Sergio Lanza
L’op. 31 La morte del Principe e lo “spazio dei ritorni”



Nel presentare il mio pezzo per violoncello – l’op. 31, la morte del Principe – vorrei inquadrarne la genesi all’incrocio di due istanze: una immanente alla mia poetica, la ricerca formale volta all’esplicitarsi di una precisa tensione narrativa; l’altra contingente, il desiderio di cogliere alcuni semi narrativi distribuiti nel VII capitolo del Gattopardo e farli germogliare musicalmente.
L’op. 31, scritta nel 2008 su richiesta dell’amico violoncellista Guido Boselli, segna per me il ritorno ad un uso estensivo e su scala globale di un particolare metodo di elaborazione della forma. Dopo averlo concepito, anni fa, col fine di strutturare la macroforma, ho in seguito sperimentato la sua efficacia su altri piani, utilizzandolo per strutturare soltanto parti o aspetti delle mie composizioni. Senza averlo mai “ufficializzato” – cosa che mi avrebbe costretto a dargli un nome – mi accorgo, pensandoci ora, di essermi sempre riferito a questo metodo come allo “spazio dei ritorni”.
Perché mi sia deciso a riutilizzarlo per strutturare la macroforma proprio di questo pezzo, lo si capirà più tardi.
Per comprendere l’origine e la valenza compositiva di questo spazio consideriamo questa stringa di lettere:
A B C D E A1 F C1 D1 G B1 H A2 I F1 G1 C2 E1 B2 D2 C3 L A3 H2 B3 L1
Anche a  uno sguardo superficiale si vede che vi sono ripetizioni, distribuite qua e là senza che appaia una logica particolare. Stringhe come questa se ne incontrano facilmente nelle analisi strutturali e possono considerarsi le figlie complicate di stringhe più semplici che contengono ripetizioni –o meglio riprese– come ‘A B A1 C A2’ che, ad esempio, esprime la più semplice forma rondò. Fu ragionando su una stringa simile (lunga e complessa), elaborata da Heimert per un’analisi di Jeux di Debussy, che cominciai a riflettere sui limiti di questo tipo di rappresentazione: ponendo che le lettere denotino idee musicali, come si poteva valorizzare graficamente il rapporto che veniva ad instaurarsi tra l’immissione di idee nuove e la riemersione di idee già note ? Occorreva cercare un tipo di rappresentazione che in qualche modo tenesse traccia di quei ritorni, assegnando tante linee del tempo quante erano le idee in gioco e dando quindi la possibilità immediata di seguire (o predisporre) orizzontalmente, la “storia” di ciascuna idea nel suo evolversi e intrecciarsi con le altre. Fu quindi la ricerca analitica che mi portò verso l’elaborazione di uno schema bidimensionale che è infine diventato per me un ambiente privilegiato per l’elaborazione di forme complesse.
Lo schema formale completo, lo “spazio dei ritorni”, della mia op. 31 è quindi il seguente:
 


Sull’ascissa del tempo vi è la stringa mostrata sopra: l’unica informazione che fornisce questa dimensione diciamo sintagmatica è il particolare ordine di successione imposto alle idee (in altre occasioni, volendo aggiungere un riferimento al tempo reale, ho modificato in proporzione la larghezza delle colonne per esprimere anche la durata di ciascuna idea che può essere assai diversa). Si aprono quindi differenti possibilità di incontro tra idee e lo schema mi invita a concepire innanzitutto, come atto compositivo, la variazione dell’intorno1 di un’idea al suo ripetersi. Ad esempio, alla sua prima occorrenza, B viene dopo A e prima di C, alla sua seconda occorrenza, (indicizzata con B1), B diventa il conseguente di G e l’antecedente di H: anche prescindendo da cosa siano e dalla possibilità che tra loro esista o meno una continuità o un contrasto, ciò che avviene è un cambio di contesto sintattico e questo cambio non può essere senza conseguenze sul senso della forma2. Posso anzi dire che gran parte dell’interesse per lo studio di questo tipo di rimescolamento combinatorio-permutativo risiede per me in questo cambio di contesto che influenza in modo sensibile la fruizione di un’idea, qualunque essa sia3.
