Sergio Lanza
L'ascolto della musica : un approccio fenomenologico a contesti particolari


 

In questo saggio vorrei tentare di tracciare un quadro sintetico di alcune problematiche intorno all’ascolto della musica che ho messo a fuoco nella mia attività di compositore e analista. A spigermi verso certe domande-chiave tuttavia è stato l’approccio fenomenologico all’ascolto, maturato al di fuori dell’ambito specifico musicale, in particolare il concetto husserliano di “presente esteso” di cui propongo qui un allargamento. Un’altra fondamentale sorgente per le idee che vado a esporre è stato il confronto tra la fenomenologia della fruizione della musica e quella dell’arte visiva: il ponte analogico tra il sonoro e il visivo, nonostante le note differenze, mi ha permesso infatti di focalizzare i concetti di ascolto periferico e di ascolto duplice o ambiguo, a vario titolo debitori verso alcuni risultati della psicologia della Gestalt.

L’ascolto della musica è inteso come problema solo da una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Il carattere di immediatezza che riveste l’esperienza dell’ascolto tende evidentemente a mascherarne l’aspetto problematico, come accade spesso ogni volta che si considera un ambito dove sembra dominare l’intuizione.
Possiamo “imparare ad ascoltare” la musica? Certamente, ma cosa significa questo propriamente? è certo importante un’attitudine mentale: mi aspetto qualcosa di esteticamente significativo, vivo una tensione verso che mi predispone ad una ricezione “attiva”1. Tuttavia per rispondere adeguatamente mi sembra utile fare un passo o due indietro e trasferire il quesito sull’ascolto dei suoni in generale (prima del loro costituirsi linguistico, prima che un’intenzionalità estetica li organizzi in un campo orientato).

1. Un modello triangolare dell’ascolto
Il suono (includiamo per semplicità in questa parola anche il rumore) ci conduce dove vuole, l’ascoltatore lo segue. ‘Seguire’ è un verbo di movimento: siamo già all’interno della potente metafora spaziale che ci vede protagonisti “passivi”. Come anche M. Dufrenne ci ricorda2, questa passività cui siamo soggetti sembra essere un aspetto caratteristico della fenomenologia dell’ascolto: l’orecchio non ha palpebre né la possibilità di volgere altrove l’ascolto come si farebbe con lo sguardo. Tendiamo a subire il suono con esiti che si muovono all’interno di un possibile triangolo così strutturato: due vertici sono occupati dalle reazioni estreme: il massimo apprezzamento, capace di sfociare in una gioia quasi fisica, epidermica o, al contrario, in un vivo desiderio di tapparsi le orecchie o alzarsi e andarsene, per sottrarsi a quella che viene vissuta come una vera e propria tortura.
Il terzo vertice, non meno “estremo”, coincide con una totale indifferenza, quella che porta a “non accorgersi” del suono, a inabissarlo oltre l’orizzonte degli eventi percepiti.
 



 

fig. 1

Siamo, come abbiamo detto, ancora molto al di qua del più semplice e ingenuo dei giudizi estetici. Analizziamo una riflessologia quasi meccanica che interessa l’animale uomo, sulla soglia di una “etologia dell’ascolto”, consapevolmente – e quasi provocatoriamente – semplificando.
Il suono che stiamo ascoltando richiama mille altre esperienze sonore sia culturali sia preculturali vissute nell’arco della vita e quindi viene subito inconsciamente immesso all’interno di un reticolo linguistico ed esperienziale di ricca referenzialità e quindi grande complessità. Governato dalla memoria, articolato in attese (speranze o timori), curiosità, conferme e frustrazioni che mobilitano il nostro universo emozionale, l’ascolto si rivela essere in realtà assai meno passivo, assai più dipendente dalla viva relazione che si instaura con la mente dell’ascoltatore in senso lato.
«Cosa significa ascoltare?» si chiede Dufrenne «Significa interiorizzare il sonoro. Proprio perché la musica è interiorizzata dall’orecchio la si riterrà espressione dell’interiorità»3. Concentrarsi sul suono significa, dunque, concentrarsi su se stessi. E’ l’altro da sé che penetra dentro di noi fino a farsi sé, immediatamente assorbito memorizzato, confrontato, “misurato”, apprezzato o rifiutato, comunque metabolizzato, per altro in maniera quasi del tutto inconscia.
La domanda-chiave che ci apre la strada ad un ascolto riflesso potrebbe essere: “cosa sto ascoltando in questo istante?” La risposta è meno ovvia di quanto si pensi e il problema risulta complesso e sfuggente anche in relazione alla difficoltà di definirne i termini. Vi è un aspetto che potremmo definire orizzontale del problema, che riguarda il quantum di tempo supposto discreto che ciascun ascoltatore ritaglia “momento per momento” per definire l’ “ora” esaminato, ma una segmentazione di momenti sintatticamente distinti può risultare assai controversa, dal momento che stiamo parlando di processi più che di “oggetti”. L’aspetto verticale riguarda invece la possibile stratificazione interna al discorso musicale che rende “l’evento ascolto”, come vedremo, qualcosa di fenomenologicamente assai complesso. Infine vi è la difficoltà di descrivere il “cosa” ascoltato, ovvero di scegliere un linguaggio appropriato per parlare di qualcosa cui, in linea di principio, non pertiene una descrizione linguistica – e questo prima ancora di considerare l’estrema variabilità della competenza personale, anche musicale, se esiste.

2. Il contesto e il “presente esteso”

Fondamentale in questa disamina mi sembra il concetto di contesto, un concetto che non necessita di particolari spiegazioni considerata la sua vasta diffusione in una grande varietà di “contesti”, appunto. Come afferma Perelman nel suo Trattato dell’argomentazione: «un fenomeno inserito in una serie dinamica acquista un significato diverso da quello che avrebbe preso isolatamente»4. L’estensione di questo concetto al campo musicale, tuttavia, richiede a mio parere una peculiare articolazione che richiama quanto si è detto sul “cosa” dell’ascolto. Anche a proposito del contesto musicale, infatti, possiamo comnsiderare un lato orizzontale e uno verticale.
Il lato orizzontale riguarda la distribuzione e l’ordine delle idee musicali (A, B, C, …, qualsiasi sia il significato dato a questo termine) lungo la linea del tempo

 



