Sergio Bonanzinga
Il teatro dell’abbondanza
Pratiche di ostensione nei mercati siciliani

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I mercati, situati fin dall’antichità nel cuore dei centri urbani (sia europei sia extra-europei), si presentano quali luoghi privilegiati dello scambio anzitutto delle merci, ma anche delle esperienze che marcano i tempi della vita umana (dalla nascita alla morte) e dei cicli naturali (apparizione e sparizione dei prodotti secondo l’alternarsi delle stagioni). Alla centralità spaziale del mercato si accompagna una simmetrica centralità simbolica, cui rinviano le molteplici pratiche che vi si svolgono: dal commercio (tecniche di vendita) alla interazione sociale (contrattazione dei valori sui cui si fonda l’identità degli individui, dei gruppi e delle comunità), dalla ritualità (mediazione tra l’umano e l’extra-umano) all’intrattenimento (spettacoli di strada fondati sul sistema prestazione-offerta, azioni ludiche di vario tipo). Se la qualità teatrale dei comportamenti socio-rituali e ludico-spettacolari appare evidente, più indefinita – e proprio per questo più invischiante – si rivela la teatralità racchiusa nel complesso delle modalità ostensive (esposizione e imbonimento) adottate dai venditori per allettare gli acquirenti. Questa dimensione “espressiva” dell’offerta dei prodotti è una marca distintiva del commercio di piazza, oggi non meno che in passato. Essa scaturisce dalla necessità di assicurare l’efficacia materiale dell’azione (attirare il maggior numero possibile di compratori) attraverso una sapiente retorica dei ritmi e delle forme, dei suoni e dei colori. Nulla è lasciato al caso nell’allestimento della scena, giornalmente ricostruita da attori che sanno adattare i modelli tradizionali alle esigenze individuali e al mutare dei tempi[1].

Ormai da vent’anni osserviamo le dinamiche di compravendita nei mercati “storici” siciliani, cioè in quei mercati urbani stabili dove largamente prevale l’offerta dei generi alimentari e più spiccatamente persiste una identità di lunga durata. L’indagine sui codici espressivi (visivi e sonori) che regolano l’offerta dei prodotti è stata condotta attraverso rilevamenti nei mercati di Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Trapani, Caltanissetta e Acireale. Si proporrà in questa sede una prima sintesi dei dati raccolti, selezionando testimonianze funzionali a rivelare i tratti che strutturano questo peculiare sistema di vendita. Ai fini di un confronto, utile a cogliere i margini di persistenza e di mutamento delle pratiche tradizionali, si sono anche considerate altre consuetudini documentate attraverso la memoria di quanti ne sono stati protagonisti fino a un recente passato, oppure reperite nella letteratura di interesse etnografico.

Le strategie dello sguardo e le ragioni del gusto
Parari
o armari a putìa (addobbare o allestire la bottega) sono le espressioni tradizionalmente impiegate per intendere l’allestimento espositivo della merce in vendita. Ogni mattina il venditore deve per prima cosa riconfigurare l’effimera scena della sua azione, caratterizzandola secondo la disponibilità dei prodotti e l’estro della giornata (dove giocano aspetti che vanno dalle condizioni atmosferiche agli umori personali). La “scenografia” dipende anzitutto dalla disponibilità di spazio davanti alla postazione di vendita, che orienterà l’esposizione in senso prevalentemente orizzontale o più spiccatamente verticale (se la strada è stretta). Per i venditori di prodotti ortofrutticoli l’attrezzatura necessaria alla composizione della temporanea “vetrina” sono vanchi (banchi), vancuna (banconi), vanchiteddi (banchetti) e scaffiati (scaffali di legno da appendere al muro), insieme a supporti improvvisati mediante cassette di legno o di plastica (casci, cascitti, casciteddi) e a ganci metallici (crocchi) di varia foggia e dimensione per appendere vegetali “a grappoli” (banane, limoni, agli, cipolle, pomodori, peperoncini, ecc.). Oggi, diversamente da quanto accadeva in passato, macellai e salumieri collocano direttamente in strada dei grandi banchi frigoriferi da esposizione (dotati di ruote), analoghi a quelli che si trovano all’interno delle normali botteghe. Questa innovazione coesiste tuttavia con più antiche convenzioni del mostrare. Ancora assai comune è infatti vedere le diverse varietà di carne poggiate su banconi scoperti o pendenti da stanghe dotate di ganci fissi o mobili (cruccheri ), collocate al di sopra e alle spalle del banco-frigo, oppure i caci stagionati ordinatamente disposti a piramide accanto a più moderni e asettici espositori per generi alimentari. Il pesce si continua invece a tenere scoperto, sui banconi o nelle cassette (casci , spaselli), insieme a ghiaccio tritato per mantenerne intatta la freschezza, separando il pesce da taglio (tonno, pescespada, cernia, ricciola, ecc.) – collocato su appositi banchi con il piano in marmo (bbalata) – da tutte le altre varietà. L’architettura delle botteghe, e spesso anche delle postazioni volanti, è completata da tende (o ampi ombrelloni) e da lampade appese sulla merce. Queste svolgono una duplice funzione: le tende servono a riparare (dal sole o dalla pioggia) e le lampade a illuminare il luogo di vendita. Il loro uso combinato permette nel contempo di gestire il riverbero della luce per dare colore e “vitalità” ai prodotti esposti. Funzione di “insegna” rivestono inoltre le fotografie e i dipinti (su legno o metallo) spesso collocati sui muri di sfondo delle postazioni all’aperto o appesi all’interno delle botteghe. Si tratta in larga prevalenza di raffigurazioni legate ai contesti della produzione (scene agresti, pastorali, marinare), della vendita (immagini “storiche” dei mercati) e del consumo (pietanze cucinate, tavole imbandite, ecc.). Ai contesti produttivi si riferiscono pure svariati oggetti utilizzati come “icone” del tempo del lavoro (reti e nasse, panieri di vario tipo, attrezzi contadini, ecc.). Frequentissime sono infine le fotografie “di famiglia” e le immagini devote, intese ad affermare l’identità individuale entro una dimensione di sacralità collettivamente condivisa (si consideri che le strade dei mercati divengono anche ciclicamente “teatro” delle celebrazioni religiose)[2].

La testimonianza di un giovane fruttivendolo della Chiazza (Piazza) di Acireale sintetizza efficacemente il sistema di esposizione di frutta e ortaggi[3]:

Mettendo vicino il pomodoro rosso e i piselli verdi si ha un colpo d’occhio diverso che mettere le carote vicino ai pomodori. La merce “a montagna” dà un altro colpo d’occhio [ammucchia i piselli]. Le zucchine messe belle in alto [verticali], invece che coricate, sembrano un mazzo di fiori. Lo stesso gli asparagi: così [posati orizzontalmente] sembrano “a peso morto”, ma in alto si notano subito. Le carote insieme all’insalata verde, guardi che bell’occhio che dà. Le cassette le mettiamo da salire a scendere, “a scala”. Le banane attaccate ai crocchi fanno un’altra figura. Peperoni e melanzane li mettiamo assieme perché nero con rosso si distingue meglio. Un altro bel segreto è il nostro ombrellone: arrivando la luce del sole, con questi ombrelloni rossi le arance, le fragole sembrano più colorite, più belle.

Non diversamente, ma con maggiore insistenza sul valore “personale” della propria competenza, si esprime un fruttivendolo che tiene bottega in via Pannieri, una delle strade di accesso al mercato palermitano della Vuccirìa [4] :

Questo lavoro non è che si fa o si inventa, nasce con me. Io tutte le mattine, quando faccio la vetrina, dipende dai periodi di stagione, si accoppiano i colori sia per la frutta sia sulle verdure e sia sugli ortaggi. Alla conclusione di tutto, quando si finisce di addobbare, mettendo un po’ di verde in mezzo alla frutta, viene fuori un quadro eccezionale. […] U scaffiatu è un tipo di arredamento più antico che hanno solo le botteghe come la nostra con più di ottant’anni di attività. La tenda è rossa per dare più colore al tipo di luce che usiamo noi quando c’è il sole o quando piove.

La strategia cromatica si può considerare una costante del sistema di esposizione dei prodotti ortofrutticoli, come ribadisce un venditore del mercato di Strat’â fòglia (Strada della foglia) a Caltanissetta: «Tutta questione di colori è: banane, fragole, arance. Bisogna spezzare i colori»[5]. Il medesimo criterio viene d’altronde adottato anche dai pescivendoli, i quali giocano alternando a esempio il rosso delle triglie e dei gamberi, con il bianco dei calamari e il grigio-azzurro di altre varietà di pesce.
Nelle pescherie le tende (oppure gli ombrelloni) e le lampade contribuiscono in modo più sensibile a dare risalto alla qualità della merce in mostra. Il particolare riverbero della luce artificiale, insieme agli spruzzi d’acqua che i venditori ripetono con frequenza, intensificano difatti la lucentezza del pesce e ne mantengono “vivo” l’occhio. Per questa ragione anche le pescherie collocate al coperto – come nel caso del monumentale portico della Chiazza di Trapani – non mancano di ricorrere ai tipici ombrelloni rossi e alle lampade sempre accese. All’idea di vitalità e freschezza rinvia anche l’uso di legare con filo di nylon la testa alla coda dei pesci di medio taglio (aggammari u pisci nel Palermitano), mantenendoli in posizione arcuata come fossero ancora guizzanti.
Un pescivendolo trapanese della Chiazza illustra il proprio sistema di esposizione che, nel metodo di base, rispecchia consuetudini più ampiamente applicate[6]:

Il pesce di taglio va tutto messo da una parte, il pesce da zuppa, da frittura o da arrosto dall’altra. […] Chistu è ttàvulu di tàgghiu, unni cci mintemu a tunnina, piscispata, lattumi , cernie, a ricciola, tutto pesce di taglio. [Indicando la parte opposta dello spazio di vendita] Avanti cci mittemu tuttu u pisci di tezza – u rrungu, opa, scrummu – e invece supra mintemu pisci di prima e secunna. Un’estetica è. S’av’a ddari sempri u trasi e nnesci nnê pisci.

Questa “estetica” si declina dunque su tre piani: a) la varietà (il pesce da taglio va separato dal pesce minuto); b) la qualità (pesce di prima, di seconda e di terza scelta – rispettivamente detto scamali , muddami e mazzami – occupano parti diverse del bancone a partire dall’alto); c) il cromatismo (si devono accostare i pesci “spezzando” i colori). Solo così si arriva a dare «l’entra ed esci nei pesci» (u trasi e nnesci nnê pisci), si riescono cioè a mediare le ragioni della “scenografia” con quelle del commercio, offrendo agli acquirenti una esposizione tanto accattivante quanto funzionale alla scelta.

Una certa inclinazione “teatrale” presentano anche le operazioni di pulitura e di taglio, sempre effettuate a vista su grandi taglieri per il pesce (vanchi – o tàvuli ­– i tàgghiu, tavulazzi, tavuleri) e su imponenti ceppi di legno per la carne (ccippi). Se il tonno si taglia a iniziare dalla testa, il pescespada si comincia invece a tagliare dalla coda, sicché la testa culminante nella lunga “spada” possa restare fino in fondo a testimoniare l’originalità del prodotto (talvolta si spaccia per pescespada altro pesce da taglio di minor pregio). Coltelli di varia foggia e dimensione, adoperati con studiata perizia da pescivendoli e macellai, acquistano pertanto un ruolo assai pregnante entro le scenografie del mercato. Perfino la pulitura degli ortaggi (carciofi, lattughe, finocchi, ecc.), che di solito i venditori effettuano nei momenti in cui la domanda è meno intensa, si qualifica per una certa enfasi dei gesti, sempre comunque finalizzata a rimarcare in qualche modo la qualità della merce.

Come ha posto in evidenza il fruttivendolo palermitano della Vuccirìa, le “vetrine” si possono abbellire con elementi vegetali di vario tipo. Ramoscelli di verde (alloro, mirto, asparago selvatico, rosmarino, ecc.) si vedono spesso spiccare dalle cassette di frutta e non è raro che vengano impiegati anche frutti e fronde artificiali per rendere più attraente la “scena”. Queste modalità decorative sono in larga parte affidate alla creatività individuale, anche se alcune configurazioni riflettono un codice più ampiamente condiviso. Nei mercati palermitani si usa a esempio esporre i bbabbaluci – una varietà di piccole lumache tipiche del periodo primaverile-estivo – in ampi contenitori di canne intrecciate (caitteddi) da cui emergono vistosi mazzi di spighe di frumento. Un venditore del Capu (Capo) ne specifica il motivo: «Perché così si capisce che sono i bbabbuluci che stanno nei campi e non quelli di allevamento»[7]. Insomma le spighe assumono valore di “etichetta”, equivalgono a dire “origine controllata” del prodotto, al di là del mero valore ornamentale che rivestono entro questa mini-scenografia rurale. All’origine del prodotto alludono anche le brillanti alghe verde-smeraldo (lattuca i mari o aicca i ciàvuru, ‘lattuga di mare’ o ‘alga profumata’ nel Palermitano) che di norma punteggiano i banchi delle pescherie. Tra i pescivendoli permane inoltre – anche se sporadicamente – l’uso di adornare con fiori rossi (rose o garofani) l’esposizione di tonni e pescespada. Su un banco di piazza Pardo, nel cuore della Piscarìa (Pescheria) di Catania, tra due imponenti tranci di pescespada e di tonno, si staglia una brocca di vetro contenente un mazzo di rose rosse (artificiali)[8]. Due donne che vendono il pesce alla Fiera (altro mercato storico catanese) sottolineano la vitalità della consuetudine: «Sempre a fiori quando c’è il pesce assai»[9]. Un pescivendolo della Chiazza di Trapani declina invece l’uso al passato: «Come tradizione, quando il tonno riusciva di colore spettacolare, ci si metteva un bel mazzo di fiori, di rose oppure garofani, per significare la freschezza e la qualità bella. Allora si gridava: Câ ciuri vieru l’àiu, câ ciuri! [Coi fiori per davvero ce l’ho, coi fiori!] – Ora fineru tutti sti cosi»[10]. Ma se a Trapani «queste cose sono ormai finite», nel mercato palermitano di Bbaddarò (Ballarò) l’antica pratica si manifesta tuttora vitale. Su un banco della “Pescheria del pesce fresco di Porticello”, situata in piazza del Carmine (all’inizio di via Giovanni Grasso), dalle bocche spalancate di due pescespada spuntano mazzi di garofani artificiali insieme a un grande girasole, mentre in un angolo della bbalata, davanti ai rossi tranci di tonno, si trova una boccia di vetro ricolma di ciuffi di menta. «Nel vero tonno ci si mettono i garofani veri e quelli finti, il colore delle rose della tunnina nostrale di Porticello!», grida il venditore, replicando in forma di abbanniata (imbonimento) alla nostra richiesta di chiarimento[11]. Un centinaio di metri più avanti, alla “Boutique del pesce” situata all’altro capo della piazza, i fiori in bocca a un enorme pescespada ancora intero sono invece freschissimi: «Ho messo queste rose di maggio perché il pesce spada è favoloso e se le merita queste rose. Perché è una cosa di lusso!» E il venditore prosegue modulando un adeguato richiamo: O ma che ppescespata! E cche rruose di tunnina e cche rruose! (Che pescespada! E che rose di tonno!)[12]. L’associazione cromatica che si impone allo sguardo si traduce quindi in imbonimento: “questo tonno ha il colore delle rose”, secondo una procedura comparativa ricorrente in molte grida di richiamo (cfr. infra).