Sull’ordinata verticale troviamo invece le idee in ordine alfabetico, e –ciò che più conta– in ordine di apparizione: il tempo del pezzo si svolge quindi da sinistra a destra e dal basso verso l’alto secondo una ideale linea diagonale che collega ‘A’ ad ‘L1’, è dunque presente un valore temporale anche sull’ordinata, non solo sull’ascissa (dove usualmente si indica il tempo). Nel mio “spazio dei ritorni” – che esprime una rete di relazioni – andare verso l’alto significa, all’inizio, seguire quella diagonale procedendo verso idee sempre nuove (A–B–C–D–E), subito dopo, però, il procedere verso idee nuove (F, G, H, I e infine L) avviene a partire da idee già note (rispettivamente A1, D1, B1, A2, C3 ). Andare verso il basso significa invece “tornare indietro” ripescando un’idea già nota, e questo sia partendo da un’idea nuova (come E–A1, F–C1, G–B1, etc.), sia partendo da idee che, a loro volta, sono già state riprese (come G1–C2, E1–B2, etc.). Naturalmente è frutto di una precisa strategia se, con l’unica eccezione di C–D che ritorna nello stesso ordine (C1–D1), il ritorno di tutte le altre idee è sottoposto a un accurato rimescolamento basato sulla novità degli incontri. Questa diversa tipologia degli incontri di fatto cambia la qualità della sorpresa nel passaggio da un’idea all’altra e il mio “piacere della narrazione”, se posso chiamarlo così, comincia proprio calibrando questo gioco delicato di attesa della novità e attesa del ritorno. La presa di coscienza di questo piacere e di questo gioco hanno costituito nella mia formazione un momento cruciale per dare una risposta autonoma al problema della forma.
Pur sentendo potente la forza del pensiero matematico, non ho però mai inteso concepire architetture formali che attingessero la loro legittimità al di fuori della dimensione dell’ascolto, e questa scelta – non del tutto scontata nel panorama novecentesco che ha conosciuto fasi di accecamento strutturalista in cui l’occhio ha prevalso sull’orecchio – è maturata in modo consapevole grazie al percorso di riflessione fenomenologica apertomi da Giovanni Piana. Negli anni posso dire di aver concepito un’approccio fenomenologico sia alla composizione, sia all’analisi, nella piena convinzione che il senso di un’opera si manifesti, nella sua necessità, solo attraverso il momento del suo disvelarsi all’orecchio, pur con tutti i compromessi e i “tradimenti” che fatalmente l’azione dell’esecuzione porta con sé.
Il mio “spazio dei ritorni” si innesta dunque per me all’interno della concezione
fenomenologica del “presente esteso” concepita da Husserl nelle Lezioni4. Le dinamiche che investono i contenuti durante quella che egli chiama ritenzione, riferendosi a un «appena trascorso», e protenzione, riferendosi a futuro atteso nell’immediato, sono responsabili di quell’allargamento del presente che lo sottrae alla dimensione puntiforme e astratta di un ‘ora’ che sarebbe fatto di «nuovi momenti sempre digradanti». Il presente, così esteso, si offre quindi ad una dimensione di coscienza sostanziata dal dinamismo di questi contenuti. Ho sempre trovato questo approccio assai fecondo, dal punto di vista del compositore, perché ritengo sia possibile intervenire attivamente su quelle dinamiche e, articolando i contenuti, le idee del pezzo, sospingere continuamente la mente dell’ascoltatore avanti e indietro nella temporalità della coscienza dell’ascolto.
E’ del resto lo stesso Husserl che, cercando esempi per l’esperienza della temporalità e della continuità del flusso, ricorre al suono e addirittura alla melodia:

Che più suoni susseguentisi producano una melodia, è possibile solo in quanto la successione dei processi psichici si riunisca senz’altro in una formazione complessiva. Essi vengono l’uno dopo l’altro nella coscienza, ma rientrano in un unico e medesimo atto globale.5

Ora, ciò che accade nello “spazio dei ritorni” prende le mosse da questa possibilità, e opera un’estensione: nello schema quella che, apparentemente, non è che una successione lineare di idee subisce in realtà, nella mente dell’ascoltatore, una stratificazione verticale, si crea una “polifonia” immanente, una compresenza virtuale, alimentata dalla loro continua e imprevedibile ripresa, che va infine a costituirsi come «atto globale». In altre parole il lavoro nello “spazio dei ritorni” è volto in un certo senso alla costruzione di un «campo temporale» in cui il presente della coscienza dell’ascoltatore tenda ad estendersi fino a comprendere l’intero brano.
