Le traiettorie acustiche di Le Corbusier è un saggio che Amedeo Petrilli (1995-2005) aveva scritto in occasione delle lezioni che aveva tenuto presso il mio insegnamento di Estetica alla Facoltà di Architettura di Milano-Bovisa. Tali lezioni erano state lo stimolo per l’elaborazione di un lavoro molto più ampio e articolato pubblicato dalla Marsilio nel 2001 e intitolato Acustica e architettura. Spazio, suono, armonia in Le Corbusier (questo testo venne pubblicato dopo una monografia dal titolo Il testamento di Le Corbusier, 1999, e precede un volume, ora in corso di pubblicazione, sempre per la Marsilio, L’urbanistica di Le Corbusier, 2006).

Amedeo Petrilli, architetto conosciuto e molto stimato in Italia e all’estero, è stato uno dei maggiori esperti dell’opera e del pensiero di Le Corbusier, di cui fu allievo. Nel 1965 era entrato nel suo Atelier, a Venezia, lavorando per il progetto dell’Ospedale, purtroppo mai realizzato, e aveva continuato poi la sua formazione a Parigi.

Ha lavorato a Como (dove si può ammirare parte delle sue opere realizzate come architetto) e a Milano, e ha insegnato per diversi anni alla University of Pennsylvania in Philadelphia, alla University of Texas in Arlington e alla University of Southern California in Los Angeles.

Se il suo primo volume è il testamento di Le Corbusier, l’ultimo, è drammaticamente il suo stesso testamento. Durante la stesura ho avuto la fortuna di essere una sua interlocutrice. Mi raccontava di essere giunto alla fine del suo percorso, avendo completato il terzo libro su Corbu: “non ne scriverò altri. Il cerchio è chiuso definitivamente”. Il cerchio del lavoro, della scrittura e della vita. Non quello degli affetti.

Maddalena Mazzocut-Mis



Amedeo Petrilli
Le Corbusier: forma e immagine

Quando sono stato invitato a tenere delle lezioni nel Corso di Estetica, Maddalena Mazzocut-Mis mi ha spiegato che il tema ruotava intorno al problema della forma e dell’immagine, circostanziando il filo logico e la sequenza con cui l’argomento sarebbe stato trattato. Devo dire che mi è subito sembrato un itinerario teorico molto interessante e ricco di suggestioni, e allora ho pensato che forse i miei interventi avrebbero potuto, in qualche modo, mettere a fuoco una serie di coordinate e di principi che, in architettura, servono a dare forma e configurazione allo spazio tridimensionale: anche perché, in definitiva, questa è la nostra vera preoccupazione come architetti. E seguendo questa traiettoria, che peraltro a mio avviso non è lineare e rettilinea come qualcuno afferma, ma al contrario variegata e oscillante, ho scelto di cominciare con un’opera di Le Corbusier, il nuovo Ospedale di Venezia, il suo ultimo progetto in ordine temporale.

Sono passati più di trent’anni, si tratta di un progetto rimasto sulla carta e non di un’opera costruita, quindi di un processo architettonico interrotto e cristallizzato allo stato d’idea. Ma quando fu presentato, destò subito un enorme interesse sia per la sua qualità intrinseca sia perché i contenuti sembravano svelare molteplici e inedite direzioni di ricerca: la critica più avvertita lo definì il testamento di Le Corbusier, e non soltanto perché fu l’ultimo organismo su cui lavorò. Per queste ragioni, penso abbia senso rivisitarlo, cercando di individuarne gli elementi generatori e le forme che lo caratterizzano. Aggiungo anche che, osservando i segni e le figure che mostrano il lento itinerario percorso per arrivare alla sua definizione, qualcuno potrebbe essere sorpreso dalla loro semplicità e dall’assenza di ogni tentativo di rappresentazione - il nuovo simulacro che oggi sembra imporsi all’interno dello scenario architettonico - ma è bene ricordare che per Le Corbusier “l’architecture est un acte d’amour et non une mise en scène[1]. Non cito questa frase come una dichiarazione ad effetto, ma soltanto perché palesa un atteggiamento culturale e umano estremamente chiaro e rigoroso.

Nell'aprile del 1965, dopo due anni di intenso lavoro sviluppato a Parigi nell'atelier di rue de Sèvres, Le Corbusier presentò personalmente a Venezia - nella mostra allestita per celebrare la circostanza - i piani del progetto per il nuovo Ospedale: un organismo orizzontale, interamente portato dai pilotis, organizzato su tre livelli principali e la cui altezza non superava la linea media degli edifici della città. L’area messa a disposizione era limitata, per cui la struttura si espandeva nella laguna, appoggiata su palafitte immerse nell’acqua, secondo l’antica tecnica costruttiva dei veneziani. La sola parte chiusa era quella superiore, il piano della degenza; in questo modo, a chi arrivava dalla terraferma, era lasciata aperta la vista della città retrostante, secondo una molteplicità di traiettorie visive: una transenna, una sorta di filtro, uno spazio di mediazione tra la dimensione aperta della laguna e la complessa articolazione della trama urbana. L’insieme, visto dall’alto, presentava lo stesso andamento ritmico della città di Venezia, l'armonica contrapposizione dei pieni e dei vuoti e un tessuto edilizio compatto, variamente percorso, secondo una logica precisa, da calli, campi e canali.

L’Ospedale si poneva come la logica estensione di questo “edificio unico”, la città, e sembrava svilupparla organicamente sull’acqua della laguna. Come dichiarò Le Corbusier in un'intervista: “La città di Venezia è là, e io l’ho seguita. Non ho proprio inventato niente. Io ho solo progettato un complesso ospedaliero che può nascere, vivere ed espandersi come una mano aperta: è un edificio ‘aperto’, senza una sola facciata definitiva, in cui si entra dal di sotto, cioè dal di dentro, come in altri luoghi di questa città”[2]. La forma è “aperta”, non bloccata o immutabile, la sua immagine non è definitiva: non solo concettualmente, ma anche da un punto di vista spaziale e organizzativo sembra possibile intervenire, modificare ed estendere questa struttura, senza per questo alterare in alcun modo il suo principio generatore e la sua concezione architettonica globale.

Osservando con attenzione i suoi schizzi e le note preliminari, appare anche evidente che, secondo Le Corbusier, un ospedale, prima di essere un organismo specializzato, un manufatto che deve rispondere a specifiche esigenze tecniche e funzionali, è una "casa dell'uomo". Il problema è subito chiaramente determinato - la chiave è l'uomo - considerato nella sua totalità, con la sua ragione, i suoi sentimenti, le sue necessità e le sue dimensioni fisiche: il punto di partenza sarà allora il suo alloggio all'interno di questa struttura, e cioè la stanza di degenza, la cellula. Qual è infatti la funzione primaria di un ospedale? Curare l'uomo malato: ma tutti gli uomini quando nascono sono uguali, e quindi ogni malato ha a disposizione una cellula individuale, senza distinzioni sociali, la stessa per i ricchi e per i poveri, variamente combinabile e aggregabile con le altre.

E in relazione a questa precisa scelta umana e figurativa, Le Corbusier individua su tre piani sovrapposti la localizzazione e la distribuzione delle attività e dei servizi medici. Non solo, ma per assicurare continuità, organicità e chiarezza a un processo architettonico che avrebbe dovuto svilupparsi nel tempo e prevedere la possibilità di una sua crescita per parti, ritiene necessario definire un sistema organizzativo complessivo, cioè una struttura logica, dotata d’un alto grado di mobilità interna, destinata a essere la matrice costruttiva e la guida permanente e flessibile per lo sviluppo dell’organismo: propone cioè un "modello spaziale" formato da calli e campielli - le strade e le piazze veneziane - che collegano e servono unità modulari e autonome, recuperando virtualmente il tessuto storico della città e i ritmi del suo andamento distributivo.

Affermò a questo proposito: “Bisogna capire l’andamento del sangue, come scorre il sangue nelle arterie e nelle vene per poter fare una ‘plastica’, altrimenti il corpo umano respinge il corpo estraneo; si è nella circolazione vitale di questo organismo o non lo si è. Io ho riportato il modo di camminare a Venezia - calli, campielli, ponti - tutto questo modo di andare, il tempo delle percorrenze, l’ho portato dentro l’ospedale. L’esito esterno è una conseguenza”[3]. Appare dunque evidente che Le Corbusier mutua la sua opera dalla città e la città, in un senso, continua con l’Ospedale, in un rapporto reciproco e scambievole. Ma è anche chiaro, in queste parole, che la città viene letta come un sistema "biologico", un insieme perfettamente calibrato in tutte le sue parti, un organismo vivente in cui ogni elemento aggiunto deve trovare il giusto equilibrio con le condizioni preesistenti.

