Emanuele Ferrari
Recensione a Canone infinito di Loris Azzaroni
(Clueb, Bologna 1997

1. L' orizzonte del libro.

"Lineamenti di teoria della musica" è il sottotitolo di questo libro pubblicato dalla Clueb nella collana "manuali & antologie". Una formula che, per chi ha presente l'iter scolastico medio di uno studente di musica in Italia, richiama brevi introduzioni alla grammatica musicale e al solfeggio. Di ben altro si tratta, sembrano suggerire le dimensioni del volume (p.XV, 1-540) e uno sguardo all'indice conferma questa impressione. Il termine teoria sembra essere qui inteso non nell'accezione riduttiva appena ricordata, bensì come un insieme di questioni e problemi che la musica occidentale, nel suo sviluppo storico, ha posto alla riflessione critica. La sobria genericità del sottotitolo comporta dunque una prima restrizione di campo: non si tratta né di una storia delle opere musicali e dei compositori - una storia della musica, né di una raccolta di teorie di tipo filosofico ed estetico. L'autore indaga piuttosto gli aspetti del linguaggio e della prassi musicale che nella cultura europea più si sono prestati nei secoli all'analisi razionale e alla trattazione sistematica o normativa. Ecco l'indice sommario del libro.

Cap. 1 Il suono

Cap. 2 La scrittura musicale

Cap. 3 L'articolazione temporale

Cap. 4 Sistemi sonori di riferimento

Cap. 5 Sistemi di accordatura

Cap. 6 La dimensione orizzontale e la sua elaborazione

Cap. 7 La dimensione verticale e la sua elaborazione

Cap. 8 La costruzione formale

La struttura è dunque composita, e gli argomenti trattati sono diversi: fisica del suono, storia della semiografia, teoria e storia di alcuni parametri-chiave della musica come ritmo, melodia e armonia, e altro ancora. Elementi di coesione dell'insieme sono il taglio espositivo e il modo di impostare gli argomenti. Il criterio generale è quello di un compendio informativo ma critico: i temi sono impostati in modo problematico, con un'attenzione costante alla complessità delle domande che la musica pone alla "ragione teorica" e alla molteplicità delle risposte possibili per ogni questione. Il lettore si trova così fra le mani una sorta di piccola enciclopedia ragionata dello scibile teorico musicale, ricchissima di notizie ma attenta ad evitarne l'accumulo amorfo e indiscriminato fuori da una cornice concettuale. In questo quadro ci sembra che due argomenti non trattati nel libro avrebbero potuto ben figurare accanto agli altri, per l'interesse che hanno suscitato nella trattatistica: l'orchestrazione, che l'autore affronta in nota rinviando alla letteratura specifica (p.64) e la messa in musica di un testo, con le relative regole di sillabazione ed esigenze (variabili nel tempo) di intelligibilità.

  • 2. Molteplicità di punti di vista : teoria e prassi.

    A fronte della vastità degli argomenti trattati, Canone infinito non adotta un unico piano di indagine, ma si muove secondo prospettive variabili che si alternano, si incrociano e si accavallano. Il primo capitolo, ad esempio, espone parte della teoria acustica, nella versione oggi condivisa dai fisici, come insieme di risultati, senza problematizzarne il punto di vista o le premesse. E' questo del resto lo stile espositivo generalmente adottato dalla comunità scientifica, che suole distinguere nettamente il contesto storico dell'indagine e della scoperta, dall' esposizione astorica dei risultati.