 

fig. 2

così possiamo dire che il significato di ciò che stiamo udendo proprio ora dipende in modo essenziale da ciò che riteniamo nella memoria degli eventi appena passati e da ciò che ci aspettiamo stia per accadere. Sto qui seguendo la linea di pensiero espressa da Husserl nelle sue Lezioni per la fenomenologia della coscienza interna del tempo5 poiché essa sembra trovare nell’ascolto della musica una sua pregnante interpretazione. Le dinamiche che investono i contenuti – le idee – durante quella che egli chiama ritenzione, riferendosi a un «appena trascorso», e protenzione, riferendosi a futuro atteso nell’immediato, sono responsabili di quell’allargamento del presente che lo sottrae alla dimensione puntiforme e astratta di un ‘ora’ che sarebbe fatto di «nuovi momenti sempre digradanti». Il presente, così esteso, si offre quindi ad una dimensione di coscienza sostanziata dal dinamismo di questi contenuti6. In altre parole, la forza di quest’idea, che funziona assai bene per spiegare come e perché si forma nella nostra mente l’impressione di continuità, sta nell’aver spostato l’interesse dell’indagine dal flusso temporale in sé (come vuota pontenzialità) alla rete di relazioni che di fatto collega i contenuti tra loro. Questa rete, che estende il nostro presente attraverso protenzioni e ritenzioni, mi sembra costituire una componente fondamentale dell’idea di contesto musicale per quanto concerne la sua temporalità.
Il lato verticale del concetto di contesto ci riporta al fatto che un contenuto si possa trovare a condividere un certo quantum di tempo – quel presente esteso, ad esempio – con altri contenuti, entrando con essi in un rapporto particolare. Il triangolo di fig. 1, pensato per il suono in generale, mantiene una sua qualche pertinenza anche all’interno dello spazio di fruizione di un pezzo musicale. L’aspetto più interessante non è tanto la polarizzazione tra ciò che genera un godimento estetico e ciò che invece risulta noioso o di “cattivo gusto”. E’ invece il terzo vertice, quello dell’indifferenza, che si rivela uno spazio ricco di implicazioni interessanti, per esempio, ai fini di una “educazione dell’ascolto”. Imparare ad ascoltare una musica ricca di strati e differenziazioni articolative significa infatti, innanzitutto, riuscire a porre attenzione ad elementi che normalmente sfuggono all’ascolto, collocandosi oltre l’orizzonte non degli eventi percepiti, beninteso, ma degli eventi fruiti come protagonisti. Per farlo occorre indubbiamente uno sforzo, perché la musica si pone come un costrutto già articolato gerarchicamente da un complesso di norme, prassi stilistiche e intenzioni compositive che guidano e condizionano con forza l’ascolto di superficie, la pelle del pezzo.
Qui ritroviamo la tensione tra un’attitudine di passività, che subisce la strutturazione per così dire portante dei dati musicali ed un atteggiamento di attivazione analitica, o “ascolto strutturale”, che si sforza di separare, di cogliere in modo selettivo, di mettere in relazione eventi non vicinissimi e così via.

Ciò che vorrei presentare ora sono alcune specifiche condizioni della fenomenologia dell’ascolto musicale che, a mio parere, rivelano caratteristiche assai peculiari e interessanti per il concetto di contesto musicale: sto parlando della stratificazione, del richiamo evocativo, dell’ambiguità.


3. Ascolto periferico, stratificazione e articolazione figura/sfondo.

Nell’ambito della percezione visiva si opera una distinzione tra visione centrata, che corrisponde alla “messa a fuoco” e concentra l’attenzione sull’oggetto osservato, e visione periferica, che il Gombrich studioso dell’arte decorativa preferisce chiamare visione “indifferenziata” o “fuori fuoco” o “globale”7. Gombrich compie una sorta di “rivalutazione” di questa forma di percezione diffidando dal considerarla «null’altro che una percezione incurante». La complessità della visione, nella sua elaborazione in tempo reale di una molteplicità di dati, sembra quindi arricchirsi in modo sostanziale considerando l’apporto offerto da questo tipo di visione in grado di cogliere l’intorno dell’oggetto integrandolo nel tutto in una gerarchia di ordini e sovraordini.
Ciò che qui si vuole rilevare è un possibile omeomorfismo nella dinamica della fruizione che sostiene e legittima l’analogia tra arti8. Alla stratificazione gerarchica dei contenuti di un quadro e alla coercizione che essa esercita sulla modalità e intensità della “lettura” visiva, corrispondono una coercizione e stratificazione dei contenuti musicali di un brano che chiamiamo “polifonico”, in una accezione molto ampia. L’ascolto periferico, dal canto suo, sembra giocare, nella fruizione della musica, un ruolo forse ancora più rilevante e articolato di quanto accade con la visione periferica9. D’altra parte «la difficoltà di rilevare i momenti salienti in questo strato secondario della musica» - osserva acutamente Carl Dalhaus - «non è un limite dell’ascolto musicale né nasce da una sua contingente inadeguatezza, ma è una caratteristica della stessa sostanza estetica dell’opera»10. Analizzare significa quindi qui, propriamente – in musica come in pittura – de-strutturare, rendendo fruibile “in piena luce” una cosa che aveva trovato la sua legittimazione strutturale in uno stato d’essere caratterizzato dalla penombra. D’altra parte l’indagine sulla struttura profonda, questa operazione di destrutturazione analitica, non deve demolire l’apprensione di superficie, ma deve avvenire attraverso la pelle del pezzo. Per focalizzare questo punto uso il termine di trasparenza: occorre imparare ad ascoltare gli strati e la complessità delle relazioni che li strutturano, attraverso ciò che ne traspare dalla superficie dell'ascolto.
Consideriamo, ad esempio, il II tempo della Terza Sinfonia di Beethoven:
 

fig. 3

l’idea principale si identifica nella melodia dei violini, va detto però che essa subisce una caratterizzazione essenziale dal movimento in levare dei contrabbassi. Questo elemento di “sfondo” avrebbe potuto essere null’altro che un ingrediente nella coloratura semantica della “Marcia funebre”, invece assume – come accade spesso nella tecnica costruttiva di Beethoven – un ruolo fondamentale, attraverso un gioco di presenza/assenza/sostituzione che si rivela nel corso del pezzo. Esso scompare, ad esempio, durante la prima enunciazione della seconda idea tematica a b.17

 

fig. 4


contrastante per tonalità e carattere ma, poco dopo, alla seconda occorrenza di questa idea, è di nuovo presente:

fig. 5


instaurando così un nesso di continuità con la prima idea. Questa, dal canto suo, risulterà trasfigurata, al suo ritorno di b.173, dalla sostituzione del primo con un altro “sfondo”, più compatto, in terzine di sedicesimi, che aveva caratterizzato contrastivamente buona parte della sezione centrale in DO magg. donandogli leggerezza (esaltata dall’omissione del primo impulso):
 

fig. 6


e ancora diversa apparirà la prima idea, ricomparendo verso la fine, contro lo “sfondo” di quartine di biscrome. Questi mutamenti di scenario, con il loro carico di espressione, sono dunque affidati alle trasformazioni degli strati di sfondo la cui ricezione è tipicamente affidata all’ascolto periferico.

La scrittura determina, nell’oggettività della partitura, una stratificazione attraverso la scelta di una certa texture. L’interpretazione però interviene, successivamente, ad evidenziare la trama, tirando i fili di questa texture, a volte in modo sorprendente, come nel caso dell’interpretazione di Glenn Gould del preludio in re minore (o anche di quello in re maggiore) dal I libro del CBT. Qui vi è una consapevole inversione dei ruoli di figura e sfondo che esalta la particolare scrittura bachiana caratterizzata da un’oscillazione del peso melodico tra le due mani: la melodia della mano destra è spesso nascosta mentre il basso continuo si fa cantabile.

