Carlo Serra
Il pensiero della musica come pensiero dell’origine


Tratto da Eugenio Trías Il Canto delle Sirene, Tropeismi, Marco Tropea Editore, Milano, 2009.
Si ringrazia l'editore per aver concesso la pubblicazione di questo testo


Introduzione: Musica del Limite come forma estetica


§ 1 Figure senza paesaggio

Il libro che vorremmo presentare è attraversato da una sola domanda: cosa ci racconta la musica, o meglio, quali categorie mette in gioco la pratica dell’ascolto? Cosa si nasconde dietro all’emozione musicale? La filosofia ha cercato di rispondere in molti modi a queste domande: per la cultura pitagorica, nell’ascolto della musica si preannuncia la ricerca di un ordine matematico, che sostiene, in modo nascosto l’articolazione del mondo della natura, in Platone la musica è passaggio essenziale nell’educazione filosofica, e nell’articolazione del pensiero, nella filosofia aristotelica il tema viene sviluppato, partendo dalle forme analogiche messe in gioco dal rapporto fra forma e materia, movimento e forme della percezione.

La potenza allusiva della musica, la sua capacità di suggerire la via d’accesso ad un ordine nascosto, che sa mettere fra parentesi il piano illusorio della rappresentazione diventa essenziale nella filosofia di Schopenhauer, dove il fluire della musica è la via d’accesso per entrare nel mondo della volontà, per farne propria la pulsazione più intima e nascosta, in una contrapposizione metafisica fra gli appetiti suggeriti dal mondo della rappresentazione e del visibile, che si contrappone alla dimensione elusiva dell’udire. Una semplificazione di questa contrapposizione è il dono, e l’enigma, che Nietzsche ha consegnato alla modernità, un enigma che chiude lo Zarathustra, e che troverà risonanza nella lunga perorazione sul significato della natura, e del mondo, che attraversa la Terza Sinfonia di Gustav Mahler.

Eugenio Trías ha una propria risposta al proliferare di questi temi, che stringono il piano del razionale alle inquietudini del sensibile, e ce la dona in un libro che apre una prospettiva fertile per gli studi di Filosofia della musica, presenti in modo sempre più pronunciato nel panorama degli studi di estetica: un motivo di più, per salutare con profondo interesse la ripresa di contatti filosofici fra l’Italia, e un paese di ricchissima tradizione culturale come la Spagna. In questi anni, anche grazie alla mediazione della Società Italiana d’Estetica, si sono rese disponibili opere di notevole interesse, come la Teoria dell’arte di José Jiménez
1. Nel caso di Trías, il lettore italiano conosce già L’artista e la città pubblicato nel 2005 da Le Lettere, oltre al vivacissimo interesse manifestato da Massimo Recalcati, nel suo Il Miracolo della Forma. Per una estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, 2006, per l’interpretazione che il filosofo spagnolo impone alla categoria del perturbante freudiano, come condizione e limite dell’estetica2.

Canto delle Sirene ha il respiro di un’opera estrema, di una riflessione che si spinge al limite delle proprie possibilità, e di un grande atto d’amore per la musica: siamo di fronte ad un trattato di complesso, che vuol giocare la carta di un esperimento di pensiero, di un momento utopico di riscoperta del senso nascosto di tutta concettualità musicale, come accade, del resto, nella sezione musicale dello Spirito dell’Utopia blochiano.

 Articolato su due ampie sezioni, una ricognizione storica che si estende dalla nascita del teatro musicale nel primo barocco sino agli intrecci che legano la drammatizzazione dello spazio musicale all’interno del problema della plasticità della materia nella riflessione del secondo dopoguerra, ed una coda filosofica che vorrebbe esplicitare i presupposti ontologici su cui prende forma la riflessione sulla musica intesa come propedeutica filosofica, il testo fa convergere i due rami in una sezione finale in cui l’intreccio contenutistico si esplicita in forma programmatica, e conclusiva. Lavoro esuberante, pieno di punti di fuga concettuali, tormentato, come si addice ad una riflessione profonda su di un’arte, che concretizza il senso di un lungo percorso estetico, che si è mosso per almeno trent’anni, il Canto vive in una scrittura ricca di immagini, e mossa da una fremente tensione teorica.

L’aspetto tensivo emerge anzitutto sul piano stilistico: per quanto le sezioni si presentino separate nell’architettura del testo, fin dall’inizio il lettore avverte che ogni pagina vive, muovendosi all’interno di una grande densità di riferimenti incrociati, di vie accennate, interrotte e riprese più volte, in un continuo gioco fra prese di posizione esplicite ed implicite, che lo impegnano in un percorso di lettura spiazzante e generoso. La lettura scorre rapida, in un paesaggio fatto di suggestioni critiche, di osservazioni di ascolto, di annotazioni interpretative, che hanno freschezza tanto per il semplice appassionato di musica, che per il musicologo più smaliziato, evocando prese di posizioni imprevedibili, secondo la tradizione del viaggio formativo, così caro anche alla letteratura del secolo scorso.

Come ricostruire il senso di un esperimento, che si riallaccia continuamente alla terminologia tecnica legata all’analisi dei processi generativi nella forma romanzesca
3, come attestano le espressioni spagnole quali retablo, argumentar, argumentos, legate alla costruzione della struttura del racconto, ai modi di sviluppo dei suoi nessi interni, al gioco di giunture che li spezzano in nuove connessioni? La scelta di quel lessico sembra alludere ad una specularità con le pratiche della composizione musicale, con quanto dicono termini quali sviluppo, ripresa, tema, inversione, immagini che traducono le pratiche narrative soggiacenti ai processi articolatori delle stesse forme musicali: l’idea di un percorso narrativo attraverso la musica merita di essere chiarito, prendendo le mosse da questo parallelismo.

Proviamo a pensare all’elaborazione di un bozzetto, di quei piccoli giochi narrativi, che prendono forma quando, con una matita, cerchiamo di evocare un paesaggio su un foglio di carta. Il bozzetto è l’apertura di una storia, il suo sviluppo è lo sbocciare della sua traccia: dove ora vediamo solo un inseguirsi di linee tratteggiate, presto emergerà l’evocazione volumetrica di un corpo, dove si addensano i segni più sottili, vedremo il delinearsi di una forma, che verrà specificata, ridotta, quasi che quel movimento delle linee intorno al contorno voglia delimitare lo spazio di possibilità che stringe la collocazione, o la presenza di un oggetto: tutto è fluido, la monocromia del supporto sembra già in movimento, anche se muta immediatamente di senso, a seconda dell’orientamento spaziale che vogliamo dare alla figure che andiamo tratteggiando, delle loro dimensioni, dei loro rapporti reciproci. Lo sfondo si limita sempre di più, in modo direttamente proporzionale all’orientamento progressivo, con cui limitiamo le posizioni dell’oggetto che stiamo ritraendo. L’individuazione di questa regola segna la prima frattura nella continuità del supporto: all’emergere delle forme, si ridisegna, e, come contesto, ospita una serie di variabili relazionali, che vanno restringendosi sempre di più.

Mettiamoci ancora nei panni del bozzettista, che cerchi di tracciare un paesaggio: con lo sguardo, ci metteremo alla ricerca di una serie di regolarità, dal profilo orografico dei monti alla piatta orizzontalità del mare, formanti che si collocheranno come bordoni, per garantire lo sfondo o l’ambientazione delle cose che popolano il segmento di mondo che vorremmo catturare: quel ritaglio si stenderà all’interno della traccia offerta da quel contesto, mentre il sopra e sotto si faranno riferimento ambientale per le posizioni degli oggetti, o dei personaggi, che andranno a riempire il quadro. Il paesaggio è così animato da una linea dell’orizzonte, che è, al tempo stesso, lontano e incombente, profonda e sulla superficie, in attesa dello scorcio prospettico, che, perforandola, organizzerà il ritmo narrativo di quanto accade sulla tela. La pittura userà quello sfondo come un collante che tiene unite le figure della narrazione, ospitando la sezione del mondo che essa vuol raccontare: lo sfondo fa parte, a tutti gli effetti della trama narrativa, ne costituisce l’orizzonte che ne garantisce il respiro, ne gradua le intensità cromatiche e dimensionali. Se il dipingere è costruire un racconto che prende le mosse dalla teatralizzazione di uno spazio che ospita, modella, suggerisce (da qui l’importanza della scelta dello scorcio prospettico). Lo sfondo suggerisce il clima in cui vivranno le cose ritratte, nello stendersi di una tinta narrativa che ne orienta il senso, prendendo forza nel tessuto di nessi e di rotture, che sboccia nel rapporto costitutivo con la figura.

Lo sfondo vincola: solo muovendo da lì, prenderanno forma tutte le relazioni che legano gli oggetti catturati dall’immagine quali peso ottico, intensità cromatica, gradienti di vicinanza e lontananza dallo spettatore, che si ritagliano in quella matrice spaziale, in capace di accoglierne la corporeità, volgendola immediatamente in principio formale. Ma cosa accadrebbe se lo sfondo non si sviluppasse esplicitamente, se le figure si muovessero sospese, in una costellazione che prende forma lentamente, illuminandosi quasi per intermittenza? La figura, l’oggetto, ci verrebbero incontro, sviluppandosi in una spazialità torbida e avvincente, tracciando scie, da cui potremmo solo immaginare i contorni scossi in uno spazio mobile, cangiante, che, se da un lato sembra spingere gli oggetti a prendere una determinata forma, dall’altro lascerebbe emergere una tensione all’irrisolto, come accade quando guardiamo il movimento di una cometa nella sfera del cielo notturno, che rivela, di colpo, la sua impenetrabile profondità.