E non sorprende che la città di Venezia fosse sempre stata per Le Corbusier il vero modello di riferimento, il paradigma fondamentale nella formulazione delle sue proposte per il disegno della città contemporanea: le sue caratteristiche morfologiche e spaziali - dettate dalla specificità del contesto fisico e affinate dalla partecipazione dei suoi abitanti - avrebbero potuto fornire, a suo giudizio, i parametri e le regole per configurare i nuovi interventi urbanistici. Sia nei disegni e negli appunti presi durante le sue frequenti visite - la prima risale al 1907 - sia negli scritti esemplari degli anni Trenta[4], vengono infatti analizzate con cura le relazioni esistenti tra gli organismi architettonici e l'articolazione del tessuto edilizio, e appare evidente che tutto si gioca sul delicato rapporto tra terra e acqua: la gerarchia dei tracciati urbani, le traiettorie visive, gli ambiti spaziali e i margini degli assetti planimetrici, la sequenza e la giustapposizione dei volumi, l'armonica alternanza dei materiali e dei colori impiegati, l'incidenza e la qualità della luce.

Scrisse infatti in La Ville Radieuse, nel 1935: “Quello che è fondamentale a Venezia è la distinzione tra la circolazione naturale e quella artificiale: il pedone e la gondola. Questa distinzione è originata dalle condizioni naturali del sito. La netta separazione delle due circolazioni ha permesso d’organizzare, senza equivoci né dualità, i tracciati urbani: qui i canali, là le strade dei pedoni. E’ un sistema cardiaco puro, impeccabile. Il ‘piano d’acqua’ ha imposto la scala umana a tutte le cose: per scendere o salire sulla gondola bisogna servirsi di gradini con dimensioni corrette e disposti utilmente. Né il fasto né l’Accademia potrebbero essere tollerati in luoghi dove si svolgono funzioni così delicate. Si potrebbe dimostrare che Venezia è un meccanismo perfetto, un sistema corretto e sapiente, un prodotto preciso delle vere dimensioni umane. Questa città non avrebbe alcun bisogno dei suoi famosi palazzi rinascimentali per essere un’ammirevole creazione umana” [5].

Io credo cioè si possa affermare che, proprio su questi aspetti e attraverso la sapiente e poetica interrelazione delle stesse coordinate, verranno selezionati, molti anni dopo, i principi e i segni che daranno forma ai piani del nuovo Ospedale di Venezia: si trattava cioè di mettere a punto una strumentazione appropriata e creare una continuità con la struttura e con gli elementi spaziali della città, un sistema logico e semplice, che offre possibilità complesse, e introdurli nel progetto.
E non a caso, in una recente intervista, Guillaume Jullian de la Fuente[6] - l’architetto che collaborò con Le Corbusier alla concezione di quest’opera - ha affermato: "Questo progetto è una specie di témoin nel quale Corbu introduce tutti i suoi principi e le sue teorie, e lascia aperta la porta per quello che viene dopo. In questo caso la sua architettura non è soltanto la soluzione di un problema specifico, ma è un'apertura... E' tutta una vita, sai, ed è curioso questo eterno ritorno ai basic problems: l'Ospedale diventa l'opera che mette in ordine tutte le cose"[7].

In altri termini, attraverso la lettura di questo progetto “esemplare”, non è soltanto possibile individuare i rimandi e le connessioni con il lavoro precedente, ma appare evidente la straordinaria continuità presente in tutta la sua ricerca: un lento e rigoroso processo conoscitivo che cercherò di condensare brevemente, limitandomi a enunciare una serie di punti strettamente connessi con l'Ospedale di Venezia. Innanzi tutto, vorrei sottolineare l’impegno teorico che Le Corbusier manifestò sempre nel codificare e sistematizzare, sia a livello architettonico sia urbanistico, norme e regole generali: in questo senso, si potrebbero esaminare alcune delle proposte studiate per le grandi aree metropolitane o le diverse articolazioni elaborate intorno al tema dell’alloggio, ma se si osservano con attenzione gli elementi e i dettagli costruttivi della configurazione finale dell’Ospedale - pilotis, brise-soleil, aréateurs, pans de verre ondulatoires - si possono desumere segni e riferimenti linguistici che derivano da un lessico preciso, costruito nel tempo e continuamente perfezionato.

Come secondo punto vorrei evidenziare, nell’opera di Le Corbusier, la sua costante ricerca verso la tipizzazione e la standardizzazione degli organismi e delle componenti architettoniche, cioè il tentativo di dare loro una forma e una struttura appropriata, producibile in serie e ripetibile. Scrisse in Vers une architecture, nel 1920: “Bisogna tendere alla determinazione di standard per affrontare il problema della perfezione. Il Partenone è un prodotto di selezione applicato a uno standard. L’architettura agisce attraverso gli standard. Gli standard sono un fatto di logica, di analisi e di studio scrupoloso; si stabiliscono a partire da un problema ben posto. La sperimentazione fissa definitivamente lo standard”[8]. Fissare lo standard significa dunque - come si può leggere nella relazione tecnico-sanitaria[9] allegata ai piani dell’Ospedale - “selezionare” tutte le potenzialità, teoriche e pratiche, per definire un modello riconoscibile e conforme alle funzioni e alle attività previste, aspirando al massimo rendimento e al minimo impiego delle risorse disponibili: mano d’opera, materiali, parole, forme, colori, suoni. Selezione vuole dire: “Scartare, sfrondare, pulire, far emergere - netto e chiaro - l’essenziale”[10]. E Le Corbusier applicò sempre questi principi, per esempio nello studio dell’alloggio: l’Unità d’abitazione a Marsiglia, realizzata nel 1952[11], rappresenta certamente il prodotto finale di una ininterrotta sperimentazione - cominciata negli anni Venti - sul tema dello standard applicato alla residenza collettiva.

Ma vorrei mettere a fuoco un altro punto che riflette un aspetto analogo al precedente, e cioè l’individuazione e la definizione di tipi e modelli organizzativi che possano strutturarsi organicamente, per addizioni successive, nello spazio e nel tempo; credo infatti che, da un punto di vista concettuale e metodologico, abbia molti elementi in comune con l’Ospedale di Venezia. In particolare, mi riferisco al Museo a crescita illimitata del 1939[12], proposto per Philippeville, una città dell’Africa del Nord, ma che Le Corbusier aveva già cominciato a studiare nel passato e poi riproposto e perfezionato più volte. Il problema è posto, sin dall’inizio, in modo chiaro: l'obiettivo è quello di costruire un museo la cui organizzazione spaziale rifletta le leggi di crescita che appartengono all'ordine naturale in cui si manifesta la vita organica. In tal modo ogni nuovo elemento sembra potersi aggregare armonicamente con il tutto, dal momento che l'idea d'insieme - il principio generatore - è antecedente alla successiva addizione delle singole parti. La struttura può allora estendersi liberamente, secondo uno sviluppo geometrico regolare che assicura l'accrescimento equilibrato sia delle componenti sia del sistema complessivo: in questo caso, la forma individuata è quella della spirale, una figura che appare di frequente all'interno della ricerca di Le Corbusier. Aggiungo che realizzerà questa idea, in modo parziale e con le opportune modifiche, soltanto in tarda età, prima per il Museo di Amedhabad[13] nel 1956 e poi in quello di Tokio[14] nel 1957, ma indagherà gli stessi principi anche per il “Museo del xx secolo”[15] a Nanterre, vicino a Parigi, nel 1965: le analogie con l’impianto veneziano sono evidenti, ma questo non deve sorprendere.

In riferimento a quanto sopra - gli aspetti analogici della sua ricerca - vorrei introdurre un'altra coordinata che mi sembra rilevante, segnalando gli intrecci e le riverberazioni esistenti in alcuni progetti sviluppati negli anni Sessanta, nell’atelier di rue de Sèvres. In quell’arco di tempo, Le Corbusier e i suoi collaboratori stavano lavorando contemporaneamente in molte direzioni e su vari temi ed è interessante osservare come alcune “scoperte” venissero esplorate e verificate in contesti apparentemente diversi tra loro. Se riconsideriamo la pianta del “Museo del xx secolo”, è significativo che la trama organizzativa dell'Ospedale - un sistema semplice, modulare e ripetibile, che può ampliarsi nelle quattro direzioni e originare una sequenza di articolazioni spaziali realizzabili in tempi differenti - potesse introdurre nuove suggestioni intorno al tema della crescita "illimitata" degli edifici. Nel contempo, se riguardiamo con attenzione il modello e i piani definitivi dei musei di Amedhabad e di Tokio, sviluppati circa dieci anni prima, possiamo notare che la sperimentazione sulle possibilità di aggregazione, generate dai principi geometrici e organizzativi della svastica, era già in atto e costituiva il naturale perfezionamento delle qualità originate dalle volute della spirale.

