CARLO MIGLIACCIO
Abbreviazioni impiegate nel testo:
MH = V. Jankélévitch, La
musique et les heures, Seuil, Paris 1988
PL = V. Jankélévitch,
La présence lointaine, Seuil, Paris 1983
Ciò che colpisce maggiormente il lettore e lo studioso che si avvicina
al pensiero musicologico di Vladimir Jankélévitch, è indubbiamente
la drastica parzialità delle sue scelte e dei suoi approcci, sia dal punto
di vista geografico sia da quello storico. Il suo ambito di interesse è volutamente
limitato alla musica francese, russo-slava e spagnola, in un arco di tempo che va
dal 1800 al 1940 circa. Vi è qualche strappo alla regola grazie a sporadici
riferimenti a musicisti italiani, anche settecenteschi o a qualche autore delle
avanguardie post-belliche. Ma il fatto più eclatante in Jankélévitch
è sicuramente lassenza pressoché completa della musica tedesca
e austriaca. Questo fatto, che indubbiamente potrebbe porre pesanti riserve sulla
correttezza e sul valore critico della musicologia di Jankélévitch,
tuttavia diviene un elemento significativo nella comprensione delloriginalità
e della peculiarità del "taglio" musicologico proposto dal filosofo
francese. Il primo passo per motivare una simile prospettiva e per rintracciarne
un possibile percorso teorico, è la contestualizzazione storica del pensiero
e della figura di Jankélévitch. Vissuto tra il 1903 e il 1985, era
figlio di ebrei russi naturalizzati francesi (il padre, Samuel, era fra laltro
un eminente studioso della filosofia tedesca, nonché primo traduttore di
Freud in francese). Compiuti gli studi filosofici allEcole Normale Superieure,
Jankélévitch sostiene il dottorato in filosofia con una tesi sul pensiero
dellultimo Schelling. Lavora inoltre su Bergson e Guyau, su Simmel e sui mistici
russi e, in campo musicologico, su Fauré e Ravel.
Lo scoppio della guerra interrompe, momentaneamente ma bruscamente, la brillante
carriera universitaria di Jankélévitch: si arruola prima nellesercito
francese e, alloccupazione, nelle file della Resistenza. Già nel 1934
era affiliato al Fronte popolare, conscio del pericolo che "il fascismo, la
brutalità e lo spirito totalitario fanno correre al pensiero". Egli
subisce i tragici eventi storici non solo a livello fisico e personale (viene ferito
a Mantes, durante lavanzata tedesca; gli viene inoltre revocato lincarico
dinsegnamento in quanto non naturalizzato francese fin dalla nascita), ma
soprattutto soffre della sorte del popolo ebraico vittima dellOlocausto. In
tal senso condivide le preoccupazioni del suo maestro Henri Bergson, che ai tempi
della prima Guerra mondiale aveva fatto coincidere la difesa dei confini francesi
con la salvaguardia dei valori spirituali di libertà e democrazia; e che,
allinizio della Seconda guerra, poco prima di morire, rinuncia a convertirsi
al Cattolicesimo per solidarizzare con il suo popolo oppresso.
La guerra e loccupazione, vanno quindi considerati come una "svolta"
, decisiva nella vita di Jankélévitch, una dura prova per la sua esistenza
che ha grandemente influenzato levoluzione del suo pensiero filosofico-musicale.
Ma se per altri intellettuali la coscienza di questa sofferenza si poteva tradurre
in opere cariche di denuncia, di angoscia e di impegno ideologico, in Jankélévitch
al contrario, vi fu un forte e attivo impegno civile, ma la completa assenza di
esplicite affermazioni di principio. I suoi testi sembrano infatti eludere pudicamente
la pesantezza delle questioni metafisiche fondamentali. Notiamo per esempio che
le tematiche da lui approfondite in questo periodo sono La menzogna(in un
saggio scritto nel 1940 durante il ricovero allospedale di Marmande), Il
malinteso(1941), La semplicità(1943, dedicato a Bergson). Sul
piano musicologico, si occupa del Notturno(1942), e poi specificamente di
Chopin, Listz, De Falla, Bartok, Debussy, in saggi apparsi immediatamente dopo la
liberazione, quando gli fu affidata la direzione dei programmi musicali di Radio
Tolosa-Pirenei. In generale i suoi gusti musicali palesano una forte affinità
ideale con tutte le correnti antiaccademiche, antiwagneriane e antidindyste, della
Francia dei primi anni del secolo.