Se le decorazioni floreali restano ormai una rarità, molti sono invece i pescivendoli palermitani che sulle bbalati dove si taglia il tonno pongono rigogliosi ciuffi (cfr. supra ) – o addirittura piantine – di menta. Questa ulteriore presenza vegetale, oltre a una efficace funzione ornamentale ottenuta mediante l’accostamento tra verde intenso e rosso sgargiante, suggerisce implicitamente uno dei tipici modi di cucinare il tonno: lo stufato steccato con aglio, pepe e menta (tunnu mmuttunatu). Anche altre modalità ostensive rinviano d’altronde al “tempo del consumo”, prefigurando alcune tra le preparazioni più comuni dei prodotti offerti oppure proponendone condimenti e contorni. Alla Piscarìa di Siracusa abbiamo osservato un mucchio di “cozze locali” punteggiato da fili di sedano, pomodori e limoni interi e a metà: una straordinaria varietà cromatica costituita da verde, rosso e diverse gradazioni di giallo (interno/esterno dei limoni) su sfondo nero[13]. Nei mercati di Palermo il bianco del baccalà è sempre vivacizzato dal rosso dei pomodorini a grappoli e dal giallo dei limoni, mentre sui banconi delle macellerie sanguigni pezzi di carne vengono spesso esposti sopra verdi foglie di lattuga. Le diverse varietà di olive, esposte a piramide in particolari banchi decorati a colori sgargianti, si accompagnano a rosmarino, alloro, peperoncini o limoni. Come prassi espositiva ricorrente tra i fruttivendoli abbiamo rilevato l’associazione delle arance rosse (tagliate a metà) con le fragole. Qui la procedura di associazione cromatica (cfr. supra), traducibile nello slogan “arance rosse come fragole”, rinvia anche a una delle preparazioni più comuni: le fragole al succo d’arancia.

Un più stretto riferimento al piano del consumo presentano le molte pietanze già preparate disponibili sui banchi delle macellerie (carni farcite, panate, marinate, ecc.), delle pescherie (dall’insalata di mare al condimento per il risotto, dagli involtini di pescespada a quelli di sarde) e presso i venditori di prodotti ortofrutticoli (cipolle e peperoni al forno, patate, fagiolini e carciofi bolliti). Gli alimenti cotti o elaborati vengono tenuti sempre separati da quelli al naturale. La salsiccia di maiale, che è pur sempre il risultato di una specifica preparazione, viene invece appesa ai crocchi insieme a capretti (interi o a metà, ai quali viene tuttavia sempre lasciata una parte di coda come segno distintivo rispetto all’agnello, considerato meno pregiato) e a diverse altre varietà e tagli di carne (vitello, agnello, trippa, pollame, coniglio, teste di maiale, ecc.), delineando in certi casi sontuosi scenari dell’abbondanza alimentare. In occasione della Pasqua l’ostensione intensificata di agnelli e capretti assume addirittura valenza rituale, mischiandosi all’arcaica ideologia del sacrificio in onore del dio risorto.


Nei mercati tradizionali le dinamiche dell’offerta non si esauriscono tuttavia nelle retoriche dello sguardo. È spesso consentito toccare la merce per saggiarne freschezza e qualità, selezionando personalmente i prodotti da acquistare (diverse volte abbiamo addirittura osservato i venditori mettere dei contenitori di plastica a disposizione della clientela per la scelta dei carciofi). In qualche misura codificata è anche la “licenza di assaggio” di qualunque cibo immediatamente commestibile (dalle olive alla frutta, dai caci ai salumi). I clienti divengono in questo caso destinatari di una comunicazione intersensoriale che mentre orienta gli acquisti già prelude ai piaceri della tavola. Come rilevato nella Chiazza di Trapani e nella Piscarìa di Catania, a volte l’assaggio si trasforma in vera e propria degustazione. Nello stesso banco di piazza Pardo che sfoggiava le rose tra i pesci da taglio (cfr. supra), un piatto contenente delle fettine di pescespada marinato (con olio, limone e peperoncino) è a disposizione dei passanti. Il venditore – che offre anche altre varietà di pesce marinato (tonno e masculini, ‘acciughe’) – ripete l’invito: Manciassi, manciassi! (Mangi!). Tra fiori sgargianti e prelibatezze in omaggio l’effetto centripeto è assicurato. Lo stesso metodo pubblicitario è impiegato da un venditore di “prodotti di tonnara” della Chiazza trapanese: i piattini con le diverse varietà di derivati dal tonno (insaccati, salati, sottolio, ecc.) sono ordinatamente disposti su un tavolo fornito di stecchini e tovaglioli di carta per un più agevole e igienico consumo. Una modalità che si può ritenere esemplare dei canoni tradizionali dell’assaggio è stata osservata nel mercato nisseno di Strat’â fòglia presso un banco di frutta. Il venditore grida: Tri cchili a ddu euru, avanti! Rigalati, rigalati! (Tre chili e due euro, avanti! Sono regalati!). Si tratta di arance e un cartellino indica: «Brasiliano / Ribera / ¤ 0,65 Kg» (l’imbonimento arrotonda quindi per eccesso il prezzo segnalato, ¤ 2 anziché 1,95). Il venditore taglia un’arancia a metà e la porge a due potenziali acquirenti: «Avanti, assaggiassi! Cci dicu assaggiassi!» (Avanti, assaggi! Le dico assaggi!). Entrambi acquistano la quantità proposta (tre chili) e al momento del peso il venditore rimarca una lieve eccedenza: Cchiossài, ammuttamu! (Di più, andiamo avanti!). Una generosità che egli vorrebbe subito compensata da ulteriori vendite: Nn’atri tri cchili! (Altri tre chili!)[14].
I frequentatori dei mercati possono anche soddisfare in loco le proprie necessità e curiosità gastronomiche presso taverne, botteghe, chioschi e venditori ambulanti di cibi cotti. La “cucina da mercato” – in buona parte coincidente con quella “cucina di strada” tanto acutamente indagata da Fatima Giallombrado (1995) – si qualifica anzi come specifico oggetto di ricerca. Essa ruota principalmente intorno a una serie di alimenti “liminari”, quali a esempio le interiora di vitello arrostite (stigghiuola a Palermo, taiuni a Messina) o bollite (quarumi a Palermo e a Catania), le lumachine condite con aglio e prezzemolo (bbabbaluci), il pane con la milza (pani câ mièusa) e altre ghiottonerie tipicamente palermitane come il mussu (cartilagini del bovino – testa, piede, ginocchio, ecc. – bollite e servite fredde) o la frìttula (residui della macellazione dei bovini fritti nel grasso). Tra le pietanze tipiche da taverna si segnalano le fave in umido, le polpette di carne o di sarde (fritte o al sugo), le insalate con pomodoro, acciughe e pezzetti di carne bollita. Comuni sono anche le friggitorie che offrono a Palermo le tipiche frittelle di farina di ceci (panelli) e le crocchette di patate (cazzilli), servite in soffici panini di forma tonda (mmuffuletti ), insieme a carciofi (cacuòcciuli ), cardi (caidduna) e “broccoli” (vròcculi) fritti in pastella (m’pastedda). I bbabbaluci vengono di solito cucinati in grandi pentole di rame (quarari ) collocate davanti alle botteghe di prodotti ortofrutticoli e of­ferti in grandi teglie poggiate su appositi banconi. Tutti gli altri alimenti possono essere venduti sia in postazioni stabili (chioschi e taverne) sia su banchi mobili, spinti a mano, attrezzati per l’esposizione dei diversi cibi (a esempio per la frìttula si usa un grande pa­niere internamente foderato di carta oleata e rivestito di canovacci per mantenere costante la temperatura). Speciali carrelli vengono anche utilizzati, sempre nei mercati di Palermo, per la vendita della focaccia con cipolla e pomodoro (sfinciuni ), delle pannoc­chie bollite (pullanchi, pullanchielli) e della zucca lunga (cucuzza longa) bollita e posta su blocchi di ghiaccio per essere servita fredda (gli ultimi cibi compaiono solo nei mesi estivi). Una postazione fissa è invece necessaria per la cottura e la vendita del polpo bollito (pruppu vugghiutu ), servito su un bancone in grandi piatti di ceramica, guarniti da limoni tagliati in due, da cui si prelevano i gustosi bocconi direttamente con le mani.

Non è infine casuale che il piano del consumo alimentare si fonda talvolta con quello dell’intrattenimento ludico, come accade nelle taverne per il “gioco del tocco” (u toccu), dove ci si sfida mettendo in palio il vino o la birra, oppure nel caso di un tipo di lotteria estemporanea che si effettua per le vie dei mercati palermitani, il cui premio è proprio rappresentato da un vassoio ricolmo di pesce e altri alimenti (a rriffa râ spisa )[15].

L’efficacia dell’ascolto
La vendita dei prodotti alimentari – effettuata tra i banchi dei mercati o per le strade dei centri urbani – è ancora spesso reclamizzata attraverso un ampio repertorio di richiami, in osservanza al celebre motto Rrobba abbanniata, menza vinnuta! (Merce “gridata”, mezza venduta). Con i termini abbanniata (o abbanniatina), bbanniata (o bbanniatina), vanniata si usa infatti definire nelle varie parti della Sicilia la pratica dell’imbonimento, diffusamente impiegata fino a un recente passato per propagandare qualsiasi offerta di prodotti o servizi[16]. Giorgio Raimondo Cardona, che considera le grida di reclame nell’ambito di una tassonomia dei “generi dell’arte verbale”, esprime alcune utili valutazioni di ordine complessivo: «Come la pubblicità dei mass-media, questi richiami devono combinare efficacia (in termini di contenuto di informazione) ed economia (brevità) e nello stesso tempo essere anche peculiari e distintivi del venditore, e tali da colpire l’ascoltatore. […] La forma generale di questi brevissimi messaggi pubblicitari è innanzitutto caratterizzata da fatti di intonazione: particolari qualità della voce e altri espedienti “soprasegmentali”, profilo melodico riconoscibile; sul piano sintattico, le frasi sono spesso brachilogiche perché sottintendono già un quadro illocutivo ben preciso. Così il grido “Fichi!” non è ambiguo se gridato da un venditore, in quanto sottintende tutto ciò che è necessario» (1976: 204). Nel caso siciliano i richiami sono caratterizzati dalle seguenti modalità formali e contenutistiche: a) l’intonazione si dispiega entro un ambito che può andare dal “gridato” al “cantato”; b) la metrica nella maggioranza dei casi è libera, anche se a volte si riscontrano schemi strofici determinati (cfr. Tiby 1957: 96-97); c) il testo può spaziare dalla semplice iterazione del prezzo della merce (grado “zero” dell’imbonimento) a un complesso formulario di espressioni – spesso basate su figure retoriche quali comparazione, perifrasi, metafora, iperbole (cfr. Pennino 1990: 422-426) – intese a menzionare e a descrivere i prodotti in vendita.
Si segnala che il termine ‘imbonimento’ (letteralmente “rendere buono” e per estensione “magnificare qualcosa”), qui liberamente utilizzato in alternativa a ‘richiamo’, nella sua accezione più propria si riferisce a espressioni di propaganda che possono presentare una articolazione testuale piuttosto estesa. Imbonimenti e richiami rientrano comunque nella categoria dei suoni-segnale [17] , svolgendo funzioni che investono almeno tre piani del sistema comunicativo: a) qualificare l’identità di chi vende e della merce in vendita (funzioni designativa e demarcativa, che cioè rappresentano l’insegna di un dato venditore e segnalano la marca della sua merce); b) mantenere il contatto con i destinatari del messaggio (attirare l’attenzione) ed esercitare pressione (persuadere) su di essi (funzioni fàtica e conativa secondo la griglia delle funzioni linguistiche di Roman Jakobson); c) attivare componenti ludiche e più in generale espressive che possono anche prescindere dalle ragioni strettamente legate al commercio e talvolta non avere specifici destinatari (ancora seguendo Jakobson, funzioni emotiva , riguardante l’espressività soggettiva, referenziale , nel caso di richiami generica­mente orientati verso il contesto, e poetica, relativa alla dimensione creativa, estetica, che presiede alle modalità di formulazione del testo).
La varietà formale e stilistica dei richiami pubblicitari siciliani è tendenzialmente determinata dalla provenienza sociale dei venditori (quasi esclusivamente di sesso maschile), poiché vi confluiscono sia elementi derivati dai repertori poetico-musicali tradizionali sia componenti connesse alla vocalità impiegata in determinati contesti ergologici: nel Palermitano le abbanniati di prodotti ortofrutticoli rinviano spesso allo stile di canto dei carrettieri (cfr. Guggino 1991: 15 e Pennino 1990: 426); nel Messinese si ravvisa una netta demarcazione tra le bbanniati dei pescivendoli, che presentano il medesimo tipo di vocalità riscontrato nei richiami di pesca, e quelle dei venditori di frutta e ortaggi che sono più prossime ai canti dei carrettieri e dei contadini (cfr. Bonanzinga 1997: 23-24)[18]. Va inoltre ricordato che già alla fine del secolo scorso i folkloristi siciliani avevano rilevato la differenza fra le abbanniati “di strada” (degli ambulanti) e quelle di putìa (dei bottegai), concordando nell’attribuire alle prime una più pregiata articolazione del profilo melodico. La ragione di questa differenziazione è ovviamente da individuare nella specifica funzione assolta dall’abbanniata nel commercio ambulante. In questo caso il suono, oltre a trasmettere un messaggio, è di per sé messaggio in quanto comunica la presenza di una classe di venditori (a esempio ‘pescivendoli vs fruttivendoli’) e, più precisamente, di quel particolare venditore il cui grido è noto nel circondario in cui è solito operare. I processi imitativi innescati dai contatti fra venditori e la propensione a elaborare soluzioni melodico-verbali individuali contribuiscono tuttavia a determinare una circolarità delle formule di imbonimento non sempre riducibile a schematizzazioni rigide, anche perché talvolta lo stesso venditore tratta prodotti diversi secondo le stagioni e/o le occasioni, adattando alle differenti mercanzie le pertinenti formule di richiamo, oppure si trova ad alternare l’attività di vendita ambulante a quella stanziale (in postazioni volanti nei mercati o impiegandosi temporaneamente presso botteghe).
Ulteriori precisazioni riguardanti le “voci dei venditori” siciliani verso la fine dell’Ottocento – assai rilevanti a fini comparativi – emergono dalle pagine di Giuseppe Pitrè (1882: 289-291):

Caratteri delle voci il sottinteso, il doppio senso, che porta l’equivoco, il frizzo, anche la licenza. Qualche volta, perché venga chiamato sulla merce l’occhio e l’attenzione della gente, non manca la sgarbatezza e la sguaiataggine. Il tempo e l’occasione determinano le voci. Una voce fuori stagione è una stonatura, e basta ad attirar la curiosità de’ popolani che la sentono e ne restano stranizzati. In Palermo un venditor di seme, che di tanto in tanto cerca farsi ad ogni costo sentire gridando la sua robacome la si grida ne’ giorni del Festino di S. Rosalia, è accolto a fischi, a schiamazzi e a certi suoni imitativi della bocca, che sono indubbi segni di disprezzo. Vi son voci le quali esse sole ci fanno accorgere che una nuova stagione, un dato tempo si avvicina, come della primavera ci avverte il fiorir degli alberi e il sorriso della natura tutta; onde l’animo si allieta. Tutti poi abbiam provato la triste impressione di certe, che il popolo qualifica per voci di cattivo tempo. […]

Molte voci son tradizionali, molte altre non lo sono, perché temporanee, occasionali, personali. Lo spirito di novità porta a dispettare il passato; ma se una gridata tradizionale c’è, la non si perde pel nuovo ribelle venditore: e per uno che la trascuri, vi son dieci che la faran sentire. Le tradizionali hanno vita lunga, ripetendo la loro fortuna dalla felicità della qualificazione, dall’arditezza della iperbole, dalla esatta rispondenza della perifrasi dell’oggetto che si vocia, ma più che altro dalla misura in che si chiudono e dalla particolare cantilena che le accompagna. […]

Parole e cantilena vanno sempre insieme; e, più ancora che nel canto popolare, ogni formola ha la sua cantilena propria, che non facilmente si toglie o si dà ad imprestito. Le parole si contraggono, si allungano, si spezzano senza pietà né regola per tradursi e perdersi in note infinitamente strascicate, stemperate. La nota più comune è la malinconica, la lamentevole; ma non manca l’allegra, che ritrae dallo schiamazzo chiassaiuolo de’ vicoli e dei mercati in che si vuole far sentire. Ve ne hanno di brevissime, che si traducono in un iato acuto che non dice nulla; e ve ne hanno delle lunghe, ma non troppo perché si possan dire una filatessa di parole: queste voci inclinano alla ilarità, alla gaiezza. Allora bisogna pensare che è la buona stagione, quella in cui la natura sorridente ha moltiplicato i venditori. Parecchie di queste voci lunghe da cerretani raccomandano ai presenti la mercanzia con motteggi talora salaci e sboccati.