Vorrei anche precisare che, negli anni Sessanta, altri eminenti architetti[16] lavoravano nella stessa direzione ed esploravano analoghe soluzioni - si potrebbe affermare che l’architettura viveva una stagione creativa molto gloriosa - ma in qualche caso l'addizione delle parti sembrava più aritmetica e meccanica, quasi più minerale che biologica: nell'Ospedale di Venezia il processo di crescita era sempre possibile senza alterare la struttura generale del sistema e, benché fosse stato più volte richiesto dalla committenza di variare il numero dei posti letto, l'organismo continuava ad apparire, nelle diverse fasi, come un sistema unitario e armonico. Un ulteriore elemento indagato nello stesso periodo - e non soltanto nell’atelier di Le Corbusier - riguardava l'articolazione tra spazio pubblico e privato all'interno delle strutture architettoniche, vale a dire la definizione degli ambiti specifici e le loro reciproche connessioni: l'organizzazione del progetto per Venezia riflette questo aspetto, per esempio nella individuazione delle cellule "private" dei malati rispetto alla trama "pubblica" della circolazione orizzontale, ma io credo che anche questo fosse un principio ricorrente sin dall'inizio nella ricerca di Le Corbusier, una condizione esplorata - a partire dal 1907 - nelle sue visite alle certose di Ema e di Pavia.

Carpenter Center for the Visual Arts
Harvard University - Cambridge, Massachusetts
Le Corbusier, 1961-64
Ritengo però opportuno circostanziare che gli stessi elementi li ritroviamo sapientemente sviluppati nel Visual Arts Center[17] a Cambridge (Massachusetts) del 1961, nel Centro Olivetti[18] a Rho del 1962 e nel Palazzo dei Congressi[19] di Strasburgo del 1964: anche in questi casi - come per l’Ospedale di Venezia - entrano in gioco la trama organizzativa, il movimento, il ritmo e i flussi della circolazione, i diversificati sistemi di distribuzione, la transizione tra pubblico e privato, il rapporto con le peculiarità del sito, le relazioni con il territorio circostante, l’armonico equilibrio dei volumi sotto la luce. Si potrebbe affermare che gli elementi compositivi sono sempre gli stessi, pochi ed estremamente affinati ma, come Le Corbusier precisò in Le Modulor[20] - il suo libro sulla proporzione e la scala umana - tutta l’aritmetica è scritta con dieci numeri e la musica con sette note.

Vorrei concludere introducendo un altro punto e cioè lo studio appassionato e il continuo interesse dimostrato da Le Corbusier per l’architettura del passato, un atteggiamento che appariva già manifesto nei disegni giovanili e negli scritti degli anni Trenta sui caratteri distintivi del contesto urbano veneziano. Forse non tutti riterranno condivisibili le osservazioni che seguono, ripensando alla perentorietà di alcune sue proposte urbanistiche - peraltro non realizzate o divulgate come un manifesto - ma devo confessare che mi ha sempre sorpreso come le sue profonde riflessioni sull’insegnamento che possiamo ricavare dalle forme, dai volumi e dai tracciati della città antica, siano state regolarmente ignorate o sottovalutate dagli studi critici sulla sua opera. Segnalo infatti che Le Corbusier scrisse, nel 1943, un piccolo libro dal titolo Entretiens avec les étudiants des écoles d’architecture in cui, attraverso una serie di considerazioni generali sugli obiettivi della propria ricerca, si propone di indicare agli studenti d’architettura in quale direzione dovrebbero orientare la loro sperimentazione. Dopo aver messo in gioco la tecnica, il rapporto con il sito e le proporzioni armoniche, spiega come, dal suo punto di vista, ogni uomo equilibrato che si spinge verso le incognite della creazione architettonica, non può avvalersi che delle lezioni fornite dal passato, affermando che “fu il mio solo maestro, e continua ad essere il mio costante ammonitore”[21].

Molti anni prima, nel suo libro Urbanisme[22], Le Corbusier aveva già affrontato diffusamente questo tema. Scriveva infatti che, sebbene la città moderna appaia spesso come un sistema molto complesso, è tuttavia un corpo che possiede degli organi "classificabili" e un contorno, un insieme di cui si possono decifrare i caratteri, la natura e la struttura. E siccome la sua "massa" è sufficientemente coerente per selezionarne i principi fondativi, a suo avviso lo studio dell'organismo urbano poteva essere condotto in termini rigorosamente scientifici. Aggiungeva anche che, se dalla situazione geografica e topografica, oltre che dal suo ruolo politico, economico e sociale, si possono individuare le linee d'evoluzione, è soprattutto dal rapporto tra il suo passato e le trasformazioni in atto che è possibile tracciare una curva di sviluppo e formulare, con buona approssimazione, un quadro di previsioni. Ma questo ragionamento viene portato ancora più a fondo e Le Corbusier, servendosi di schizzi e fotografie e prendendo come esempio Pompei, Roma, Istambul e Venezia, produce una serie di osservazioni molto interessanti sulle specificità architettoniche delle città del passato: appare cioè chiaro che esisteva una "unità" sorprendente, caratterizzata ovunque dalla messa a punto di standards precisi e ripetibili.

E non deve sorprendere che, nel tentativo di spiegare quali strategie debbano essere utilizzate per armonizzare i nuovi interventi con i segni memorabili della città del passato, Le Corbusier ricorra ancora a Venezia. Vorrei ricordare che nel libro Propos d'urbanisme[23], stampato nel 1946, pubblica un suo disegno prospettico di piazza San Marco, in cui appaiono in sequenza la basilica, il campanile, palazzo Ducale, la loggetta e la biblioteca, le due colonne con il leone e il santo: sullo sfondo la chiesa di San Giorgio Maggiore, posata sulla linea orizzontale della laguna. Il testo, sul fianco, prende in esame singolarmente gli elementi costitutivi di questo insieme "unitario" e - con metodicità - indica per ciascuno la data di costruzione e lo stile a cui appartiene: si intrecciano così romanico, bizantino, gotico e rinascimento. In altri termini, i secoli si sono succeduti e ogni epoca ha prodotto risposte coerenti, commisurate al contesto spaziale e alle trasformazioni sociali e culturali. E Venezia offre, ancora una volta, la sua "magistrale" lezione d'armonia.

Un'ultima coordinata: il progetto per la Città Universitaria, studiato nel 1925. L'organizzazione è analoga a quella di un caravanserraglio; tutti gli studenti hanno a disposizione lo stesso spazio, sia quelli ricchi sia quelli poveri; ogni cellula - molto simile in sezione a quella dell'Ospedale di Venezia - ha un ingresso, la cucina, il bagno, la sala, la parte superiore per dormire, il giardino sul tetto, la luce dall'alto. Le Corbusier scrisse a questo proposito: "Ogni studente desidera una cellula uguale a quella di un monaco, ben illuminata e riscaldata, con un angolo da dove guardare le stelle. Ma ognuna deve essere indipendente"[24]. Dei setti murari isolano le cellule tra loro ma, io credo, sarebbe molto semplice aprire delle porte scorrevoli e metterle in comunicazione; inoltre, se gli studenti vogliono riunirsi, possono utilizzare gli spazi comuni e i campi sportivi limitrofi. In altri termini, come in molti dei progetti che produrrà in seguito - oltre agli aspetti spaziali, alle relazioni con il sito, alle proporzioni, al gioco della luce e ai materiali -, vengono esplorate fino in fondo sia la libertà individuale sia l'organizzazione collettiva e, come nell'Ospedale, la chiave appare essere soltanto l'uomo, considerato nella sua totalità, fisica e spirituale.




