza ancora maggiore. Oppure di qualcosa che è astratto e reale allo stesso tempo.

Il ritornello non è “quel milieu”, non è “quel territorio”, non è “quella melodia”, non è un cerchio, non è una forma, non è una struttura. Il ritornello in quanto concetto è una molteplicità qualitativa [12] che ci da la possibilità, incarnadolo in sé, di intravedere questo duplice movimento del piano di immanenza in due sensi opposti. Il mondo è fatto di ritornelli dicono Deleuze e Guattari. Potremmo anche dire che esso è un enorme ritornello con due facce, l’una che fa sentire a casa propria e l’altra che spinge verso le destrutturazioni più grandi, cioé verso il cosmo, sempre contemporaneamente e senza tregua. Talvolta le destrutturazioni sono letali, talaltra “felici” e creative, talvolta le strutturazioni sono soffocanti talaltra ci fanno tirare un sospiro di sollievo. Il ritornello può essere detto l’operatore nel sensibile di questo duplice movimento in due sensi opposti. Esso usa qualsiasi tipo di materiale, concreto o astratto che sia, cioé è in contatto con la materia quasi liquida a cui ho accennato prima. E crea qua e là, dappertutto, milieux, territori, agencements e piani cosmici, ogni volta con un certo tempo e un certo spazio che possano garantire un piano percettivo per la vita di un organismo. Ma ripeto: esso deve essere pensato nella sua completa astrattezza, non riflesso in un oggetto, in un contenuto, in una frase, in una abitudine, in una ripetitività, in un sentimento, in un valore o qualcosa d’altro.

Così come del resto anche il concetto di ritmo che Deleuze e Guattari prendono in prestito da Messiaen non deve essere riflesso nella pulsazione. Il ritmo in questione non è assolutamente la ripetizione periodica di una sequenza di accenti, regolare o irregolare che sia, oppure una serie codificata di pulsazioni. Questo ritmo non ha più niente a che vedere con quanto possa essere detto regolare o irregolare. Usare questi termini al suo riguardo, come al riguardo del tempo non pulsato di Boulez, è completamente fuori luogo. Così come il motivo territoriale o ritmo dei territori non è la ripetizione di determinati atteggiamenti annotabili sul taccuino ma ciò che li fa scaturire e che è completamente invisibile e non misurabile. Invisibile e non misurabile ma non per questo semplicemente astratto ma astratto e concreto allo stesso tempo, in contatto con la materia. Il ritmo di Messiaen, da concetto della teoria musicale, diviene così un concetto filosofico applicato a tutto il reale. Non più soltanto un’idea artistica ma un fatto ontologico. Del resto Messiaen stesso affermava di aver trovato questo ritmo in natura.

In base a quanto detto fin qui, possiamo affermare che il ritornello è prima di tutto una teoria del divenire piuttosto che un concetto votato alla filosofia dlla musica. Se nella filosofia dei due filosofi francesi esso rimanda alla musica, lo fa strizzandole l’occhio a causa del suo nome. Nome scelto certo non a caso ma bensì per affermare che la musica, o il suono in generale, si trova in una situazione particolare rispetto al movimento in due sensi opposti e contemporanei, che il concetto in questione cerca di farci pensare. La musica ha secondo Deleuze e Guattari una maggiore possibilità sia di sviluppare quelle che possiamo chiamare le stratificazioni, le territorialità, le case o le formalizzazioni, sia di spingere verso le destratificazioni, le deterritorializzazioni o il cosmo. Poi senza dubbio Deleuze e Guattari hanno voluto porre l’accento sul lato deterritoriallizzante della musica, sul suo potere di stimolare il lato prettamente espressivo del ritornello e quindi appunto di deterritorializzarlo. Quando la musica territorializza o fa sentire a proprio agio, possiamo dire che vada a braccetto con il ritornello, niente viene a “ostacolare il polso, la respirazione e il battito del cuore” dell’ascoltatore. Quando invece cerca di forzare l’ascoltatore a sentire qualcosa che magari risulta scomodo o inusuale è come se dovesse lottare contro il ritornello per risvegliare in lui il potenziale destrutturante ed espressivo. Ma non ci dimentichiamo che parliamo di due tendenze contemporanee, coesistenti l’una nell’altra a gradi diversi a seconda dei casi.

Ho detto la musica ma dovremmo dire l’agencement musicale, per non dimenticare che l’arte dei suoni stessa è appunto un agencement attraversato come gli altri dalle forze del caos. Possiamo parlare dell’agencement musicale degli uccelli, di quello dell’uomo o di quello generale che li comprende tutti ad esempio. E deve essere chiaro che la musica è prima di tutto un fatto ontologico, un evento del mondo, e non una disciplina umana all’interno della quale si possano esprimere o rappresentare certe verità. Se la musica è espressiva è perché il suo agencement come gli altri e ancor di più, può dare vita ai movimenti chiamati da Deleuze e Guattari di deterritorializzazione. Movimenti espressivi perché aprono nuovi spazi percettivi e non perché riproducono in modo adeguato ciò che è presente in natura. Non è affatto che in musica si agisca “come” si agisce in natura. Non c’è un’analogia fra il ritmo del territorio di un uccello e quello di una composizione umana. Si parla della stesa cosa, su piani e agencements diversi, magari a diverse intensità (ovviamente parlo del ritmo di Messiaen). La distinzione fra natura e arte non esiste davvero, essa scompare completamente di fronte al piano di immanenza. Le forze che attraversano la natura sono le stesse che attraversano anche la musica.