    Taglio storico ha invece il secondo capitolo, che offre un'ampio panorama sulla evoluzione della notazione musicale dal Medioevo all'età moderna. Lo sguardo sugli eventi si sdoppia, in relazione a un fenomeno cruciale della storia musicale europea: la separazione e al tempo stesso la relazione imprescindibile tra prassi e teoria, fra il concreto operare dei musicisti e il suo riflettersi nell'elaborazione teorica. Riflesso, naturalmente, è un'immagine suggestiva ma fuorviante, che sembra alludere a un giungere dopo della teoria, a giochi fatti. Le cose sono in realtà ben più complesse, e il libro non manca di sottolinearlo. L'immagine che ne emerge complessivamente è quella di una distanza variabile fra teoria e prassi, che nel corso dei secoli ha conosciuto addirittura ribaltamenti di posizione. Nel caso del passaggio, tra Cinque e Seicento, dalla linearità polifonica a una concezione accordale, "il cammino per arrivare a questa meta sarà abbastanza breve e diretto nella pratica compositiva, nella teoria invece sarà più lungo, tortuoso e accidentato" (p. 404). Al contrario, l'evoluzione della notazione musicale nel Medioevo ha come figure-chiave proprio dei teorici, come Guido d'Arezzo e Francone di Colonia, il cui ruolo propulsivo è stato ben altro che quello di consegnare ai secoli un riflesso di vita musicale raggelato nelle forme di una polverosa erudizione. Teoria e prassi, dunque, sono due aspetti del divenire storico che l'autore intreccia lungo l'arco del libro, cogliendone la dialettica sul filo di un sottile contrappunto. Le cose si complicano ulteriormente non appena ci si chieda quale teoria e quale prassi, dal momento che lo sviluppo di queste due variabili storiche sembra tutt'altro che lineare e uniforme. Nel caso della notazione si tratta di ricostruire le tappe salienti di un processo storico connotato -almeno per noi oggi - da una una "linea vincente", cioè la tendenza a un sistema giudicato sufficientemente razionale ed adeguato alla trasposizione su carta del repertorio musicale. Ma già a proposito dell'articolazione temporale, argomento del terzo capitolo, la divergenza di opinioni e prospettive fra i teorici è la regola, a partire dai concetti primari di tempo, metro e ritmo. Emerge qui un secondo aspetto della teoria nei suoi rapporti con la realtà musicale. Se il primo era la sua partecipazione diretta ai casi del divenire storico - nel ruolo variabile di freno, riflesso, o propulsore, ma comunque legata alla poiesis e ai suoi problemi concreti - ora ci appare impegnata non nella costruzione ma nella ricostruzione della musica e degli elementi del suo linguaggio.La teoria musicale diventa versione ragionata dei fatti, di ciò che accade nella musica con semplicità ma non è affatto semplice da riferire. Tempo, ritmo e metro hanno evidentemente a che fare con la musica, ma definirne la natura e il ruolo è difficile e scivoloso. Di qui la teoria musicale come dibattito, divergenza, argomentazione. La dialettica si è trasferita al suo interno.

    Un terzo aspetto della teoria musicale emerge con forza nel capitolo settimo, dedicato all'armonia e al contrappunto; è il costituirsi della teoria come sapere normativo, patrimonio di criteri e regole stratificate nei secoli e divenute canoni in forza della tradizione. Ha il volto arcigno dei manuali, della precettistica e degli esercizi.

    Qui l'autore districa al meglio la selva dei punti di vista, contestualizzando e relativizzando in modo chiaro e a tratti illuminante la complessa genesi dei manuali di scuola, emblema di un sapere quanto mai relativo e storicamente condizionato che tende a presentarsi come astorico e assoluto.




    3. Lettura del testo

    Nel capitolo primo, si considera l'esperienza del suono come patrimonio comune; ad ognuno è famigliare il fatto che i suoni hanno un' origine, che vi è una differenza (comunque la si voglia intendere) fra suoni e rumori, che una tubatura "porta" il suono meglio di una parete di cemento, che ogni strumento ha una "voce" diversa. La fisica dà di tutto questo una versione che possiede le usuali caratteristiche di astrazione, formalizzazione e stretta connessione fra le parti. Il suono è qui tematizzato come fenomeno fisico, soggetto al rigore della terminologia scientifica e analizzato con relazioni matematiche. L'innocuo richiamo di uno zufolo che carezza le nostre orecchie svela una natura assai complessa, e la descrizione di ciò che accade dispiega un ampio arsenale concettuale. I suoni, nella versione che ne dà la fisica, sono onde longitudinali, oscillazioni simili a quelle di una molla tirata a un estremo e poi lasciata libera di assestarsi. Onde meccaniche, richiedono un mezzo per propagarsi, che nel caso della nostra vita quotidiana è l'aria. Per originarle ci vuole una sorgente, cioè un corpo vibrante (ad esempio la corda di una chitarra pizzicata con un dito) che col suo moto oscillatorio provochi un'alternanza di compressione e decompressione delle particelle d'aria circostanti.Questa perturbazione si propaga, come avviene se gettiamo il proverbiale sasso nello stagno, entro un raggio limitato a causa degli attriti, non diversamente dall'effetto di un tamponamento a catena, che per quanto devastante ha un andamento decrescente fino ad ammettere un ultimo urto.