Amedeo Petrilli
Le traiettorie acustiche di Le Corbusier


Premessa

L'anno scorso è stato pubblicato il libro Il testamento di Le Corbusier. Il progetto per l'Ospedale di Venezia[25], un testo che ho scritto per trasmettere la mia testimonianza diretta su quella vicenda. Infatti, nella metà degli anni Sessanta, avevo cominciato il mio apprendistato proprio su quell'opera, nell'atelier che Le Corbusier aveva aperto a Venezia qualche mese prima della sua morte. Quindi la rivisitazione di quel progetto diventava anche un'occasione personale per rimettere insieme una sequenza di segni e di contenuti che in qualche misura mi appartenevano o su cui avevo lavorato con grande passione e accanimento. Inoltre volevo sottolineare un altro aspetto che ritengo molto importante - una coordinata che mi sembra spesso trascurata o addirittura banalizzata - e cioè la straordinaria "continuità" che caratterizza complessivamente la sua ricerca.

Quanto sopra ha comportato un esame approfondito di molti progetti e scritti di Le Corbusier e, benché io fossi convinto di conoscere a fondo la sua opera, ero sempre sorpreso nel verificare la qualità e la varietà dei temi proposti, il tentativo di sistematizzarne le motivazioni e i contenuti, la coerenza adottata nell'approccio e nello sviluppo delle diverse soluzioni spaziali: e se da un lato mi sembrava quasi impossibile scindere tra loro la molteplicità degli elementi messi ogni volta in gioco nei singoli organismi, dall'altro avevo anche la sensazione che si potessero lentamente scoprirne le direzioni prioritarie, le specificità, l'unicità o le convergenze dei tracciati. Cominciai cioè a immaginare che selezionato un tema preciso - mi riferisco a coordinate come luce, suono, proporzioni, rapporti armonici e non a un progetto specifico o a un edificio realizzato - sarebbe stato interessante seguirne le orme e gli intrecci e, inoltrandomi lungo un itinerario trasversale all'interno delle sue opere, arrivare a comprenderne l'utilizzo, la strumentazione e le modalità impiegate: le possibilità erano molteplici e tutte estremamente suggestive ma a un certo momento la mia attenzione si è concentrata su un aspetto particolare.

Qualche tempo fa, Ruggero Pierantoni[26] mi telefonò e - dopo aver argomentato in termini percettivi il suo ragionamento - mi rivelò che, dal suo punto di vista, la pianta della cappella di Ronchamp era l'esatta rappresentazione sul piano orizzontale del timpano sinistro dell'orecchio umano, un'ipotesi che sembrava anche supportata dalla continua insistenza di Le Corbusier nell'evocare, a proposito di quell'opera, l'acoustique paysagiste ovvero l'influenza provocata dalle riverberazioni acustiche, prodotte dalle emergenze del contesto naturale circostante, nella determinazione della forma e dei volumi. In un primo momento manifestai molte perplessità e risposi che mi sembrava una congettura difficilmente sostenibile: poi, lentamente, cominciai ad esserne affascinato e cercai di documentarmi nel merito.

Più tardi, Pierantoni mi spiegò che, dopo aver osservato un disegno quasi sconosciuto di Le Corbusier, dove appare la pianta della cappella con sovrapposto un diagramma molto strutturato, riconobbe in esso un grafico acustico riferibile alla rappresentazione del fenomeno dei cosiddetti "toni combinati", a lungo esplorati da Reinier Plomp[27] negli anni Sessanta e già analizzati a partire dalla metà del Settecento. Ma in che cosa consiste questo fenomeno? In termini molto sintetici e semplificati, l'arrivo simultaneo a un orecchio, o a entrambe le orecchie, di due toni musicali - uno stabile nel tempo e l'altro progressivamente ascendente o discendente - porterebbe a una percezione assai complessa in cui si ascoltano toni non suonati ma "costruiti" dall'orecchio interno. Dal punto di vista grafico entrambi i diagrammi - di fatto speculari - consistono in una serie di quadrati regolari attraversati dalle diagonali e dalle loro reciproche intersezioni sul piano.

Quanto sopra è trattato in un capitolo del libro di Pierantoni La trottola di Prometeo[28], dove viene ricordato ai lettori come Le Corbusier costruisca la sua opera tenendo conto dell'acustica "paesistica", situando cioè la cappella in riferimento ai quattro indicatori acustici esterni: le due valli, la pianura della Saône e la linea delle colline alsaziane. Di fatto, a questo proposito, Corbu scrisse: "Sulla collina avevo disegnato con cura i quattro orizzonti. Questi schizzi provocarono dal punto di vista architettonico una risposta acustica - un'acustica visuale delle forme... Le forme fanno rumore e silenzio; alcune parlano, altre ascoltano"[29]. E più avanti, per essere ancora più chiaro, aggiunse: "Il linguaggio dell'architettura - e cioè equazioni plastiche, sinfonia, musica e numeri - è il rivelatore rigoroso dello spazio indicibile..."[30]. Una dichiarazione molto esplicita, in cui si afferma che nella configurazione dello spazio non si possono escludere coordinate come misura, armonia, ritmo e proporzioni.

Decisi allora di approfondire questo tema. Mi sembrava infatti interessante indagare più in dettaglio in che modo l'acustica, il suono e la musica entrino in gioco, unitamente a tutte le altre componenti, sia nella concezione sia nella configurazione finale dei suoi organismi. Ed è lungo queste traiettorie che mi sono mosso, esaminando in sequenza una serie di opere progettate o realizzate da Corbu in tempi e luoghi differenti. Vorrei anche aggiungere che, raccogliendo alcuni documenti, ho letto una frase di Le Corbusier che mi convinse, in modo definitivo, a sviluppare questa indagine. Ve la cito: "Per riconoscere la presenza di un fenomeno acustico nel dominio delle forme non bisogna essere l'iniziato delle parole tabù, ma l'individuo sensibile alle cose dell'universo. L'orecchio può 'vedere' le proporzioni. Si può 'ascoltare' la musica della proporzione visuale"[31].

Il Palazzo delle Nazioni a Ginevra (1927-28)

Nel 1927 Le Corbusier e suo cugino Pierre Jeanneret parteciparono al concorso internazionale per la Sede del Palazzo delle Nazioni a Ginevra e, benché il loro progetto fosse risultato vincitore, la giuria, attraverso una serie di pretesti e di operazioni molto discutibili, assegnò l'incarico a un gruppo di architetti "accademici". Un anno dopo, nel 1928, ancora molto amareggiato per l'esito della vicenda, Corbu pubblicò Une Maison - Un Palais[32], un libro estremamente interessante in cui, dopo aver espresso i principi teorici generali della sua visione dell'architettura, entra nel merito delle caratteristiche di quest'opera e dedica ai problemi dell'acustica e della visibilità un intero capitolo, con il titolo: Una grande sala per 2.600 persone, un organismo per vedere e ascoltare.

Le Corbusier precisa subito che si tratta di una sala per i discorsi, un luogo in cui un numeroso gruppo di persone, che provengono dai quattro angoli della terra e che parlano lingue differenti, non discuteranno principi filosofici astratti e avulsi dalla realtà, ma problemi concreti e contingenti come la pace o la guerra nel mondo. Invita poi a ricordare come, durante le nostre visite alle grandi opere d'architettura del passato, ci fosse impossibile udire persino le parole delle guide, a meno di non essere incollati ai loro passi. Afferma cioè che in tutti questi grandi invasi - ricoperti da un soffitto - di solito non si sente niente, se non una sorta di brusio, alcuni frammenti indistinti, un rumore di fondo: gli innumerevoli echi s'incrociano infatti tra loro e le onde sonore rimbalzano e si scontrano disordinatamente.

Come contrapposizione Le Corbusier esamina l'antico teatro all'aperto di Orange, una città di origine romana situata nel sud della Francia, e segnala l'esperienza che le guide locali realizzano per i visitatori: lasciata cadere una moneta sulla pedana in legno del palco, il tenue rumore prodotto dal colpo arriva all'orecchio degli spettatori seduti sulle gradinate, nella sua "totale esattezza". E ne riferisce la ragione: è perché questo spazio non ha il soffitto e il muro riflettente sul retro della scena, i materiali e la disposizione dei gradini, seguono scrupolosamente le regole della fisica. Ne deduce, confrontando la qualità tecnica e figurativa di quest'opera così semplice con la sterile magniloquenza messa in mostra nel concorso di Ginevra, che i teatri antichi sono l'espressione di un disegno rigoroso e pieno di sapienza, mentre molti grandi invasi progettati o realizzati nell'epoca moderna spesso non tengono nemmeno conto dei principi essenziali dell'acustica.