Ma non vi è soltanto il caso tipico del rapporto melodia/accompagnamento ad interessare questo tipo di ascolto. Consideriamo infatti l’ascolto di una polifonia complessa, come nel caso di un madrigale o di una fuga: durante un ascolto diciamo “neutro”, non vincolato cioè a particolari focalizzazioni, passiamo, più o meno consapevolmente, da una voce all’altra lasciando che il resto si integri temporaneamente su uno sfondo, che non per questo resta impercepito. E questo processo avviene con straordinaria rapidità, guidato dal peso melodico che l’intreccio polifonico assegna via via alle varie voci, anche solo per un istante, e solo nella dimensione soggettiva e tipica di questo tipo di ascolto.

4. Textures amelodiche.

Vi è poi un altro tipo di contesto musicale che rimanda senz’altro all’ascolto periferico ponendolo anzi come paradigma privilegiato. Parliamo di tutti quei pezzi che non sembrano costruiti attorno ad una concezione narrativa riconducibile all’articolativa melodia / sfondo d’accompagnamento. Pezzi nei quali sono caratteristiche costruttive salienti la ripetizione, combinazione e variazione di un “pattern figurale” e l’autore sembra porre in primo piano l’intenzione di esibire una texture particolare, più che altri aspetti della composizione pure importanti come l’armonia o un ritmo. La texture, potremmo dire, “intrappola” melodia e ritmo in una trama a rete che tollera solo “trasformazioni topologiche” ovvero deformazioni continue della figura, senza “strappi”. La continuità è infatti una caratteristica essenziale di questo genere di pezzi, così come la rapidità dell’articolazione e l’occultamento o la totale sparizione di un dato melodico distinto.
Gli esempi seguenti sono tratti dal I vol. del “Clavicembalo ben temperato” di Bach: il 1° e 2° preludio sono emblematici di questo tipo di scrittura amelodica (ho eliminato la duplicazione interna alla battuta per mostrare meglio l’evolversi nel tempo delle trasformazioni continue di questa figura:

fig. 7


Quale può essere il movente per scrivere pezzi simili? L’identità della loro successione armonica – del resto già usata tante volte – rivela che il movente non può essere ricercato su questo fronte. Né mi sembra che si possa parlare di una linea melodica occulta. Credo piuttosto che alla radice di una simile scrittura vi sia un compiaciuto cesellare, un lavoro di intaglio simile a quello prodotto dagli artigiani alle prese col traforo di arabeschi. Non vi è realmente una figura che si stagli su uno sfondo perché mancano confini con un altro da sé che possano delimitarlo manca il liquido di contrasto11 .
Sulla scia di questo esempio possiamo collocare anche tutta quella letteratura monocellulare e amelodica che ha caratterizzato nei secoli successivi un certo repertorio fatto di Preludi e Studi, soprattutto di Chopin e Debussy. Ma il discorso ha continuato ad affascinare i compositori fino al XX secolo: pensiamo ai “minimalisti” e, in particolare, alla musica di Steve Reich e Therry Riley. Questa musica si può ben dire interamente basata sulla costruzione di textures: virtuamente infinite (o meglio, illimitate), costruite con un’economia di materiale impressionante, sostanzialmente basato sull’ininterrotto trascolorare di una medesima figura-pattern dai connotati ritmico-melodico-armonici assolutamente elementari. Una sua caratteristica è l’assoluta mancanza di pause: un silenzio anche brevissimo produrrebbe la rottura della continuità introducendo segmentazioni che articolerebbero la forma globale. Di questa musica, giocata su un horror vacui, si è parlato come di “musica ripetitiva” ma è un termine fuorviante: la ripetizione in sé è totalmente cancellata dall’orizzonte dell’ascolto, poiché grazie alla minimalità dell’oggetto ripetuto e alla contiguità interallacciata del suo contesto l’impressione che prevale non è affatto di ripetizione ma, appunto, di texture. Ovviamente tutto questo ha un impatto enorme sulla fenomenologia dell’ascolto che si trova ad affrontare una velocità di cambiamento spaventosamente lenta e arriva, quindi, alle soglie della trance ipnotica. Questa “concezione texturale” della costruzione musicale – da Bach a Reich – spinge al mutamento di paradigma percettivo, chiamando in causa ancora l’ascolto periferico che diventa così una modalità specifica per questo tipo di musiche, prevalente, nel caso di Bach o Debussy, assoluto, nel caso di Reich. Questi pezzi non chiedono un ascolto ravvicinato o nota-per-nota ma, al contrario, un allontanamento che consenta una presa sul tutto, appunto uno sguardo-ascolto globale. La prova del nove di questo diverso paradigma l’abbiamo a pezzo terminato: cosa ci resta in mente di tutte quelle note ascoltate? La texture.

5. Allusività intra ed extra-testuale

Una situazione assai frequente è quella che vede la melodia principale, dopo una fase di protagonismo epifanico, tornare ad affacciarsi sotto la luce della lontananza, del ricordo, o dell’eco, perdendo sostanzialità per acquistare una presenza più rarefatta e trasparente. E’ proprio l’idea di una trasparenza quella che sembra caratterizzare questi elementi del tessuto musicale mentre ne lasciano emergere altri.
Tra i tantissimi casi che si potrebbero citare (basti solo considerare quanto questo procedimento sia in un certo senso costitutivo delle fasi elaborative pressocché di qualsiasi forma, dalla sonata alla fuga) prendiamo, ad esempio, la prima – e di fatto unica – idea tematica del primo tempo della 5a sinfonia di Beethoven che, alla comparsa della seconda idea, non abbandona, neanche allora, il campo: passa però in una dimensione di trasparenza complementare alla sostanzialità della seconda idea che può così dispiegare, per un istante, il proprio effimero protagonismo:

 

fig. 8


Proviamo ora ad estendere l’idea della stratificazione dell’ascolto per farvi rientrare anche quei casi in cui un certo materiale tematico ne richiama un altro, supposto preesistente nella memoria dell’ascoltatore, ad un livello di reminiscenza allusiva: è una carta giocata sul tavolo di una koiné condivisa che rende l’ascolto complice della scrittura. Anche qui gli esempi abbondano e ogni ascoltatore avvertito, si può dire, compila una sua privata lista di “citazioni”, compiacendosi di riconoscere questo o quel luogo musicale.
Sappiamo che l’omaggio di Schumann a Mendelssohn nell’Album für die Jugend op. 68 riguarda i numeri 21, 26, 28 e 30, tuttavia uno di questi, il n. 26, esordisce evocando l’op. 31 n.1 di Beethoven:

 

fig. 9

 

fig. 10

Vi è un richiamo forte, naturalmente, nell’identità del profilo melodico indicato con (a) e la differente interpretazione armonica (in Beethoven saldamente ancorata alla tonica mentre Schumann lo proietta verso la dominante12) non sembra costituire un’alterazione tale da comprometterne la riconoscibilità che, d’altra parte, trova nel levare legato e prolungato iniziale e nell’assenza della mano sinistra, altre due caratteristiche morfologiche comuni.
Il n. 28 (“Erinnerung”) – scritto nell’anniversario della morte di Mendelssohn – contiene un ricordo (b’) anche del profilo (b) ascoltato, sempre come conseguente e con identica armonizzazione, nel n. 26, appena due pagine prima:
 

fig. 11


D’altra parte la possibilità di reinterpretare armonicamente uno inciso melodico offre spesso, nell’ambito di uno stesso brano, anche a poche battute di distanza, l’occasione di un riascolto che è anche ripensamento: ciò che si attiva nella coscienza non è tanto una comparazione, neanche inconsapevole, ma piuttosto una tensione nel riconoscimento di un oggetto alterato. In questo caso il concetto di contesto musicale trova una sua interpretazione “verticale” poiché a cambiare non è la sua collocazione sintattica ma la sua “prospettiva” armonica. E’ ciò che avviene con l’antecedente (k) della frase iniziale del brano di Schumann, che trova alla fine quattro diverse metamorfosi armoniche, ovvero quattro diversi contesti funzionali:
 

fig. 12


Un altro caso emblematico di reinterpretazione intra-testuale, arricchito semanticamente dal contesto letterario-religioso da cui dipende, si trova nella Passione secondo Matteo. proprio attraverso la reinterpretazione della tensione armonica che collega le note di una medesima melodia corale – melodia che il pubblico ascolta più volte nel corso dell’opera – Bach riesce ad esprimere il cambio di segno dello scenario, interiore prima che reale, e il rivolgersi dell’angoscia della morte verso il fedele parlante anziché verso Cristo. Il corale “Ich will hier bei dir stehen” della prima parte diventa quindi “Wenn ich einmal soll scheiden” della seconda:

Voglio restare qui presso di te […] Quando il tuo cuore si spegnerà nell’ultima agonia, allora ti prenderò fra le mie braccia e nel mio grembo.

 
[…] non dipartirti da me, quando la morte mi colpirà […] Quando il mio cuore sarà profondamente turbato, strappami dalle angosce in virtù delle angosce e pene da te sofferte!

fig. 13

Choral 23 (17) Choral 72 (62)


Questo cortocircuito di ricordi offre quindi all’ascolto frecce in direzioni diverse, dentro e fuori l’opera musicale, che rendono l’ascolto stesso e più ancora, il riascolto in trasparenza, suscettibile di diverse ricontestualizzazioni.
Un caso di allusione estra-testuale più celato, perché improbabile, poiché getta di fatto un ponte tra secoli e sensibilità lontane, lo troviamo nel secondo tempo della 5a di Beethoven. Tra quelle “variazioni non denunciate” se ne trova una, quella 'in minore', che in realtà non corrisponde affatto a quello che “dovrebbe essere”. Questo il tema noto:

 

fig. 14


e questa la sua versione in minore
 

fig. 15


Come si vede essa conserva solo la testa del tema, assieme alla figura del ritmo puntato, mentre, dalla battuta 168 in avanti, una successione armonica totalmente differente e assai più semplice del tema originale. Beethoven sceglie qui di lasciare da parte il tema originale del suo Andante con moto, probabilmente perché la sua trasformazione in minore non sarebbe risultata efficace e convincente, dal momento che esso contiene già la tonicizzazione di un grado minore (il si b minore). La versione scelta da Beethoven rivela invece un’altra, più profonda e solida affinità con il celebre basso della “Follia”, di matrice barocca e quasi luogo archetipico della “forma variazione”: essa mostra inoltre una tonicizzazione al suo centro, verso il parallelo maggiore, che funziona come un opposto simmetrico al tema beethoveniano (un minore che contiene un maggiore vs un maggiore che contiene un minore):
 

fig. 16


Paragonato ai precedenti, questo caso risulta essere più mascherato e quasi segreto, poiché pone un inatteso ponte tra secoli e stili assai differenti, ecco perché rimane pressocchè nascosto.
In casi come questi siamo quindi di fronte ad elementi “di sfondo” non fenomenologicamente presenti ma presenti ad un livello più profondo. Non è in gioco soltanto l’ascolto reale, ma un ascolto reso complesso e stratificato dalla memoria, in grado di evocare una “seconda voce” in modo forte e assai significativo per l’economia della fruizione: vi si innesca un contrappunto virtuale attraverso il concetto-chiave, già menzionato, di trasparenza. La differenza tra il “non sapere” e il “sapere” – inteso come capacità di cogliere l’allusione – crea un vero e proprio scarto nella qualità dell’ascolto (verificabile ad esempio tra un “prima” e un “dopo” in sede di ascolto analitico) poiché caratterizzante risulta, ancora una volta, la passività della mente nel recepire il contenuto evocato, quel “non posso fare a meno di pensare a” che crea con forza straordinaria un nuovo contesto d’ascolto, un contesto dal quale la mia coscienza non riesce a sfuggire.
Dicendo però che non è in gioco soltanto l’ascolto reale, sembrerebbe che qui faccia il suo ingresso un elemento trascendente, irreale, mentre non vi è nulla di ciò. Il concetto di realtà dell’ascolto, credo debba comprendere altrettanto bene sia la presenza fenomenica causata dall’avvento del suono che raggiunge l’orecchio, sia questa dimensione parallela che si integra perfettamente con la prima e può contenere le evocazioni. Questa disamina delle evocazioni va vista sullo sfondo della tematica fenomenologica della “sintesi dell’esperienza” e io credo che il concetto di presente, esteso da ritenzioni e protenzioni, possa essere “allargato” anche in un’altra direzione. Ogni ascolto, infatti, anche in assenza di contenuti intenzionalmente volti ad un’allusività, presenta come sfondo una sorta di camera di risonanza interiore, mentale e personale quanto lo sono i pensieri e i ricordi:
 

fig. 17


Il caso del contenuto evocato, che scaturisce spontaneamente dalla/nella mente dell’ascoltatore, ha il merito di evidenziare con chiarezza l’esistenza di questo spazio interiore complesso e polifonico, in realtà sempre presente.



6. Ambiguità e "sentire come”.

Il prossimo passo parte dal concetto di ambiguità, un concetto che ha trovato in estetica un’ampia discussione con varie tonalità e accentuazioni. Innanzitutto in relazione all’idea di simbolo, a partire dalla definizione che ne dà Hegel nella sua Estetica, per il quale il simbolo ha un’ambiguità strutturale, oltre ad un’eventuale ambiguità interpretativa13. Poi in rapporto alla dimensione linguistica, dove l’ambiguità trova prima un suo status all’interno della retorica classica – attraverso figure di ripetizione con slittamento semantico come l’anfibologia e la diafora – poi una sua moderna e operativa definizione, con Roman Jakobson che definisce il messaggio con una funzione poetica come ambiguo e autoriflessivo, e l’ambiguità stessa come violazione delle regole del codice14.
Tuttavia accanto alla considerazione dell’ambiguità come fattore costitutivo del messaggio estetico di un’opera d’arte, occorre considerare quello stato di incertezza, indeterminazione e oscillazione del giudizio sulla realtà che caratterizza determinate situazioni percettive studiate, fin dall’inizio del Novecento, dagli psicologi della Gestalt, e poi riprese da filosofi come Wittgenstein15. Le tipiche configurazioni esaminate sono quelle che offrono all’occhio la possibilità di una visione duplice: un secondo sguardo, anche chiamato «percezione di aspetti» o «vedere come», che rivela la complessità della costituzione del senso all’interno dell’esperienza sensoriale nel suo intreccio percezione/conoscenza. Eccone due esempi: la fig. 18 rappresenta l’anatra-lepre
 