L’immagine orfica di un buio, che attende la luce per svelare tutta la sua profondità, che accoglie la traccia luminosa per portare in evidenza la propria oscurità, può introdurre al clima emotivo mosso da Il Canto delle Sirene che ha la forma di un racconto, il cui sfondo prende forma lentissimamente, e il cui senso si lascia cogliere solo alla fine. Il senso del narrativo, infatti, nasce nel segno di un drastico rovesciamento dell’ambientazione, che si costruisce pian piano, ostinatamente, circondando l’aura della scia di storie narrate, che coincide con lo snocciolarsi dello sviluppo storico della storia della musica da Monteverdi a Xenakis, dal rapporto che il suono al senso delle parole che essa deve illustrare, fino alla costituzione materiale dello spazio sonoro. I temi proliferano attraverso le figure, i compositori sono vettori per problemi, il cui senso ultimo si svelerà solo alla fine: come in un affresco, gli episodi e i personaggi, trovano compiutezza solo nella circolarità della storia che animano.


Si apre un paradosso: apparentemente, ci si fa incontro un paesaggio con figure, le figure sono rappresentate da una grande galleria di compositori, i compositori della nostra tradizione, in viaggio, spinti da un proprio contesto problematico che li colloca rispetto allo sfondo in cui si ritagliano le proprie voci. Lo sfondo, che ne anima i cammini, in perigliosa navigazione, non può fissare orografie, ma si nutre, come accade nell’Odissea, dello svelarsi del cammino, del lento mettersi in moto del cammino narrativo: non vi è un qui ed un ora che debbano essere occupati, ma è il loro stesso movimento a disegnare rotte, a segnare priorità, a stabilire relazioni, quasi che il percorso del viaggio fosse un ricettacolo aperto in tutte le direzioni, disposto ad accettare tutte le divagazioni, di cui si nutre l’essenza della nozione di viaggio. Sul piano più profondo, le figure sono senza paesaggio, perché ognuna spinge la linea dell’orizzonte più in là, rimodella un mondo proprio, si fa immagine riflessa, di un ordine che può esistere solo attraverso la stratificazione dei punti di vista che lo vanno esplorando. Ogni figura di Canto delle Sirene, prima di eclissarsi, di allontanarsi verso il proprio orizzonte manda un messaggio, lancia il filo di una trama, ma il racconto definitivo non sta nella somma delle trame, ma nel senso di quello che manca, necessariamente, per completarle, per dar loro uno sfondo unitario: se, nel percorso, ciascun compositore ha una voce, un progetto espressivo che si snoda attraverso la concretezza di una individualità, e se ogni voce, per assumere significato, deve evocare, aristotelicamente, un’immagine, progetto espressivo e dimensione prelinguistica sono saldate l’una nell’altra, vi è un’emozione nella forma, che rimanda ad un’espressività consapevole, progettata, e ad una irriflessa, che cerca dialetticamente il senso della propria posizione, rielaborando quanto le arriva dal passato.

La figura diventa la condizione di possibilità per quella che la segue, come in ogni processo dialettico di tipo idealistico, ma qui la sua risonanza, lo sfondo che dei problemi poetici che ne muovono l’opera, non è il momento di uno sviluppo, ma l’eco di una nostalgia, di qualcosa che il pensiero ha perduto, ed ha, nello stesso tempo, continuamente sotto presa, come un principio che vuol lasciarsi ascoltare, attraverso il suono. Un piano inesprimibile o una dimensione dell’ineffabilità, attorno a cui il pensiero dovrebbe attorcigliarsi? No, semplicemente un pensiero nascosto, che opera dentro all’opera musicale, e che dà ragione dell’attrazione con cui la musica ci porta all’interno dei propri problemi compositivi, un pensiero filosofico scritto in un altro modo, o, ancora meglio, la prosecuzione della filosofia con un altro mezzo.

Il personaggio della storia, così, non è una vettorialità storica, alla ricerca di se stessa, del senso delle proprie posizioni, come accade frequentemente nei modelli elaborati dallo storicismo, ma, un’istanza espressiva, cui corrisponde un pensiero musicale che è già modello concettuale: il viaggio filosofico è la storia di un bisogno, secondo un modello platonico, che prende forma esplicita nel Simposio, ma, alla fine del viaggio non troveremo né bene, né amore, ma la ricostituzione dell’istanza espressiva stessa, assieme all’inseguirsi delle tracce dei costituenti dei concetti formali, che sostengono quella struttura espressiva.

La natura simbolica della musica si radica proprio in quest’unione, che si concretizza nelle figure della Berceuse e del Requiem, dimensioni di una ritualità condivisa, riconosciuta per la sua capacità di accompagnare il momento della socialità, trascendendolo, proprio come accade in quel passaggio dalla veglia al sonno, o dalla vita alla morte, che fa da sfondo ai temi della speculazione ritmica nel Platone delle Leggi, dove il ritmo proteggeva e cullava chi doveva ritornare in sé, dopo la celebrazione dei misteri. La melodia, e il ritmo che la sostiene, permettono che si ritrovi il proprio ordine interno, dopo l’estasi dionisiaca, aprono la via perché si possa tornare a sé, e mostrano la propria fecondità proteggendo la transizione fra i due stati: per farlo, cullano come una nutrice. La transizione ritmica assume la forma di un lentissimo moto pendolare, articolando un movimento omogeneo, uguale a se stesso, che si colloca fra stasi e moto infinito, abbracciandoli entrambi.

Possiamo dirlo meglio: stando sul limite di entrambi, muovendosi fra i due estremi, per neutralizzarli: portando l’oscillazione, o il cullamento, ad un’intensità troppo forte, sollecitando un po’di più, spingendosi aldilà del limite della morbidezza, quel movimento perderebbe la propria rilassatezza interna, diventando fattore di turbamento per chi va sedato, mentre, per lo stesso motivo, rallentando la scansione, perdendo intensità o ampiezza, il cullamento si farebbe statico, si arresterebbe, mentre la sua forza sta proprio nella sua lenta allusione ripetitiva all’idea di un infinito. Una figura estetica del moto, che si riempie di significato cercando un equilibrio, un limite, fra finito e infinito.

In Triás ogni figura, ogni compositore è, in questo senso, incompleto, e non aspetta, non può aspettare, un completamento: per il piacere degli storiografi, questo accade anche nel caso del classicismo viennese, la pienezza di quella stagione, non aspetta né una redenzione, né una giustificazione o un movimento che la proietti in avanti. La figura entra in polifonia con i limiti interni, che sostengono la giustificazione estetica del proprio lavoro, alludendo ad un panorama filosofico in cui essa si muove, respira, ma che non può mai esplicitare: non una storia, dunque, ma l’estratto di un diario, meglio ancora un immaginario libro degli amici, costruito sulla traccia che la voce di ogni compositore lascia nell’ascoltatore, o nel filosofo che la vuol raccontare, a partire dalla messa in gioco del coinvolgimento emotivo che le risonanze evocano.

Siamo, allora, di fronte ad un romanzo di formazione, in cui lo sfondo si disegna pian piano, per farsi ripensare nella sua totalità, o ad una storia per figure, come accadeva per quel meraviglioso teatro del mondo, che sembra animare tante pagine ispirate della speculazione hegeliana? Tale parallelismo si erode dall’interno, perché sarebbe sbagliato vedere nel movimento delle figure, nei destini concettuali dei compositori, la messa in movimento di un processo logicamente unitario, anche se nello stesso Hegel l’idea di romanzo di formazione rimane fortissima, in grado di assorbire la formazione e lo sviluppo del bello, del brutto, del concreto, dell’ideale, del materico o del formale, come accade nelle grandi pagine dell’Estetica: nel Canto manca l’evocazione dell’avventura di un unico modello concettuale, ma esiste la stessa tensione verso una riformulazione della comprensione estetica del musicale, un desiderio di riappropriazione della dimensione del sonoro che muova dal piano semantico a quello formale, dando ragione delle sue stesse condizioni di possibilità.

Potremmo parlare del desiderio della costruzione di un argine, di una cornice, in grado di produrre un’angolatura, attraverso cui far propria l’essenza del musicale, che accetta la forza di evocazione emotiva del suono, ma che, proprio come in Hegel, mira ad una riflessione che, in qualche modo, sappia oggettualizzare l’emozionalità dell’ascolto, rifiutandone la pura identificazione emotiva
4, che è un’ineludibile punto di partenza, per arrivare al senso, al modo cioè in cui i contenuti semantici del testo trovano un loro modo di rappresentazione nel suono stesso. In Hegel l’ascoltatore compie questo viaggio contemplativo, in profonda solitudine, fiero della sua capacità di trattenere l’emozione, per arrivare all’analisi della forma drammaturgica e sonora, che lo va scuotendo, in un lungo percorso che nasce dalla analisi della natura del suono: nel filosofo spagnolo, al contrario, questo percorso rivela il proprio senso alla fine del viaggio, e trova il proprio fondamento nella natura allusiva del suono stesso, alla dialettica che lega i suoi costituenti.