Paragoniamo ora questa attività di
Jankélévitch a ciò che per esempio Debussy faceva durante il
periodo della Prima Guerra mondiale: componeva le anodine sonate per diversi strumenti,
curava pazientemente ledizione delle Sonate di Bach e degli Studi di Chopin;
su questo modello, egli stesso scriveva i suoi dodici Studi per piano. Nel frattempo
il suo amico Igor Stravinskij - il quale gli scriveva dalla Svizzera dicendo: "I
crucchi possono star sicuri: non darò loro la soddisfazione di diventare
matto, e neanche lei" - iniziava la sua svolta neoclassica, culminante, nel
1920, con il solare balletto- masquerade Pulcinella. E Maurice Ravel, che
si era arruolato nonostante le precarie condizioni fisiche allo scopo di combattere
per lInternazionale e per la Pace", nel 1917, una volta riformato
per il peggioramento della sua salute e appresa la notizia della morte di sette
suoi commilitoni e amici, dedica alla loro memoria le serene e ridenti danze del
Tombeau de Couperin, un omaggio, secondo le sue parole, "allintera
musica francese del XVIII secolo".
Anche i musicisti del Gruppo dei Sei furono estremamente prolifici nel periodo
immediatamente successivo alla guerra, precisamente dopo la pubblicazione di Le
Coq et l'Arlequin di Cocteau; di composizioni come Cocardes, (si notino
i titoli) Le Boeuf sur le toit, Le mariées de la tour Eiffel, dice
Jankélévitch: "Questa specie di incredibile candore, ingenuo
come l'aurora, è infatti comune alla maggior parte delle musiche scritte in
Francia dopo l'incubo della prima guerra mondiale: l'album in cui sei musicisti
si intendono per cogliere in mazzo nient'altro che i fiori più ingenui, i
pensieri più frivoli, inespressivi, superficiali (...) esprime la distensione
di un dopoguerra interamente votato, dal suo primo risveglio, ai giochi puerili
e alle schermaglie ingenue"(MH, 40-41).
Il Pendant fra Jankélévitch e questi musicisti è molto
forte, e la sofferenza pudicamente celata del filosofo che passeggiava amabilmente
per i boulevards e frequentava i caffé di Toulouse non può che collegarsi
a ciò che questi artisti recepivano nel loro intimo e, come antenne sensibilissime,
sublimavano nella loro attività creativa, nella loro tecnica, nel loro percorso
compositivo: qui ci proponiamo di individuare questo percorso comune, che va dalloccultamento
al disvelamento, dallillusione alla disillusione, dalla finzione alla verità.
Punto di partenza della loro musica è il rifiuto della forma e
dell' "eloquenza" musicale della tradizione sonatistica classica e tardoromantica,
ossia della concezione della musica sia come sviluppo logico-dialettico di un'idea
sia come "espressione" in suoni di un contenuto retrostante. Alla musica
discorsiva e concettuale essi oppongono la tecnica dell'interruzione, dell'incoerenza
e della brachilogia; è quello che Jankélévitch chiama "regime
della serenata interrotta": quando le melodie cominciano a tendere verso il
Pathos espressivo, Debussy le interrompe con qualche improvviso frastuono
o con una fanfara lontana. Il Legato pianistico e l'omogeneità orchestrale
si tramuta negli Staccati e nei Pizzicati di una popolaresca chitarra,
e la pomposa accordalità in un susseguirsi di balbettanti noticine ribattute.
La stessa temporalità, prima costituita da slanci passionali e da atteggiamenti
ispirati, si raffredda nella nuda meccanicità del tempo metronomico o nell'ossessiva
insistenza delle ripetizioni.
Erik Satie in particolare è per Jankélévitch il campione
di una serie di camuffamenti e finzioni, finalizzati a distogliere la musica da ogni
soggettivistica compiacenza: vi è in Satie un gusto per il circo, per le
marionette e gli automi. Spesso Satie fa apposta ad apparire noioso e fastidioso,
o a darsi arie da ipocrita, come un ciarlatano o un prestidigitatore; la sua volontà,
un po' ascetica e quasi masochistica, di sottrarsi all'estetica accademica, giunge
all'insolenza e al sacrilegio nei confronti della melodia romantica e fa sì
che egli provi un "piacere diabolico" a irritare coloro che potrebbe invece
facilmente accattivare (MH, 59). Similmente Déodat de Séverac e Mompou,
secondo Jankélévitch, amano apparire volgari, in virtù di quello
spirito di rinuncia e di litote che si può chiamare "le bon mauvais
goût"; e anche Debussy si divertiva spesso a riprodurre melodie bandistiche
e jazzistiche, o gli scherzi ridanciani dei guitti d'osteria. Invece di costruire
una sinfonia in quattro movimenti - come d'altronde erano in grado di fare - questi
musicisti preferiscono comporre piccoli pezzettini, semplici e banali, privandosi
così delle "comodità dei discorsi lunghi e amplificati"(PL,
157).