Per concludere, voglio ritornare a quanto detto all’inizio del testo. Vorrei accennare a un certo divenire cechi mentalmente, cioé non con gli occhi ma con il pensiero. Non una cecità completa ma una sorta di miopia per la quale i contorni dei concetti a cui siamo abituati si fanno meno marcati. Se non ci interstardiamo nel voler ridefinirli e rimetterli a posto, magari sviluppiamo una certa sensibilità per ciò che gli passa dintorno . Un po’ come aver scoperto in musica che un La di una tromba, ad esempio, non è mai solo un La ma un insieme di molte frequenze interagenti fra loro, un organismo complesso. Lo consideravamo un’entità ben definita e all’improvviso scopriamo nuove qualità del suono nonché un nuovo campo sonoro con nuove possibilità espressive. Dico questo perché anestetizzare gli attrezzi del pensiero ai quali siamo abituati, mi sembra possa rendere più semplice cercar di pensare ad esempio il ritornello di per sé stesso, senza riportarlo per comodità a qualcosa di mentalmente visibile. Cioé per pensarlo, come credo intendessero Deleuze e Guattari, in tutta la sua più completa astrattezza. Come le linee che vediamo dal treno nell’esempio fatto all’inizio: non cercare in esse combinazioni che possano ricordarci un viso oppure una casa, ma viverle in quanto tali. Così come in musica potremmo dire di lasciarci prendere dal suono di per sé stesso e non perché, al modo di Swann con Odette, ci ricorda l’amata.


Note

[1] Argomento trattato nei paragrafi precedenti. Detto brevemente, il divenire espressivo o l’emergenza delle materie d’espressione, è l’espressività appartenente non ad un soggetto ma bensì al suo ambiente (milieu la parola usata da Deleuze e Guattari e Umwelt quella originale di Von Ueküll) composto dal suo corpo in senso stretto, dai suoi organi, dagli oggetti che usa, ma anche dalle sue percezioni ad esempio. Questa espressività impersonale spinge o trasporta le componenti di un ambiente al di fuori dei loro codici di funzionamento, rendendole appunto materie d’espressione.
[2]
E cioè: ottimizzare lo spazio vitale disponibile alla specie, selezionare gli individui più forti e difendere la prole. Cfr. K. Lorenz, L’aggressività, Il saggiatore, Milano 2005.
[3]
G. Deleuze-F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Les éditions de minuit, Paris 1980, p.  393; tr. di G. Passerone: Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 450.
[4] Op. cit., p. 390; trad. it. p. 447.
[5] Argomento trattato nel capitolo precedente. Cfr. (è stata usata l’edizione a cui fanno riferimento Deleuze e Guattari) J. Von Uexküll, Mondes animaux et monde humain-La théorie de la signification, Pocket, Paris 1965.
[6] Gli occhi della mosca non riescono a percepire i fili della ragnatela. Essa vola dunque verso la morte senza rendersene minimamente conto, proprio come noi potremmo bere un bicchier d’acqua contenente dei bacilli di colera invisibili ai nostri occhi.
[7] Una volta appostata su un ramoscello o una pianta, la zecca può cadere accidentalmente su un corpo di un animale nel caso in cui esso le passi accanto urtandola. Se questo non accade, essa aspetterà di fiutare l’odore del sudore di un mammifero, per lasciarsi cadere a peso morto e sperando di ritrovarsi nel posto desiderato, cioè sulla pelle di un animale a sangue caldo. E le zecche possono aspettare anche per molto tempo perché, come ci informa Uexküll, all’Istituto zoologico di Rostock una di loro è stata mantenuta in vita per ben diciotto anni, senza nutrimento e completamente isolata dal suo ambiente.
[8] P. Klee, Théorie de l’art moderne, Editions Denoël, Paris 1964.
[9] G. Deleuze-C. Parnet, Dialogues, Flammarion, Paris 1977, p. 75; trad. It. Di G. Comolli, Conversazioni, Feltrinelli, Milano 1980, p. 71.
[10] Op. cit., p. 65; trad. it. p. 61.
[11] G. Deleuze-F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, cit., pp. 415-416; trad. it. p. 471.   
[12] Sulla definizione del concetto in Deleuze e Guattari Cfr. Primo capitolo di G. Deleuze-F.
Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Les éditions de minuit, Paris 1991; trad. it. di Angela De Lorenzis: Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996. Sul concetto di molteplicità qualitativa Cfr. H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, Presses universitaires de France, Paris 1927; tr. di F. Sossi: Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina, Milano 2002 e G. Deleuze, Le Bergsonisme, Presses universitaires de France, Paris 1966; tr. di F. Sossi : Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001.

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