E’ per questo motivo che Trías rifiuta di chiudere la riflessione sulla musica, a partire dalla presunta difficoltà di ascolto della musica contemporanea, evocando la circolarità del suo destino nell’epoca della tecnica, o la sua natura linguistica, come comoda forma giustificativa del senso di una sfrangiata vicenda storica, come accade in tante, deprimenti, pagine dell’ermeneutica contemporanea: la musica ospita un pensiero, ma quel pensiero non è rotto da una dialettica interna, che non ne permette la traduzioni in banalizzazioni semplificatorie. Correndo verso il linguaggio o verso l’architettura, la vicenda della musica non riorganizza attorno a sé soltanto quelle ricchissime sedimentazioni di senso, che configurano la sua vicenda in senso culturale (dall’organizzazione dei rami del sapere nel Trivium fino al suo contatto con l’esperienza della teatralizzazione dello spazio in Wagner, Mahler, Stockhausen o Le Corbusier), o del corpo, coma accede nel melodramma, ma racconta qualcosa della sua stessa essenza, del paradosso di un oggetto fantasmatico, fatto di suoni, capace di costruirsi attraverso reticoli architettonici, retti da numero e materia.

Come in tutti i romanzi di formazione, di cui il Wilhelm Meister goethiano rappresenta un modello inesauribile, vi è, nel Canto delle Sirene, un doppio registro, che fa continuamente avvertire la propria tonalità, per tutto lo sviluppo dell’opera: sulla superficie, vediamo scorrere le figure dei compositori, figure che vanno componendo, per adombramenti successivi, le linee frastagliatissime di un paesaggio in continuo divenire, in cui musica e pensiero musicale, tentano di raggiungersi, dialogare, riconoscersi, mentre sullo sfondo, dietro al cartone che traccia i caratteri di ogni compositore, vediamo svilupparsi una forma di pensiero filosofico, che non scavalca le singole figure, ma, in qualche modo, ricostruisce un tessuto di domande, che sostiene le pratiche musicali, a cui i compositori danno sostanza.

§ 2 La via del mito come apertura al concetto

Quale sarà l’esito finale di una storia di voci, di una polifonia di eco che si inseguono, alludendo ad un significato comune, tutto da rivelare, se non lo sviluppo di un mito, di un grande racconto delle origini, che fissi i caratteri essenziali del musicale, gli elementi permanenti che gli sviluppi della storia non possono intaccare, ma da cui sono essi stessi messi in gioco? Il nostro problema va modificandosi, puntando ora all’individuazione del carattere della musica, del suo modo di essere originario, che muove e rimodella lo sfondo storico della sua vicenda: stiamo cercando un’idea di musica, seguendo un poco il modello del grande racconto platonico, che narra senza svelare, che ci racconta, ad esempio, il destino dell’anima, partendo dalla caratteristiche immutabili del suo carattere. Lo sviluppo romanzesco non può che farsi lettura mitologica della musica, che, nella ricerca del fondamento concettuale della musica, non arretra nemmeno di fronte alla refratterietà narratologica del ventesimo secolo, per cercarne i tarli poetici (si pensi alle pagine ammirate che il filosofo spagnolo dedica all’opera di Boulez, alla poesia dell’insterilimento), i nessi utopici con il passato, e i cartoni immaginari, su cui si ritagliano il profilo dei vari - ismi, che ne accompagnano la vicenda.

Sospesi, guardiamo a quella vicenda da un oblò amplissimo, rimodellato sulla sensibilità musicale di un filosofo, che ci permette di coglierne gli elementi essenziali. Si punta così alla ricostruzione dei problemi filosofici, di cui la composizione musicale ci offre l’immagine, per riconciliare l’area problematica dentro a cui si muove il dipanarsi delle pratiche compositive con una teoria musicale.

Dobbiamo ricongiungere il pensiero filosofico al processo di sviluppo della storia della musica, anzitutto penetrando nella sfera di problemi tecnico – espressivi, in cui risuona la produzione di ogni compositore, ma tale lavoro è preliminare ad un’altra pratica filosofica: l’autore ci sollecita continuamente a non accontentarci di quanto viene mirabilmente raccontato, per cercare quello che manca nella storia della musica, i punti di scacco, i presupposti non esplicitati, in altri termini quella costituzione di orizzonti possibili, che sta sullo sfondo di ogni pratica compositiva, e che, esse, consapevolmente, non sanno esaurire.

Su questo terreno, si collocano dei pensieri impliciti sulla materia sonora, sulla forma , sulla drammaturgia, che entrano in polifonia con snodi cruciali del pensiero filosofico. Il concetto di limite, di dialettica, di materia, di fecondità della forma, di opposizione, di cui la musica preserva, dentro ai modi della propria organizzazione, una traccia nascosta. Canto delle Sirene vuol portare alla luce questo orizzonte implicito, questa orma silente, e il destino del lettore sarà lo stesso di Odisseo: non potrà ascoltare il canto delle sirene, se non incatenato ad un vincolo, ad un limite che preservi la bellezza illusoria di quel canto, salvando la memoria o le ombrosità che esso evoca. Potrà narrarlo solo facendolo proprio, rievocandolo nella distanza, nelle torbidezze del ricordo, come accade nel racconto che Odisseo ne farà a Penelope.

Nel gioco narrativo, la composizione è avventura come forma di pensiero, che si imprime come un sigillo nell’elaborazione di materiali musicali, la cui messa in forma mette consapevolmente in gioco un denso tessuto di problemi concettuali, che trascendono l’orizzonte del compositore, che cerca di catturare le figure che la sua poetica del suono lascia emergere: il ritmo e il tempo, la storia e il mito, la poesia e il sentimento, in un rigoroso processo quasi genealogico, dove dietro alla concettualizzazione musicale, alla messa in forma della materia sonora, per sua natura debordante e sopravveniente
5, si lascia cogliere l’origine intermedia, bastarda, fatta di pensiero e di immaginazione, della pratica che plasma le figure musicali, le loro forme, il processo interno della loro articolazione.

La musica è pensiero dello spazio e dell’ambiente, del tempo e della sua messa in forma nel ritmo, del suono come oggetto ideale e come risuonare concreto di corpi sonori, della fibrillazione materica e della sua trasposizione immaginativa, ossia della matericità che essa sa evocare, attraverso le sue risorse timbriche, e, da qui, delle infinite personificazioni concettuali con cui il suono incalza la nostra immaginazione: una torsione metaforica che, per ogni compositore, si fa via per pensare il mondo, per ricostruirlo, ricorrendo ad un’ontologia elementare, fatta di suoni e di evocazioni simboliche.

Grazie all’intensa tensione demiurgica, che corre per tutta la lettura del libro, vediamo la musica trasformarsi in qualcosa di selvaggio, anche quando disegna la continuità dello spazio e del tempo attraverso la loro messa in forma, o possiamo cogliere la sua natura razionale, anche nei momenti di espressività più esasperata: l’arte dei suoni si muove costantemente fra questi estremi, ma, a differenza di Nietzsche, non potremmo dire che quel movimento sia la sua essenza, perché è la stessa forma musicale che vive in un perenne movimento, in cui, tuttavia, si fa consapevolmente questione delle tensioni che ne tengono in forma i materiali. Il musicista – demiurgo ne è consapevole: se la storia della musica si è fatta enorme romanzo di formazione, se i suoi protagonisti sono davvero monadi che cantano, attraverso cui pensiamo, compositore per compositore, la totalità di un mondo in perenne divenire, le pratiche compositive non sono altro che laboratori nascosti del concetto.

La musica è un modo per illustrare una dialettica fra le idee, ed i modi della loro composizione. Nel pensiero musicale che emerge dal lavoro dei compositori, Trías, vede il riflesso di una dialettica concettuale, che la metafisica occidentale lascia cadere, dopo la speculazione platonica: dialettica della incompletezza, rievocazione di un torso di una ridefinizione del concetto di idea, che attende di essere completato ed esplicitato, e perciò esibizione di una direzione di senso, più che di una rigida teorizzazione fra concetti.

Tale posizione traluce continuamente, rimandando ad una autentica nostalgia della teoria, di cui il pensiero musicale porta, in parte inconsapevolmente, le tracce: e traluce con grande coraggio nella decisa presa di posizione contro l’atteggiamento di cinico rifiuto della teoria, di elogio del disimpegno e del gioco linguistico fine a se stesso che accompagna tanta parte del pensiero post-moderno, con un tono che si accende fino a toccare il registro della perorazione nella intransigente difesa dell’apparato teorico delle avanguardie musicali del dopoguerra.

Se le cose stanno così, aldilà del successo delle singole pratiche artistiche, il pensiero che verrà ad corre dietro al suono, sarà necessariamente incompleto ed allusivo, ma allusività e povertà rappresentano, nel percorso delle idee che attraversano la storia della musica una grande ricchezza, e la molla della possibile polifonia fra pratiche compositive lontane fra loro, in una lettura che, assieme, sarà all’insegna della metatemporalità, perché i problemi si inseguono tra loro e possono dialogare da sponde temporali diverse e dell’unicità, nel senso che vi è un’essenza del musicale, che lo preserva dallo spappolamento dei generi e delle forme.