    Se in questo raggio si trova quel delicato ricettore che è il nostro orecchio, e se si verificano alcune condizioni che sarebbe noioso specificare,accade che udiamo qualcosa.

    Nonostante le difficoltà di lettura per chi non abbia un' infarinatura di fisica e matematica a livello di liceo scientifico, l'intento dell'autore è chiaro: fornire un inquadramento fisico-quantitativo di alcuni fatti salienti legati all'attività musicale. Si parla dunque di fenomeni ben noti ai musicisti come i battimenti, il "terzo suono di Tartini" e la risonanza, nei termini in cui l'acustica li concepisce e ne imposta la descrizione. La parte centrale del capitolo verte sulla configurazione delle onde stazionarie nelle diverse famiglie di strumenti: viene delineato il tipo particolare di vibrazione che distingue ad esempio un tubo aperto come il flauto dalle corde del violino. Per chi pratica usualmente l'ascolto della musica, l'impressione è quella di imbattersi in una sorta di realtà parallela, che riproduce analogie e differenze su un piano completamente diverso. Questa parte meriterebbe forse qualche disegno esplicativo che ne aiuti la comprensione intuitiva, dato l'argomento particolarmente suggestivo.

    In margine a questo capitolo, denso di formule matematiche, diagrammi e termini tecnici, sorge una riflessione che va oltre il libro di cui stiamo parlando. Per chi non ha interessi specifici per l'argomento, ci sembra che l'aspetto più stimolante di queste pagine sia il confronto fra quantità e qualità che esse sia pure indirettamente suggeriscono, offrendo la versione trasposta che la fisica dà dei dati percettivi . Valga per tutti l'esmpio di p.29-30: il suono che si sprigiona dai gesti del violinista, a noi famigliare in tutte le sue sfumature, è ricondotto nel suo essere morbido o incisivoa una questione di interferenze e di armonici. Vengono in mente alcune pagine di Feyerabend sull'origine del logos e della razionalità scientifica, in cui con l'usuale energia polemica l'autore si permette di dubitare dell'adeguatezza delle spiegazioni scientifiche, in cui " il mondo colorato e multiforme della coscienza abituale viene sostituito da una rozza schematizzazione, nella quale non ritroviamo più nè colori nè odori nè sensazioni e neppure il corso abituale del tempo" (P. Feyerabend, Scienza come arte, Bari, Laterza 1984).

    L'avventura della scrittura musicale è ripercorsa nel secondo capitolo con particolare riferimento al Medioevo e al Rinascimento, età cruciali in cui fioriscono apparati di notazione ricchi e complessi. Dai primi neumi al rinascimentale sistema delle proportiones l'evoluzione delle tecniche di notazione si intreccia a filo doppio con le vicende della musica tout court. Da un lato questo processo può essere letto in termini di mimesis, come un progressivo adeguarsi della scrittura alla complessità delle tecniche compositive, un graduale affinarsi del sistema fino divenire duttile, preciso e inequivoco nella sua capacità di essere decifrato. E' quella che potremmo chiamare genericamente funzione ricostruttiva della scrittura: attraverso la lettura dei segni sulla carta, il cantore ricostruisce melodia e ritmo della propria parte con precisione sufficiente ad integrarsi in un organismo polifonico che non lascia margini consistenti all'improvvisazione. Ma dalla lettura emerge chiaramente anche l'altro lato del rapporto tra musica e scrittura: l' essere quest'ultima parte integrante di un modo di concepire la musica, al punto che gli stessi esiti compositivi sarebbero impensabili senza la possibilità di essere scritti. Senza scomodare Jaques Derrida, appare evidente che le complesse tecniche polifoniche del Rinascimento trovano nella scrittura una condizione di possibilità,e non soltanto un metodo stenografico per fissare su carta il pensiero dell'autore a giochi fatti. Nel percorrere la storia della scrittura musicale, l'autore parla perciò anche delle caratteristiche della musica, secondo il legame che abbiamo evidenziato. Ecco allora forme, procedimenti e generi come i modi ritmici, il canone mensurale e l'isoritmia, o suddivisioni matematiche del tempo musicale con forte rilievo per la prassi esecutiva, come l'hemiolia. Risalta, leggendo, il ruolo della scrittura nel costituirsi della musica occidentale come luogo dell'artificio, l'importanza della notazione come elemento di raccordo tra fantasia e pensiero raziocinante e costruttivo. La scrittura è stata in questo senso la forma di vita della nostra civiltà musicale.