Vediamo ora una serie di espressioni propagandistiche registrate a Villabate (Pa), Belmonte Mezzagno (Pa), Salemi (Tp) e Messina, a iniziare da alcuni imbonimenti fondati sulla comparazione e sull’iperbole. Si offrono infatti pere tanto mature da potersi “bere”, fragole “grosse come albicocche”, fichi “più dolci dei datteri”, pesche “come meloni”, cavolfiori “come ricotta”, tonno “come mostarda”, gelsi “migliori delle fragole” e costardelle – una varietà di pesce azzurro – altrettanto “saporite”:

Pira bbutiri àiu ca si fannu sucari veru! Pira bbutiri ca si màncianu e si vì­vunu! (Ho pere burrone che sono proprio da succhiare! Pere che si mangiano e si bevono!)[19]

A trentasei rana veru cci scalaru sti fràguli! Chisti veru varcoca sunnu, var­coca! I fràguli frischi! (A trentasei soldi è proprio calato il prezzo delle fragole! Queste sono proprio albicocche! Le fragole fresche! )[20]

Ma chi rattuleddi chi àiu di fica! Ma chi rattuleddi chi àiu di fica! Ora ci vonnu piatti d’argentu a sti fica ianchi, ianchi e puliti! E bba, rigalàtili, puliti! Sunnu dâ Codda! (Ma che datterini sono questi fichi! Ci vogliono piatti d’argento per questi fichi bianchi e puliti! E va, regalateli, puliti! Vengono dai Colli!)[21]

Muluna vieru è sta gran pièssica! (Proprio un melone è questa gran pesca!) [22]

Ma ch’è bbeddu iancu, iè comu la ricotta stu càvuliciuri! (Ma com’è bello bianco, è come la ricotta questo cavolfiore!)[23]

Iàiu tunnina ch’iè ccomu a mustadda! (Ho tonno che è come mostarda!)[24]

Gghiosa, gghiosa! Gghiosa nira mègghiu di fràguli! E ch’è nnira ch’è bbedda sta gghiosa! (Gelsi! Gelsi neri migliori delle fragole! E come sono neri e come sono belli questi gelsi!)[25]

A ddu liri, a ddu liri! Custardeddi rruossi! Sunnu cu sapur’i fràuli sti custardeddi! Pari chi fràuli su sti custardeddi! A ddu liri! Ma chi ciauru chi fannu!
(A due lire! Costardelle grosse! Hanno il sapore delle fragole queste costardelle! Sembrano fragole queste costardelle! A due lire! Ma che profumo che fanno!)[26]

Come nella bbanniata che vanta la qualità dei fichi raccolti sui Colli che circondano Messina, in svariati richiami si usa menzionare il luogo d’origine del prodotto, enfatiz­zando in questo modo la funzione demarcativa. Così accade a esempio per le pregiate ciliege “napoletane” (grandi “come mele”), per i fichi e le noci del “Parco” (territorio di Altofonte, nella parte alta della Conca d’Oro), per la pesca di Carini (Pa), per l’ormai quasi estinto muluni dû Faru (anguria del Faro, nella zona di Capo Peloro) e per la sarda di Castellammare (Tp):

Napulitani ruossi iàiu, chi bbelli ggirasi! Ggirasi i Nàpuli com’a li puma!
(Che belle ciliege napoletane grosse che ho! Ciliege di Napoli come le mele!)[27]

Dû Paiccu l’àiu, chi bbeddi ficu! Paicchitani vieru l’àiu i ficu! (Del Parco li ho, che bei fichi! “Parchitani” proprio li ho i fichi!)[28]

Paicchitana l’àiu sta nuci, eni vieru bbianca! (“Parchitana” ce l’ho questa noce, ed è proprio bianca!)[29]

Di Carini àiu pièssica! Ch’è bbella pièssica, ch’è bbella pièssica! Pièssica di Carini, pièssiche! (Ho pesche di Carini! Che bella pesca! Pesca di Carini, pesche!)[30]

Scalar’u muluni faruotu, faruot’u muluni! Dû Faru iàiu muluni! Scalaru i muluni! Scalaru i muluni faruoti, dû Faru iàiu muluni! (È ribassato il prezzo del melone “faroto”! Ho meloni del Faro! È ribassato il prezzo dei meloni “faroti”, ho meloni del Faro!)[31]

E di Casteddammari arrivanu li saiddi! Saidduzzi chi bbìnniru ora! Saiddi, saiddi! E cchi bbeni duci la pasta cu li saiddi! Saidduzzi di Casteddammari, saiddi! (E da Castellamare arrivano le sarde! Sarde che sono arrivate ora! Sarde, sarde! E come viene dolce la pasta con le sarde! Sarde di Castellamare, sarde!) [32]

Nell’ultimo testo si fa riferimento a una delle pietanze siciliane più note: la pasta con le sarde. I venditori non si limitano infatti a decantare convenienza e qualità della merce, ma giungono a suggerire possibili associazioni e preparazioni (si osservi che il primo richiamo presenta una strutturazione metrica in quartina):

Chi bbella sta fasulina / ca l’àiu vieru fina! / A facitivilla câ nzalata / sta bbella fasulina! (Che belli questi fagiolini / che sono proprio pregiati! / Fateveli in insalata / questi bei fagiolini!)[33]

Signura, va facitivilla vieru a nzalata, ca vi purtavu pumaruoru, patati e a fasulina! (Signora, fate­vela proprio l’insalata, che vi ho portato pomodori, patate e fagiolini!)[34]

Vaciticcillu a ffarri vieru u cumpanàggiu ê vostri mariti, nna lira nni viennu reci milinciani ca l’ât’a ffari â parmiciana! Bbbeddi nìvuri! (Andateglielo a preparare davvero il companatico ai vostri mariti, con una lira ne vengono dieci melanzane che dovete fare alla parmigiana! Belle nere!) [35]

Rruossi e nnìvuri milinciani! Bbelli miliciani, bbelli milinciani, vâ faciti a caponatina chî milinciani! Rruossi e nnìvuri milinciani!
(Melanzane grosse e nere! Belle melanzane, vi fate la “caponatina” con le melanzane!)[36]



Chi viennu bbelli a gghiotta, bbabbaluci! Cchiù ruossi di crastuna iè, bbabbaluci!
(Come vengono bene in umido, bbabbaluci [piccole lumache]! Sono più grossi dei crastuna [lumache di grandi dimensioni])[37]

Vi ll’avit’a ffari vieru ammudicati, a nna lira reci cacòcciuli! Chi ssu tiènniri!
(Ve li dovete proprio fare imbottiti di mollica, a una lira dieci carciofi! Come sono teneri!)[38]

A gghiotta, a bbracioli, a bbecchificu chi vvenunu bbelli st’ancioi!
(Al sugo, imbottite, a “beccafico” come vengono bene queste acciughe!)[39]

Iè comu li vuliti fari vi li faciti! Arrustuti, fritti, ammarinati li faciti!
«Chisti èrinu pisci – saiddi, tunni – pi farli con la cipolla e l’aceto» (E come li volete fare ve li fate! Arrostiti, fritti, marinati li preparate! «Questi erano pesci – sarde, tonni – da fare con la cipolla e l’aceto»)[40]

Il testo degli imbonimenti può a volte contenere riferimenti alle circostanze della vendita o – se pure metaforicamente – al contesto produttivo. È questo il caso del primo esempio dove si decantano ciliege talmente grosse e mature che “sembrerebbero colte da Maria Paris”, una nota interprete di can­zoni napoletane degli anni Sessanta:

Pari ca vieru Maria Paris i cugghìu sti quattru cirasi, ca l’àiu vieru nìvuri e gruossi! Cirasi nì­vuri! (Pare che proprio Maria Paris le ha raccolte queste quattro ci­liege, che sono davvero nere e grosse! Ciliege nere!)[41]



Cumpari Peppi, cumpari Peppi, nun lu spa­rati ora stu iocu di fuocu, facitimilla vìnniri vieru sta càlia!
(Compare Peppe, com­pare Peppe, non sparatelo ora questo gioco di fuoco, fatemeli proprio vendere questi ceci ab­brustoliti!)[42]

Ancora alle circostanze di vendita, ma con una più ampia articolazione del contenuto verbale (oltre che con una intonazione melodica particolarmente notevole), fa riferimento l’abbanniata del tonno rilevata a Salemi, così illustrata dal venditore ambulante Benedetto Di Dia: «Il tonno lo portavano da Bonagìa, da Castellammare coi carretti, all’epoca. […] Si pigliava un pezzo di tonno in un foglio di carta e si girava per il paese bandizzando che c’era il tonno, o alle volte neanche si metteva in mano e si girava il paese abbanniannu. […] Quando c’era un pochettino di crisi, che non si poteva vendere il tonno, e c’erano quelle giornate di scirocco nei mesi di maggio e giugno, col tonno appeso [i tonni ancora interi si tenevano appesi a una stanga], il vento l’annacava e il sole l’asciugava e si diceva»:

Taliàtila ch’è bbiva, surra e tunnina, surra e tunnina! E lu culuri di la cirasa àvi, ch’è bbiva! Surra e tunnina! / E lu ventu mi l’annaca e lu suli mi l’asciuca, ch’è bbiva! / Surra e tunnina! / E tu manciasti surra e iò tunnina, semu a la para fin’a ddumani matina! / Surra e tunnina! (Guardatela ch’è viva, surra [pancia del pesce che si vende anche salata o essiccata] e tonno! E ha il colore della ciliegia, ch’è viva! E il vento la dondola e il sole l’asciuga, ch’è viva! E tu hai mangiato surra e io tonno, siamo alla pari fino a domani mattina! Surra e tonno!)[43]

La vicenda biografica del venditore Di Dia si presta a esemplificare le modalità di trasmissione e circolazione dei moduli melodico-verbali caratterizzanti la propaganda commerciale tradizionale:

Io sono nato a Marsala e poi sono venuto a Salemi, mi sono fidanzato e mi sono sposato nel 1952, ed è dal ’52 che abito qui a Salemi. Io a Marsala vendevo soltanto pesce. Poi invece qua a Salemi vendevo pesce, vendevo frutta, vendevo verdura, vendevo noccioline e simenza [semi di zucca tostati], andavo a comprare polli nelle campagne, vendevo galline e facevo di tutto… vendevo pure budelli di maiale per fare a sasizza [la salsiccia], a cento lire al metro li vendevo. […] C’era la buonanima di mio suocero: quello era un “abbandizzatore” internazionale. Fatto è che il Comune quando doveva “abbandizzare” che mancava l’acqua, che si dovevano iscrivere i bambini a scuola… chiamavano sempre a lui. E c’era lui che “abbandizzava” e un altro col tamburino che suonava per fare affacciare la gente. Si chiamava Vito Adamo, ngiùria [soprannome] gli dicevano Vitu Chiuviddu , ed è morto verso il ’68 che aveva più di ottant’anni.[44]



Un pescivendolo si trasferisce quindi dal centro costiero di Marsala (Tp) a Salemi, nell’entroterra del Trapanese, ed estende la propria attività al commercio dei prodotti della terra e di quant’altro si prestasse alla vendita itinerante. Sposa però la figlia del banditore “ufficiale” di Salemi: quello stesso Vitu Chiuviddu incontrato tanti anni prima da Alberto Favara che dalla sua voce raccolse proprio l’abbanniata del tonno. Da questi apprende il repertorio e lo stile delle abbanniati salemitane, come dimostra tra l’altro la notevole stabilità formale del richiamo impiegato anche dal suocero per la vendita del tonno (cfr. Favara 1957/II: n. 919). Di Dia presta inoltre saltuariamente opera presso la locale pescheria e fornisce una testimonianza di straordinario interesse riguardo all’uso gergale dell’abbanniata per comunicare tra venditori di putìa (bottega) nel caso di clienti fastidiosi o perditempo. Questi erano detti vispisuna, da vispisa, termine riferito a uccelli passeriformi che continuamente saltano da un punto all’altro: «Delle volte c’erano quelli che erano giravano sempre e non compravano mai. […] Quelli che erano fitusi a comprare, allora giravano sempre: “A quanto vanno?” – “A cento lire.” – “A quanto vanno?” – “A cento lire.” – E guardavano e non compravano mai. E allora noi dicevamo: Tàgghiacci u lazzu sai! È vispisuni, pari ca posa e nun posa mai! Tàgghiacci u lazzu! [Taglia corto sai! È vispisuni, pare che si posa e non si posa mai!]». I clienti di questo genere venivano anche allusivamente chiamati “gamberi”, sicché vi si potesse fare libero riferimento mediante il filtro dell’imbonimento:



Quello che entra dentro la pescheria per comprare e non compra mai, allora per non mortificarlo dicevamo: Ch’è bbieddu l’àmmiru! [Che bello il gambero!] E già c’era un significato. Quello delle volte lo capiva e allora: “Mi lu dici a mmia ch’è bbeddu l’àmmiru?” – “No per carità, àiu l’àmmiru e abbannìu l’àmmiru.” [Lo dici a me che bello il gambero? – No per carità, ho il gambero e grido gambero.][45]



Anche alla “licenza di assaggio” (cfr. supra) si può alludere nell’imbonimento, come specialmente accade per quella varietà di prodotti che vengono offerti salati e/o tostati (semi di zucca, ceci, fave, pistacchi, mandorle, nocciole). La consuetudine dell’assaggio per questo genere di merce viene rimarcata con sottile ironia ancora da Di Dia: «Quando c’erano le feste, allora si vendeva a simienza [i semi]. U pizzica e mmùzzica significa che passa lei e pizzica, passa un altro e pizzica, passa quell’altro e pizzica, e noi altri gli diciamo: u pìzzica e mmùzzica, e grana nenti! [il pizzica e mozzica, e soldi niente!]». Questo il testo del richiamo:



Nucidda, a viera càlia e ssimienza, ch’è càvura! U pìzzica e mmùzzica! Ch’è bbella càvura! Nucidda, a viera càlia e ssimienza! Càvura càvura, càvura càvura!
(Nocciola, i veri ceci tostati e i semi di zucca, ch’è calda! Il pizzica e mozzica! Com’è bella calda! Calda calda!) [46]



Fra i generi alimentari che si possono sottoporre alla “prova” dell’assaggio troviamo anche i fichidindia (i pregiati “bastardoni” di Catania), le angurie (muluni) e la ricotta, come esemplificano questi richiami registrati a Messina e a Belmonte Mezzagno:



Bbastadduni i Catania, catta sti ficadigni! Cincumila a càscia, cincumila a càscia! Accattati, bbelli sunnu rrossi! Fozza, assaggiàtili sti ficadigni, assaggiàtili! Bbastadduni i Catania, bbastadduni i Catania! Cincumila a càscia, cincumila a càscia! Doci sunnu! Sunnu rrossi, fozza assaggiàtili! Fozza, sunnu doci, facitivi a bbucca doci!
(“Bastardoni” di Catania, compra questi fichidindia! Cinquemila lire a cassetta! Comprate, sono belli grossi! Forza, assaggiate questi fichidindia, assaggiateli! Sono dolci! Sono grossi, forza assaggiateli! Forza, sono dolci, fatevi la bocca dolce!) [47]



A pprova sunnu sti muluni, a pprova! Rrossi sunnu, rrossi! Accatativilli sti muluni! Sunnu duci com’u zùccaru! Ora ora i pigghiai sti muluni, ora ora! Assaggiàtili! (A prova di assaggio sono questi meloni! Rossi, sono rossi! Comprateveli questi meloni! Sono dolci come lo zucchero! Proprio ora li ho raccolti questi meloni! Assaggiateli!)[48]



O chi ricotta bbella! Signura, ccà c’è u parruccianu, chiddu anticu! Ricotta ri piecura l’àiu, ch’è bbella! – Signora bbassassi u paneri, prima â ssaggiassi e poi s’accatta. – Ri piecura l’àiu, ch’è bbella!
(O che ricotta bella! Signora qua c’è il venditore, quello antico! Ho ricotta di pecora, com’è bella! – Signora abbassi il paniere, prima l’assaggia e poi se la compra. – Di pecora ce l’ho, com’è bella!)[49]

Richiami assai singolari sono quelli in cui non viene affatto menzionato il prodotto in vendita. Ciò denota quanto fosse radicata e diffusa la competenza collettiva alla base di questo sistema di reclame. Valgano da esemplificazione i richiami in uso a Palermo e a Messina per la vendita dei gelsi (ccèusi ) e delle fave verdi (favi ). Si osservi come nei due testi sia il fattore “tempo” a fungere da indicatore: le fave si vendono nel pomeriggio e i gelsi di prima mattina, subito dopo essere stati colti poiché si tratta di frutti rapidamente deperibili:

A st’ura bb’arrifriscanu! (A quest’ora vi rinfrescano!)[50]



Ie mmi fannu ciauru di rrosi, mi fannu! Ie accà c’è u meli! U meli àiu stasira! E stasira l’àiu mègghiu d’assira!
(E fanno profumo di rose! E qua c’è il miele! Ho il miele stasera! E stasera ce l’ho migliore di ieri sera!)[51]

È significativo rilevare come la medesima strutturazione metaforica della bbanniata messinese delle fave verdi sia stata riscontrata a Palermo da Alberto Favara: «Qui, il nome della pianta leguminosa viene sostituito con quello di una saccarifera, per esprimere meglio la dolcezza. È lo stato anteriore della comparazione; noi diremmo: “le fave verdi sono dolci come il cannamele”, ma l’abbanniatina canta solamente cannameli, e tutti intendono che sono fave. Sotto l’eccitazione melodica si produce la metafora, che esprime con maggior efficacia del nome astratto il sapore, il colore e la bella apparenza dei frutti» (1923a, ried. in 1959: 73; cfr. anche 1957/II: n. 826).
Di frequente gli imbonimenti veicolano contenuti carichi di ironia e allusività, special­mente a sfondo erotico, che accomuna emittenti e destinatari in un orizzonte di reciproca complicità. In questi esempi ricorrono allusioni agli attributi sessuali sia maschili (cui ri­spettivamente rimandano le “uova” della lattuga, ovvero il cuore dell’ortaggio, la zucchina e la banana) sia femminili (il “baccalà” di donna Grazia):

Signura, si chiamassi veru a cammarera, mi sta rumpennu tutti l’ova di lattuchi! Lattuchi c’ànnu vieru l’ova, lattuchi! (Signora, richiami la cameriera, che mi sta rompendo le uova delle lattughe! Lattughe che hanno proprio le uova, lattughe!)[52]



Signura, sâ ddifinnissi vieru a cammarera ca voli vieru u cuoddu dâ me cucuzza, er è comu u meli!
(Signora, stia attenta alla cameriera che vuole proprio il collo della mia zucchina, ed è come il miele!)[53]



Scalaru i bbanani! Oh signura, vaddassi chi l’àiu bbella, tisa e longa ogni bbanana! E cchi ssu ciaurusi sti bbanani! A trimilaliri ô chilu!
(È ribassato il prezzo delle banane! Oh signora, guardi come ce l’ho bella, tesa e lunga questa banana! E come sono profumate queste banane! A tremilalire al chilo!)[54]



Tàgghia tàgghia, tàgghia tàgghia! Bbaccalareddu, baccalareddu a quattru lireddi, a quattru lireddi, tàgghia!
E u bbacalereddu i ddonna Ràzia e ccu lu ssàggia nun si sàzzia! Tàgghia! Bbaccalaru, bbaccalaru! U bbaccalaru i ddonna Razia e ccû ssaggia nun si sàzzia! A quattru lireddi, a quattru lireddi, tàgghia! (Taglia taglia! Baccalà a quattro lire, taglia! E il baccalà di donna Grazia chi lo assaggia non si sazia! Taglia! Baccalà!)[55]



La pratica dell’imbonimento presenta ampi margini di improvvisazione specialmente nei contenuti verbali, arrivando talvolta ad acquisire specifico valore espressivo entro i contesti comunicativi tradizionali. Ignazio Dominici, un anziano carrettiere di Villabate che sporadicamente esercitava anche l’attività di venditore ambulante, riferisce che nei fondaci (fùnnachi) dove si ritrovavano i carrettieri per mangiare e riposare, oltre alle canoniche sfide di canto (cfr. Guggino 1991), si gareggiava anche sui moduli delle abbanniati [56] . Il venditore ambulante Nino Geraci ricorda che sfide estemporanee si potevano svolgere anche mentre si lavorava: «Si cc’era unu ch’era ggilusu dô misteri, cci abbanniava di contrapieri» (Se c’era uno geloso del mestiere, gli abbanniava contro). Egli ricorda che una volta ad Altofonte un venditore lo provocò gridando: Ma chi cci isti a ffari vieru ô Paiccu, chi pièssichi bbelli vieru! (Ma che ci sei venuto a fare al Parco, che belle pesche!). Geraci allora replicò: Vidi ca iò nun tû nsignu unni va a cattari sti pièssichi bbelli vieru! (Guarda che non te lo insegno dove andare a comprare queste pesche proprio belle!). Sempre Geraci riferisce di un alterco con un altro venditore, tale Pippinu Surfareddu. La questione riguardava il posto di vendita usualmente occupato da Geraci a Termini Imerese e quindi usurpato dall’altro, che per replicare al rimprovero abbassò il costo dei mandarini. Geraci allora cominciò a offrirli gratis, gettandoli per aria e gridando: Cunnutu cu sî pìgghia pìcciuli! Mannarini, chi ssu dduci! Nu nni vògghiu pìcciuli, nu nni vògghiu pìcciuli! (Cornuto chi prende soldi! Mandarini, che sono dolci! Non ne voglio soldi!)[57]. Un ultimo esempio contribuisce a meglio precisare le possibili declinazioni individuali del codice espressivo dell’abbanniata. L’episodio riguarda il padre di Geraci e suo “compare” Natale, che in un crocicchio di Termini Imerese inscenarono una esilarante tenzone intorno alla freschezza dei broccoli:



Natale: Vidi ca partivu cu ll’acqua er arrivavu cu ll’acqua e lli stàiu vinnennu cu ll’acqua sti sparacelli! – Geraci: Ci nni sunnu assai ca pàrtunu nta iornu, iò partu sempri di prima sira pi purtaricilli frischi frischi sti sparacelli! – Natale: Chi vennu bbelli fritti ca canni dû puòiccu sti sparacelli! – Geraci: E si di canni i puòiccu un nni putiti capitari, iti nno chiancheri e vvi faciti dari a ntìcchia i grassu di puòiccu, chi vennu bbelli sti sparacelli! Sunnu vieru frischi frischi e ccoti tri gghiorna nn’arreri e mm’addivintaru cû ciuriddu bbiancu sti sparacelli! (Natale: Vedi che sono partito con l’acqua e sono arrivato con l’acqua e li sto vendendo con l’acqua questi broccoli! – Geraci: Ce ne sono tanti che partono di giorno, io parto sempre di prima sera per portarglieli freschi freschi questi broccoli! – Natale: Che vengono bene fritti con la carne di porco questi broccoli! – Geraci: E se carne di porco non ne potete trovare, andate dal macellaio e vi fate dare un poco di grasso di porco, che vengono bene questi broccoli! Sono proprio freschi freschi e raccolti tre giorni fa e hanno fatto il fiore bianco questi broccoli!)[58]

L’abbanniata si presta anche a esprimere significati diversi da quelli relativi all’attività commerciale, acquisendo pertinenza nel più ampio quadro dell’interazione sociale. Esplicativi al riguardo sono due casi segnalati da Alberto Favara. Il primo si riferisce al furto subito da un taverniere palermitano: «Egli intuì subito donde gli veniva il tiro: amici del vicinato; ma naturalmente si guardò bene dal far parola con chicchessia dello sfregio patito. Solamente, mentre stava a friggere, invece dei pesci abbanniava parole di colore oscuro, indirizzate agli amici, che soli potevano intenderle, quasi a dir loro: “Ho capito, e a suo tempo aggiusteremo i conti!”» (1923a, ried. 1959: 74). Queste le parole gridate dal taverniere (1957/II: 496): L’angiuli pigghiaru l’ancilu, / foru Schibbi e Farisei. / M’arrubbaru l’amici mei. / Un su’ porci ca gridanu! (Gli angeli hanno preso l’angelo, / sono stati Scribi e Farisei. / Mi hanno derubato gli amici miei. / Non sono porci che gridano!). Il secondo esempio riguarda un venditore ambulante di Trapani, tale Ndria (Andrea) Sorrentino, il quale affermava (1957/II: 510): «Abbaniannu abbanniannu, a cu vogghiu offennirri offennu: “Unni lu viri chiddu chi è veru vacabbunnu? Unni lu viri chi caminata chi avi sta signura baggiana?” E poi ci mettu la ruca» («Gridando gridando, offendo chi voglio: “Non lo vedi quanto è scansafatiche quello? Non lo vedi come cammina questa signora vanitosa?” E poi grido rucola»). Reclamizzando la rucola il venditore inframmezza frasi da cui emerge il suo variegato universo esperienziale, cui egli allude in modo criptico e allusivo: U viri, u viri si pigghiaru u nomu e cugnomu meu? O ruca ruca… Li irita li irita fa jucari! O ruca ruca… Assa mi lassa iri ch’annuttau! O ruca ruca…(Lo vedi che si son presi il mio nome e cognome? Rucola… Le dita fai giocare!… Basta lasciare che faccia notte!). L’efficacia comunicativa dell’abbanniata pare tuttavia resistere al mutare dei tempi, come bene esemplifica un articolo, firmato “nostro inviato”, apparso su “La Repubblica” del 5 settembre 1996 (in Cronaca, p. 18) sotto il titolo Così “Bocca di Rosa” fu cacciata dal paese. L’occhiello ne chiarisce in modo esplicito il contenuto: «A Partinico la rivolta delle mogli. Telefonate a catena ai carabinieri per far chiudere la casa d’appuntamento». Questo il capoverso conclusivo:

L’ultimo capitolo di questa cronaca di squallore non è stato ancora scritto. Riguarda un pescivendolo, quello che ha la sua bancarella proprio tra la piazza e il vicoletto dove c’era il bordello. I carabinieri lo stanno cercando per un interrogatorio. Hanno un sospetto. E cioè che lui, il pescivendolo, fosse in qualche modo la “vedetta” di vicolo Sant’Annuzza, la guardia che doveva avvertire i due sfruttatori in caso di pericolo. Infatti, il pescivendolo esibiva la sua mercanzia gridando sempre: Pesce!…pesce fresco!… Ogni volta però che si avvicinava un carabiniere, allora il pescivendolo cambiava grido. E ripeteva: Calamari!…Calamari!… Era in quel momento che, dal bordello, tutti se la squagliavano.

Il registro performativo del richiamo di piazza, che può essere considerato un “modello forte” nella vita quotidiana di numerose società tradizionali, si ripresenta in occasione di formule di questua, saluti, acclamazioni, giuramenti, minacce, ingiurie e imprecazioni, dove affiorano moduli fonico-ritmici stilisticamente determinati[59]. A tale riguardo un caso limite, e quindi paradossalmente esemplare, vede per protagonisti due pescatori di Porticello (a pochi chilometri da Palermo): mentre prestavano servizio militare, i due si scambiavano gli ordini di riconoscimento nella tipica inflessione delle abbanniati del pesce in uso nel loro paese[60].

Talvolta anche suoni prodotti con strumenti possono essere impiegati per attirare gli acquirenti. A Lipari (Isole Eolie), tale Peppuzzu u Carbunaru vendeva il pesce per le strade richiamando l’attenzione con la brogna, e il segnale era inconfondibile poiché nessun altro usava la tromba di conchiglia sulla terra ferma[61]. A Giampileri, una frazione di Messina, per vendere i gelati si alternavano alla voce dei colpi di fischietto[62]. A Mezzojuso (Pa), il suono di un corno d’ottone era connotativo dei panneri, venditori ambulanti di stoffe[63]. A Salemi si annunciava l’arrivo del tonno fresco, nei mesi di maggio e giugno, a ritmo di tamburo[64]. A Palermo, l’uso del tamburo per reclamizzare il tonno svolgeva addirittura una duplice funzione: il suono fungeva nel contempo da richiamo per la vendita e da sostegno ritmico per il trasporto a spalla del pesce lungo il tragitto dal porto alle pescherie. Questa pratica, significativamente denominata abbanniata di la tunnina (imbonimento del tonno), è stata così documentata da Alberto Favara all’inizio del Novecento (1923b, ried. 1959: 95-96):

Vi era nel popolino grande allegria per l’arrivo del pesce dalla carne dolce e a buon mercato; il tonno veniva adornato con grandi mazzi di garofani, quindi, imbracato con corde, veniva trasportato a spalla da due uomini. Ma il personaggio essenziale della funzione era il tammurinaru, perché egli col ritmo regolava e facilitava la marcia, trasformandola in un rito. Al momento giusto i portatori avvisavano il Cacicia: «Vossia sona, zu’ Peppi!». Mentre quelli sollevano il tonno, il tammurinu attacca un giambo, come una scossa, uno sforzo iniziale per passare dalla immobilità al movimento; fa seguire quindi una serie di spondei vivaci, con i movimenti preparatori per segnare il tempo della marcia, e infine la marcia anapestica, vivace, a passi brevi sotto il grave peso. […] Il piccolo corteggio procede così, allegramente, sotto l’impulso del ritmo. «Cu a sunata – mi diceva il Cacicia – ci sèntinu piaciri a caminari, e u pisu mancu u sèntinu». […] Se cessa questa funzione alleggeritrice del ritmo, la marcia diventa difficile. «Chiddi chi portanu u tunnu senza tammurinu, un ponnu caminari. Senza tammurinu ci aggranca a spadda » [Quelli che portano il tonno senza tamburo, non possono camminare. Senza tamburo si fanno male alla spalla]. Tanto che, quando il padrone del tonno non vuol far la spesa del tammurinaru , i portatori lo pagano di tasca propria.