La musica è, in qualche modo, un unico campo, ha sempre la stessa essenza, pur rigenerandosi in modo sempre nuovo: mutamento e ripetizione si abbracciano fra loro. Allo stesso tempo, tuttavia, il dinamismo concettuale che attraversa il libro apre orizzonti che si fanno vettori di ricerca del senso, figurazione per figurazione, dilatandosi, giocando con gli adombramenti senza fine di una dialettica, che non porta all’esplicitazione di alcuna essenza del musicale, che non sia il suo stesso punto di fuga verso il pensiero.

Un simile approdo teoretico troverà il registro più eloquente in pensieri in cui concetto e materia siano intrecciati assieme, ritrovando nei miti delle origini, l’armonia della sfere o la città celeste, la linfa che sostiene il recupero del materico del sonoro e dell’ambiente nella vicenda musicale novecentesca. Esiste una sola idea di musica, che tutte le raccoglie: non vi è più spazio per la polverizzazione semiologica delle idee, per un’acritica accettazione delle differenze fra musiche diverse, che, anziché spingere verso una ricerca delle parentele in grado di legar fra loro repertori differenti, si limita ad una elencazione, stantia e piatta, di musiche e situazioni che non riescono più ad aprire un terreno d’analisi, che esca dalla piatta registrazione delle testimonianze e dei contesti d’uso.

Avanguardia e primitivo, antico e moderno, si abbracciano, nel plasmarsi dello sfondo che sostiene lo svilupparsi di un cammino, che ritrova se stesso solo nella ricerca di possibilità di quello sfondo, di quel paesaggio offerto dagli esiti delle continue deformazioni delle estetiche, da cui il filosofo ricostruisce la sfera delle metamorfosi delle idee musicali che nel romanzo svolge la stessa funzione che il bozzettista affidava alla linea dell’orizzonte, per delimitare il senso delle figurazioni che si inseguivano nel quadro.

L’esperienza estetica della musica ci insegna qualcosa, è gnosi sensoriale, nell’ascolto l’elaborazione del materiale ci parla di una storia sotterranea dei concetti, facendo emergere dall’immediatezza percettiva del sensibile, la traccia di un senso nascosto, che ritroviamo in un filtraggio dell’esperienza. Gnosi sensibile non significa processo di intellettualizzazione, perchè il senso dell’emozione musicale e dell’espressivo sedimentano in un rimando continuo, che prende forma nella dialettica stessa dei suoni. Semanticità e materiale musicale si muovono in perfetto parallelismo, non vi può essere asematicità del suono, perché il narrativo è iscritto nella natura architettonica delle forme musicali, dalle più semplici alle più complesse. La musica ci parla, e implacabilmente agita il nostro pensiero, attraverso il lavoro sulla sua forma e sull’organizzazione grammaticale dei suoni che la costituiscono. Ogni struttura sonora è un pensiero aperto, ogni evoluzione della forma, una sintesi che si dà immediatamente sul piano sensibilità, grazie alla forza espressiva del suono.

I nessi interni si riverberano sugli orli che delimitano le figure dei compositori, costringendole ad un fitto dialogo tra loro, e muovendone dall’interno il profilo. Le creature che abitano il loro mondo poetico, le forme in cui si sbozzano le loro idee, si fanno figurazione, delineazioni incomplete che si richiamano tra loro: la nozione di mondo che evoca il teatro mozartiano riverbera ancora nella costruzione mahleriana del concetto di natura, così come quel concetto di natura e di voce del mondo tornerà nella poetica del suono di Stockhausen o nella ontologia sinfonica di Xenakis, in un continuo riverbero, che rimodifica assetti concettuali, valori estetici, riflessioni sonologiche. Ogni lato ne genera un altro, in una continua rifrazione dei concetti, che si ridefiniscono, figura per figura
6, perché le linee di tendenza che sostengono la costruzione dei modelli sonori, delle loro architetture interne, del dialogo che esse intrecciano con il movimento del suono nello spazio e con le sue deformazioni, si sviluppano e si ingrossano, modificandosi dal loro interno: la storia della forma musicale vive in questa continua metamorfosi, in un faticoso lavorio di riassestamento interno, in cui il precipitato compositivo, quei modelli narrativi che si muovono dietro ai contenitori che profilano i cartoni delle forme compositive, come la fuga, la sonata, la sinfonia, il concerto sono stretti in un movimento morfologico che rimanda alla nozione goethiana di natura, di cui possiamo cogliere i contorni, solo nel momento in cui essi vanno implacabilmente mutando le modalità della loro profilatura.

La tensione fra forma chiusa e figurazione in movimento vale per ogni forma della musica, dal Lied alle strutturazioni più imprevedibili della musica contemporanea, e non è legata al processo di evoluzione storica,ma a un conflitto interno, ad una dialettica immanente ad ogni forma di organizzazione del suono, ad un’armonia di opposti, che trova consistenza solo quando nasce un equilibrio fra i limiti che presiedono alla costituzione della figura.

Quest’aspetto, che illustreremo meglio tra poco, si riverbera anche nel fatto che la dialettica interna alle forme sonore si dilata in una crescente drammatizzazione che ormai coinvolge anche lo spazio che circonda il suono musicale, e che trasmette la diffusione: poche letture filosofiche di tale tema chiariscono quest’aspetto, con la lucidità mostrata da Trías. Il suono musicale cerca il mondo: non si tratta di una evoluzione delle sale da concerto, della trasformazione del teatro d’opera o di una semplice modificazione del rapporto acustico fra fonti sonore, ma di un movimento che va dall’interno della forma verso l’esterno dei suoni estranei, che la circondano. La tendenza che trova una tappa cruciale in una storia del timbro che passa attraverso Wagner, Varése, Cage, coinvolgendo tutte il terreno delle modalità d’ascolto e dei modi di fruizione del suono da parte della comunità degli ascoltatori, trova una prima codificazione nei Gabrielli e in Monteverdi, per arrivare fino a Stockhausen, in cui il suono fa proprio, verrebbe voglia di dire divora progressivamente lo spazio circostante, si mette alla prova nelle sonorizzazioni più estreme, dal bosco mahleriano all’elicottero, in una dialettica di estrinsecazione del modello, che ora dilaga nel mondo.

Ogni paesaggio ha un proprio carattere, ogni sfondo una tonalità emotiva, inconfondibile. L’esito del viaggio sarà mettere il lettore di fronte ad un immenso paesaggio di degradazione delle categorie estetiche, dal bello all’incompleto, dal formale al materico, dal sublime all’indistinto, che rilegge nella tessitura del suono e nelle sue valorizzazioni espressive le categorie estetiche del mondo, delle sfumature sfuggenti che ne costituiscono la tessitura dialettica che sostiene il flusso delle cose, in una prospettiva concettuale lontana dalla ricchezza inquietante dei paesaggi tracciati dall’estetica hegeliana.

Il Canto delle Sirene è il Canto di un pensiero, che riscopre la propria natura musicale. L’insistenza sulla propedeuticità del pensiero musicale, che illumina tracce di un pensiero filosofico dimenticato, va evidenziata fin d’ora, perché è, al tempo stesso, scelta coraggiosa, e singolarmente pesante, nell’evocazione del paradigma di questa opzione dialettica, la filosofia platonica, e della tradizione esoterica dei testi non scritti, che ruota attorno alla riscoperta filologica di Krämer, che ha sollevato, e continua a sollevare, notevoli discussioni di metodo nel contesto della filologia e del pensiero antico.

Nel libro di Trías, naturalmente, assistiamo ad un assorbimento teoretico di quel quadro concettuale, che dovrebbe mirare ad una riplasmazione dei portanti della teoria musicale, e del pensiero stesso: l’insegnamento esoterico di Platone viene così inteso come una matrice in grado di muovere problemi, più che un puro calco filologico, determinando un riverbero del moderno nell’antico, che viene così tematizzato come via d’accesso ad una nuova forma di dialettica che media tra l’idea di limite e la nozione di identità.

Alla fine del romanzo, il cerchio non si riapre, ma si offre, finalmente, come contesto in cui ripensare la totalità della storia, un mondo ambiente, che stringe la precarietà geniale di ogni figura, e, finalmente, la fa propria, la ricolloca negli orizzonti di una storia, un panorama di chiarificazione concettuale, ma anche di opacizzazione estetica, dove il sistema di valori che ci sosteneva all’inizio della lettura, e la concettualità tradizionale dell’estetica musicale, viene riplasmata. Il lettore e l’ascoltatore si incontrano, come accade ad Orfeo in viaggio verso Euridice, guardando dagli inferi verso il sole, dal buio verso la luce. La purezza delle categorie estetiche viene meno, come si perde la nettezza, un poco caricaturale, dei contorni storici, delle epoche della musica rigidamente scandite, e le forme, viste da vicino, perdono qualcosa della nettezza dei loro bordi, apparendo per quello che sono, una forma mitica, che, nella loro stilizzazione, fissano schematicamente dei profili che il movimento ritmico della loro evoluzione deforma e conserva.