In realtà lo stato di coscienza del ricordo, con le varie tipologie in cui può essere articolato – dalla ritenzione alla rimemorazione –, insieme ai concetti che gli sono affini, come l’evocazione involontaria, il rivissuto consapevole, lo stupore, il riconoscimento, l’associazione immaginativa, come pure l’erosione del ricordo stesso, il non riconoscimento, la confusione, l’oblio, costituiscono per me la materia per una ricerca formale pressocché infinita. Infinita è in effetti la capacità di riprodurre la complessità di questi dinamismi che sta alla base di un certo tipo di narratività, soprattutto moderna, e che il linguaggio musicale – in realtà già con Beethoven – ha trovato il modo di reinterpretare.
Un punto che traggo dal VII capitolo del romanzo di Tomasi di Lampedusa chiarirà meglio cosa intendo: «Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che se stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate, la barba di tre giorni […] Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? […] si muore con una maschera sul volto»6. Il lettore scopre dunque quanto sia invecchiato il principe, la maschera che gli impone il tempo, attraverso lo stupore che lui stesso prova nel guardarsi e non riconoscersi, nel beffardo confronto tra il vestito – oggetto che perdura nella sua riconoscibile identità – e il suo corpo mutato.
Un altro punto, proprio alla fine, si fonda invece sulla pregnante evocazione di un’immagine di donna: «[…] l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate nella strada, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio […] che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato»7. Poche ore dopo questa rievocazione quasi casuale, nella messe dei ricordi, il protagonista la rivede farsi strada nel gruppo dei parenti al suo capezzale: «Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora; snella, col suo vestito marrone da viaggio […] era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo […] gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.»8 Qui, paradossalmente, non vi è alcuno stupore nel riconoscere questa figura femminile, figura della morte, che sul piano della realtà fenomenologica è il complesso prodotto della sua immaginazione che evoca il ricordo di precedenti fantasie mescolate ad altri ricordi di visioni.9
Offrire all’ascoltatore idee, suscitarne l’interesse, la meraviglia e il desiderio (o il “timore”) di riascoltarle, differirne la realizzazione e intanto offrire altre idee, simili o differenti. Creare e intersecare storie e dinamismi, facendo perdere l’orientamento ma non la tensione dell’attesa; offrire quindi il ritorno delle idee e, insieme ad esso, l’impressione di un loro riconoscimento parziale, alterato, incerto, a volte improbabile nella sua metamorfosi, creando il senso del trascorrere attraverso le tracce di questo mutamento. E’ attraverso processi di questo tipo che cerco di creare una precisa tensione narrativa, costruendo un oggetto temporale destinato ad orientare in determinate direzioni il vissuto dell’ascoltatore.
Eccomi dunque sulla soglia di presentare il contenuto di queste idee. Su questa soglia mi soffermo un istante per evocare/esorcizzare l’antica l’opposizione forma-contenuto, mai del tutto cancellata dalla difficoltà (impossibilità?) di chiarire definitivamente che cosa siano “forma” e “contenuto” nella musica, o meglio, dove cominci l’uno e finisca l’altro. L’assegnazione di un contenuto musicale alle lettere è, in effetti, una decisione compositiva tanto essenziale quanto delicata dal momento che la sostanza estetica del pezzo dipende dalla felicità delle idee assegnate non meno che dall’efficacia della rete che le collega. Non si creda tuttavia che la messa a fuoco delle idee segua temporalmente l’elaborazione di questa rete, la pratica compositiva è sfumata e variabile: alcune idee nascono subito, quindi prima di sapere dove verranno collocate, ovvero quando saranno enunciate e quindi di quali altre idee saranno l’immediato passato o l’immediato futuro.
Altre invece nascono durante la stessa elaborazione dello “spazio” formale, dall’esigenza di creare rapporti di contrasto o affinità, quindi proprio attraverso in relazione al contatto con le altre idee. L’omogeneità della natura di queste idee, che in origine mi era sembrata una caratteristica importante, ha poi lasciato il campo ad una sostanziale, attenta, libertà: applico il gioco combinatorio-permutativo su qualsiasi elemento del fatto musicale io ritenga significativo ai fini della costruzione del discorso, variandone quindi sia la natura sia la durata. In linea generale posso considerare come idea un “gesto”, una frase più o meno lunga e compiuta, un’articolazione timbrica, un gruppo di altezze o un’intera sezione, e in ciò si rivela il grande potenziale elaborativo – grazie alla sua astrazione – di questo tipo di rete di relazioni.