Salta subito all'occhio che il vero problema - anche nel passato - era quello del "soffitto" e, secondo Le Corbusier, soltanto la sua realizzazione strutturale aveva assorbito l'impegno dei grandi costruttori. Però, a suo avviso, le leggi dell'acustica ci introducono in un ordine di problemi che non è più soltanto di natura statica, ma "biologica", con conseguenze formali del tutto differenti. E, prendendo come esempio gli esperimenti sviluppati negli stessi anni dall'ingegnere francese Gustave Lyon[33], descrive l'itinerario percorso per definire la forma e il volume della grande sala. Spiega subito che il suono è un'onda sferica di cui il timpano non percepisce che un'infima porzione del rumore emesso, così piccola che - alla distanza di undici metri - la voce umana non è più sentita in onda diretta. Afferma inoltre che la sfera sonora è come una palla da biliardo che rimbalza su tutte le superfici che incontra, seguendo l'angolo d'incidenza. Ogni urto determina una nuova sfera che a sua volta si propaga e di cui soltanto una parte molto piccola arriva al nostro orecchio: si genera dunque un'immensa diffusione acustica la cui origine era una, e il cui effetto è di moltiplicarsi enormemente e, nel contempo, di indebolirsi sempre di più.

Ma - si domanda Le Corbusier- un grande numero di questi rumori non arriveranno molto ritardati? Spiega infatti che l'esperienza ha stabilito che l'orecchio umano non differenzia i suoni se non quando sono separati, al loro arrivo al timpano, con una frequenza di un quindicesimo di secondo: vale a dire che tutti i suoni che riusciamo ad ascoltare, al di sotto di questa frequenza, sono percepiti come un solo suono. E aggiunge: "Ora, un quindicesimo di secondo rappresenta un percorso di circa ventidue metri. Risultato: situando l'oratore al suo posto, in un punto preciso, si può tracciare con la matita l'immagine esatta degli avvenimenti, e cioè da una parte le traiettorie percorse dalle sfere che rimbalzando arrivano all'orecchio degli ascoltatori; dall'altra, l'onda diretta che raggiunge ogni spettatore"[34].

Avverte però che, dopo aver tracciato i grafici esatti delle traiettorie acustiche, bisogna prendere un'altra decisione molto importante: dal momento che la sala riflette sia le onde che raggiungono l'obiettivo sia quelle che arrivano in ritardo, è necessario "correggerla". Ma in che modo? Attraverso un utilizzo sapiente dei materiali: è infatti necessario mettere, nel punto preciso, dove si producono le onde ritardate, un materiale assorbente capace di annullarle. Non si deve però dimenticare che l'onda diretta apporta un ascolto quasi impercettibile e che il rumore emesso diventa sensibile soltanto tramite le innumerevoli onde secondarie, rinviate dalle superfici riflettenti: per cui, anche se abbiamo corretto la sala, avremo un ascolto puro, ma estremamente debole.

Ed è qui che entrano in gioco le caratteristiche dei teatri antichi e viene svelata la strategia adottata: sistemando l’oratore in un luogo preciso (matematico) e incurvando sapientemente la tribuna del presidente, il muro di fondo della sala e quello della scena - ovvero gli elementi che producono la riflessione delle onde sonore - si riuscirà a “innaffiare gli spettatori in modo regolare e in quantità uguale e a produrre un ascolto equivalente in ogni punto. I tre muri di scena riflettenti, seguendo una progressione determinata dal quadrato della distanza, determinano la forma dello spazio: teoricamente, è soppresso il soffitto e sono ridotti al mutismo i muri laterali. E così, in questa sala immensa, si potrà parlare con la certezza che tutti sentano e Le Corbusier può concludere che le nazioni, finalmente, potranno “capirsi”.

Il Palazzo dei Soviet a Mosca (1931)

Il programma del Palazzo dei Soviet prevedeva diversi spazi per le riunioni: in particolare una sala per quindicimila spettatori. Nel secondo volume dell'Oeuvre complète[35], Le Corbusier parla della sala più grande e spiega che il problema - considerando il numero dei posti e le dimensioni - era estremamente complesso, dal momento che si doveva assicurare una "visibilità perfetta" per tutti gli spettatori e una "acustica equivalente" per ogni ascoltatore: in questo caso il soffitto, rispetto a quello di Ginevra, fu sostituito da una "conca sonora" levigata, in cui tutti i punti generano gli angoli d'incidenza necessari per innaffiare lo spazio con onde equivalenti. E per analizzare la loro rifrazione, costruì in atelier un grande modello della sala e collocò una sorgente luminosa nel punto preciso dove era prevista l'origine del suono: questo esperimento gli permise di verificare che i posti venivano tutti illuminati nello stesso modo, gli ultimi come i primi. Ribaltando l'esperienza nel dominio delle onde sonore, appare evidente che vi è una ripartizione assolutamente regolare tra il punto d'emissione - situato in un "luogo matematico" - e l'orecchio degli ascoltatori.

Il progetto però non venne realizzato e fu poi sostituito da un edificio in stile Rinascimento: lo spirito rivoluzionario e innovativo cedeva ancora una volta il passo alla restaurazione. Anche in questo caso Le Corbusier fu molto amareggiato e, con la sua infaticabile tenacia nell'affermare le sue idee, così si espresse: "Una sala per quindicimila persone è un organo biologico che obbedisce a dei calcoli matematici. Questi calcoli, se sono guidati dal punto di vista plastico, possono condurre ad un'armonia impeccabile, a uno splendore molto simile alle forme della natura. In questo caso il calcolo riflette le leggi del mondo e si manifesta un principio di unità tra il cosmo e l'opera umana. I fautori degli 'stili' non vogliono capire che i nuovi programmi portano alla creazione di nuovi organismi, che a loro volta rispondono alle leggi della statica, della resistenza dei materiali, dell'acustica e della visibilità. Queste condizioni 'imperative' determinano uno stato di cose altrettanto imperativo: si può così passare dal semplice soddisfacimento dei bisogni materiali allo splendore dell'architettura, che è poesia, lirismo, commozione provocata da rapporti inattesi"[36].

La Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55)

Cappella di Notre Dame du Haut

"Sulla collina avevo disegnato con cura i quattro orizzonti. Questi schizzi provocarono, dal punto di vista architettonico, una risposta acustica - un'acustica visuale delle forme..."[37]. Nel 1950 Le Corbusier iniziò lo studio del progetto e durante il suo primo sopraluogo, come scrisse, osservò a lungo il sito per prendere conoscenza del "suolo" e degli "orizzonti". Una vecchia cappella, squarciata dai bombardamenti dell'ultima guerra, era ancora in piedi e siccome non esisteva una strada carrabile per trasportare i materiali, decise di accontentarsi di sabbia e cemento e di recuperare le pietre come riempimento dei muri portanti. Questi muri si sarebbero poi incurvati e dilatati per effetto delle "riverberazioni acustiche" emesse dal paesaggio e avrebbero avvolto l'aula e le cappelle laterali.

Alla fine del secondo libro sul Modulor - il sistema di misure "armoniche" che Le Corbusier inventò riferendosi alle dimensioni del corpo umano in movimento e su cui ritornerò - per approfondire il suo atteggiamento teorico nei confronti delle proporzioni e il suo personale dissenso rispetto alle regole perpetuate dagli ambienti accademici, riparlò di quest'opera affermando che, una volta compiuta, avrebbe dimostrato che “l'architettura non è un problema di colonne ma di eventi plastici. E questi 'eventi' non si regolano con delle formule scolastiche o accademiche, bensì sono liberi e illimitati"[38]. L'argomentazione è sintetica e il tono rigoroso, ma quali sono le condizioni che possono trasformare l’ultimo contrafforte dei Vosgi in una meta di pellegrinaggio, un luogo per il raccoglimento e la preghiera, e nel contempo generare gli "eventi plastici" di cui parla Le Corbusier?

Credo che la risposta la fornisca lui stesso nel quinto volume dell'Oeuvre complète[39], in particolare quando si riferisce alle ricerche plastiche - pittura e scultura - che conduceva in quegli anni e che l'avevano portato alla percezione della presenza di "un fenomeno acustico nel dominio delle forme". Afferma, infatti, che una matematica e una fisica "implacabili" devono animare le forme e i volumi che si offrono alla vista degli occhi: soltanto la loro concordanza, ricorrenza e interdipendenza possono produrre il fatto architettonico, un avvenimento che - a suo avviso - è flessibile, sottile, esatto e rigoroso come quelli "acustici". Contestualmente entra in gioco l'acoustique paysagiste e le emergenze naturali dei quattro orizzonti di Ronchamp diventano i silenziosi interpreti di questa sinfonia. E scrive: "Tutto sarà coerente. Il lirismo e l'espressione poetica, come nella musica, sono sempre generati dall'invenzione, dalla definizione dei rapporti, dalla perfezione delle combinazioni matematiche"[40].