In Rimski-Korsakov, oltre allo spirito della "burla", troviamo delle
autentiche "diavolerie", che non hanno niente a che vedere con il diabolismo
romantico e con la metafisica manichea del male: il diavolo di Rimski, dice Jankélévitch,
è un "Satana da operetta"(MH, 169), mentre il suo Mefistofele "è
il genio della contraffazione, della parodia e dell'imitazione caricaturale"(MH,
170). Come il maligno, così anche le divinità vengono calate dalle
vette dell'Olimpo o della teologia speculativa, per essere ridotte all'ingenuità
dei giochi d'infanzia o delle creature aeree dei Préludes di Debussy.
La
predilezione per travestimenti, parodie e tragedie in pupazzetti rappresenta, in
Satie, Séverac, Ravel, Stravinskij, Casella, un humour musicale che è
"una forma dell'alibi e del pudore"(PL, 134), un'attitudine Naïve
che si oppone alla seriosa magniloquenza del Wort-Ton-Drama wagneriano,
all'accentuata passionalità del melodramma italiano, agli sfarzi del Grand
Opéra francese, cioè alle rappresentazioni di una cultura fine-secolo
che intendeva rimuovere in musica la propria cattiva coscienza. Per i musicisti
dei primi decenni del secolo rifiutare questa cultura voleva dire o impegnarsi in
una lotta impari o rinchiudersi solipsisticamente nell'angoscia e nel nichilismo;
significava o cercare direttamente la via della verità o adeguarsi alle regole
del mercato.
È per questo che tali musicisti hanno una sorta di "fobia sospetta
del piacere", di quel piacere falso e allettante che la cultura dominante tende
a somministrarci. È per questo che essi disdegnano spesso il piacere e si
mostrano severi, caricandosi in questo modo della falsa austerità, che per
autocompiacenza si ritiene vera: fanno finta di essere austeri per difendere i diritti
del vero piacere che è stato così malamente mortificato.
Inoltre, il dolore divenuto mero esercizio estetico, la sofferenza divenuta professione e addirittura fonte di piacere, la morte e leroismo esposti come oggetti di applauso, tutto ciò è solo impostura, a cui Jankélévitch oppone la frivolezza, lornamento e ledonismo anche banale. Al posto di una serietà come farsa e beffa, Jankélévitch preferisce unironia trasgressiva o una finzione ulteriore che potrà meglio servire la serietà dellintenzione.
L'artista che a quellepoca voleva essere sincero poteva rischiare di svendere
la propria virtù e sottomettere la propria ragione alle dipendenze dell'irrazionalismo
imperante. L'uscita da questa Impasse per Jankélévitch si gioca
allora su un fulcro molto sottile attorno al quale ruota il capovolgimento dell'ironia
in serietà, dell'ostentazione delle false verità nello smascheramento
delle vere finzioni e quindi nell'emergenza di una verità "più
profonda e più segreta"(MH, 69). Si tratta del momento in cui la Pars
destruens musicale, che aveva neutralizzato il senso dell'espressività
romantica, si trasforma in Pars construens,ossia in inedita e creativa donazione
di senso, capace di dare all'espressività musicale un valore diverso.
La volontà d'essere inespressivo - dice infatti Jankélévitch
- diviene "desiderio di esprimere qualcos'altro che l'inesprimibile verità"(MH,
23). L'humour che per esempio Jankélévitch riscontra in Bartók
e Stravinskij è, certo, una parodia della grazia, ma "forse nel nome
di una grazia invisibile"(MH, 171).
Il pudore della finzione - cosi come Jankélévitch lo prospetta -
si presenta allora come una terza strada rispetto all'alternativa del rifiuto e
dell'adeguazione, ed è una risposta diversa al cruccio di Adorno, secondo
cui dopo Auschwitz non sarebbe più possibile comporre un pezzo in Do maggiore
(che è anche il grande tema post-idealistico ed esistenzialistico della morte
dell'arte, dell'impossibilità sartriana di fare della letteratura). Invece
l'esponente di irrealtà, di cui i musicisti investono anche le espressioni
linguistiche e stilistiche più obsolete, riesce a preservare la musica da
ogni compromesso ideologico, da ogni pericolo di sottomissione all'esistente.