La musica concretamente esperita nella pratica filosofica allude così, nel profondo, ad una pratica filosofica proseguita strategicamente secondo altri mezzi, ne sonda le tracce, per ridisegnarne faticosamente i contorni, mentre ogni aspetto tecnico del musicale, liberato dall’involucro linguistico, spirituale, o critico, che la riflessione filosofica abitualmente gli impone, non accettandolo mai per quello che è, ma vedendolo solo come involucro del concetto, prende la parola attraverso l’intreccio magico dei suoni e il modificarsi delle forme musicali. Né la musica, né la filosofia bastano più a se stesse: è solo nella loro mescolanza, che una diventa propedeutica dell’altra.

La degradazione del paesaggio estetico, la fluidità delle forme, sono il riverbero di un pensiero perduto: lo sfumarsi dei contorni dei compositori, come la trama delle funzioni che legano tra loro i personaggi di un romanzo è un gioco necessario, per rendere avvertibile il rimpianto per un pensiero che non ha saputo dar ragione delle categorie che lo costituiscono, e di cui la musica porta inscritte le tracce più vivide. La musica è, al tempo stesso, un pretesto, e l’unica via percorribile, per riavvicinarsi alle radici di una dialettica del limite, in cui si fa questione dell’essenza stessa delle idee, del modo della loro costituzione, delle relazioni fra deintità e differenza. Le forme musicali ci interrogano, mostrandoci tutti questi intrecci, e sollecitandoci a sciogliere tutti questi nodi. L’ascolto è la prima mossa di una partita, che il proprio esito in un contesto che sta al di fuori della musica stessa, esattamente come il filo che regge la marionetta mostra, nel movimento del pupazzo che ci ha rapiti, una dialettica che punta fuori dal palcoscenico.

Verrebbe voglia di dire che, se la musica punta schopenhauerianamente all’essenza di un mondo che si nasconde, il sipario è, da sempre, strappato e visibile: la tensione all’inespresso abita proprio nelle regioni più visibili, e ci invita a farlo proprie, un po’ come accade in certi quadri manieristi in cui la posizione di un dito, di uno sguardo, di un oggetto, ci guidano alla corretta lettura della figurazione visiva degli oggetti, della loro organizzazione narrativa, del senso della costruzione che ne apre il senso della visione. Questa possibilità di visione si lega al respiro dei personaggi della storia, ai nessi interni che costituiscono il loro legame con la musica, e il loro pensiero compositivo.


§ 3 Il respiro dei personaggi

Fra i molti spunti che questo notevole libro custodisce, la parte più cospicua sta nella ricostruzione della Storia della Musica, una storia che prende la consistenza di un romanzo, che agisce per unità chiuse, che si intrecciano fra loro, come nei pannelli di un ciclo pittorico. Tutta la ricostruzione è costellata di riflessioni critiche spiazzanti e singolarmente ben articolate, come se l’orecchio interiore del filosofo avesse la capacità di scavalcare le interferenze della massa imponente di letteratura critica che si frappone fra la dimensione dell’ascolto e la dimensione storica, per andare a catturare direttamente l’essenza del musicale, e la costellazione di problemi che lo circondano, compositore per compositore, aprendo un panorama estremamente vasto e inedito, legato al bisogno di ripensare la figura di ogni compositore in forma propria.

Si vuol catturare il respiro dell’opera, da cui emerge la voce del personaggio, che si fa doppio filosofico dell’autore: ogni compositore è l’incarnazione concreta di un problema. In questo modo, superato il primo brivido legato all’evocazione del fantasma di Adorno (chi non ricordi l’evocazione sconcertante della triade della seconda scuola di Vienna, a cui si ribellava lo stesso Schoenberg, e il faticoso processo di revisione che costella quelle tormentate, e propriamente infelici pagine della Filosofia della Musica, vada a rileggerle all’interno della ricostruzione che Trías stesso ne propone), si entra in quella propedeuticità della musica al pensiero, che sembra fissare la riflessione ontologica su quest’arte. Una propedeutica che allude a un trascendere, una via che ancora vuol essere esplicitata: sembra quasi che la musica non basti a se stessa, che debba cercare al di fuori del proprio fondamento teorico la propria identità reale: siamo lontano dalla grande lezione di Jankélévic, dall’idea che il tempo e la musica possano integrarsi nella nozione di istante, per gettare una luce nuova sul piano dell’esperienza. In un certo senso, i suoni della musica sono ancora muti.

Abbiamo già accennato al fatto che la lettura della storia della musica nel filosofo spagnolo vede continuamente giocare la musica all’interno di un intreccio di problemi, e le figure dei compositori si muovono continuamente tra di loro, poste in questione dai riverberi problematici che entrano in polifonia tra loro, non cercando un completamento, ma una varietà di risposte che illuminino lo stesso problema, da diversi punti di vista.

Vorremmo prendere in considerazione soltanto l’inizio e la conclusione della parabola, Monteverdi e Xenakis, un po’ come omaggio alla grecità che si insegue nel testo, un po’ per offrire al lettore semplici coordinate di lettura. I due testi prendono due diverse vie per affrontare il tema della narratività del sonoro, dal testo, verso il suono stesso, per parlare della concretezza del materiale del musicale.

Il primo saggio ha come oggetto il potere della musica: Orfeo di Monteverdi è lo sviluppo di questo tema al quadrato, perché la lira di Orfeo è immagine del potere della musica, del suo rapporto con la morte, della sua capacità di accompagnare il viaggio dell’uomo verso l’individuazione delle forme della bellezza (non è un caso che si citi il finale dell’opera in cui Orfeo, neoplatonicamente, guarda all’immagine di Euridice come immagine della bellezza dal carro di Apollo. Trías sembra assai affascinato da un’omissione, che taglia la riproposizione moderna del mito orfico, l’esclusione, da una parte consistente della tradizione musicale del finale con lo squartamento dell’eroe, a parte la versione di Stefano Landi. Il concentrarsi della tragedia sulla separazione da Euridice e sul potere evocativo della musica, spingono il nostro autore a delineare un complesso quadro di riferimento rispetto alla teoria degli ethoi, i canti che nella tradizione pitagorica, in virtù della purezza matematica dell’intonazione sanno calmare i turbamenti dell’anima, e, simmetricamente, rispetto alle forme metonimiche dell’orrore nel mondo musicale greco, e, infine al rapporto fra anima, musica e reminiscenza nel quadro composito offerto da tradizione orfica, pitagorismo e primo platonismo.

Avviare un discorso sulla riforma della drammaturgia musicale pensata da Monteverdi, in cui il ritmo narrativo della musica deve sostenere la potenza della parola, rimodellandone plasticamente dall’interno le possibilità significanti, colloca così l’analisi fra due registri.

Il primo, naturalmente, guarderà al processo evolutivo della forme, e metterà in dialogo Monteverdi con ciò che lo precede e ciò che lo segue: si fanno così avanti, in sorprendente parallelismo, le figure del primo Schoenberg e di Gesualdo da Venosa, dove la dissonanza parte dalle esigenze messe in gioco dal testo, ed esplode con crudezza, immagine di una staticità del dolore che emerge, lacerando il tessuto musicale che la circonda. non ancora una teoria della dissonanza o del contrappunto, ma l’uso della dissonanza come caso estremo, come froma espressiva che porta al limite le risorse di un linguaggio musicale, per dar ragione del senso di un testo poetico, per portarlo dentro di sé, assorbendo la potenza inaudita delle parole e dei sentimenti che le percorrono.
Una ricostruzione estetica del destino della musica, della rappresentazione del suo potere evocativo, che lega l’evoluzione della musica e del concetto d’avanguardia al problema dell’espressività: l’aspetto semantico rimodella dall’interno le strutture grammaticali della musica, conducendo prima alla corruzione di un linguaggio per esuberanza espressiva, e poi al ripensamento di un metodo che si lega all’intensità e alla purezza della forma espressiva.

Tale lettura trasforma i profili di figure come Brahms, Schoenberg e Webern, rivendicando la centralità del piano semantico immanente allo sviluppo della loro ricerca formale: l’aforistico, la forma breve, la scheggia poetica, o la riplasmazione della forma sinfonica hanno una radice decisamente più lirica, e semanticamente orientata di quanto non si sia soliti riconoscere. La fusione fra intensità della forma e la potenza dell’espressione, fra movimento plastico della struttura e interrogazione intransigente del materiale, caratteristica di interpreti come Claudio Abbado e Maurizio Pollini, o di compositori come Nono e Ligeti, per citare due figure che avrebbero potuto comparire bene dentro a questo testo, trova un credibile radicamento.