fig. 18

La fig. 19 mostra il cubo di Necker (A) che si può «vedere come» poggiato sul pavimento (A1) o attaccato al soffitto (A2):
 

fig. 19


Ciò che vorrei focalizzare qui è quel tipo di ambiguità che appartiene alla dimensione costitutiva di un certo pensiero musicale, risultato di una precisa intenzionalità espressiva. Il mio interesse è però rivolto, in questa sede, piuttosto al lato della fruizione, per afferrare la situazione fenomenologica che emerge per l’ascoltatore quando un’ambiguità viene offerta.
Troviamo dunque situazioni di ambiguità ogni qual volta due – o a volte più – elementi di un’opera musicale conducono l’ascolto verso diverse o anche opposte direzioni. Ho tentato di ordinare questi casi raggruppandoli insieme, prendendo in considerazione, da un lato, i differenti parametri musicali coinvolti: il ritmo, la melodia, l’armonia e un più generale conflitto tra discorsi che può essere attribuito alla forma. Dall’altro lato considero la possibilità che questa ambiguità si dispieghi su una dimensione simultanea oppure successiva di eventi, riferendomi in questo modo alla doppia articolazione del contesto, verticale e orizzontale, menzionata prima.
Momenti di sovrapposizione di discorsi, che generano nell’ascoltatore un’incertezza su quale seguire, e quindi una temporanea perdita dell’orientamento, li ritroviamo con una certa frequenza, ad esempio, nei duetti, terzetti e concertati dell’opera, con straordinaria efficacia teatrale: pensiamo alle voci di Don Giovanni e Leporello che, non soltanto sovrappongono linee melodiche indipendenti ma portano spesso contrastanti tensioni emotive, rappresentano, in un certo senso, l’ossimoro contenuto nell’espressione “dramma giocoso”. Non mi soffermo ad analizzare questi casi, tuttavia, perché il teatro costituisce un altro tipo di contesto, dentro il quale la musica condivide la creazione di senso con altri fattori non meno importanti. Per il nostro discorso è invece opportuno attingere alla dimensione della musica “assoluta”, cercando di cogliere l’ambiguità nel suo costituirsi linguistico.



6.1. Ambiguità nel rapporto melodia armonia

Il sistema tonale, grazie al suo costituirsi come rete complessa di relazioni funzionali contestuali, offre moltissimi esempi di situazioni che possono, in determinate circostanze, dare origine ad ambiguità. Abbiamo già mostrato la possibilità di armonizzare diversamente un inciso melodico, tuttavia nei casi citati non vi è propriamente un’ambiguità dal momento che le diverse interpretazioni non entrano in conflitto tra loro ponendosi come opposte alternative e, nel caso della Passione di Bach, non condividono neanche lo stesso “presente esteso”.
Vi sono invece alcuni casi – rari – di sovrapposizione simultanea di funzioni armoniche, come questo, eclatante, tratto dalla sonata Les Adieux, op. 81:
 

fig. 20


Il significato di una simile violazione del codice, per usare l’espressione di Jakobson, è probabilmente da ricercarsi nel desiderio di evocare uno stato psichico di momentanea confusione temporale: la partenza si è conclusa e il “richiamo dei corni” – l’inciso iniziale – ritorna su se stesso come in un’eco della memoria ritenzionale. Si sovrappongono le due funzioni armoniche principali (dominante e tonica) la cui concatenazione direzionata nella cadenza rappresenta il mattone principale della tonalità, in quanto sistema capace di orientare il tempo.
Consideriamo ora il rapporto tra attitudine d’ascolto e tensione verso contenuti protenzionalmente implicati dalle funzioni armoniche. In presenza di una modulazione, anche la più semplice, si ha infine la netta impressione che una pagina è stata voltata, una porta è stata aperta e si entri in un nuovo ambiente (questo il senso delle ridondanti conferme attraverso ripetute cadenze). Così nel passaggio dal primo al secondo “gruppo tematico”, nelle forme sonata dello “stile classico” maturo, superata la soglia non posso volgermi indietro, se lo facessi, percepirei interamente lo straniamento dovuto alla distanza dal mio punto di partenza. Ma la forma impone, con il ritornello alla fine dell’“esposizione”, un ritorno indietro e, in mancanza di battute che biforchino il finale, l’ascoltatore, che è appena stato investito dalla “coda” che gli ha ribadito la regione del V come nuova tonica, si trova improvvisamente azzerato tutto il percorso modulativo. Questo brusco azzeramento è però, in un certo senso, estrinseco alla macroforma, la quale non subirebbe una vera violenza se rinunciassimo al ritornello. Invece nelle forme sonata nelle quali non vi è modulazione al termine del cosiddetto “ponte” tra il primo e il secondo gruppo tematico (moltissime di Haydn e Mozart) ciò che subisce l’ascoltatore è uno straniamento di segno opposto sul piano tonale e formalmente inevitabile perchè intrinseco alla macroforma. Al termine del “ponte” che non modula si ha di solito una tipica cadenza sospesa sulla dominante del tono d’impianto: l’ascoltatore è quindi pronto a udire un’armonia di tonica, ed è precisamente questo che accadrà nella “ripresa”. Ma ora, nell’“esposizione”, egli si trova nella condizione di mutare improvvisamente il significato funzionale della dominante, poiché è di fronte a una nuova enunciazione tematica che gli impone di ascoltare quelle stesse note, quell’armonia, come tonica (si ascoltino, ad esempio, di Mozart le sonate K 280, K 281, K 283, K 284, K 311).
L’ambiguità o polivalenza di un elemento armonico, nel suo dispiegarsi orizzontale, è evidentemente assai ben rappresentata dall’intervallo di tritono, grazie alla sua intrinseca possibilità di risolvere la tensione in due direzioni che si collocano agli antipodi della geografia tonale. Così, ad esempio, l’intervallo ‘mib–la’ esprime la tensione dominantica verso il ‘sib’ ma il suo omofono ‘re#–la’ tende invece alla tonica ‘mi’. Fin qui la mera teoria, ma la messa in pratica di simili potenzialità linguistiche all’interno di un contesto estetico è, naturalmente, subordinata ad esigenze espressive: sono queste che, all’interno di una sorta di “gioco linguistico” – nell’accezione di Wittgenstein – liberano l’energia contenuta nell’elemento ambiguo, dandogli un senso formale.
Consideriamo l’esempio seguente tratto dalla sonata op. 10 n. 2 di Beethoven:
 