Cè sempre, in Jankélévitch, lavversione per lirrazionale
abbigliato da razionale, della cattiveria imbellettata, dellillogico mascherato
da logico: è per questo che egli, seguendo Nietzsche, preferisce che il razionale
sia nascosto, sottratto alle tentazioni della ragione borghese e tolto dal pericolo
di compiacenza. La maschera, quindi, acquisisce il potere di smascherare, la finzione
di far cogliere la verità e, soprattutto, lassenza di realtà
e di razionalità finisce per essere indice di una ragione che, come la città
invisibile di Kitez dellopera di Rimski-korsakov, si mostra capovola al nostro
sguardo.
Ed è così che in Satie, maestro di quella che Jankélévitch
chiama "scuola del Dégrisement ", si assiste sia alla "caduta
dell'ideale nel reale e della poesia nella quotidianità prosaica"(MH,
32), sia alla ricerca di un'ingenuità che è autentico "infantilismo",
candore incredibile, ingenuo come l'aurora", che fa assomigliare il musicista
a un bambino che piange e la sua musica al sole che sorge nell'alba di un giorno
nuovo. Nell' Eveil de Pâques di Déodat de Séverac si
odono "le campane dell'avvenire, della promessa e della speranza"(PL, 142),
proprio come nella Kiev di Musorgskij e nella città di Kitez di Rimski-Korsakov
il suono dei mattinali non creano un mero effetto pittoresco, ma costituiscono i
suoni di una città invisibile, "pneumatica" , di un luogo collocato
in uno spazio lontano e, dice Jankélévitch, "profondamente umanizzato"(PL,
143).
Gran parte delle riflessioni filosofiche ed estetiche di Jankélévitch
sono attraversate da una domanda decisiva: come è possibile il passaggio
infinitesimale dalla diffidenza - nei riguardi di tutti i truffatori che ci circondano
- a una possibile fiducia, verso tutti coloro che, pur camuffandosi, ci mostrano
daltronde una finzione esponenziale, la finzione della loro finzione? Non
sono questi che, rifiutandosi di abbassare le loro maschere, meglio riescono a denunciare
le vere imposture? Si tratta, in Jankélévitch, di una sorta di trasfigurazione,
una sottilissima inversione, che può aprire un diverso ordine, in cui ogni
azione, morale o estetica - e persino latto di nascondersi, di sottrarsi -non
cade più nel pericolo continuamente risorgente di essere di nuovo fraintesa.
La musica sperimenta al suo interno i momenti di questa inversione, e diviene
perciò un privilegiato strumento concettuale, sia metafisico - per il particolare
rapporto che essa instaura con la realtà -, sia etico - per la sua concomitanza
con la drasticità e l'urgenza dell'azione morale. E questa inversione non
si situa lungo un percorso rettilineo, ma nella coesistenza di termini contraddittori
(amfibolia): come nella vita morale l'azione si situa al limite della tangenza dell'ostacolo
che impedisce con lorgano che favorisce, così la musica rimane in una
condizione di medietà tra silenzio e sonorità, tra ineffabilità
e linguaggio, tra realtà e finzione. Il rapporto negativo tra musica e realtà
non è né un superamento (come in Hegel) né un allontanamento
(come in Schopenhauer). La musica per Jankélévitch non annulla la
realtà, ma la dissimula, la maschera, per sottrarla agli assalti di coloro
che vogliono surretiziamente impadronirsene.
Cosciente della saturazione concettuale a cui la modernità ha costretto
il pensiero, Jankélévitch ritrova nella musica la vitalità
e la concretezza a cui la parola tende come proprio limite intangibile e inconcepibile.
La musica serve a disvelare con più efficacia e immediatezza le verità
nascoste, i malintesi sottaciuti, poiché essa, in quanto temporalità
fungente, è momento primario, ante-predicativo e precategoriale del pensiero,
l'atto della sua formazione prima che esso si obiettivi in un risultato linguistico
e formale.
Il singolare viaggio, a cui la musica conduce, è rappresentativo allora delle peregrinazioni a cui la metafisica è costretta nell'epoca del suo massimo smarrimento: è un' "odissea" che parte dall' "ordine del malinteso", in cui si collocano gli inganni che hanno avviluppato la coscienza, per giungere al momento in cui è possibile che quei nodi, prima così ingarbugliati, si sciolgano e che la verità, prima ritenuta sospetta perché ideologica reificazione o perché forma esponenziale di una nuova mistificazione, si mostri nella sua purezza incontaminata. È in questo momento sorgivo che è possibile più che altrove recuperare un ambito di senso, prima dimenticato; è questo il punto focale in cui l'ineffabilità musicale si tramuta in significazione, in cui la disperazione può aprirsi all'innocenza ulteriore e alla possibilità dell'utopia.
Il
contenuto del presente saggio è stato proposto al Convegno della Società
Italiana di Musicologia, Fiesole, 21 settembre 1996
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