Così, Orfeo non è solo tuffo nel mare euritmico del suono e del movimento armonico dei pianeti, o articolazione netta del canto che sbaraglia l’eco polifonica delle sirene nella navigazione degli Argonauti, ma è anche pietrificazione della musica e dell’anima di fronte al dolore, evocazione della desertificazione e della sterilità nel movimento e nella caduta dissonante delle voci, come emerge dalla drammaturgia di Gesualdo, stupore spaventato di fronte al timbro, come accade per l’Apollo degli Inni Omerici, turbato innanzi al suono della sua lira: all’orizzonte dell’orfismo, e della cultura greca, appartengono così la messa in questione della prevalenza degli strumenti a corda su quelli ad ancia, la prevalenza del discreto sul continuo, e, come mostra il mito di Marsia, le bivalenze inquietanti dell’apollineo. Orfeo prepara così alla rottura dell’identità delle forme, alla valorizzazione rituale della linearità del tempo in senso circolare, come mostrano i tormentati percorsi della reincarnazione delle anime nell’orfismo, e in tanta tradizione platonica.

Veniamo accompagnati sul limite dello sbocciare del secondo livello del discorso. Il potere della musica non è riconducibile solo ad una riflessione sulla forza retorica della musica rispetto al testo, e agli affetti che la muovono, ma la forza della musica è un formante di un intero orizzonte di valori dell’esperienza. Il potere della musica non si rivolge solo al bello, ma anche all’orribile, porta dentro di sé entrambe i lati del problema, e, limitandone uno, ne fa emergere, per contrappasso, l’altro: in nome della razionalità dell’ascolto, e contro i rischi di un ascolto volto al piacere sensibile, Apollo scuoia Marsia, lo desensibilizza, esibendo il suo lato terribile: il discorso sul potere della musica va così a toccare, quasi immediatamente, la nozione di identità, che gioca dentro la concetto di bellezza, di bene, in una involuzione dei caratteri interni di quella figurazione.

L’orrore e la bellezza si stringono fra loro (i miti ferali dello scorticamento di Marsia e dello smembramento dionisiaco di Orfeo sono lì a mostrare le continue interferenze fra elemento celeste ed elemento ferino come modi di essere che si pongono all’origine del genere umano, e della sua sensibilità, fra lato titanico e origine satiresca), e creano, dal loro interno, un sistema teorico di valori, che va a regolare l’aspetto timbrico, scalare, architettonico della forma musicale. La caratteristica bifronte del musicale, il suo scindersi concettualmente verso opposti orizzonti di valore, è un motore interno alla sua concettualità.

Ci sembrava che l’apertura del libro prendesse ad oggetto la nascita del melodramma musicale in Monteverdi, ma la tutta la riflessione sull’Orfeo si è immediatamente volta in colore, nella gradazione emotiva di un saggio critico sulle avventure dell’immagine della mediazione della musica tra vita e morte, uomo e natura, cielo e terra e, di conseguenza, sulla natura formatrice dell’esperienza musicale, nella storia della cultura occidentale: il rifiuto di mettere in musica una delle varianti più significative del mite, la morte di Orfeo ad opera delle menadi, che illumina la sostanziale ambiguità di Orfeo, riflesso delle bivalenze ctonie che caratterizzano Apollo (l’arco e la lira). Il respiro della figura di Monteverdi, la costellazione di problemi che lo circondano, ne sfasano necessariamente i contorni, come in un prisma che moltiplichi i punti di vista che devono ruotare attorno alla figura, mostrandone l’irriducibile molteplicità delle posizioni e dei contenuti, l’ambiguità ombrosa, che la fa scivolare da un estremo all’altro dei limiti della sua collocazione.

Il problema del testo si riverbera all’interno dei tempi drammatici della musica, del ritmo del loro incalzare, che va aldilà del tema dell’intelleggibilità del testo: è, in ultima analisi, il suono ad emergere in tutta la sua drammaticità, un suono che riarticola dall’interno la potenzialità fonetica della parola, e la rende semantica drammaturgicamente, capace di rappresentazione di sé, e delle proprietà sonore che sostengono i giochi determinati dal madrigalismo. Il respiro della figura taglia trasversalmente questo campo concettuale, come accade per l’idea di una drammaticità interna al suono, di una ricostruzione della sua dimensione e dei suoi spostamenti come massa plastica, che accompagna la rievocazione di Xenakis, letto come un continuatore del pensiero della forma sinfonica, quasi una rappresentazione del Sublime, dell’immenso, dell’irrapresentabile, sulla scia di Beethoven e Berlioz. Il pensiero orchestrale del compositore greco cade sotto la presa delle suggestioni materiche di Varèse, dell’evocazione della massa sonora in movimento, della ricostruzione dell’esperienza della spazialità nel suono, e, attraverso essa, del mondo. Rievocare un mondo impone una riscoperta organologica delle possibilità degli strumenti musicali, da quelli a percussione, i più arcaici, a quelli elettronici, fino ad una geniale reinvenzione dell’uso degli strumenti della tradizione, posti tutti al servizio una capacità di rievocazione della materia, dei suoi stati di aggregazione, del movimento che e anima le fibre più intime.

Per ottenere quest’evocazione, Xenakis fa proprie due tecniche strumentali, cluster e glissante. Il cluster è un gruppo di note adiacenti, suonate contemporaneamente: si ottiene così un accordo denso, dissonante, che il compositore fa esplodere contemporaneamente in tutte le regioni dello spazio musicale, a distanza temporale ravvicinatissima, senza soluzione di continuità apprezzabile: usato così, il cluster diventa una rievocazione degli accordi a grattacielo con cui Varése voleva riportare la violenza del materico nel musicale. Il glissando è un passaggio rapidissimo da una nota all'altra, che scivola fra di esse, senza fermarsi sulle note intermedie: è un modo di percorrere il gorgo della continuità dello spazio sonoro da parte della voce strumentale. La voce cerca un corpo: assieme alle tecniche percussive, che scuotono tutta la superficie dello strumento, alle tecniche di scordatura, la scrittura di Xenakis porta la manipolazione degli strumenti musicali ai limiti delle proprie possibilità foniche, per ritrovare qualcosa di simile ad un suono di natura, come accadeva, ad esempio, nella orchestrazione mahleriana. Quali idee nascondono queste tecniche manipolatorie, cosa possono insegnare al filosofo?

§ 4 La ricostituzione del senso del musicale e il concetto di limite

Cluster e glissando: sono due modi per riprodurre la totalità spaziale attraverso la simultaneità delle voci che si affastellano una nell’altra in modo simultaneo, o mediante un movimento che rompe la linearità della distinzione fra suoni, facendoli risuonare tutti, uno dopo l’altro, e rifiutando una segmentazione dello spazio musicale, che si fa grande spirale, che sale e scende, torcendosi attorno ai suoni che la attraversano, rompendo i confini fra un punto sonoro e l’altro. Il suono è un apeiron, un senza limiti, mentre il glissando e i clusters assumono la funzione di opposti (continuità nello spazio, continuità nel tempo), che ne scolpiscono la materia, fecondandola: muovendosi verso l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande (i piccoli intervalli musicali, le frazioni di secondo che separano come periodi infinitesimi il deflagrare delle masse sonore), clusters e glissando diventano figure di un Limite che isola le forme, in questo caso la forma sonora di un brano musicale, in una rievocazione della dialettica evocata dalla tradizione esoterica platonica. Il limite, la dialettica fra grande e piccolo, articola dentro alla materia sonora delle forme, forme che ne generano altre, che verranno trascese, trasformate, in una processualità continua.

Il suono si è fatto metafora di una materia che continuamente si rigenera, in perenne trasformazione, una matrice da cui si sbalzano tutte le forme, attraverso una dialettica in cui infinitamente grande e infinitamente piccolo si incrociano e si attraggono. La lettura del nostro autore conduce così ad un’autentica metaforizzazione del suono, delle opposizioni che abitano il materiale musicale, in immagini per poter pensare il concetto di vita, di spazio e di tempo. La rievocazione del Sublime, dell’immenso e orrido spettacolo della natura nella sua smisuratezza è ad un passo, ma questa suggestione deve contemperarsi ancora con il piano razionale, geometrico e formalizzante, della suggestione architettonica.

Il movimento nello spazio deve prendere forza dalla suggestione sonora, lo spazio ora dev’essere in grado di offrire non solo lo spettacolo della totalità, come quando cogliamo con un solo sguardo la forma di un edificio, ma deve ospitare una molteplicità di punti di vista, che permettano una visione unitaria delle trasformazioni della forma nella spazialità, come accade per gli edifici di Le Corbusier, che offrono prospettive sorprendenti sullo stesso oggetto.

I problemi mossi molteplicità prospettica agita anche Xenakis, rimandando ai vivacissimi interessi rispetto a spazio e architettura, così sviluppati dallo stesso filosofo spagnolo: il Padiglione Philips che vede la collaborazione fra il compositore e architetto greco, Le Corbusier e Varése, è un oggetto cangiante, che muta d’aspetto, a seconda della prospettiva in cui lo sguardo cerca di collocarlo. L’impossibilità di una partizione ritmica, di una scansione dell’oggetto che rimandi ad un’unità modulare, la perdita del riferimento, che va oltre il senso della meraviglia barocca, inclinando verso la suggestione dell’imprevedibilità della piega, cara a Deleuze, entra in polifonia con la natura ontologica del suono: nel quadro della nostra esperienza sensibile, un suono, pur muovendosi nello spazio, è, essenzialmente, un processo temporale, un qualcosa che si dà alla percezione con un inizio, uno sviluppo ed un termine (nell’interpretazione di Giovanni Piana è l’unico oggetto della percezione che si offre in questa forma, e, a ben pensarci, questa definizione ha una sua profonda solidità concettuale).