fig. 21


Quest’esempio ci illustra due casi di reinterpretazione (sentire come), relativamente a un accordo e a una tonalità. La quadriade fa-la-do-mib viene usata una prima volta per “tonicizzare” la sottodominante, alla fine della seconda frase a battuta 7. Alla b.14-15 essa ritorna con scrittura mutata, la sua nuova funzione non è però ancora udibile mancando la risoluzione: questa arriva subito dopo e rivela l’accordo di “settima di dominante” come una “sesta eccedente Tedesca” della tonalità di ‘la’ minore. L’epanalessi delle battute 16-17 rafforza il mutamento di sguardo, enfatizzando la “cadenza sospesa” sulla dominante di questa tonalità fantasma, il ‘la’ minore, che compare ellitticamente, solo come allusione. Questo ‘la’ fantasma (III grado di ‘Fa’) è quindi subito abbandonato per puntare verso il ‘Do’ nel modo più semplice e diretto, attraverso la cadenza perfetta ‘Sol-Do’. Ma come viene percepito l’accordo di ‘Sol’ in questo contesto, cioè avendo nell’orecchio quell’inespresso ma non meno presente ‘la’ minore? Esso rispetto al ‘la’ (cioè al passato ritenzionale) non è altro che la dominante del suo parallelo maggiore (III). Dal punto di vista della forma sonata il prevedibile passaggio modulativo alla tonalità della dominante ‘Do’ è dunque avvenuto, ma, come spesso accade, in modo del tutto imprevedibile: attraverso una linea modulativa ascendente che disegna la triade stessa di ‘Fa’ maggiore (fa-la-do) interpretandola come regioni tonali (quindi compiendo nello spazio tonale due salti di terza ascendente). La tonalità di ‘Do’ cui siamo giunti non viene quindi sentita come la tonalità del V di ‘Fa’: per l’orecchio ciò che si è appena compiuta è invece una particolare modulazione (brusca e con elisioni) al III del III. Il contesto musicale ha imposto all’orecchio la reinterpretazione delle relazioni tra gli accordi e quindi tra le tonalità che essi esprimono, arrivando a definire, con un giro più ampio e discendente, il ‘Do’ come il parallelo maggiore (III) del contraccordo minore (III) di ‘Fa’16 .

Il prossimo esempio mostra chiaramente la forza del fattore lineare nella determinazione del senso di un accordo e quindi del suo contesto. Il brano è tratto dal II tempo della sinfonia n°104 di Haydn dove non solo le “note estranee” di vario tipo (indicate dalle ‘x’) sono determinanti nella caratterizzazione motivico-tematica, ma si assiste ad una dilatazione, con conseguente ispessimento armonico, di grande rilievo sul piano strutturale:


 

fig. 22


Questa dilatazione provoca, a battuta 23, la singolare percezione armonica di un accordo dissonante mentre, dal punto di vista dei dati meramente sensibili, l’ascoltatore si trova di fronte ad un armonia di ‘do’ minore – una trasformazione, questa, addirittura più rilevante di quella vista in Beethoven, quando scambia tra loro due accordi entrambi dissonanti (la “settima di dominante” e la “sesta Tedesca”). Questa reinterpretazione nasce da quell’appoggiatura del ‘re#’ che per un’intera battuta ferma il tempo su una tensiva sospensione prodotta unicamente da ragioni di ordine lineare17. Più avanti nel pezzo, alla b. 102, il ritorno della frase melodica conduce ad una notevole quanto imprevedibile variante che costituisce il cuore dell’intero brano:

 

fig. 23


Il mutamento di scrittura da ‘re#’ a ‘mib’ è chiaramente percepibile: quella tensiva sospensione viene qui frustrata attraverso una metamorfosi di senso: l’elemento tensivo lineare subisce uno “stiramento” insieme temporale e melodico: nella b.103, che corrisponde alla precedente 22, non abbiamo ha più la duplicazione figurale, il ‘re’ – fermo – si prolunga nel ribattuto e quando finalmente si solleva da questo “grado zero” melodico raggiunge il ‘mib’ quasi con fatica e lì di nuovo sosta ancora a lungo. Il senso è rovesciato rispetto all’inizio: questo sostare su accordi stabili (do min. Lab magg. Reb magg.) stempera la tensione del cromatismo, ogni gradino raggiunto si pone come possibile sosta definitiva senza che vi sia alcuna direzionalità melodico-armonica. Quest’ultimo esempio ci invita anche a riflettere sulla dialettica temporale che investe il ripensamento di un elemento nella ridefinizione del contesto che lo ospita. Nella prima occorrenza (b. 23) abbiamo un contesto strutturale lineare che orienta l’ascolto in modo alternativo, nella seconda (b. 105), al contesto strutturale locale si aggiunge anche il ricordo (la ritenzione) del punto precedente che determina nell’ascoltatore un’aspettativa di ripetizione, puntualmente frustrata18 .


6.2. Ambiguità nel ritmo

Alcune musiche, tipicamente per più strumenti ma non solo, si compongono di ritmi diversi che sono pensati per integrarsi perfettamente in un tutto che quindi appare, magari complesso, ma certamente leggibile come unità. Questa unità è il risultato di una gerarchia organizzata verticalmente che articola i differenti strati ritmici in modo tale che si fondano assieme, e solo un’ascolto guidato dall’analisi riuscirebbe, non senza sforzo, a separarli19. Qualcosa di diverso accade quando la stratificazione offre livelli articolativi che la coscienza non riesce a tenere assieme allo stesso tempo, perché la percezione, l’identificazione dell’uno esclude la contemporanea identificazione dell’altro. Non abbiamo bisogno di molti strati per trovarci in una simile situazione: due sono sufficienti. L’esempio seguente, tratto dal preludio n. 5 di Chopin, mostra una situazione del genere:
 

fig. 24

Spingendo in modo geniale oltre i confini consueti l’idea di sincope e quella di emiolia, Chopin costruisce qui una texture in cui l’ascoltatore subito si smarrisce poiché non trova uno schema metrico-ritmico univoco al quale affidarsi per orientare il proprio ascolto: l’arpeggio in 4 della mano sinistra accompagna un frammento melodico, ridotto a un’oscillazione, intarsiato dentro un contesto metrico-ritmico incongruente. L’intarsio di 2/8, dentro il tessuto del 3/8, attacca infatti sul sul 4° sedicesimo, cioè in sincope non soltanto rispetto ai 3 movimenti del 3/8 ma anche rispetto alla suddivisione in sedicesimi. Inoltre l’alternanza del ‘si’ con il ‘sib’ (un’ulteriore ambiguità, sul piano armonico: siamo sulla dominante di re maggiore o minore?) raddoppia la durata del periodo della figura binaria che viene così interrotta alla terza occorrenza (analogamente viene tagliata alla fine la figura di 4 crome discendenti). L’effetto devastante di questa asimmetrica collocazione della sincope dipende, naturalmente, anche dal fatto di aver iniziato il pezzo proprio così, senza un battere di riferimento (un attacco in medias res). Quando il “battere strutturale”20 arriva, a b. 5, il discorso prosegue offrendo sincopi melodiche assai più consuete e rassicuranti, ma la reiterazione per 4 volte del frammento melodico fa-sol#-la# lascia inalterato lo smarrimento che coglie – nuovamente impreparato – l’ascoltatore sia alla ripresa dell’inizio, a b. 17, sia alla sua variante finale a b.29.
Osservando bene questo esempio ci rendiamo conto che anche l’altro versante dell’ambiguità ritmica, quello orizzontale, viene messo in gioco: il sovrapporsi dei due strati ritmici determina infatti anche lo scarto da una pulsazione di riferimento, ovvero la perdita del binario metrico implicito.
Un’altro incipit senza un battere chiaro che lascia l’ascoltatore nell’incertezza ritmica è quello della 3a Invenzione a 2 voci di Bach. La riposta imitata della mano sinistra non elimina affatto questa ambiguità, che si scioglie, come in Chopin, solo alla b. 5:
 

fig. 25

Ed è ancora ascoltando Bach che il fruitore subisce uno scarto e vive un’improvvisa perdita del binario, nel Preludio della Partita n.3 per violino solo:

 

fig. 26


qui giocano due fattori sinergicamente: l’inserimento della corda vuota sul 2° sedicesimo, che introduce uno squilibrio timbrico sul levare, di fatto accentuandolo, ma soprattutto lo spostamento della nota melodica sul 4° sedicesimo, in anacrusi estrema. Bisogna attendere 12 battute, così sospesi, per recuperare il battere e tornare, alla b. 29, sul binario che rende di nuovo congruente il decorso melodico col tempo forte.