Come spiegavo all'inizio, se si confrontano tra loro un disegno autografo, in cui appare la pianta con sovrapposto un diagramma, e la rappresentazione grafica dei "toni combinati" elaborata da Reinier Plomp, viene la tentazione di formulare una serie di ipotesi che potrebbero rivelarsi molto suggestive, soprattutto se consideriamo che a questo edificio Le Corbusier aveva affidato l'incarico di essere un "orecchio ambientale" e di mettersi in sintonia con i "quattro orizzonti acustici". Si potrebbe anche affermare che il reticolo in oggetto non è che un tracciato regolatore - uno strumento spesso utilizzato per verificare l'organizzazione planimetrica e i rapporti dimensionali nelle sue composizioni - ma è senza dubbio "intrigante" verificare la perfetta identità presente nelle due trame ortogonali. Ovviamente non è mia intenzione alimentare nuove elucubrazioni critiche o innescare ipotesi inedite sulla genesi di un'opera che, tra l'altro, è sempre stata oggetto di attacchi e di polemiche molto vivaci: dai solerti custodi della Verità, nel migliore dei casi, Le Corbusier fu accusato di tradimento. Suggerirei perciò di limitarsi a osservare con attenzione il disegno in oggetto e di trarre individualmente le proprie conclusioni[41].

Il Palazzo dell'Assemblea del Parlamento di Chandigarh (1952-57)

Nell'estate del 1950, una commissione governativa, in rappresentanza dello stato indiano del Punjab, venne in Europa e dopo aver visionato il lavoro di molti architetti, affidò a Le Corbusier il progetto per Chandigarh, la nuova capitale: sarebbe sorta su un altopiano ai piedi della catena dell'Himalaya, in un sito limitato da due grandi fiumi. Tra gli edifici pubblici previsti vi era la sede del Parlamento e uno dei punti interessanti da segnalare fu l'adozione della forma circolare della grande sala che poteva sembrare contrastare con lo sviluppo di una buona acustica. Il volume era definito sui lati da un guscio iperboloide in cemento e la copertura aveva una sezione obliqua con un "tappo" di chiusura in carpenteria metallica. L'idea originaria era di fare di questo tappo un vero "laboratorio di fisica", destinato ad assicurare l'illuminazione naturale e artificiale, la perfetta ventilazione interna e, citando le parole di Le Corbusier, il luogo della meccanica acustica-elettronica. Le Corbusier aggiunse anche che questa struttura avrebbe permesso agli uomini di osservare le "feste solari" e ricordato, almeno una volta all'anno, di essere figli del sole.

A suo avviso la sala, in rapporto alla sua definizione geometrica, avrebbe espresso una sorprendente nobiltà architettonica e tutte le correzioni acustiche, in più o in meno, si sarebbero potute realizzare lungo l'involucro perimetrale dello spazio. Spiegò inoltre che la caratteristica del profilo di questa forma consentiva a una parte della superficie del guscio di riflettere il suono, all’altra di assorbirlo o espellerlo. Se osserviamo infatti una delle prime sezioni[42], possiamo anche notare che sulla copertura appaiono appesi degli stendardi colorati di varie dimensioni, utilizzati come correttori acustici, in seguito, nelle immagini dell'opera realizzata[43]; vediamo invece che sulla parete sono fissate delle forme irregolari, o secondo il termine tecnico utilizzato da Le Corbusier, delle "piastre acustiche".

Se mi soffermo su questo aspetto, apparentemente di scarsa rilevanza, è perché, leggendo un'intervista fatta a Guillaume Jullian de la Fuente[44] ho scoperto una serie di informazioni molto preziose sull'approccio "acustico" di Le Corbusier. Alla domanda se lui fosse stato coinvolto nel progetto del Palazzo dell'Assemblea di Chandigarh, Jullian rispose che lo studio dell'acustica della sala - la costruzione dell'opera era già molto avanzata - fu la sua prima esperienza in atelier. E aggiunse: "La preoccupazione di Le Corbusier era come lavorare con la luce e il suono all'interno di quello spazio, e nel contempo cercava d'introdurre qualcos'altro: per lui la luce aveva anche un significato 'cosmico' e voleva relazionare il suo edificio con il solstizio indiano e con il movimento del sole. Quando cominciammo ad occuparci dell'acustica della sala, Corbu mi chiese di modificare la soluzione iniziale e di disegnare delle 'nuvole', quasi volesse portare all'interno dell'edificio alcuni elementi formali che fanno parte del cielo. La luce arrivava dall'alto e, secondo il diverso angolo d'incidenza del sole durante le ore del giorno, produceva una sorta di gioco con le nuvole, come nel cielo. Volle che le nuvole avessero colori differenti, alcune rosse e altre gialle - un po’ come all'alba e al tramonto - un vero spettacolo cosmico trasferito nello spazio interno. Ricordo anche che studiò a lungo i materiali, i dettagli costruttivi e le proprietà acustiche di queste forme e decise di staccarle leggermente dalla parete, per cui si generavano delle ombre sulla superficie convessa del muro: forse tutto questo può sembrare un po’ curioso, persino esoterico, ma Corbu cercava semplicemente di far reagire insieme la luce, il sole, le ombre, la forma del muro, lo spazio e il suono..."[45].

Il Convento di Sainte-Marie-de-la-Tourette a Eveux (1957-60)

"Alloggiare nel silenzio degli uomini che si dedicano alla preghiera e allo studio e costruire per loro una chiesa"[46]. Fu in base a questo programma molto scarno che, nel 1957, Le Corbusier cominciò a occuparsi del Convento della Tourette e si propose di conciliare le regole e i rituali dell'ordine domenicano, già stabiliti a partire dalla seconda metà del tredicesimo secolo, con le difficoltà determinate dal profilo naturale del luogo prescelto per il progetto. Non solo studiò con attenzione i riferimenti del passato - bisogna ricordare che le Certose di Ema e Pavia, visitate la prima volta nel 1907, avevano sempre rappresentato uno degli elementi fondativi della sua ricerca (sui problemi della residenza, per esempio) - ma rilevò con grande cura l'antica abbazia di Thoronet in Provenza, una straordinaria costruzione in pietra: se confrontiamo i due impianti possiamo scoprire sorprendenti analogie nell'orientamento, nella distribuzione degli spazi liturgici, nel rapporto esistente tra i volumi e nella rigorosa povertà della costruzione.

La chiesa era uno degli elementi più importanti dell'intero sistema spaziale e, anche in questo caso, il luogo fisico configurò la soluzione finale: una grande navata, determinata non da tracciati astratti fissati a priori, ma dall'idea generatrice dell'insieme[47]. Uno dei problemi riguardava l'acustica e Le Corbusier racconta che in atelier avevano pensato di costruire dei muri poligonali per spezzare il suono ed evitare, con questo artificio, i riflessi e le riverberazioni ritardate; ma non avendo a disposizione il denaro per realizzarli, fu stabilito che, in fondo, non ne valeva la pena. E, confessa, che ne fu molto contento perché gli sembravano del tutto superflui e inoltre, dal momento che la limpidezza delle forme era l'aspetto dominante dell'insieme, aveva l'impressione che avrebbero creato un "tumulto" visuale. Comunque, alla fine dei lavori, l'acustica risultò essere eccellente.

Con grande ironia, spiegò che anche una risonanza scadente avrebbe potuto adattarsi alla liturgia, perché in tante chiese è talmente inefficiente che si finisce col confondere la liturgia con la cattiva acustica, datosi che crea quel brusio, quel mistero e quella confusione che talvolta ammaliano. Ma aggiunse subito: "Qui, però, vi trovate di fronte a un'acustica di grande purezza. Non dirò di averla trovata in modo pienamente consapevole, ma piuttosto di avere avuto fiuto"[48]. E per circostanziare, in termini più generali, i principi compositivi di questo spazio, precisa che la posizione dell'altare, oltre che il centro di gravità, indica il valore e la gerarchia di tutte le cose. Ma per essere più esplicito, ricorre ancora una volta al suono: "Vi è nella musica una chiave, un diapason, un accordo. In questo caso la nota è rappresentata dall'altare, da cui si irradia tutta l'opera. Ciò è stato determinato dalle proporzioni. La proporzione è una cosa ineffabile. Io sono l'inventore dell'espressione lo spazio indicibile, una realtà che ho scoperto lungo il mio cammino"[49].