Nel saggio su Xenakis il problema sollecitato da questa relazione viene ricondotto ad un discorso sul rapporto fra luce, suono, e spazio, secondo un modo di argomentare che sembra riecheggiare le bellissime pagine del secondo libro De Anima aristotelico dedicate al problema dell’ascolto
7: l’architetto, dice Le Corbusier, taglia, tratteggia, scolpisce la luce, irradiandola nei propri edifici, in questo modo l’architettura riesce a muovere in simultaneità ciò che la musica sviluppa in successione, creando un oggetto che accade simultaneamente nel tempo, a partire dalla sua diffusività.

Trías sta proettando il discorso storico verso una dialettica fra idee. L'aspetto diffusivo del suono, in realtà, è la via d’accesso al problema della simultaneità della visione, contrapposta all’analiticità implicita nell’ascolto, che si muove sempre sezione per sezione nel tempo (nessuno può abbracciare un brano musicale nella sua totalità, ma lo ascolta, appunto, attimo per attimo). L'architettura si trascende nel tota simul, nel far accadere tutto nello stesso tempo, proprio per la sua musicalità, i suoi oggetti si danno tutti assieme, si offrono immediatamente allo sguardo, e la musica deve riuscire a prodursi come esibizione in movimento, come spostamento di masse sonore, in modo che il movimento si imponga sulla quiete, facendosi materializzazione architettonica di un’idea musicale. Xenakis si fa immagine di questa relazione.

Il pensiero sulla materia è così l’asse portante del suo espressionismo astratto, di una poetica che narra le tribolazioni di una massa sonora che si fa tempo, slabbrandosi dall’interno, in una riproposizione ontologica della costituzione della nozione di mondo, mentre le relazioni logiche sono fuori del tempo, i reticoli logici che determinano il comportamento della massa sonora alludono a leggi della materia, che possono andar oltre il piano della temporalità eveniente. Il reticolo logico diventa metafora del reticolo spaziale, in cui si condensano le regole di costituzione della forma: riallacciandoci al concetto di limite e di opposizione, potremmo dire che la densità spaziale e la densità temporale, glissando e cluster, nel loro alludere alla processualità temporale del suono e all’immediatezza dello sguardo, che vede tutto assieme, fanno fondere fra loro musica ed architettura. Le due arti collassano fra di loro, mettendo in comune i propri limiti costitutivi, si pensano una attraverso l’altra. Il senso del musicale si fa avanti, come in Monteverdi, all’interno di questa tensione estrema, che ora non lega più musica e parola, ma il suono con se stesso. I personaggi si cercano, proponendo risposte teoriche diverse, agli stessi problemi: il respiro concettuale dell’idea è il lato nascosto dell’unicità della musica, pensata in modo sempre nuovo da chi gioca con le sue categorie. La posizione di Xenakis vive in quest’oscillazione, in questa dialettica delle idee, dove il limite concettuale della spazialità e l’orizzonte eveniente della temporalità, si pensano una attraverso l’altra, spostandosi su un terra di nessuno di cui la pratica compositiva scandisce i limiti. Non vi è alcun superamento, non nasce alcuna sintesi, né si spera in qualche riconciliazione lenitiva, fra le due dimensioni, ma possiamo far esperienza di un limitarsi reciproco, che insegna un altro modo per guardare al proprio fondamento: nessuna dialettica negativa può consolarci, ma proprio ora si fa avanti il senso dell’opera, il pensiero che l’ha percorsa.

La matematica concettuale dell’architettura si concretizza in forma sonora, facendo propria la rivendicazione dell’aspetto sensibile nella percezione uditiva dell’intervallo musicale costruito secondo proporzioni matematiche, che trova la propria radice nell’interpretazione aristossenica dello spazio musicale. L’aorgico e il sublime tendono a precipitare l’uno nell’altro, come estremi che si incontrano in una riflessione della convertibilità dello spazio nel tempo, ma anche il piano della matematica e quello della sensibilità debbono, i qualche modo, modificare gli orli dei proprio confini: questa reciprocità di movimento fra categorie estetiche sembra avere più di una assonanza con il movimento di modificazione delle forme delle idee, che tanto affascinava Deleuze.

Muovendo da queste categorie, che trovano un terreno esemplificativo nel musicale, ma che per molti aspetti lo trascendono, La coda filosofica rilegge tutta la storia del pensiero occidentale, vedendo nella musica un terreno d’elezione, per poter riprovare a render trasparente una via concettuale dimenticata, che, secondo Trías, segue come un’ombra l’evoluzione del pensiero filosofico. La musica dà linguaggio a quel pensiero, l’emozione che suscita in noi è la traccia di un grande pensiero dimenticato, il conflitto tra gli strumenti, fra le figure di Marsia e quella di Orfeo, è un conflitto espressivo, che ci permette di guardare verso una vasta regione dimenticata, verso un terreno originario, che continua a chiamarci verso di sé, con un suono senza parole, con un discorso la cui grammaticalità esce dal linguistico, per alludere alla sostanza metafisica delle cose: il canto delle sirene è nostalgia non più di una dialettica dimenticata, ma di un pensiero utopico, che l’avventura musicale fa finalmente avvertire in tutta la sua potenza attrattiva. Il cono si volge dal passato al futuro, vi è un modo di intendere le idee, e il concetto di limite, che preme per essere esplicitato, preme dietro ai suoni, li anima, e ci porta aldilà del sonoro stesso. Tornando alle origini del pensiero musicale, cogliamo l’essenza del pensiero filosofico, in un anello in cui la grecità ci parla di noi: l’eco del canto delle sirene non ha più le opacità del ricordo di Ulisse, ma riporta l’immagine del mondo e del suono che ne ha metaforizzato il pensiero, o l’eco di un dialogo, che non ha potuto aver luogo, come se la filosofia incontrasse il proprio fantasma.

Prima di congedarci da quest’intreccio di pensieri, vorremo soffermarci su un problema, convinti che la pratica filosofica muova dal dialogo, e viva di domande schiette, per quanto poste in forma semplificatoria. La questione è semplice e potremmo enunciarla così: perché mai la musica deve diventare la metafora di qualcosa? Ancor più brutalmente: per quali motivi il pensiero filosofico dovrebbe scoprire una propria natura nascosta, dentro al musicale, trasformando il suono nel riflesso di una speculazione ontologica perduta?

Il rischio di quest’evocazione, che ci rimanda all’atmosfera di rimorso che dilaga nei dialoghi fra Amleto e il fantasma del padre, è evidente: dopo aver sostenuto l’importanza della concettualità musicale, dopo averne seguito gli esiti ricostruiti in modo tanto stringente, rischiamo di trovarci di fronte non un mondo del musicale o un mondo attraverso il musicale, ma al musicale come maschera del mondo. Maschera, non natura nascosta, allusione illusoria, non concetto, rappresentazione, non idea
8 . Si spalanca di fronte a noi un rischio fortissimo, come accade ogni volta che si formula una grande scommessa teorica, che si tenta di riaprire un problema, con la radicalità che guida il pensiero di Trías.

Una cosa, infatti, è sostenere che la musica viva in un rapporto di forte tensione evocativa del mondo, che nel suono si possa rintracciare una tensione verso il piano della concretezza materiale delle cose, come quando diciamo che un suono è chiaro è o scuro, oppure che l’acuto punge e il grave opprime, per riutilizzare due bellissime espressioni aristoteliche, dove il senso del rapporto tatto – udito è pensato in tutta la sua problematica analogicità, e riportato sul piano espressivo ( è il suono penetrante dell’acuto che punge, mentre il risuonare opaco del grave spinge, opprime) un’altra è ricostruire, come ci sembra faccia il filosofo spagnolo, un’ontologia, dimenticata, a partire dalla musica. Nel caso di Aristotele il terreno del senso è decisivo, per dar ragione dell’evidenza, e questo dà tanta ricchezza speculativa a questi passi, che ancora oggi ci sorprendono.

Non potremmo, allora, pensare che un brano musicale sia portatore, in sé, di una forma di pensiero, che le forme musicali abbiano una propria specularità interna al rapporto con il materiale, e non mediato da alcuna dialettica? Non potremmo rivendicare alla composizione musicale il valore di un pensiero, che passa direttamente attraverso il suono e la selezione dei materiali? Non si tratta di rivendicare un rapporto formalista, in cui tra musica e mondo si crei una scissione, ma dire, semplicemente, che il suono è un mondo, una materia in sé, che può essere esplorata dal suo interno, che gode, insomma, di una propria concettualità, che non riflette altro che l’universo cangiante della propria materia, dei sensi e delle possibilità che essa suggerisce. Un pensiero musicale può essere interrogato filosoficamente, ma trova la propria esplicitazione nella musica stessa, a cui esso deve ricondurre, in una felice circolarità, che insegna molto: dalla musica alla musica.