Al valore funzionale posto in evidenza dalle testimonianze dei protagonisti, che investono sia il piano del coordinamento senso-motorio sia quello dell’effetto pubblicitario, fa riscontro l’interpretazione fornita da Favara, cui non sfugge il senso rituale di un’a­zione simbolicamente proiettata a celebrare l’abbondanza: “carne dolce e a buon mercato”, guarnita con mazzi di garofani, recata in processione a suon di tamburo fino ai banchi dei mercati e delle botteghe[65]. Ma forse c’è di più. Nelle cialomi – i tradizionali canti dei tonnaroti eseguiti soprattutto per coordinare il sollevamento delle reti – ricorreva di frequente il verso «e lu rràisi cu li ciuri» (cfr. Guggino 1986: 89). Il “regista” della mattanza dei tonni, il rais appunto, era quindi destinatario di offerte floreali, non solo canore: una ghirlanda gli veniva donata nel caso di pesche particolarmente fruttuose (ibidem). I fiori svolgono qui pertanto, come in molte altre celebrazioni rituali, una forte mediazione simbolica tra la vita e la morte, significando nel contempo la propiziazione dell’abbondanza e l’offerta per sanare lo squilibrio naturale determinato dalla uccisione di una preda. Nelle società tradizionali il sangue versato per procacciarsi nutrimento è difatti “sangue sacro”, e il dono floreale può in qualche misura compensare il rischio che la morte sempre comporta.


Favara rileva inoltre un caso in cui il trasporto del tonno veniva accompagnato da un rigatteri (piccolo grossista di pesce) che alternava al tamburo il flauto di canna (friscalettu), annotando: «pi priu Vanni Pannazza avìa st’usanza» (1957/II: 487). Se la ragione dell’uso viene individuata nel puro piacere estetico (priu, ‘diletto’), non va tuttavia sottovalutata l’efficace funzione propagandistica che doveva svolgere questo motivo «ad uso di Tubbiana » (noto ballo carnevalesco) eseguito dal Pannazza: antesignano emblematico dei jingle radiotelevisivi.


Ornare il tonno di fiori vermigli è – come abbiamo visto – una consuetudine tuttora sporadicamente praticata, mentre l’uso del tamburo quale strumento da richiamo in riferimento alla pubblicità commerciale è viceversa tramontato da circa un trentennio ed è stato pertanto documentato esclusivamente in circostanze non contestuali. Specialmente in ambiente urbano si ricorreva al banditore (bbanniaturi, abbaniaturi, vanniaturi) sia per reclamizzare l’apertura di nuove botteghe sia per sostenere vere e proprie campagne propagandistiche[66]. A Palermo, fino agli anni Cinquanta, il messaggio pubblicitario si poteva inserire in una cornice particolarmente spettacolare: una comitiva composta da un banditore (abbigliato a imitazione dei pazzarielli napoletani) e da suonatori di tamburo, di tromba e di piattini metallici procedeva in carrozza per le vie dei rioni sostando negli slarghi e nelle piazzette. I suonatori attiravano allora fragorosamente l’attenzione del pubblico, seguiti dal banditore che declamava l’annuncio recando in mano o su un vassoio i prodotti da reclamizzare. Nel quartiere di Borgo Santa Lucia (u Bbuiggu) la pratica si è mantenuta più a lungo vitale, come attestano questi due “casi” risalenti agli anni Settanta, riproposti dai protagonisti per consentire la nostra documentazione[67]. Il primo esempio riguarda l’apertura di una macelleria in via Principe di Scordìa:



[ritmo dei tamburi] Viva u signò Gambino, viva! [rullo] Oò, â via Prìncipi di Scordìa aprìu a carnezzerìa u signò Gambino. Però, ô rittu peroni: un ci nn’è ntrallazzu ddocu, ddocu è carni i vitellu originali ed è mircata. Un vi faciti llùdiri. Certuni macari vinnevanu canni mmugghiata pi sasizza. Assai ci nni furu a ffari stu viersamentu però. U signò Gambino è cientu pi cientu, carnuzza bbona e mircata: u primu tàgghiu a decimilaliri! [rullo] (Viva il signor Gambino, viva! Ehi, nella via Principe di Scordia il signor Gambino ha aperto una macelleria. State attenti però: lì non c’è trucco, lì è carne di vitello originale e a buon mercato. Non fatevi illudere. Certuni magari vendevano carne arrotolata per salsiccia. Ce ne sono stati molti a fare così. Il signor Gambino è cento per cento, carne buona e conveniente: il primo taglio a diecimila lire!)



Il secondo caso riguarda invece la pubblicità del vino dello zzu Cìcciu di Misilmeri, gestore di taverna nel mercato del Borgo:



[ritmo dei tamburi] Viva u zzu Cìcciu mussulumisi, viva! [rullo] Aò, cu voli vinu bbonu i Paittinicu, àv’a gghirri nnô zzu Cìcciu. Picchì, a viri, cu zzu Cìcciu ogni gnornu trasi u vinu. Nna pocu i sfardacasetti a notti ràpri e nun si sapi chi fannu intra a taveinna. Picchì pari a taveinna i Pallavicinu: un coippu cci manca l’acqua e un coippu cci manca u vinu. Signuri mè, vidì chi chissi chi veni a notti travàgghiunu chi bbustini: u mbunzingatu! Vinuzzu bbonu at’a gghiri nnô zzu Cìcciu mussulumisi: a milliquattrucentu liri! [rullo] (Viva lo zio Ciccio misilmerese, viva! / Ehi, chi vuole vino buono di Partini­co, deve andare dalla zio Ciccio. Perché, vedete, con lo zio Ciccio ogni giorno arriva il vi­no. Qualche imbroglione apre di notte e non si sa cosa fanno nella taverna. Perché pare la taverna di Pallavicino [borgata di Palermo]: una volta gli manca l’acqua e una volta gli manca il vino. Signori miei, state attenti che questi che vengono di notte lavorano con le bustine: lo “imbustinano”! Per il vinello buono dovete andare dallo zio Ciccio misilmerese: a millequattrocento lire!)



A eccezione dell’acclamazione d’apertura e dell’espressione conclusiva, che pre­sentano un’intonazione ben distinta, il resto del messaggio viene scandito ad alta voce con mirabile artificio drammatico, fondato su un canovaccio adattabile a diverse circostanze, quali a esempio le questue in denaro per l’organizzazione delle feste rionali. Ancora più intensamente che nel caso della propaganda commerciale è possibile qui avvertire il gioco mimetico del banditore, che con abile e persuasiva ironia richiede l’esborso dei soldi ai devoti:



[ritmo dei tamburi] Viva â matri sant’Anna, viva! [rullo] Signuri mè, viriti ca ruminica passa u cummitatu pi fari a fiesta. Mi raccumannu un ci faciti fari abbili. Cincumila liri ô misi ogni famìgghia un ci fa nenti a nuddu. Un mittemu a ffari: «u sapi, a mamà nun c’è, u papà niscìu». Si buliti a fiesta ci’at’a mentiri i pìcciuli. No ca quannu viditi u cummitatu staccati puru a luci, pu nu fa sèntiri chi siti dintra. Si nni va u cummitatu, a mamà nesci dintra a cucina, u papà dintra u gabinettu. Oppuru fannu ffacciari u picciriddu: «U sapi, a mamma nun c’è, è nisciuta!» [imita la voce del bambino] No, ci vonnu i pìcciuli! Mintiemu i tusielli ed addumamu! Chi bella gran fiesta! [rullo] (Viva la madre sant’Anna, viva! Signori miei, sappiate che domenica passa il comitato per fare la festa. Mi raccomando non fatelo disperare. Cinquemila lire al mese per famiglia non sono di peso a nessuno. Non cominciamo a fare: «sapete, la mamma non c’è, il papà è uscito». Se volete la festa dovete dare i soldi. No che quando vedete il comitato staccate pure la luce, per non fare sentire che siete in casa. Arriva il comitato, la mamma se ne va in cucina e il papà dentro il gabinetto. Oppure fanno affacciare il bambino: «Sapete, la mamma non c’è, è uscita!» No, ci vogliono i soldi! Mettiamo i paramenti [drappi da esporre su finestre e balconi] e accendiamo [i ceri votivi]! Che gran bella festa!)



L’innovazione più significativa introdotta nel commercio ambulante, adottata specialmente nell’ultimo ventennio dai venditori più giovani, consiste nell’impiego di piccoli impianti di amplificazione vocale montati sul mezzo di trasporto della merce. L’incidenza di questa nuova tecnologia viene puntualmente commentata da un ambulante incontrato a Noto (Sr) lungo il corso Vittorio Emanuele[68]:



Ormai col microfono vanniamo così… solo facciamo capire quello che c’è: «Abbiamo pere, abbiamo mele, càvuli, prezzemolo, basilico!» Però solo per fare capire quello che abbiamo, perché al megafono con la caratteristica tradizionale non si capisce proprio niente. Quindi ci adattiamo col megafono e abbiamo dovuto lasciare la tradizione all’antica.



Nel caso della diffusione elettroacustica delle grida pubblicitarie abbiamo spesso riscontrato una certa tendenza a scandire le parole e a limitare l’uso del siciliano. Non si tratta tuttavia di una prassi sempre attuata, poiché la chiarezza del messaggio pubblicitario per chi ascolta non sembra preoccupare troppo i venditori di vecchia scuola (indipendentemente dall’età), che affidano l’efficacia comunicativa al suono, in quanto insegna personale, più che al significato letterale del messaggio.

Quale esempio emblematico di aggiornamento tecnologico, in qualche misura rispettoso delle tradizionali modalità pubblicitarie, si può infine segnalare la consuetu­dine rilevata a Palermo tra numerosi venditori ambulanti di sfinciuni. Questi usano difatti l’amplificazione per diffondere il contenuto di un’audiocassetta in cui si ripete un imbonimento eseguito da tale Giuseppe La Torre, detto Pippinu u sfinciunaru [69] :



Chi spicialità vieru di sfinciuni! Càvuru è bbellu vieru, chi cciàvuru! Chi cciàvuru! Uora u sfuinnavi, uora! Sunnu cosi i caprìcciu vieru, chi cciàvuru! Chi bbellezza vieru di sfinciuni! Eè, è bbellu càvuru, è bbellu vieru, chi cciàvuru! Uora u sfuinnavi, uora!
(Che vera specialità di sfinciuni ! Caldo è proprio buono, che profumo! Proprio ora l’ho sfornato! Sono proprio cose sfiziose, che profumo! Che vera bontà di sfinciuni! Ehi, è proprio caldo, è una vera bontà, che profumo!)



Il complesso delle testimonianze fin qui esaminate pone ampiamente in evidenza le svariate configurazioni semantiche e funzionali che possono assumere le grida di reclame entro il sistema comunicativo tradizionale. Questi documenti sono tuttavia il risultato di indagini mirate, condotte prevalentemente al di fuori dei contesti in cui la pratica dell’imbonimento svolge o svolgeva la propria mansione reale [70] . Non sarebbe stato infatti possibile ottenere notizie altrettanto approfondite sui diversi “usi” dell’abbanniata mentre era in corso l’attività di vendita, né documentare l’intero repertorio di venditori che ovviamente si limitano a propagandare i prodotti offerti in un dato momento. La vitalità di questa antica tecnica pubblicitaria affidata alla voce umana è stata quindi parallelamente vagliata in circostanze contestuali, sia nel caso del commercio ambulante sia presso le botteghe e nei mercati.


Ogni mercato presenta un proprio specifico ordinamento dello spazio, dovuto di norma alla tipologia della merce trattata (a esempio aree distinte sono rispettiva­mente destinate ai pescivendoli, ai macellai, ai fruttivendoli, ecc.), ma anche stabilito per consuetudine o dettato da soluzioni estemporanee (vedi il caso delle postazioni volanti). La distribuzione spaziale dei venditori si riflette nella “geografia acustica” dei mercati: il loro attraversamento propone a chi ascolta il frenetico avvicendarsi e sovrapporsi di “cornici sonore” variamente strutturate. Entro questo continuum indifferenziato di suoni è stato pertanto necessario “isolare” le voci dei venditori, al fine di operarne una selezione qualitativamente significativa. Si tratta di un aspetto che si può con pertinenza collegare alle suggestive pagine dedicate da Roger Murray Shafer alla nozione di “paesaggio sonoro” (1985), e specialmente al parallelismo tra percezione acustica e percezione visiva in relazione al nesso figura-sfondo (1985: 212-213). Entro il nostro contesto d’analisi si considera sfondo ciò che risulta percepibile da ogni punto di ascolto, mentre per figura si intende quanto viene di volta in volta situato al centro della “inquadratura”, al fine di poterne apprezzare dettagli e sfumature[71].


Come esemplificazione riportiamo una serie di grida di reclame documentate nei mercati di Palermo (Bbaddarò, Vuccirìa), Catania (Piscarìa), Siracusa (Piscarìa), Trapani (Chiazza), Caltanissetta (Strat’â fòglia ) e nel non più esistente mercato delle “Due vie” di Messina (i Ddu vii )[72]. Una maggiore densità dei richiami si è riscontrata ovviamente in condizioni di più spiccata concorrenza, ma anche l’abbondanza della merce in offerta e il numero di acquirenti in circolazione gioca un ruolo importante nella “amplificazione” delle grida di propaganda (per questo abbiamo visitato i mercati prevalentemente nei giorni di venerdì e sabato, quando si fa più intensa l’attività commerciale). Abbiamo inoltre mediamente rilevato tra i venditori di pesce una maggiore vitalità delle pratiche di imbonimento. Va anche detto che la presenza di un mezzo da ripresa – videocamera o magnetofono – ha in molti casi contribuito a incentivare l’azione dei venditori, stimolati a ostentare il proprio “mestiere” di fronte a un estraneo perlopiù percepito come giornalista televisivo. Rispetto ai documenti registrati in circostanze non funzionali, questi richiami presentano infine un più consistente impiego di termini o espressioni italiane regionali e italianeggianti (chiaramente comprensibili e quindi non tradotte) e una più spiccata tendenza a indicare il prezzo della merce (in lire o in euro secondo il periodo del rilevamento)[73].


Tra i mercati palermitani quello di Bbaddarò (Ballarò) si distingue per un più marcato permanere delle tradizionali modalità di propaganda “gridata”. In questo imbonimento, registrato presso la “Pescheria del pesce fresco di Porticello” (già ricordata per gli ornamenti floreali), il tonno si decanta per la sua provenienza – appunto il borgo costiero di Porticello (frazione di Santa Flavia) – che garantisce qualità e freschezza. Con abile retorica i potenziali clienti sono invitati ad affrettarsi all’acquisto per accaparrarsi le parti migliori di tanta prelibatezza:



Ora bbellu mio, ora, ora! Uora nni puittaru u tunnu di Potticcello! Nn’am’alliestiri bbellu miu, nn’am’alliestiri! Nun ti nni pozzu dari aiutu bbeddu miu, nun ti nni pozzu dari aiutu! Un chilo dieci euro, un chilo dieci euro! Vardati a tunnina ch’è fina!
(Ora bello mio, ora! Ora ci hanno portato il tonno da Porticello! Dobbiamo fare presto bello mio! Non ti posso aiutare! Dieci euro al chilo! Guardate che tonno prelibato!)[74]



Nella “Boutique del pesce”, sempre a Bbaddarò , l’imbonimento ruota intorno alla comparazione cromatica dovuta alla presenza delle rose sulla bbalata (cfr. supra). Si noti il riferimento al mese di maggio, atteso per l’abbondante presenza del tonno (metaforicamente definito “carne calda del mare”) e del pescespada. Anche qui ricorrono sottili perifrasi – con sapiente uso della particella enfatica mi (che sta per mìzzica, ‘caspita’) – allo scopo di ribadire la convenienza dell’acquisto:



O ma che pescespata! Tonno bbello, tonno! E cche rruose di tunnina e cche rruose! A ddec’euru pescespata, a ddec’euru pescespata! Pescespata locale! Mii, a ddec’euru piscispata! Si l’accattati vi nni vinnemu, si l’accattati vi nni vinnemu! I rruose dâ tunnina, i rruose! Talìa bbellu culure! Talìalu cu li rrose! Rruose di tunnina, rruose! Rruose di tunnu rruose! A cainni càvura râ mmari, a cainni càvura râ mmari! Mii, aspittava u misi i màggiu aspittava pâ tunnina e pû piscispatu, u misi i màggiu!
(E che rose di tonno! A dieci euro pescespada! Caspita, a dieci euro pescespada! Se lo comprate ve lo vendiamo! Le rose del tonno! Guarda che bel colore! Guardalo con le rose! La carne calda del mare! Caspita, aspettavo il mese di maggio per il tonno e per il pescespada, il mese di maggio!)[75]



Nella stessa pescheria si offrono anche merluzzi, sarde e gamberi, con il primo richiamo che indica i “bambini” quali destinatari privilegiati del consumo:



Mirluzzu, mirluzzu locale! Mirluzzu locale per i bambini! / Saiddi, saiddi! O picciotti, bboni sù sti saiddi! / Ppi cincu eur’un chilu i gàmberu, ppi cincu euru! Cincu eur’un chilu i gàmberu!
(Sarde! O ragazzi, sono buone queste sarde! / Per cinque euro un chilo di gambero!)