Non posso qui permettermi di fare una vera analisi, che, tra l’altro, richiederebbe il ricorso continuo alla partitura, anzi, per restare coerentemente dentro l’alveo dell’impostazione fenomenologica, ciò che dovrei fare ora sarebbe rimandare senz’altro il lettore ad un ascolto10. Posso però tentare di descrivere a parole le idee e la loro evoluzione:
- ‘A’ è una frase melodica piuttosto espressiva che fa uso di quarti di tono;
- ‘B’ è un piccolo insieme di glissati di armonici, sempre discendente;
- ‘C’ è una nota lunga e tenuta, al limite estremo del pianissimo, vicina al limite grave dello strumento;
- ‘D’ è un arpeggio in terzine, un gesto che potrebbe forse ricordare gesti simili nelle Suites di Bach;
- ‘E’ è un gesto un poco più rapido, con un’inflessione che, se fosse regolare, richiamerebbe alla mente il Valzer;
- ‘F’ è una figura terzinata regolare, più elaborata, che rimescola altezze assai vicine, in qualche modo derivata da ‘A’, inframmezzata da fermate su note prolungate e armonici;
- ‘G’ è un gesto anch’esso riconducibile ad ‘A’, ma dal piglio deciso e nervoso, ricco di “acciaccature” e bicordi con armonici;
- ‘H’ è una vera e propria “sezione” del pezzo, basata sull’alternanza di un elemento di sfondo (una pulsazione isocrona) e un elemento figurale che alterna nota piena a armonico, con un gesto in qualche modo affine ad ‘F’ ma assai più fisso. La sua
estensione consistente e l’articolazione plurima basterebbero già da sole a farla considerare una “digressione”, una sorta di piccolo pezzo dentro al pezzo, ma la sua caratteristica essenziale è un’altra: la struttura formale di ‘H’, relativamente alla sua parte “figurale”, è concepita utilizzando uno “spazio dei ritorni” analogo a quello che ha articolato la macroforma di tutta l’opera. Ecco il suo schema:
 


Naturalmente qui le lettere (A, B, C, …) hanno una diversa attribuzione, non denotano figure, gesti o frasi, ma coppie di altezze (nota piena + armonico) differenti.
- ‘I’ è un elemento di raccordo (l’unico a non conoscere ritorni) composto prima da colpi glissati quindi dall’esplodere di un gesto frenetico nell’articolazione di note vicine e velocissime che subito rallenta sciogliendosi nel ritorno di ‘F’;
- ‘L’ è il gesto finale, ancora una frase “espressiva” e vibrante come ‘A’ ma ancorata alla nota più grave dello strumento.
Queste le 10 idee dotate di una loro autonoma fisionomia, di un loro carattere. Ciascuna di esse ha una propria “storia” che evolve autonomamente, attraverso ritorni che costituiscono singoli momenti trasformativi di un generale processo di metamorfosi
imposto dall’inesorabile procedere del tempo, con la sua freccia irreversibile. I ritorni sono ‘indicizzati’ proprio perché non sono identici, del resto può mai tornare l’identico? Quand’anche vi fossero le stesse note eseguite nello stesso modo – cosa che avrebbe senso solo nella riproduzione meccanica, non certo nella’esecuzione dal vivo – il solo cambio del contesto della loro occorrenza, di cui ho parlato prima, e il nostro semplice procedere oltre nella coscienza dell’ascolto che continuamente muta, queste due cose basterebbero già a relativizzare, quindi annullare, il concetto di identico11. Di fatto nell’op. 31 nessuna delle idee torna immutata, neanche sulla carta, ma le trasformazioni che ho imposto loro, pur nella ricercata varietà fisiognomica che le caratterizza, convergono tutte in un’unica direzione dello spazio musicale: verso il grave. Ciascuna idea ad ogni ricomparsa è soggetta ad un progressivo inscurimento o adombramento: in questo senso l’idea ‘C’ –la nota grave che compare fin dall’inizio– rappresenta come un punto di fuga, un attrattore12, un anticipo, un monito.