Uno spostamento simile dell’accento melodico si trova anche nel 4° Momento Musicale di Schubert:

 

fig. 27


qui la risoluzione dello squilibrio melodico sulla suddivisione forte della quartina (b. 4) è solo temporanea e l’ambiguità verrà nutrita ancora varie volte nelle battute successive da una scrittura che sfumerà continuamente la melodia nell’arpeggio e viceversa. Del resto, che questo brano tragga un alimento espressivo fondamentale dall’ambiguità ritmica, emerge anche guardando la seconda idea (b. 59) che appare incastonata “contro” lo schema metrico della battuta (nella figura i segni __ e indicano il battere e il levare percepiti):

 

fig. 28


qui lo squilibio non si rivela affatto al primo ascolto poiché – complice la battuta vuota con corona che precede quest’idea – l’ascoltatore non ha alcun punto di riferimento e interpreta senz’altro il levare come un battere. L’ambiguità vera e propria emergerà solo dopo quando Schubert introdurrà un nuovo profilo melodico (b.87): la scrittura ritmica non è affatto cambiata ma l’accento appare ora decisamente spostato e il nuovo profilo senz’altro in levare:


 

fig. 29


più oltre, infine, la ripresa del primo profilo – senza alcuna fermata di mediazione – lascerà all’interprete il problema se rendere trasparente o meno questo gioco:
 

fig. 30


Come è noto, la presenza dell’ambiguità, soprattutto armonica, ha conosciuto un crescendo durante tutto il Romanticismo – pensiamo a Schumann, a Wagner, a Branhms21, a Listz, fino a Mahler – fino al Moderno dove diventa un tratto stilistico indispensabile per l’elusione della tonalità, per tutti quei compositori – Debussy, Ravel, Stravinskij, Milaud, Satie, etc. – che non operano, come la Seconda Scuola di Vienna, un taglio netto col passato. Inoltre, attraverso gli esperimenti di politonalismo, il gioco ironico dell’incontro di ritmi indipendenti dal metro – come nell’Histoire du Soldat –, la sovrapposizione iperrealistica di orchestre diverse – come in alcune opere di Ives –, il mescolamento di fonti sonore eterogenee – come in molti pezzi di musica elettroacustica –, il XX secolo offrirà svariate occasioni di sfruttare le componenti espressive dell’ascolto duplice, di un ascolto che si arricchisce dell’indeterminatezza. Se ho scelto di limitare la mia ricerca al periodo precedente è perché mi è sembrato più interessante cogliere gli elementi di ambiguità nella fase storica di maggiore “stabilità” del periodo tonale: prima dell’avvento della crisi di fine secolo che travolgerà sistemi filosofici, valori, e forme artistiche, spingendo ad abitare territori estetici sempre più incerti e indeterminati perché rimasti i soli abitabili.

7. Analisi e ascolto

Se è vero, come dicevamo all’inizio, che le problematiche dell’ascolto in generale non sebrano a tutta prima evidenti, al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, è vero pure che, all’interno di quella stessa cerchia, i rapporti problematici tra ascolto e analisi non vengono normalmente affrontati. Il problema potrebbe essere individuato con due domande “circolari”: che cosa rivela l’ascolto all’analisi e che cosa rivela l’analisi all’ascolto?
E’ essenziale comprendere la difficoltà oggettiva di immaginarsi il suono. Il canto interiore può essere esercitato attraverso un’appropriata educazione dell’orecchio ma vi è una costitutiva difficoltà se non impossibilità di rappresentarsi, per esempio, il suono di un accordo. Quest’ultimo esibisce una sua peculiare fisionomia all’ascolto, impone un suo “colore” che si forma proprio nella simultaneità, nella compresenza dei suoni, in un modo che va assolutamente al di là del segno scritto. Quando si guarda una partitura a tavolino ci si basa sostanzialmente sul ricordo sedimentato di situazioni analoghe: in presenza di armonie convenzionali, di textures e impasti timbrici ascoltati tante altre volte, è possibile “farsi un’idea” della cosa, ma pochi – tra i musicisti navigati – sono disposti ad ammettere che si tratta un’idea astratta. Niente in realtà può sostituire il momento dell’ascolto, che non è solo sintetico di tutti gli elementi che l’analisi separa e distingue: è una sintesi che produce significato e questo significato non è deducibile dalla partitura, analiticamente (fuori dal contesto percettivo, dunque “hors temps” per usare un’espressione di Xenakis). L’ascolto di un accordo, che non è la semplice somma dei suoni che lo compongono, la prendiamo allora come un esempio-guida che getta una luce interessante sul rapporto tra il momento analitico, che ha l’occhio come protagonista, e quello sintetico, con protagonista l’orecchio. Va da sé che la comprensione piena delle idee riportate in questo saggio è subordinata alla possibilità (al desiderio) che il lettore ha di assimilare nel proprio vissuto gli esempi musicali portati (suonandoli al pianoforte o ascoltandoli riprodotti o al limite – se ne conserva viva memoria – ricordandoli). Tutte le argomentazioni che abbiamo portato nella disamina degli esempi analizzati sopra – dall’ascolto periferico, all’impressione di texture, all’allusività intra ed extra-testuale, all’ambiguità delle strutture armoniche e ritmiche – sono infatti fondate sulla capacità chiarificatrice del momento dell’ascolto.
Una delle differenze essenziali tra il momento analitico e quello dell’ascolto sta nel fattore tempo: l’ascolto segue il tempo del brano musicale, il suo trascorrere è vincolato all’ordine di successione degli eventi architettato dal compositore. Siamo immersi nel fiume del tempo musicale e ogni tentativo di fermare l’attenzione su un qualsiasi evento o un aspetto particolare (un motivo, un ritmo, un’impressione di texture) ci costringe a “recuperare” poi il fiume-tempo trascorso, necessariamente saltando ciò che “nel frattempo” è stato suonato, “avremo perso qualcosa di essenziale?” Al primo ascolto, quello di fermarsi è un lusso che non dovremmo concederci. Il momento analitico si giova invece di tutto l’agio di un approccio “hors temps”. Il tempo congelato che esibisce la partitura è infatti riattivabile con modalità diversissime: riletture parziali che tollerano, anzi richiedono, velocità differenti da quella dell’esecuzione, oppure risegmentazioni che rendono disponibili al confronto momenti del pezzo non contigui e in un ordine diverso dall’originale e così via.
Se la questione dell’opportunità del metodo analitico si verifica intorno al problema delicato – e a mio avviso centrale – del saper porgere alla musica le domande giuste, è qui, dunque, che l’ascolto può intervenire e dare il contributo determinante: proprio quel momento più intuitivo e sfuggente, quel modo di rapportarsi a un’opera senza mediazione, senza la rassicurante mediazione della ragnatela analitica “fuori del tempo”, il momento dell’ascolto, che assimila clerici e volgo in un’unica categoria di pubblico soggiogato alle leggi del trascorrere del tempo musicale, quel momento di protagonismo della soggettività può rivelarsi determinante per l’individuazione delle domande più pertinenti che possono guidare l’analisi verso un’oggettività espressiva.