Tra le grida concernenti i prodotti ortofrutticoli spicca l’abbanniata di un venditore di patate (banco situato nella parte centrale di via Ballarò), ironicamente giocata intorno all’inversione del valore commerciale di patate “vecchie” e “nuove”:



Tri cchila un euru nuovi patati! Tri cchila un euru nuovi patati! Nuovi patati, nuovi, nuovi, nuovi! Vannu cchiù mieiccati dî viecchi!
(Tre chili di patate nuove a un euro! Patate nuove! Sono più a buon mercato delle vecchie!)[76]



Vediamo ora alcuni richiami che pubblicizzano cibi cotti. Il primo viene eseguito dal gestore di una taverna all’imbocco di via Ballarò (lato piazza del Carmine), che davanti alla porta tiene un banco per offrire interiora (quarumi) e cartilagini (pieri) bollite ai passanti (cfr. supra). Il secondo, che reclamizza lo stesso genere di prodotto, è stato documentato presso un banco della Piscarìa di Catania (situato in un angolo di piazza Pardo); in questo caso con il termine quarumi si intendono trippa, cartilagini e sanguinaccio bolliti. Gli ultimi due, registrati in via Ballarò, si riferiscono alla tipica focaccia palermitana (sfinciuni) – che non viene menzionata data la già notevole “visibilità” garantita dall’imponente e variopinto carrello utilizzato per il trasporto – e alle pannocchie bollite (pullanchi):



Nustrali! Àiu a trippa! Bbella quarumi càuvura! È càuvura! Quarumi càvura!
Àiu i pieri! A nzalata! (Nostrale! Ho la trippa! Bella quarumi calda! È calda! Ho i “piedi”! L’insalata!)[77]



Qua si magna!
[78]



Càvuru è!
(È caldo!)[79]



Càvura e tiènnira! Pullanca!
(Calda e tenera! Pannocchia!)[80]



Un’altra abbanniata in cui non si usa menzionare il prodotto in vendita è quella che tuttora riecheggia alla Vuccirìa presso una bottega di baccalà ubicata all’imbocco di via Argenteria (lato piazza Caracciolo)[81]:

È bbellu vieru! (È proprio bello!)

Ancora alla Vuccirìa, in piazza Caracciolo, un anziano venditore offre finocchietti selvatici e aglio[82]. Nel primo richiamo si ignora affatto il nome del prodotto, ma si menziona un’apprezzata pietanza caratterizzata proprio dalla presenza del finocchietto (la “pasta con le sarde”). L’abbanniata dell’aglio evoca invece le ben note virtù profilattiche del vegetale, qui volte ironicamente a scongiurare eventuali azioni moleste operate dai vicini di casa:



Pasticella chî saiddi! Rrobba bbella!
(Pasta con le sarde! Roba bella!)



Ci vonnu l’agghi pû vicinu!
(Ci vogliono gli agli per il vicino!)[83]



Il più vitale e “spettacolare” mercato urbano oggi esistente in Sicilia – e forse in tutto il Meridione d’Italia – è sicuramente la Piscarìa di Catania, che si estende nell’area a ridosso di piazza Duomo tra magnifiche architetture barocche. Qui l’esposizione dei prodotti si mantiene più che altrove aderente ai canoni tradizionali e la notevole concorrenza contribuisce ad animare lo spazio acustico di ogni genere di richiamo. Le pescherie – soprattutto concentrate nelle piazze Di Benendetto e Pardo – offrono, sotto quest’ultimo aspetto, lo scenario più movimentato. Valgano da esemplificazione alcuni imbonimenti registrati percorrendo piazza Pardo[84]. Nella prima vanniata il venditore tenta tra l’altro di persuadere una cliente assicurando la pulizia della seppia, in modo che il “nero” sia pronto per preparare il sugo da utilizzare come condimento di riso o spaghetti. Nella terza osserviamo un’accattivante metafora per decantare il pregiato novellame di sarde e acciughe (muccu), definito “filetto del mare”. Nella quarta è ancora la provenienza – l’assai noto borgo marinaro di Aci Trezza (poco distante da Catania) – a certificare la qualità della cernia:



U pruppu, a sìccia! / U calamaru a ddecimila lire! Un chilo di calamari a ddecimila lire! / Vinissi ccà! Abbiamo masculini, pesce fresco! / Abbiamo gamberoni, sicci, pruppi! Vinissi ccà, vinissi ccà! Avemu a sìccia! Se vuole il nero lo pulisco io!
(Il polpo, la seppia! / Il calamaro a diecimila lire! / Venga qua! Abbiamo acciughe! /Abbiamo gamberoni, seppie, polpi! Venga qua! Abbiamo la seppia!)



Àiu i muccuna, i rrizzi, i cozzi! Aò, rrobba bbella, rrobba fresca! Muccuna, rrizzi, cozzi! Troppu bbelli! (Ho i murici, i ricci, le cozze!)



Cirènnia! Cirènnia, ricciola e ppauru! / Spatu ch’è bbellu! Spatu ch’iè vvivu! / Bbellu ddaveru è u muccu! A mègghiu spisa iè! U filettu dû mari è u muccu!
(Cernia, ricciola e pauro! / Pescespada che è bello! Pescespada che è vivo! / Proprio bello è il muccu ! È la spesa migliore! Il muccu è il filetto del mare!)



Bbella rrobba iàiu, rrobba viva, fozza, cu mància pisci! / Cirènnia ch’iè trizzitana, bbelli trigghi! / Spatu ch’iè vivu! / Rrobba viva! I calamari vivi!
(Ho bella roba, roba viva, forza, che mangia pesce! / Cernia “trezzitana”, belle triglie! / Pescespada che è vivo!)



Oò, àiu chiddu bbellu! Orate, spicole! Bbelle orate e spicole! / I veru scùmmri avemu, i veru scùmmri! / Spatu è chiddu bbellu! Vidi ca bbellu è u spatu! / Bbelli scùmmri avemu! Calamari, calamari! Scùmmri, calamari, iàmmiru! Spatu ch’è bbellu, spatu!
(Ehi, ho quello bello! / Abbiamo i veri sgombri! / Il pescespada è quello bello! Guarda quant’è bello il pescespada! / Abbiamo sgombri belli! Sgombri, calamari, gambero!)



Piscarìa
è anche il nome del piccolo ma vivace mercato di Siracusa, situato proprio all’inizio dell’isola Ortigia, dove si estende il centro storico della città[85]. Presso la “Casa del pesce dei fratelli Listro” si decantano tra l’altro la bontà del pescespada “locale” e della seppia colma di “nero” per preparare l’eccellente intingolo (cfr. supra):



Pescespato locale! Lucali u spatu, lucali u spatu! Pescespato! Lucali iè! / Bbella la cirignitta, bbella iè! A ciregna c’è! / A sìccia, l’opi! Saddi e opi! / A sìccia c’àvi u nìvuru! Sugo nero, sugo nero! A sìccia c’av’u zzucu! / C’è l’àmmiru ch’è bbellu, ch’è bbivu! / Ch’è bbellu u muccu, ch’è bbellu u muccu! A mègghiu spisa è u muccu! / Si nni calau u pisci, si nni calau!
(Pescespada locale! Spada locale! È locale! / Bella cernia! C’è la cernia! / La seppia, le boghe! Sarde e boghe! / La seppia che ha il “nero”! La seppia che ha il sugo! / C’è il gambero che è bello, che è vivo! / Com’è buono il muccu! Il muccu è la spesa migliore! / È ribassato il prezzo del pesce!)



Le seppie in vendita nella “Pescheria dei fratelli Cappuccio” non solo sono piene di “nero”, ma sono tanto fresche che “ancora camminano” e “profumano di mare”:



A sìccia, a sìccia cû nìvuru! Ancora camìnunu, signora! Aò, fannu ciàuru i mari! / U muccu, u muccu! U muccu c’è!
(La seppia, la seppia col “nero”! Ancora camminano, signora! Ehi, fanno profumo di mare! / C’è il muccu !)



Presso la “Pescheria del popolo” si insiste di più sulla convenienza dei prezzi (“regalo”) e sulla licenza di “scegliere” secondo gradimento. Si osservi poi la menzione di un’altra ricetta tipica – le polpette di muccu – nell’offerta della mercanzia:



Ddecimila ddu chila, chi ssu bbelli i calamari! Due chili diecimila lire, forza! / Scùmmri, scùmmri! Fozza! Fozza ch’è c’è da sciegliere! Regalo, regalo! A cinquemila lire, a cinquemila lire! Fozza signori, scegliere! / Chi ssu bbelli, chi ssu bbelli! Dai, cci àiu rammiruzzi chi ssu bbelli vivi vivi! / Dai, pi ccu s’â ffar’i purpetti i muccu, àa! / Orate bbelle! Orate, spicole!
(Due chili a diecimila lire, come sono belli i calamari! / Sgombri! / Come sono belli! Avanti, ho gamberetti che sono belli vivi! / Avanti, per chi deve fare le polpette di muccu !)



Anche tra i venditori di prodotti ortofrutticoli si insiste sul ribasso dei prezzi e sul permesso di scelta. Si notino in particolare nel primo imbonimento le espressioni intese a spingere i clienti ad affrettarsi (“vedi che stiamo vendendo”, “spicciatevi che abbiamo ribassato i prezzi”):



Ô ribbassu, a frutta va ô ribbasso! / Tri cchila a ddumila liri! Vi pigghiati tri cchila a ddumila liri aranci! / Ô vìnniri u vidi ca semu, ô vìnniri semu! / A cichita chi iè a bbanana, a cichita! Le più bbelle, signora, sono le più bbelle! / Scegliere, signori scegliere! Aiutàtivi ch’iè ssiemu ô ribbassu!
(Al ribasso, la frutta va al ribasso! / Tre chili a duemila lire! Vi prendete tre chili di arance a duemila lire! / Vedi che stiamo vendendo, stiamo vendendo! / La “chiquita” che è la vera banana! / Spicciatevi che abbiamo abbassato i prezzi!)



Ora un mazzu milli liri a spinàcia! Un mazzu milli liri! / Pìgghia a cincucentu liri i cacuòcciuli! Che freschezza!
(Un mazzo di spinaci mille lire! / Prendi a cinquecento lire i carciofi!)



Broccoletti, cavuluciuri! Broccoli mille lire, broccoli mille lire! / Cavuluciuri a ddumila lire! / Fozza, cicòria a ddumila liri, spinaci a ddumila liri!
(Cavolfiore a duemila lire! / Forza, cicoria a duemila lire, spinaci a duemila lire!)



Sempre presso la Piscarìa di Siracusa si rileva l’imbonimento di un pizzicagnolo eseguito in stile “moderno”, con ricorso a poche parole in siciliano (bbaccalaru ‘baccalà’, cchiapparella ‘capperi’, càuru ‘caldo’):



U bbaccalaru bbellu stamatina! U bbaccalaru di lusso! / Olive belle, acciughe, origano! / Bottarga, bottarga, origano! / Origano, latte di mandorla! / Pomodori secchi, pistacchio, mandorle, noccioline! / Ho cchiapparella bbella a mille lire stamatina! A cchiapparella bbella! / A mille lire càuru càuru, pane di casa!



Un imponente porticato – semicircolare ad archi – ospita a Trapani il mercato del pesce: a Chiazza (la Piazza). Questa monumentale struttura ottocentesca sorge alla fine del Lungomare, in posizione oggi coincidente con uno degli accessi al centro storico della città. Nel 2004 un pescivendolo della Chiazza ne denunciava la “rovina” dovuta a una ordinanza municipale che limitava la presenza dei banchi agli spazi sottostanti al loggiato, per consentire un più agevole passaggio delle autovetture. A distanza di un anno i venditori si sono ulteriormente ridotti e l’antico splendore del mercato – che ricordiamo vivacissimo fino agli anni Novanta, con l’intera piazza gremita di tende – si sta lentamente eclissando. Solo poche pescherie, un fruttivendolo e una bottega di pesce lavorato (secco, salato, sott’olio, ecc.) resistono ancora e la scarsa concorrenza non stimola certo la frequenza dei richiami. Nei mesi di pesca del tonno – data anche la presenza a poca distanza delle ultime due tonnare ancora attive in Sicilia (Favignana e Bonagia) – il mercato però si rianima e gli imbonimenti ancora sporadicamente riecheggiano, come abbiamo in particolare rilevato presso il banco di Gaspare Lipari[86]. Si noti, nella sovrapposizione dei registri linguistici, il puntuale ricorrere degli stereotipi della comparazione cromatica (il tonno ha il “colore delle rose”), della freschezza associata alla provenienza (tonno appena pescato a Bonagia) e del richiamo alle preparazioni culinarie più allettanti (in questo caso il cuscus di pesce, la più tipica pietanza festiva del Trapanese):



Che profumo di mare! Ho trìgghia e àmmaru! / C’è tonno, c’è pescespada, c’è tonno! Tunnina, pesce spada e tonno! / O che scogliera di mare! Ho trigghi, calamari e àmmaru! / Colore e sapore, tonno e pescespado! Ch’è fesco stu tonno! Bbello vivo è, bbello vivo! Tunnina! Va manciativilla ch’è l’uttima vieru! Bbella! Piscata d’or’è u vieru! Tonno, lattumi, pescespada! / Ddàmuci pisci pû cuscuso! Cu s’av’a ffari u cuscuso! Bbelli sò! Ch’è profumo di mare! Viniti! Tutto regalato! Tutto a bbon prezzo! / Ho trigghi, calamari e àmmaru! / Colore di rrose sta tunnina, colore di rrose! Ch’e fresca, ch’è fresca, ch’è fresca! A canùsciunu, a canùsciunu! A canùsciunu chidda viva a tunnina, a canùsciunu! Bbella viv’è, bbella viva! Piscata ora vieru iè! Occhi chiusi, ch’è frisca sta tunnina! Bbella viv’è, bbella viva! È fresca ooò! A canùsciunu chidda viva, a canùsciunu, a canùsciunu! Piscata ora ora vieru! Bbella viva è, bbella viva! Chidda di Bbonagìa vieru è! Tunnina, tonno! Bbella viva è, bbella viva! Piscata ora ora vieru iè! Taglia, taglia chidda di Bbonagìa, taglia! Che fresca, che fresca! A tunnina viva che bbella, oè! Taglia c’arrivau ora, taglia, taglia! Taglia câ canùsciunu chidda frisca, a canùsciunu! Ch’è bbella, ch’è bbella chidda di Bbonagìa! Che fresca! Che fresca sta tunnina, che fresca!
(Ho triglia e gambero! / Tonno! Mangiatevelo perché è proprio l’ultimo! È appena pescato! / Diamogli il pesce per il cuscus! Per chi deve preparare il cuscus! Sono belli! Venite! / Ha il colore delle rose questo tonno! Lo conoscono quello fresco! È bello vivo! È stato appena pescato! Fidatevi a occhi chiusi che questo tonno è proprio fresco! È proprio quello di Bonagia! Appena pescato! Taglia che è quello di Bonagia! Lo conoscono quello vivo! Taglia che è appena arrivato! Taglia che lo conoscono quello fresco! Com’è bello quello di Bonagia! Quant’è fresco questo tonno!)