La scelta di questa direzionalità verso il grave non è arbitraria, naturalmente, ma nasce sotto la forte spinta immaginativa suggerita dal VII capitolo del romanzo di Tomasi di Lampedusa, un’opera complessa e ricca di temi, ma che trova nel capitolo finale (l’VIII non è che un’appendice), dedicato esclusivamente alla morte del protagonista, il suo climax artistico e quintessenziale. Il violoncello, dal canto suo, è lo strumento ad arco che conosce la tessitura più estesa, dall’acuto al grave, rimanendo espressivo, ma è evidente che il registro grave è quello in cui lo strumento esprime la sua identità più piena, e insieme il limite finale del suo spazio, il suo “destino”. La prima coloratura semantica che imprimo al pezzo è dunque in questa associazione immaginativa verso il grave = verso la morte, così elementare e ancestrale nel suo simbolismo. Il progressivo procedere verso questo destino non è però diretto e immediatamente percepibile: procede per fasi scandite dai ritorni ed è intersecato da continui rimandi a materiali più acuti. In questo continuo rimando si può leggere una seconda coloratura semantica che richiama il continuo ricordare del principe momenti anche remoti della sua vita trascorsa.
L’ultima giornata del principe è attraversata, inoltre, da un’affascinante metafora sonora: lo scorrere via, graduale e continuo, del fluido vitale, che viene assimilato prima all’inudibile rumore dei granellini di sabbia della clessidra, poi a uno scorrere d’acqua, uno svuotamento del serbatoio vitale sempre più presente e violento fino allo scroscio di un oceano: «sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti»13 ; «Non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui14»; «[…] fu allora che si fece udire il fragore della cascata15»; «[…] si sentì un po’ meno debole, ma l’impeto del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga16»; «E se ne stava lì, immerso nel grande silenzio esterno, nello spaventevole rombo interiore17»; «Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti indomabili18»; «Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingigantì19»; «[…] l’eromper via delle cateratte20», «Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano tempestoso, irto di spume e cavalloni sfrenati21».
Vi è dunque l’idea chiara – quasi un ossimoro – di un crescendo in questo “suono della fine”, un suono interiore che solo il protagonista ascolta e che è inversamente proporzionale al suo spegnimento fisico. Questa idea del crescendo trova naturalmente anch’essa una traduzione nel mio pezzo, anch’essa in modo discontinuo, e conduce al “fortissimo” dell’idea finale ‘L’, anticipato, nel corso del brano, da svariati gesti sforzati. Ma non è solo la potenza dell’immagine metaforica, con la sua doppia direzione immaginativa, ad aver trovato adeguata traduzione – interpretazione, reinvenzione – nel discorso musicale, ma anche il fatto che essa viene reiteratamente ripresa lungo tutto il capitolo: questo prolungarsi delinea come una propria storia, un evolversi autonomo,intermittente e quest’intermittenza si riverbera nel mio “spazio dei ritorni”.
E in questo spazio, nella sua struttura permutativa, si rispecchia anche il rimescolamento dei ricordi del principe espresso nel bilancio dei momenti felici e infelici: il VII capitolo racchiude, in effetti, una veduta d’insieme, una ripresa condensata dei momenti più significativi della vita del protagonista attraverso una successione di immagini, sentimenti e risentimenti che abbandona presto l’ordine cronologico per seguire quello della libera associazione22. Apparentemente ricalcando la consueta idea circa gli ultimi momenti di un moribondo, Lampedusa investe in realtà questo capitolo di una funzione caotico-riepilogativa dell’intera narrazione, e il romanzo, che nel suo senso complessivo delinea la fine di un’epoca, si concentra quindi sulla fine della vita di un uomo, riuscendo a condensarvi e a rispecchiarvi un senso metafisico e universale del finire. Questa caratteristica autoriflessiva della parte di un’opera sulla sua totalità è nota in letteratura come mise en abîme23. Dal punto di vista concettuale, la trovo assai affine al concetto matematico di “frattale” in cui è possibile ritrovare un’identica o analoga configurazione sviluppata contemporaneamente su scale di grandezza diverse.24 Nel mio lavoro questo compito di rispecchiare e riassumere il senso del tutto è affidato alle due idee, ‘B’ e ‘H’ (in contrasto nello schema): entrambe presentano un aspetto frattalico ma lo articolano con modalità assai diverse. ‘H’ fa riferimento alla forma globale, poiché, come abbiamo visto, replica la struttura combinatorio-permutativa dell’opera utilizzando un analogo “spazio dei ritorni”. L’idea ‘B’, invece, che contiene i piccoli glissatini discendenti e iterati continuamente, come un lamento, ripresi anche loro a partire da un’altezza ogni volta inferiore, riassume in sé l’immagine complessiva di una direzione verso il grave, ne è insieme cifra sensibile e simbolica.