Sergio Lanza
 


Note

1 Leonard Meyer, Emotion and Meaning in Music, The University of Chicago Press, 1956, trad. it. Emozione e significato nella musica, Bologna 1992. Mayer è tra i primi a considerare la complessità della musica all'interno delle categorie concettuali della fenomenologia della percezione, in particolare dell'esperienza della Gestalt. Il suo contributo teorico, fondamentale, è tra l'altro arricchito da una pratica analitica che caratterizzerà anche i suoi contributi successivi.
2 Mikel Dufrenne, L’œil et l’oreille, Montréal, L’Hexagone, 1987; trad. it. di C. Fontana, il Castoro, Milano, 2004.
3 ibidem, trad. it. p. 104
4 Ch. Perelman - Obrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation, PUF, Paris, 1958; trad. it., Trattato dell’argomentazione, Einaudi, 2001, p. 303.
5 E. Husserl, Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), «Husserliana» Bd. X, Nijhoff, Den Haag, 1966; tr. it di Alfredo Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano, 1981.
6 A questo riguardo un contributo fondamentale alla reinterpretazione del pensiero husserliano e alla riflessione fenomenologica sulla musica è stato dato da Giovanni Piana attraverso testi come Elementi per una dottrina dell’esperienza (il Saggiatore, Milano, 1979) e Filosofia della musica (Guerini, Milano, 1991).
7 Gombrich, The Sense of Order, Oxford, 1979; trad. it. Il senso dell'ordine, Einaudi, 1984, p.194.
8 Ponendo al centro dell’indagine la percezione come fenomeno complesso la fenomenologia ha spesso offerto sguardi comparativi al mondo delle arti. Così Dufrenne arriva addirittura a evocare un’«omogeneità primordiale del sensibile», come un fondo indifferenziato di cui le analogie non sarebbero che un riverbero (op. cit. pp.127-129). Husserl stesso, d’altronde, ricorre all’analogia quando paragona al campo spaziale il campo temporale che «si sposta sopra il movimento e il suo tempo obbiettivo percepito e ricordato di fresco, alla stessa stregua del campo visivo sopra lo spazio obbiettivo» (op. cit. p. 66). Idea interessante, questa, ma non completamente condivisibile quando afferma che «il campo temporale ha sempre la stessa estensione»: mi sembra infatti che l’estensione di questo campo, come del presente, sia influenzata significativamente dalla qualità e complessità dei contenuti e quindi dal rapporto – di indifferenza, di interesse, di tensione – che essi vengono ad instaurare con la coscienza.
9 Nella trasposizione di questo concetto nell’ambito della percezione acustica, il “peripheral listening” ha interessato prevalentemente il contesto improvvisativo-jazzistico (ma è stato studiato molto anche da quel settore della psicologia della percezione che si occupa di linguaggio verbale). Quello del jazzista è in realtà un ascolto attivo del tutto particolare, fuso com’è con l’azione del creare: quando il solista deve interagire in tempo reale con gli altri musicisti egli basa il suo feed-back sostanzialmente su questo tipo di ascolto laterale.
10 C. Dalhaus, Analyse und Werturteil, Mainz, 1970; trad. it. Analisi musicale e giudizio estetico, Bologna, Il Mulino 1987, p.64.
11 Utile a comprendere la peculiarità di questa scrittura è il confronto con il preludio X in mi minore del I vol., dove Bach prima utilizza l’arabesco della mano sinistra come reale accompagnamento, poi, imprevedibilmente, lascia l’arabesco unico protagonista figurale:



 

 

….. b. 23

12 Per la notazione armonica faccio riferimento all’armonia funzionale mutuata dall’Harmonielehre di Diether de la Motte con alcune mie semplificazioni. In generale ‘pS’ è il II grado, ‘Pt’ è il III del modo minore, ‘pT’ e ‘Gt’ il VI rispettivamente del maggiore e del minore, (D) è una dominante secondaria, tra parentesi quadre [ ] la funzione che mi aspetto di trovare e non trovo.
13 Per una critica di questo concetto si veda G. Piana Elementi per una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1979, p.146.
14 Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale; trad.it. a cura di Luigi Heilmann, Milano, Feltrinelli, 1966.
15 L. Wittgenstein, Lezte Schriften über die Philosophie der Psycologie, 2 voll., Basil Blakwell, Oxford, 1982-92; trad. it. di B. Agnese A. Gargani, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, Laterza, Roma-Bari, 1998, cfr. anche Sara Fortuna, A un secondo sguardo, Manifestolibri, Roma, 2003.
16 Per un reperimento di svariati momenti di ambiguità nelle opere di Beethoven, soprattutto per quanto riguarda la funzione formale, si veda Carl Dahlhaus, Ludwig van Beethoven und Seine Zeit, Laaber-Verlag, 1987; trad. it. di L. Dallapiccola, EDT, Torino, 1990.
17 Ho analizzato questo passaggio, in un lavoro dedicato al concetto di ornamento, come appartenente a una tipica strategia del ritardo, attraverso la quale il compositore coinvolge l’ascoltatore in un’azione di scavo del tempo, lavorando sul dettaglio. cfr. Sergio Lanza, Il concetto di ornamento in musica. Tensioni ed estensioni. in “De Musica”, Anno VII, 2003, Internet http://users.unimi.it/~gpiana/dm7idxrd.htm.
18 Sarebbe interessante leggere casi come questo nei termini husserliani della «protenzione nella rimemorazione», quando egli, ponendosi il problema della sovrapposizione del ricordo al flusso unitario dei vissuti afferma che «ogni ricordo contiene intenzioni d’aspettazione il cui riempimento conduce al presente» (op. cit. p. 84).
19 Ho potuto osservare stratificazioni di questo tipo anche in brani di musica etnica, in particolare presso i Pigmei africani e in alcuni pezzi “funambolici” del Jazz di Lenny Tristano come Turkish Mambo.
20 Per il concetto di “battere/levare strutturale” si veda Epstein David, Beyond Orpheus, Boston, 1979; trad. it. Al di là di Orfeo. Studi sulla struttura musicale, a cura di Reggiani, Ricordi, Milano 1998.
21 Si veda, tra i tanti contributi, Shireen Maluf, Paths not taken: structural-harmonic ambiguities in selected Brahms Intermezzi, B.Mus. McGill University, 1992.
 

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