A Caltanissetta il mercato di Strat’â fòglia (Strada della foglia) si snoda lungo la via Consultore Benintendi, nella centrale zona tra i corsi Vittorio e Umberto. La vocazione commerciale e la stessa denominazione di questo mercato scaturiscono dall’originario legame con l’attività dei fogliamara , raccoglitori e venditori di erbe selvatiche. Oggi vi si smerciano in prevalenza prodotti ortofrutticoli, mentre più rara si è fatta la presenza dei venditori di fogli [87] . In occasione del nostro rilevamento abbiamo riscontrato la presenza di un solo fogliamaru, che offriva a “mazzi” diversi vegetali spontanei raccolti nelle campagne che circondano la città:



Aspàraci, asparaci! Gli aspàraci, calaru! Mazzaredduna, mazzaredduna, spàraci àiu! Quattru mazza un euru spàraci! Quattru mazza di cipolletti a un euru! Mazzareddi, mazzareddi, deci mazza un euru!
(Gli asparagi sono ribassati! Ho mazzareddi e asparagi! Quattro mazzi di asparagi a un euro! Quattro mazzi di cipollette a un euro! Dieci mazzi di mazzareddi a un euro!)



Le grida pubblicitarie che seguono riguardano carciofi, broccoli e fragole. Particolare interesse presenta il primo imbonimento che si apre con il riferimento alla Madonna, invocata a propiziare la vendita e nel contempo a compensare il venditore per avere manifestato tanta “generosità” nel tenere bassi i prezzi[88]. Lo stesso anziano venditore mette dei contenitori di plastica a disposizione dei clienti e li invita a scegliere personalmente i carciofi, rimarcando in modo assai originale la convenienza dell’acquisto (ripete “miseria”). Anche il venditore di broccoli enfatizza la qualità della propria merce, arrivando a prometterla in “regalo” ove non si presentassero acquirenti. L’ultimo testo è un esempio di abbanniata in perfetto italiano:



E santa Maria pî cacuòcciuli! Cacuòcciuli bbelli! Calaru i cacuòcciuli! Calaru, calaru! Miseria! Calaru i cacuòcciuli! Cacuòcciuli! Talìa chi cacuòcciuli! Deci cacuòcciuli a ddu euru! Miseria! Deci vi nni dugnu a ddu euru cacuòcciuli! Miseria! Sciegliere! Sciegliere!
(E santa Maria per i carciofi! Carciofi belli! Sono ribassati i carciofi! Guarda che carciofi! Dieci carciofi a due euro! Vi do dieci carciofi a due euro!)



Tiènniri, tiènniri! Cacuòcciuli tiènniri!
(Teneri! Carciofi teneri!)



Sparacello, sparacello! Sparacello ch’è troppo bello, signora, mondiale! Talè cchi bbellu, mègghiu ri chistu nn’attruvi! E si nnu nni vinnu ti l’arrialu! Troppo bello, signora, mondiale! Numero uno, numero uno!
(Broccolo! Guarda che bello, meglio di questo non ne trovi! E se non ne vendo te lo regalo!)



Due vaschette di fragole un euro! Due vaschette di fragole un euro, un euro, un euro!



Presso l’unica pescheria attiva in questo tipico mercato della Sicilia interna abbiamo registrato il seguente richiamo:



Vivo, vivo, viv’è! A ddu euru i merluzzi, avanti signora a ddu euru! S’accomodassi avanti! Iemu pisannu, avanti! Talìa lu vivarellu!
(È vivo! Merluzzi a due euro! Si accomodi! Proseguiamo a pesare! Guarda com’è vivo!)



Come in altri mercati, anche a Caltanissetta abbiamo rilevato testimonianze pessimistiche sulle condizioni di questi peculiari spazi commerciali. Le ragioni del malcontento si riflettono nelle parole di un anziano salumiere, proprietario di una piccola bottega situata nella parte alta della Strat’â fòglia:

Prima era caratteristico. Ora con tutti questi supermercati è scomparso tutto. In una città come Caltanissetta di 70.000 abitanti mettere tutti sti supermercati… hanno fatto morire questo. Qua ora non cammina più nessuno. Prima non c’era un piccolo spazio di potere passare. Ora sta finendo tutto. Stanno aprendo tutti marocchini, cinesi e finirà, perché continuando di questo passo non ci saremo più nessuno.



Il mutamento in direzione multietnica della geografia dei mercati urbani è d’altra parte il riflesso di più generali processi immigratori che investono in modo crescente anche la Sicilia. Se si può in certa misura comprendere il disorientamento dovuto alla progressiva occupazione di spazi considerati “centrali” nella percezione di chi li ha tradizionalmente vissuti e gestiti, è confortante nel contempo rilevare esempi di produttiva coabitazione. È questo il caso di due venditori di lattughe, uno nisseno e uno marocchino. A quest’ultimo chiediamo se anche nel suo paese si usi reclamizzare la merce gridando ed egli ripete in arabo il richiamo appena eseguito in siciliano, evidenziando una notevole continuità stilistica dell’inflessione vocale. I due proseguono quindi insieme a pulire e a offrire gridando la loro mercanzia, rimarcando con studiato mestiere che per venderle a prezzi così bassi le lattughe “neppure valeva pena raccoglierle”:



Quattru lattuchi un euru, manc’a cògghirli! Prezzi pazzi! Quattru lattuchi un euru! Quattru un euru ti dugnu, quattru un euru!
(Quattro lattughe a un euro, neppure a raccoglierle! Ti do quattro lattughe a un euro!)



Le quattro bbanniati del pesce scelte per chiudere questa rassegna rinviano a una “fonosfera” definitivamente perduta. Il mercato messinese delle Ddu vii (Due vie), che prendeva il nome dall’originaria collocazione all’incrocio tra le vie Cesare Battisti e Santa Cecilia, è stato infatti “deportato” da oltre un decennio in un’area appositamente predisposta con padiglioni prefabbricati presso piazza Zaera, perdendo inevitabilmente quella fusione con il tessuto urbano che ne era stato il tratto distintivo. Gli stereotipi su cui si fondano anche queste grida di reclame sono quelli consueti, ma merita menzione la prima per l’aggraziata immagine che riesce a evocare[89]:



U papà quannu potta l’àmmeru u picciriddu si prea!
(Quando il padre porta il gambero il bambino è contento!)



Ch’è bbedda frisca st’alalonga! Chi alalonga ciaurusa chi iàiu!
(Com’è bella fresca questa alalonga! Che alalonga profumata che ho!)



Piscispata or’u nchianaru, ch’è bbellu! Cciû scalai ora a vintimila liri, cciû scalai!
(Pescespada ora lo hanno portato, com’è bello! L’ho appena ribassato a ventimila lire, l’ho ribassato!)



Frittu di calamari chi ancora si mòvunu frischi! Iàiu bbellu frittu di trìgghia e ccalamari chi ancora si mòvunu frischi!
(Fritto di calamari che ancora si muovono freschi! Ho bel fritto di triglia e calamari che ancora si muovono freschi!)



Arruvau u mazzu dû maccatello e puttau a vera russulidda, ch’è bbella!
(È arrivato il “mazzo” dal mercatello e ha portato il vero novellame, com’è bello!)



Sotto il segno dell’abbondanza


Abbiamo delineato l’articolazione locale, storicamente circoscritta, di un sistema comunicativo “intersensoriale” che affonda le sue radici nello stesso affermarsi delle società sedentarie, fondate sulla circolazione mercantile dei beni di sussistenza. Nelle culture agropastorali i processi di produzione, conservazione e distribuzione degli alimenti si dispiegano d’altronde entro una dimensione impregnata di sacralità, che perpetua concezioni del rapporto tra uomo e natura già ampiamente maturate presso i popoli cacciatori-raccoglitori. In particolare, le pratiche espressive – mimiche, danze, canti, travestimenti, ornamenti, produzioni figurative, ecc. – sono state costantemente impiegate per significare nei modi più svariati l’incremento vitale, auspicando l’abbondanza futura per mezzo di simulazioni ritualmente codificate. Nel nostro caso gli alimenti accumulati, ostentati con ricercata perizia compositiva ed elogiati attraverso adeguate modulazioni della voce, rinviano a una rappresentazione potenziata del mangiare e del bere: con la sola forza della loro presenza gli alimenti scongiurano il rischio della carestia e della fame; con la loro reale potenzialità energetica sottraggono gli uomini all’incertezza della quotidiana fatica, riaffermando il perpetuarsi dei cicli vitali. In questa prospettiva è significativo ricordare quanto osserva Piero Camporesi (1983: 236) – seguendo in parte le considerazioni di Émile Benveniste (1971, 1976) – riguardo alla nozione di acquisto nelle lingue indoeuropee:



Nelle antiche società di ceppo ariano il verbo indicante l’«acquistare al mercato» (usato anche nel senso di vendere) aveva connessioni etimologiche col «gioire di un nutrimento, consumare», «nutrire e allevare», connesso anche con il significato di «salvare» e «guarire». Si profila sullo sfondo anche la luce della redenzione. Anastomosi di famiglie linguistiche in cui gli allacciamenti tra sacro e profano, fra comprare e vendere, fra nutrire e consumare, gioire e salvare, discendono dalla funzione primaria del mangiare. La «civilizzazione» ha camminato insieme alla storia perché ha avuto appetito, perché è stata spronata dai morsi della fame. Lo stomaco, inventore ingegnoso di tutte le scienze, è stato il motore occulto dello sviluppo, delle tecniche dell’organizzazione sociale delle culture. La riflessione sull’uomo inizia partendo dal suo ventre. L’abbondanza delle merci commestibili rende possibile il convivium, la comunione alimentare, cemento sociale delle antiche tribù. In un’altra sfera archetipi solidi o liquidi (il pane, il vino, il latte) dilatano nel soprannaturale l’esistenza della loro doppia, ambigua presenza, materiale e simbolica.



È superfluo rimarcare la centralità del cibo entro i circuiti cerimoniali di scambio, che giovano sia a sancire le alleanze tra gli uomini (individui, gruppi, comunità) sia a mediare il rapporto tra l’umano e l’extra-umano. Se osserviamo tuttavia i tratti che strutturano l’istituto dello scambio cerimoniale entro i più svariati contesti storico-culturali, riducibile alla sequenza di accumulazione, ostentazione e redistribuzione dei beni in forma di dono [90] , si potrà rilevare un singolare parallelismo con quanto si verifica entro uno spazio come quello del mercato, deputato a ospitare in prevalenza scambi di ordine commerciale. Le ragioni di questo parallelismo vanno ricercate nella natura fortemente simbolica di un luogo in cui si rinnova quotidianamente il miracolo dell’abbondanza, in modo a tutti visibile e per tutti disponibile (se pure in misura diversa, fino a comprendere le offerte caritatevoli). Questa idea traspare con evidenza anche da quanto osserva Michail Bachtin riguardo alle “grida di mercato” della Parigi cinquecentesca, ricavate dal Gargantua et Pantagruel di Rabelais: «non erano altro che una cucina sonora e un fasto­so banchetto sonoro in cui ogni prodotto e ogni cibo aveva il proprio ritmo e la propria melodia particolare; era una sorta di sinfonia della cucina e del banchetto che risuonava in permanenza nelle strade» (1979: 200). Sotto questo aspetto i mercati tradi­zionali sono luoghi della “certezza”: la penuria dei prodotti sui banchi, o peggio ancora la loro totale assenza, costituiscono il segno ineluttabile della crisi vitale per la società intera, mentre l’esposizione fastosa delle merci, accompagnata dalla loro ben modulata magni­ficazione acustica, ne rappresentano tangibilmente il benessere e la prosperità.

Se le pratiche di ostensione attuate in questi mercati hanno obiettivi primariamente materiali, dettati dalle ragioni del commercio, le forme in cui questa ostensione si plasma rinviano a modelli riconducibili alla sfera dei comportamenti rituali. Il modo in cui vengono tuttora “ordinate” in Sicilia le offerte alimentari in occasione delle pratiche di ex-voto tributate ai santi suggeriscono con forza questa correlazione. Soprattutto nelle celebrazioni in onore di san Giuseppe, l’esposizione di alimenti crudi, di pietanze più o meno elaborate e, addirittura, di notevoli quantità di cibi e bevande confezionate (dai biscotti alla pasta, dal vino alla cocacola), disposti su tavoli oppure impilati sul pavimento lungo le pareti di stanze appositamente predisposte, ripropone significativamente gli stessi schemi elaborati ai fini dello scambio commerciale. Il senso ultimo di questa ostentazione viene lucidamente posto in evidenza da Fatima Giallombardo (2003: 42-43):



[…] ortaggi selvatici (cardi, asparagi, finocchietti) e coltivati (lattughe, fave fresche, carciofi, finocchi); agrumi (arance, limoni, mandarini, cedri), si ammassano sulle tavole devozionali, adornano le statue dei santi […]. Oltre alle primizie di frutta e alle pietanze, tutti questi alimenti sono strategicamente presenti negli spazi ostentativi delle feste per ribadire, insieme alle alleanze con le entità sacrali, il senso rassicurante del ritmo apicale della fertilità. Una dimensione che si itera nelle numerose celebrazioni del ciclo annuale anche attraverso gli elementi arborei (alloro, mortella, palme), il fuoco, i rametti di rosmarino posti a adornare anche certe ciambelle di pane […]. Si tratta, com’è evidente, di simboli orientati a suggerire l’idea di una energia vitale concentrata, alla cui fruizione in chiave collettiva, e secondo norme cerimoniali, molti gruppi continuano a affidare la garanzia della continuità naturale e sociale.



Si comprende allora quale sia il meccanismo fondante di questa retorica della persuasione
, che non cessa di narrare la seduttività del “corporeo” come struttura del godimento dei sensi. Ne consegue una estetica del mostrare, dove la materialità dell’oggetto diventa forma culturalmente sublimata attraverso una ritmica delle forme, dei colori e dei suoni. Una estetica corroborata dal vigore di simboli arcaici, eppure ancora straordinariamente efficaci. Queste strategie dell’offerta “mercantile” degli alimenti continuano a significare il prevalere dell’ordine umano sul caos che può essere generato da una natura ostile. Una natura che invece trova, proprio all’interno di queste aree centrali della civitas , salda e rassicurante domesticazione: gli alimenti ordinatamente “ammucchiati” e adeguatamente “cantati” riproducono difatti un esemplare calendario della fruttificazione (vegetale e animale), che contiene in una indissolubile circolarità i tempi della produzione, della distribuzione (vendita) e del consumo. “Tempi” solo apparentemente connotati da uno spirito profano, ma in realtà profondamente permeati di sacralità. Non è certo un caso che le fiere (del bestiame anzitutto), estensioni sovralocali e intercomunitarie dei mercati cittadini, siano state da sempre associate a festività religiose, e che le stesse celebrazioni religiose prevedano invariabilmente la presenza di particolari mercati, se pure specializzati nella vendita di prodotti specifici (dolci, bevande, semi tostati e frutta secca, cibi di strada, giocattoli, ecc.).