Suono, musica, armonia

Ci potremmo domandare, a questo punto, che cosa sapeva Le Corbusier del suono. E' noto che sua madre amava la musica e si esercitava al piano e che il fratello Albert Jeanneret fu musicista e compositore, ma qual era la sua personale conoscenza del fenomeno? Ammetteva di non avere ricevuto un'educazione specifica e di non distinguere nemmeno le note, ma di possedere una sensibilità capace di apprezzare e giudicare la musica. Nell'introduzione del primo libro sul Modulor[50], si occupò del suono e lo definì un avvenimento continuo che può salire senza interruzioni dal grave all'acuto: la voce umana può modularlo liberamente - anche alcuni strumenti - e spiegò che nel corso dei millenni era stato utilizzato per cantare, suonare e danzare, anche se la sua trasmissione avveniva soltanto oralmente.

Aggiunse, però, che circa sei secoli prima della nascita di Cristo, qualcuno decise che era necessario, per tramandarla fedelmente, scrivere la musica e cioè fissarla su un foglio secondo una serie di segni convenzionali, determinati e precisi, e introdusse una "graduazione": ruppe cioè la sua perfetta continuità e individuò una serie di progressioni che avrebbero costituito i gradini della scala (artificiale) del suono. Ma come si poteva sezionare l'unità del fenomeno sonoro? Come tagliarlo secondo regole condivisibili? A giudizio di Le Corbusier, questa questione molto complessa fu risolta da Pitagora, il filosofo greco che ebbe una grande intuizione e individuò i due termini del problema: da una parte la sensibilità dell'orecchio umano e dall'altra i numeri, e cioè la matematica e le sue combinazioni.

Così fu inventata la prima scrittura musicale capace di registrare e trasmettere le composizioni sonore. E questa pratica non solo servì a tramandare le sonorità greche ma fu perpetuata anche nel Rinascimento, fino a quando venne inventata una nuova notazione musicale - la gamma temperata - che diede vita a un ulteriore impulso creativo. Ma perché Le Corbusier ci racconta queste cose? Per spiegare che il suono non sarebbe stato un fenomeno trasmissibile con la scrittura, se non fosse stato prima graduato e sezionato, vale a dire "misurato". E dal momento che tutto quello che è costruito nelle tre dimensioni non aveva ancora beneficiato d'una unità di misura equivalente a quella utilizzata nella musica, si domanda: "Se esistesse uno strumento di misure lineari o visive simile a quello della scrittura musicale, non ne risulterebbero facilitate le cose che riguardano l'architettura?"[51] Attraverso il Modulor, una gamma di misure armoniche relazionate alle dimensioni del corpo umano e alla matematica, cerca di dare una risposta definitiva alla questione: il sistema che inventa è semplice, pratico e rigoroso. Anche in questo caso, i due termini messi in gioco sono la sensibilità della percezione umana e i numeri.

Alla fine del secondo volume sul Modulor[52], le argomentazioni diventano ancora più chiare, in particolare quando racconta che la sua ultima "invenzione" - adottata per la prima volta nel Convento della Tourette - sono i pans de verre musicaux (pannelli di vetro musicali), una soluzione in cui le vetrate, interrotte da sottili lame in cemento, vengono ritmate in progressione aritmetica seguendo le norme che regolano da sempre la scrittura musicale. Ricorda anche che la sua messa a punto fu perfezionata da Iannis Xenakis, un ingegnere greco diventato musicista e più tardi architetto-collaboratore nel suo atelier: a giudizio di Le Corbusier, tre vocazioni molto "favorevoli" riunite insieme. E per dimostrare la stretta correlazione tra musica e architettura, precisa che è rappresentata sapientemente in Metastasis, una composizione musicale creata da Xenakis nel 1954.

Anche se sarebbe molto interessante esaminare a fondo i ragionamenti di Iannis Xenakis sulle gamme dei tempi e sulle progressioni geometriche contenute nella partitura, mi limiterò ad aggiungere che, oltre all'utilizzo delle due serie numeriche del Modulor, se si osserva con attenzione la scrittura musicale dei glissandi, appare evidente che la loro struttura tridimensionale sembra anticipare la configurazione dei paraboloidi iperbolici e dei conoidi che, qualche mese più tardi, avrebbero caratterizzato la forma e l'involucro del guscio del Pavillon Philips[53] a Bruxelles, l'edificio che consentì a Le Corbusier di comporre il suo "poema elettronico", un evento spaziale e acustico in cui la musica, le immagini e le scansioni temporali si intersecano armonicamente.

Il Padiglione Philips a Bruxelles (1956-58)

Padiglione Philips Expo di Bruxelles
Le Corbusier, 1956-58

Nel 1956, quando il direttore della Philips chiese di progettare il padiglione per l'Esposizione Internazionale di Bruxelles, precisò subito che non avrebbero esposto i loro prodotti commerciali, bensì presentato uno spettacolo con il suono e la luce: aggiunse anche che l'architetto sarebbe stato libero di disegnare la facciata come voleva. Le Corbusier rispose che non avrebbe realizzato una "facciata" Philips, ma un poema elettronico. E affermò: "Tutto succederà all'interno: suono, luce, colore, ritmo; un ponteggio metallico potrebbe essere il solo aspetto esteriore del padiglione"[54]. Pose anche come condizione di poter contare sulla collaborazione di Edgard Varèse, il noto compositore di origine francese. Vorrei anche sottolineare che l'idea di servirsi della musica elettronica - da questo momento in poi - diventerà per Le Corbusier un tema ricorrente: lo riproporrà nel Palazzo dei Congressi[55] di Strasburgo, nella Chiesa[56] di Firminy e nel Visual Arts Center[57] a Cambridge (Massachusetts).

Spiego subito che il "poema elettronico" immaginato da Le Corbusier utilizza tutte le possibilità fornite dall'elettronica, dall'illuminazione artificiale e dall'acustica ed è ospitato all'interno di un volume costituito da gusci incurvati in cemento armato, dimensionato per accogliere seicento spettatori ogni otto minuti, il tempo fissato per ogni rappresentazione: uno spazio continuo in cui non esiste alcuna distinzione tra pareti e soffitto, bensì una stretta relazione tra la forma a "stomaco" della pianta e lo sviluppo dell'involucro. La performance visiva è divisa in sette sequenze interrelate tra loro, durante le quali lo spettatore è al centro di una serie di eventi visuali selezionati secondo un itinerario tematico, mentre i numerosi dispositivi elettro-acustici diffondono la composizione sonora. Si potrebbe anche affermare che, più in generale, questo organismo non gioca soltanto il ruolo di cassa di risonanza delle riverberazioni acustiche che si producono al suo interno, ma diventa esso stesso l'origine del suono, quasi che l'architettura e la musica coincidano.

In atelier, Iannis Xenakis venne incaricato da Le Corbusier di occuparsi dello sviluppo architettonico e di comporre la partitura musicale dei due minuti di intervallo tra una rappresentazione e l'altra. Così Xenakis spiegò il suo approccio: "Nell'ottobre del 1956, cominciai lo studio del progetto preliminare. L'obiettivo di Corbu non era di realizzare un 'locale' in più nella sua carriera, ma di creare un vero 'gioco' elettronico e sincronico in cui il volume, il movimento, il suono e l'idea complessiva potessero formare un tutto sbalorditivo. Mi resi conto che, per determinarne la forma, era necessario considerare molteplici fattori, ma le mie ricerche musicali sui suoni a variazione continua in funzione del tempo mi indirizzarono verso strutture geometriche basate sulle rette o su superfici generate da curve piane, ovvero i paraboloidi iperbolici e i conoidi"[58].