 


Note

1 Il termine “intorno”, come altri che si incontreranno in questo scritto, è preso dalla matematica ed si definisce come l’insieme dei punti “vicini” a un punto dato. Ogni intorno individua un insieme differente di vicini.
2 Un’idea simile è espressa da R. Ingarden in L’opera musicale e il problema della sua identità :«la determinazione qualitativa, la colorazione, si potrebbe dire, della fase temporale, dipende dall’intero ambito, accessibile nell’esperienza immediata ad un dato soggetto cosciente, dei processi e degli eventi che si svolgono in quella fase; essa dipende inoltre, in un particolare modo sintetico, dalla colorazione temporale del momento precedente, non ancora svanito nell’”adesso” attualmente vissuto dal soggetto. (testo orig. Varsavia 1966, trad. it. Flaccovio, Palermo, 1989, p. 148).
3 Ho osservato varie volte cambi di questo genere studiando analiticamente Brahms, Beethoven, Haydn, Bach, etc. Riuscire a ripensare, a interpretare sotto nuova luce alcuni sottili meccanismi compositivi della grande tradizione è per me una sfida appassionante.
4 E. Husserl, Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), «Husserliana» Bd. X, Nijhoff, Den Haag, 1966, tr. it di Alfredo Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano, 1981.
5 Ibid., p. 58. 6 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 19597, p. 288.
7 Ibid., p. 296.
8 Ibid., p. 297.
9 Un altro appuntamento con la necessità travestito da incontro fortuito, con un’altra figura femminile, anch’essa figura di seduzione e di morte, si trova nei Fleurs du Mal di Baudelaire (A une passante, XCIII dei Tableaux parisiens). Lampedusa – già studioso di Stendhal, Mérimée e Flaubert – doveva probabilmente averlo nella propria memoria poetica.
10 cosa che, per altro, sarà sempre possibile fare dal sito www.sergiolanza.wik.is.
11 A questo riguardo Ingarden fa due riflessioni interessanti che non sembra tuttavia correlare. Per distinguere quella che chiama «la forma concreta dell’esecuzione» in cui si riflettono «i cambiamenti che si compiono nei contenuti degli aspetti uditivi esperiti», ovvero all’interno della dimensione soggettiva e istantanea dell’ascolto, dall’esecuzione stessa, egli introduce il concetto di “concretizzazione” (p. 89 op. cit.). Quando poi affronta la tematica della ripetizione, distinguendo una “forma” concreta, individuale e sonora dalla forma astratta che si ripete, Ingarden precisa che «il concreto sostrato sonoro» di queste forme «può essere entro certi limiti diverso senza che per questo esse perdano la propria identità» (p. 177). Proprio nel rilevare la sostanziale identità imposta dalla riconoscibilità di queste Gestalten, rispetto alla diversità che interviene a distinguere le varie occorrenze di una medesima “forma” in virtù della loro «diversa collocazione nel tempo» Ingarden avrebbe potuto forse utilmente rimettere in gioco la propria idea di concretizzazione per ricontestualizzare il discorso sulla ripetizione delle “forme” dentro l’alveo più generale dell’esperienza soggettiva di questa ripetizione.
12 In matematica si dice “attrattore” un insieme verso il quale evolve un sistema dinamico dopo un tempo sufficientemente lungo, ad esempio il punto di riposo finale di un pendolo.
13 Il Gattopardo, p. 285.
14 Ibid., p. 285.
15 Ibid., p. 287.
16 Ibid., p. 288.
17 Ibid., p. 290.
18 Ibid., p. 291.
19 Ibid., p. 295.
20 Ibid., p. 296.
21 Ibid., p. 297.
22 Ibid., pp. 294-296
23 Cfr. Lucien Dällenbach, Il racconto speculare. Saggio sulla «Mise en abyme», Pratiche, Parma, 1994.
24 La teoria dei frattali è una teoria matematica elaborata da Mandelbrot verso la fine degli anni ’70 (cfr. Benoit B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali : forma, caso e dimensione, edizione italiana a cura di Roberto Pignoni, G. Einaudi, 1987). Il concetto di autosomiglianza morfologica, però, è assai più antico e intuitivo (cfr. J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, Guanda. Milano, 1983). Per una disamina di come il concetti di frattale e autosomiglianza entrino in gioco nella musica si veda il mio Il concetto di ornamento in musica. Tensioni ed estensioni, in "De Musica", VII, 2003, §, Internet, <http://users.unimi.it/~gpiana/dm7idxrd.htm>

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