I mercati tradizionali – dove peculiari modalità di ostensione si accompagnano al gusto agonistico della contrattazione, all’irruzione dell’oscenità e del riso, al piacere del gioco e al rigore iterativo del rito – restano pertanto ancora luoghi “della lontananza”. Parziali baluardi di un mondo preindustriale, essi paradossalmente si pongono come modelli dei nuovi e moderni spazi della compravendita (supermercati, ipermercati e forse anche ultramercati), non più “officine dei sensi” ma “mercati-obitorio”: tanto dei cibi quanto delle molteplici declinazioni dell’umana espressività[91].


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1913        La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Reber, Palermo.

Pratella, Francesco Balilla

1941        Sicilia in Id., Primo documentario per la storia dell'etnofonia in Italia, 2 voll., Istituto delle Edizioni Accademiche, Udine: II, 451-476.

Rigoli, Aurelio

1973        Vita e costumi dei siciliani dall’XI al XIX secolo, in un inedito di Salvatore Salomone-Ma­rino , in Id., Mondo popolare e letteratura , Flaccovio, Palermo: 109-162.

Rubino, Benedetto

1925        I gridatori delle vie siciliane , in “La lettura”, XXV/2: 157-158

Scarsellini, Annalisa

1985        Teatralità dell’imbonimento di piazza , in Della Peruta - Leydi - Stella 1985/II: 33-45.

Serio, Stefania - Soriani, Guido

2005        Abbanniate e interazioni nei mercati del Capo e di Ballarò di Palermo, in G. Marcato (a cura di), Dialetti in città, Unipress, Padova: 99-106.

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2005        Il mercato in cttà: contesti comunicativo-relazionali a Ballarò e al Capo di Palermo, in G. Marcato (a cura di), Dialetti in città, cit.: 93-98.

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1957        Il canto popolare siciliano. Studio introduttivo, in Favara 1957/I: 2-113.

Uccello, Antonino

cd.2004    Antonino Uccello etnomusicologo. Documenti sonori degli Archivi di etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 2 cd, a cura di G. Pennino, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione, Palermo.

Zumthor, Paul

1995        La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medio Evo [1993], trad. it. Il Mulino, Bologna.


Note

[1] L’idea che i mercati si configurino come scene animate da attori che ogni giorno interpretano un canovaccio dettato dalla tradizione non è certo nuova; si vedano a esempio: Bachtin 1979: passim; Burke 1980: 106-110; Camporesi 1983: 235-241; Scarsellini 1985; Canetti 1989: 21-31; Zumthor 1995: 126-127: Matvejevic 1998: 263-271; Aime 2002: 72-84. Per un inquadramento generale degli aspetti storico-culturali e socio-simbolici connessi alla “vita” dei mercati urbani in contesti europei ed extraeuropei si vedano in particolare Braudel 1981 e Latouche 2004.

[2] Tra i pochi testi che trattano l’esposizione della merce nei mercati storici siciliani (soprattutto attraverso immagini fotografiche), si segnalano La Duca 1994 e AA.VV. 2001. Per una breve nota centrata sugli aspetti linguistico-relazionali, cfr. Sottile 2005. Più in generale per l’area italiana si veda AA.VV. 1992.

[3] Rilevamento (videoripresa): Acireale (Ct), 09/04/2005.

[4] Rilevamento (videoripresa): Palermo, 07/05/2005.

[5] Rilevamento (videoripresa): Caltanissetta, 02/04/2005.

[6] Rilevamento (videoripresa): Trapani, 10/06/2004.

[7] Cfr. nota 4.

[8] Rilevamento (videoripresa): Catania, 25/04/2004.

[9] Rilevamento (videoripresa): Catania, 23/02/2002.

[10] Cfr. nota 6.

[11] Rilevamento (videoripresa): Palermo, 15/05/2004.

[12] Cfr. nota 11.

[13] Rilevamento (videoripresa): Siracusa, 24/02/2002.

[14] Cfr. nota 5.

[15] Per considerazioni relative al toccu e alla riffa nel quartiere del Borgo Santa Lucia – dove è situato uno dei mercati tradizionali di Palermo – si veda Guarrasi 1978: 158-168. Più in generale sul gioco del toccu in Sicilia, cfr. D’Onofrio 1988. Riguardo altri contesti ludico-cerimoniali in cui si mettono in gioco alimenti, cfr. in particolare Giallombardo 2003: 91-124. Sul valore simbolico del gioco, con specifico riferimento al contesto tradizionale siciliano, cfr. Buttitta 1999.

[16] Grida di venditori e artigiani ambulanti siciliani sono state raccolte da numerosi studiosi, fra cui segnaliamo: Pitrè 1882, 1889/I: 363-404, 1894, 1913: 212-266; Ferrara 1896 (con esempi musicali); Perroni Grande 1903; Alesso 1915: 99-108; Rubino 1925; Lo Presti 1963 (con ess. mus.); Biagini 1938; Pratella 1941/II: 465-470 (con ess. mus.); Favara 1957/II: 487-513 (con ess. mus.); Grillo 1972-73 (con ess. mus.); Alessandro 1982 (con ess. mus.). Per uno studio sulle grida dei venditori ambulanti napoletani, corredato da documentazione sonora, cfr. Biagiola d. 1979. Per una sintesi relativa all’area italiana, cfr. Biagiola 1992. Per un approccio funzionale-strutturale alle “grida di reclame”, cfr. Bogatyrëv 1982. Per un’analisi di tipo linguistico, cfr. Garzioli 1985 e 1992. Per un approfondimento storico nel più ampio quadro dei rapporti tra musica e pubblicità, cfr. Julien 1992. Per l’edizione discografica di alcuni documenti raccolti in Sicilia si vedano: Guggino d. 1974: A/4; Fugazzotto-Sarica cd. 1998: 15-22; Acquaviva-Bonanzinga cd. 2004: 22, 23; Uccello cd. 2004: 26, 27, 57.

[17] Per la nozione di suono-segnale , cfr. Schafer 1985: 22.

[18]  Cesare Caravaglios riscontrava nelle grida dei venditori napoletani lo “stato embrionale” di alcune forme del canto popolare e in particolare del canto a ffigliola (1931: 28-29; cfr. anche Caravaglios 1936). Il processo inverso venne invece posto in evidenza da Ottavio Tiby con riferimento a certe abbanniatini trascritte da Favara: «molto esse debbono al canto del popolo, del quale alcune mi appaiono come manifeste derivazioni» (1957: 97). Sarebbe interessante approfondire la questione verificando in modo sistematico le opzioni indicate dai due studiosi.

[19]  Rilevamento (audioripresa): Villabate (Pa), 29/07/1995. Esecuzione: Nino Geraci (n. 1935, venditore ambulante).

[20] Cfr. nota 18

[21] Rilevamento (audioripresa): San Filippo Inferiore (fraz. di Messina), 18/09/1988. Esecuzione: Francesco Sottile (n. 1939, venditore ambulante).

[22] Rilevamento (audioripresa): Belmonte Mezzagno (Pa), 07/08/1991. Esecuzione: Pietro Greco (n. 1920, contadino e venditore ambulante).

[23] Cfr. nota 20.

[24] Rilevamento (audioripresa): Messina, 20/02/1989. Esecuzione: Michele Ferro (n. 1911, pescivendolo al mercato delle “Due vie”).

[25] Rilevamento (audioripresa): Giampilieri Superiore (fraz. di Messina), 05/08/1988. Esecuzione: Salvatore Mazzapica (n. 1939, venditore ambulante e contadino).

[26] Rilevamento (audioripresa): Torre Faro (fraz. di Messina), 18/09/1989. Esecuzione: Giuseppe Arena (n. 1925, venditore ambulante e pescatore).

[27] Cfr. nota 20.

[28] Cfr. nota 21.

[29] Cfr. nota 18.

[30] Rilevamento (audioripresa): Salemi (Tp), 30/03/1996. Esecuzione: Benedetto Di Dia (n. Marsala 1925, venditore ambulante).

[31] Cfr. nota 22.

[32] Cfr. nota 27.

[33] Cfr. nota 18.

[34] Cfr. nota 18.

[35] Cfr. nota 18.

[36] Cfr. nota 27.

[37] Cfr. nota 18.

[38] Cfr. nota 18.

[39] Cfr. nota 23.

[40] Cfr. nota 27.

[41] Cfr. nota 18.

[42] Cfr. nota 18.

[43] Cfr. nota 27.

[44] Cfr. nota 27.

[45] Cfr. nota 27.

[46] Cfr. nota 27.

[47] Rilevamento (audioripresa): Giampilieri Superiore (fraz. di Messina), 05/08/1988. Esecuzione: Salvatore Berlinghieri (n. 1959, venditore ambulante).

[48] Cfr. nota 47.

[49] Rilevamento (audioripresa): Belmonte Mezzagno (Pa), 07/08/1991. Esecuzione: Giuseppe Saletta (n. 1940, bidello, occasionalmente venditore ambulante).

[50] Cfr. nota 21.

[51] Cfr. nota 20.

[52] Cfr. nota 25.

[53] Cfr. nota 18.

[54] Cfr. nota 22.

[55] Rilevamento (audioripresa): Torre Faro (fraz. di Messina), 18/09/1989. Esecuzione: Giuseppe Rando (n. 1919, venditore ambulante e pescatore).

[56] Rilevamento (audioripresa): Villabate (Pa), 16/06/2001. Testimonianza: Ignazio Dominici (n. 1925, carrettiere).

[57] Cfr. nota 18.

[58] Anche questa testimonianza si deve a Nino Geraci (cfr. nota 18).

[59] Segnaliamo a tale proposito una pertinente osservazione di Giuseppe Pitrè (1900: 75) riguardo al contrasto tra la “cantilena allegra” dei venditori e quella “monotona” dei mendicanti.

[60]  L’episodio è stato riferito da Antonino Buttitta che ringraziamo per la segnalazione.

[61]  Rilevamento (audioripresa): Lipari, Isole Eolie (Me) 15/04/1990. Testimonianza: Giovanni Saccà (n. 1932, rigatteri, piccolo grossista di pesce).

[62] Cfr. nota 24.

[63] Si ringrazia per la segnalazione Giuseppe Di Miceli (insegnante presso la scuola media statale G. Galilei di Mezzojuso).

[64] Rilevamento (audioripresa): Salemi (Tp), 05/05/1991. Esecuzione: Salvatore Corradino (n. 1912, tammurinaru ).



[65]  È interessante rilevare come questa azione fosse parodisticamente riproposta a Palermo in ambito carnevalesco (cfr. Pacella 1933: 85-90). Per valutazioni relative a forme rituali connesse alla celebrazione dell’abbondanza alimentare in Sicilia, si veda in particolare Giallombardo 1990a e 2003.

[66]  L’enunciazione dei messaggi di pubblico interesse per mezzo dei banditori professionali, eredi degli antichi araldi, era ancora molto comune in Sicilia fino agli anni Cinquanta. Gli avvisi, che venivano declamati ad alta voce, erano perlopiù preceduti dal suono di un tamburo – ma all’occorrenza potevano impiegarsi anche trombe militari, corni d’ottone, campanelli o campanacci per vacche – con cui si eseguivano semplici ritmi per meglio attirare l’attenzione. Per attestazioni relative al mestiere di banditore in Sicilia, si vedano: Pitrè 1889/I: 367; Alesso 1915: 130-132; Grisanti [1909] 1981: 168-169. Per la trascrizioni musicale di alcuni ritmi che accompagnavano la declamazione dei bandi, si veda Favara 1957/II: nn. 938, 971, 980, 1016, 1028; per la trascrizione completa di un bando, si veda Favara 1957/II: n. 1018. L’attività di uno di questi “professionisti della voce” viene descritta verso la fine dell’Ottocento da Salvatore Salomone Marino, con particolare attenzione per forme, funzioni e occasioni di questo antico mestiere (testimonianza contenuta in un manoscritto edito a cura di Aurelio Rigoli; cfr. Rigoli 1973: 136-137).

[67]  Rilevamento (audioripresa): Palermo, 07/08/1991. Esecuzione: Giuseppe Aucello (n. 1916, ex impiegato, abbanniaturi), Maurizio Aucello, (n. 1964, manovale, tammurinaru ), Onofrio Aucello (n. 1949, bidello, tammurinaru ).



[68]  Rilevamento (audioripresa): Noto (Sr), 07/08/1998. Esecuzione: Salvatore Marini (n. 1956, venditore ambulante).

[69] Abbiamo potuto acquistare l’audiocassetta (60 minuti di durata) nel 1998 dal venditore Vincenzo Romagnolo (n. 1949), di passaggio in via delle Pergole (zona Ballarò). Fino a oggi continuiamo a osservare tra i venditori di sfinciuni la medesima consuetudine, con il ricorso anche a nuove “edizioni” dell’audiocassetta sempre realizzata da Giuseppe La Torre.

[70] Fanno eccezione i rilevamenti indicati alle note 23, 24, 47 e 67.

[71] La formalizzazione verbale degli imbonimenti si pone in questa sede quale obiettivo prioritario dell’analisi. Segnaliamo tuttavia che è in corso di elaborazione un nostro studio complessivo sulle grida di reclame, esteso al complesso degli aspetti performativi – melodici, cinesici, prossemici – che più ampiamente caratterizzano questo peculiare sistema di propaganda commerciale.

[72]  Considerate le circostanze in cui si è operata la documentazione, solo di rado è stato possibile registrare il nome del venditore che eseguiva i richiami. Si indicherà pertanto esclusivamente il luogo e la data in si sono svolti i rilevamenti.

[73] Una recente indagine, specificamente incentrata sulle modalità di interazione tra venditori e acquirenti nei mercati palermitani del Capo e di Ballarò, pone tra l’altro in evidenza la frammistione linguistica presente nel repertorio delle abbanniati (cfr. Serio-Soriani 2005).

[74] Cfr. nota 11.

[75] Cfr. nota 11.

[76] Cfr. nota 11.

[77] Cfr. nota 11.

[78] Cfr. nota 9.

[79] Rilevamento (videoripresa): Palermo, 09/06/1995.

[80] Cfr. nota 79.

[81] Cfr. nota 4.

[82] Cfr. nota 4.

[83] Questa stessa abbanniata , raccolta sempre a Palermo negli anni Trenta del Novecento da Ermanno Biagini, viene così commentata: «sta a significare che, siccome l’aglio si fa sentire col suo odore penetrante e persistente, così occorre l’aglio per far sentire la nostra presenza ai vicini… quando ne sia il caso!» (1938: 860).

[84] Cfr. nota 9.

[85] Cfr. nota 13.

[86] Cfr. nota 6

[87] Cfr. nota 5.

[88] Giorgio Raimondo Cardona, esaminando alcuni esempi tratti da una raccolta di grida di venditori del Cairo realizzata negli anni Trenta da J. Heyworth-Dunne, osserva un caso simile a questo di Caltanissetta: «il grido “Dio me ne ripagherà” del venditore di acqua va interpretato come: “il prezzo che vi faccio è così basso che la mia si può considerare solo una buona azione; per questo mi aspetto ricompensa sola da Dio”, con un efficace capovolgimento delle presupposizioni dell’ascoltatore» (1976: 205).

[89] Rilevamento (audioripresa): Messina, 20/02/1989.

[90] La questione è stata trattata, com’è noto, in diversi contributi “classici” dell’antropologia (da Mauss a Bataille, da Malinowski a Lévi-Strauss). Valga qui rinviare agli studi di Fatima Giallombardo – che ha tra l’altro saputo raccordare i meccanismi che strutturano certi processi di acquisizione (pesca del novellame nel Palermitano) a quelli riscontrabili nell’ambito di svariate pratiche rituali siciliane – e all’ampia bibliografia ivi indicata (1990b, 2003).

[91] Le espressioni virgolettate sono desunte da Camporesi 1985 e 1983 (p. 237).


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