La filosofia segna una via, ma sa anche ritrarsi, per lasciare parola alla concretezza sonora, a quel mondo di evidenze che nasconde, dentro di sé, la perla di un senso, di un’articolazione interna, che forse attende di essere chiarita nella ricchezza della propria grammaticalità, che non dovrebbe essere lasciata in ostaggio solo all’analisi musicale, alla musicologia, all’etnomusicologia, ma che rivendica che venga riconosciuto la propria natura concettuale. Su questo Trías ha molte ragioni, e promette un esito importante: la parola concetto fa arricciare spesso il naso ai musicologi, agli etnomusicologi, e viene travisata, nelle analisi musicali, come pura ricerca di schemi presupposti, in un ermeneutica della ridondanza che infarcisce l’opera di contenuti non richiesti.

Quei concetti, tuttavia, potrebbero avere una vita propria, come mostra bene il tessuto di analisi, e l’ironia tagliente che corre lungo un’opera come Barlumi per una filosofia delle musica
9 . La posta messa in gioco da libri come quelli che andiamo citando è alta, specie nel momento in cui vediamo un’ala della musicologia e interi rami della ricerca etnomusicologia rimettersi alla ricerca di parametri estetici, attraverso cui ripensarsi, ridiscutere la ricchezza dei propri assetti metodologici, in modo pieno, cercando di lasciarsi alle spalle gli irrigidimenti legati al raccattare criteri estetici dalla storia e all’empirismo impazzito, per rievocare due espressioni crude, ma cogenti, da cui traluce l’implacabile e sorridente giudizio critico del filosofo italiano. Oggi, si va aprendo una crisi feconda, che si esprime in un dialogo interdisciplinare di cui questi studi avvertono un profondo bisogno, e a cui l’opera dialogica di Trías, con la sofferta ampiezza d’orizzonte di cui si fa carico, dona un respiro di grande ricchezza: anche da questo punto di vista, un libro come Canto delle Sirene costruisce un importante contributo concettuale, e lo fa, seguendo la via regia suggerita dall’orecchio interiore di un filosofo imbevuto di musica, capace di uno sguardo penetrante, e profondamente anticonformista, agitando una preziosa dimensione del gusto e del pensiero.

Potremmo concludere dicendo che la suggestione di una ridefinizione interna della concettualità musicale, creativamente operante nel libro di Piana, sarebbe forse in grado di rendere più agevole la visione di quello sfondo, che il romanzo filosofico preannuncia in molti modi, ma che rimane in attesa di una esplicitazione che, nella sua pienezza, rimane problematica. Trías potrebbe obbiettarci, con buona ragione, che, in questo modo, rischiamo di chiuderci in una circolarità interna al suono, mentre l’apertura del filosofico deve mirare all’ampiezza di un recupero in cui il suono del mondo funga da filo conduttore, per un pensiero che sboccia lentamente, verso un pensiero del limite propedeutico ad una forma del comprendere che non può arrestarsi alla tematizzazione del rapporto senso – evidenza: a testimonianza di ciò, potrebbe chiamare le molte linfe che nutrono la sua ricerca, che si muove fra musica, filosofia, architettura, psicanalisi, cinema, cercando di far collassare i limiti di queste arti,e di riaprirne la concettualità, in un’ispirazione socratica di ridefinizione dei confini del sapere. Questa tensione demiurgica è innegabile, portando alla luce una vocazione filosofica di raro coraggio, e un accento assai personale nell’intendere la costruzione di un quadro fenomenologico dell’esperienza estetica.

Si tratta di opzioni estetiche e gnoseologiche, che le poche battute di una discussione non possono esaurire: in fondo, questi sono aspetti che dovrà affrontare il lettore, durante questo ricchissimo viaggio nei meandri di una musica, che, dopo questa lettura, risuonerà in lui, ancora più forte, come accade in ogni vero dono filosofico.



Carlo Serra


Note

1 José Jiménez, Teoria dell’arte, a cura di Fernando Bollino, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2007.
2 Eugenio Trías, Lo bello y lo siniestro, Seix – Barral, Barcelona, 1982
3 L’autore vorrebbe ringraziare Francesca Emanuela Chimento, raffinata studiosa lulliana, per aver rafforzato l’ipotesi interpretativa.
4 Il problema è enunciato con grande chiarezza in G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di Sergio Givone, voll.2, Torino, Einaudi, 1997, vol.II, p.1045. Il compositore non si identifica nel sentimento soggettivo che nasce dalla cose, ma dalla cosa stessa: non si partecipa di un’emozione, ma del modo in cui essa si costruisce e diventa struttura, articolazione, tessuto di regole, fattori che scavano nel modo di sentire dell’ascoltatore, commuovendolo ed educandolo ad un rapporto vigile con l’emozione stessa. Sull’ambiguità di tale tema, vedi la bella monografia di Silvia Vizzardelli, L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel, Bulzoni, Roma, 2000, in particolare pp187 – 248; di grande ricchezza anche Riccardo Martinelli, Tremore e sensazione. Il suono nell’estetica musicale di Hegel in «Intersezioni» 1, Bologna, 1999, pp.73 – 94.
5 Per quest’espressione, cfr. la densa sezione Tempo, e, in particolare, le osservazioni svolte sul suono come fenomeno di evenienza in Giovanni Piana, Filosofia della Musica, Guerini e Associati, Milano, 1991, pp. 130 – 136. Il testo è reperibile on line sul Sito Spazio Filosofico: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/filosofia_della_musica/fdm_idx.htm
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Trías rivendica la fecondità di una continua tensione tra delimitazione dell’idea ed espansione delle forme espressive che la musica modella dal suo interno, e quelle idealità si corrodono continuamente dal loro interno, si limitano e si espandono cercando di arginare se stesse, di fissare la propria identità, in una dialettica interna che le modifica senza tregua: lo scacco del narrativo in Haydn, la nuova immagine del teatro in Berg, il polimorfismo beethoveniano, il senso del mondo in Mahler, fra artificiale e naturale, e la riproposizione dello stesso problema nella musica di Brahms, la suggestione lirica in Webern, l’evocazione della natura in Debussy, la precarietà del bello in Boulez, l’indagine sulle componenti rumorose nel silenzio nell’evocazione del caso in Cage, la rilettura interna da parte Strauss del rapporto senso parola a partire da Capriccio , sono tutte maschere di un estenuante lavorio di ridefinizione dei contorni delle idee,  immagini fuggenti della funzione dialettica del limite, che fissa una figura, solo per arginarne i contorni che, dall’interno, la corrode, in una rivisitazione platonica (si pensi alle tribolazioni che emergono nella definizione di genere nel Parmenide) della ricchezza straordinaria della nozione di idea estetica che, nella modernità, viene rielaborata da Kant.
7 Cfr Aristotele, De Anima, B, 8, 419 b, - 421 a 8. E’ significativo che in queste sezioni Aristotele tratti dei fenomeni uditivi e della natura dei corpi sonori, mettendo in questione il piano tattile (un suono grave opprime, un suono acuto punge) e quello visivo (analogie fra eco e fenomeni di rifrazione), giocando cioè su un terreno analogico estremamente raffinato, e suggestivo.
8 Osserviamo che Diade, Limite, Matricialità sono concetti che operano nel musicale, vi si manifestano, ma non gli appartengono completamente rimandando al piano ontologico o a quella della dialettica interna dell’idea: d’altra parte, è vero che nozioni ad esse connesse operano attivamente nella riflessione platonica, come accade, per esempio, per la delimitazione degli intervalli musicali dal continuo attraverso la dialettica grande - piccolo, rispetto all’acuto e al grave nelle sezioni 17c-17d del Filebo, dove nel problema della individuazione dell’ampiezza degli intervalli attraverso l’opposizione grande piccolo o acuto – grave, rieccheggia con forza il registro ontologico. Il ricorso di Socrate ad una concettualità musicale, che, in questo contesto, ha un valore esemplare, ma non ultimativo, indica un modo di declinare una relazione che, pur partendo dal piano del sonoro e della voce, tende a trascenderlo, per impostare una discussione sul mondo, le idee, le forme dell’evidenza. Seguendo questa inclinazione, potremmo leggere le perplessità che agitano Aristosseno di fronte agli esiti dell’ultima speculazione platonica, nella testimonianza che cita lo stesso Trías, (Aristosseno Elementi di armonia, II, 39 – 40, Edizione Da Rios), puntando ad un diverso quadro concettuale. Quel distacco potrebbe essere letto come teatralizzazione di una dell’importanza rivendicazione della concettualità interna alla musica, che vede nella natura materiale della continuità del suono il punto di partenza per una tematizzazione dell’articolazione spaziale degli intervalli e, da qui, attraverso il filtro delle immagini, di un’esplicitazione dei concetti musicali, che si rendono visibili a partire dal loro assetto materiale, e dalla qualità del movimento vocale, che li coglie diastematicamente, come tagli in movimento che si sostengono, delineando il loro profilo. Il filosofo spagnolo, d’altra parte, mostra di aver ben compreso il senso di questa via, quando attacca la nozione di ileticità, di origine aristotelica, come modo di rappresentazione che tradisce l’originaria polivalenza della dialettica fra idee.
9 Cfr. la sezione «Essenza della musica» in Giovanni Piana, Barlumi per una filosofia della musica, 2007. L’opera è reperibile solo in formato digitale presso il Sito Spazio Filosofico: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/barlumi/barlumi_idx.htm
 

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