Il poema elettronico cominciava al buio (colore nero), vi era qualche istante di silenzio e poi il suono di un gong annunciava l'inizio della composizione musicale di Edgard Varèse. Più tardi, dopo aver ultimato la sua composizione, Varèse dichiarò: "In musica ci sono tre dimensioni: orizzontale, verticale e quella dinamica, espressa sia in crescendo sia in calando. Io potrei aggiungerne una quarta, la proiezione del suono nello spazio, ovvero la sensazione che se ne sta andando via per sempre e senza speranza di tornare indietro, una percezione simile a quella suscitata dai fasci di luce emessi da un potente proiettore: è infatti una condizione che vale sia per l'orecchio che per l'occhio"[59]. Aggiunse anche che nel Pavillon Philips, per la prima volta, sentì la sua musica letteralmente "proiettata" all'interno di un organismo architettonico, e se osserviamo il testo e i segni che caratterizzano la partitura, o meglio i diagrammi tracciati per suggerire la variazione del colore sonoro e la sua intensità, anche in questo caso, come già segnalato per Xenakis, possiamo individuare incredibili analogie tra la scrittura musicale e la configurazione spaziale dell'edificio.

Conclusione

Essendo sempre più incuriosito dall'insistenza di Le Corbusier nel volere introdurre la musica elettronica nei suoi ultimi progetti, ho chiesto a Guillaume Jullian de la Fuente (il mio Maestro) di spiegarmene le ragioni. Mi ha risposto rivelandomi un'altra coordinata che ritengo utile riportare, a conclusione del mio itinerario: "Quando cominciammo a lavorare, nel 1961, sul progetto per il Visual Arts Center a Cambridge, Corbu mi diede un piccolo schizzo che conteneva l'idea generatrice: un segno molto semplice - una rampa sinuosa - avrebbe servito l'edificio e connesso tra loro le due strade parallele che tangono il lotto. Voleva anche creare qualcosa con la musica, ma allora io pensai che fosse un'invenzione un po’ folle. Mi disse, infatti, d'inserire, all'interno della rampa, una serie di microfoni e di amplificatori che avrebbero emesso dei suoni elettronici durante le diverse ore del giorno e della notte. Non ero molto convinto e non studiai seriamente questa possibilità, anche se di fatto l'edificio era pieno di curve e c'era questa promenade architecturale - la rampa - che saliva e scendeva come una spirale, relazionando tra loro il movimento, la luce e le viste: per così dire, un vero percorso 'musicale'. Oggi, però, penso che si trattasse di un'idea estremamente suggestiva: immaginare cioè che un edificio possa produrre la musica quasi fosse uno strumento e che i suoni diventino parte integrante di un organismo architettonico in cui ogni spazio ha il suo suono"[60].


[1]Le Corbusier, Entretiens avec les étudiants d’architecture, Éditions de Minuit, Paris 1957.

[2]Cfr. "Il Gazzettino" di Venezia, aprile 1965.

[3]G. Mazzariol, Esperienze di etica dell'architettura, "Venezia Arti", n. 4, 1990.

[4]Cfr. A. Petrilli, Il testamento di Le Corbusier. Il progetto per l'Ospedale di Venezia, Marsilio Editori, Venezia 1999.

[5]Le Corbusier, La Ville Radieuse, Editions Vincent Fréal & Cie, Paris 1964, p. 269.

[6]Guillaume Jullian de la Fuente, architetto cileno nato a Valparaiso, lavorò a Patigi nell’atelier di rue de Sèvres dal 1958 al 1965. Dopo la morte di Le Corbusier, fu incaricato di continuare l’Ospedale di Venezia e l’Ambasciata di Francia a Brasilia. Attualmente lavora e insegna negli Stati Uniti.

[7]L’intervista è pubblicata in A.Petrilli, op. cit., p. 115.

[8]Le Corbusier, Vers une architecture, Editions Vincent Fréal & Cie, Paris 1958, p. 103.

[9]Cfr. A. Petrilli, op. cit., pp. 52-53.

[10]Le Corbusier, Vers une architecture, cit., p. 110.

[11]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, Les Editions d’Architecture, Zürich 1991, vol. 5, 1946-1952.

[12]Cfr. ibid., vol. 4, 1938-1946.

[13]Cfr. ibid., vol. 6, 1956-1959.

[14]Cfr. ibid., vol. 7, 1959-1965.

[15]Cfr. ibid., vol. 8, 1965-1969.

[16]Mi riferisco, per esempio, al prezioso lavoro prodotto in quegli anni da Louis Kahn, Aldo van Eyck, Giancarlo De Carlo, Jørn Utzon, Candilis-Josic-Woods, Alison e Peter Smithson.

[17]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 7, 1959-1965.

[18]Cfr. ibid.

[19]Cfr. ibid.

[20]Cfr. Le Corbusier, Le Modulor, Editions de l’Architecture d’Aujourd’hui, Boulogne sur Seine 1950.

[21]Le Corbusier, Entretiens avec les étudiants des écoles d’architecture, cit.

[22]Cfr. Le Corbusier, Urbanisme, Editions Vincent Fréal & Cie, Paris 1966.

[23]Cfr. Le Corbusier, Propos d'urbanisme, Editions Bourrelier, Paris 1946.

[24]Le Corbusier, Vers une architecture, cit., p. 220.

[25]A. Petrilli, Il testamento di Le Corbusier. Il progetto per l’Ospedale di Venezia. Marsilio Editori, Venezia 1999.

[26]Ruggero Pierantoni lavora presso l'Istituto di Cibernetica e Biofisica del CNR di Genova. Ha condotto ricerche e insegnato presso varie università americane ed europee. E' autore di numerosi libri, tra cui: Riconoscere e comunicare (1977), L'occhio e l'idea (1981), Forma fluens (1988), Monologo sulle stelle (1996), La trottola di Prometeo (1996), Verità a bassissima definizione (1998).

[27]Cfr. R. Plomp, Experiments in tone perception, Von Gorcum, Assen 1966.

[28]Cfr. R. Pierantoni, La trottola di Prometeo. Introduzione alla percezione acustica e visiva. Laterza, Roma-Bari 1996, cap. XLI.

[29]Le Corbusier, Ronchamp, Edizioni di Comunità, Milano 1957, p. 89.

[30]Ibid., p. 123.

[31]Le Corbusier, Modulor 2, Editions de l’Architecture d’Aujourd’hui, Boulogne sur Seine 1950, p. 154.

[32]Cfr. Le Corbusier, Une Maison - Un Palais, Editions Connivences, Paris 1989.

[33]Per maggiori informazioni sulle ricerche dell'ingegnere francese Gustave Lyon, cfr. R. Pierantoni, La trottola di Prometeo, cit.

[34]Le Corbusier, Une Maison - Un Palais, cit., p. 118.

[35]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, Les Editions d'Architecture, Zürich 1991, vol. 2, 1929-1934.

[36]Ibid., p. 131.

[37]Le Corbusier, Ronchamp, cit., p. 89.

[38]Le Corbusier, Modulor 2, cit., p. 265.

[39]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 5, 1946-1952.

[40]Le Corbusier, Modulor 2, cit., p. 267.

[41]Cfr. Ronchamp, Maison Jaoul and Other Buildings and Projects, Garland Publishing Inc., New York and London and Fondation Le Corbusier, Paris 1984, vol. XX, 1951-1952.

[42]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 6, 1952-1957.

[43]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 8, 1965-1969.

[44]Guillaume Jullian de la Fuente, architetto cileno nato a Valparaiso, lavorò a Parigi, nell'atelier di rue de Sèvres dal 1958 al 1965. Dopo la morte di Le Corbusier, fu incaricato di continuare l'Ospedale di Venezia e l'Ambasciata di Francia a Brasilia. Attualmente lavora e insegna negli Stati Uniti.

[45]L'intervista venne registrata alla Cornell University, Ithaca, nel 1986.

[46]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 6 1952-1957.

[47]Cfr. ibid.

[48]Jean Petit, Un convento di Le Corbusier, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, p. 29.

[49]Ibid.

[50]Le Corbusier, Le Modulor, Editions de l’Architecture d’Aujourd’hui, Boulogne sur Seine, 1950.

[51]Ibid., p. 75.

[52]Cfr. Le Corbusier, Modulor 2, cit.

[53]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 6, 1952-1957.

[54]Le Corbusier, Le Poème Electronique, Editions de Minuit, Paris 1976.

[55]Cfr. Le Corbusier, Oeuvre complète, cit., vol. 7, 1957-1965.

[56]Cfr. ibid.

[57]Cfr. ibid.

[58]Le Corbusier, Le Poème Electronique, cit.

[59]Cfr. Marc Treib, Space calculated in seconds, Princeton University Press, New Jersey 1996.

[60]L'architetto Guillaume Jullian de la Fuente mi ha rivelato questa coordinata nel corso di una conversazione che abbiamo avuto nel 1999 a Cambridge, Massachusetts.


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