    Il terzo capitolo si addentra nella labirintica selva di questioni connesse alla dimensione temporale della musica. Come già accennato, non lo fa da un punto di vista filosofico, ma dall'interno, indagando alcune nozioni fondamentali. Fatalmente, l'attenzione è attratta dai concetti-chiave di metro, ritmo e accento, a proposito dei quali l'autore sottolinea due aspetti dell'indagine teorica. In primo luogo, si tratta di concetti sfuggenti, riluttanti a farsi definire in modo soddisfacente e inquadrare in griglie concettuali esaustive ( "tempus fugit" sembra dunque valere anche in questo senso ). Come conseguenza, gli studi sull'argomento hanno conosciuto una molteplicità di punti di vista e proposte di soluzioni tale da scoraggiare qualunque tentativo di sintesi unificante. Le oltre sessanta definizioni di "ritmo" raccolte da P. Righini nel suo Studio analitico sul ritmo musicale ( Padova 1972) sono eloquenti a questo proposito. L'autore fa comunque una scelta di campo seguendo la linea di teorici come J. Lester (The rhytms of tonal music, Southern Illinois University Press, 1986) o Cooper e Meyer ( The rhytmic structure of music, The University of Chicago Press, 1960 ) che pongono una netta distinzione fra metro e ritmo. Il metro emerge allora come struttura profonda del tempo musicale, "flusso di accenti che organizza e modella il livello temporale della struttura profonda" (p. 170-1). E' una successione, secondo il criterio dell'alternanza, di tempi forti e deboli; su questa alternanza si innestano quegli impulsi accentati e non accentati il cui modo di raggrupparsi forma il ritmo. La separazione fra ritmo e metro ha del resto un autorevole sostenitore in Stravinsky, che nella Poetica della musica tocca brevemente l'argomento citando l'improvvisazione jazz. La tensione prodotta dagli accenti irregolari del solista (a livello del ritmo) è in questo caso resa decifrabile ed efficace dalla pulsazione regolare segnata dalla percussione (il livello del metro). Tra I due livelli si stabilisce un rapporto di interdipendenza.

    Di importanza fondamentale per la comprensione della musica sono poi alcuni fenomeni, ricordati da Azzaroni, come l'esistenza di metri che oltrepassano i confini della battuta -i cosiddetti ipermetri- o il contrasto fra la scansione notata sullo spartito e quella imposta da figurazioni musicali che vi si ribellano ( metro latente ). Si tratta di concetti essenziali per la formazione di un musicista, necessari per capire un repertorio che va dal Rinascimento ai giorni nostri, ma ancora poco presenti nella didattica musicali e nei manuali di teoria e solfeggio di uso corrente.

    Modalità e tonalità sono gli argomenti più importanti del quarto capitolo, che fornisce anche utili chiarimenti su aspetti terminologici e concettuali. Come in tutti I campi del sapere, anche qui l'uguaglianza tra i nomi è bifida, e può trarre in inganno.

    L'incauto trova però in Canone infinito una guida attenta e paziente: ecco allora una nota avvisare il lettore che i generi diatonico, cromatico ed enarmonico dell'antica musica greca nulla avevano a che spartire con i loro omonimi che incontriamo nel sistema tonale (p. 231). Due pagine dopo, a proposito delle harmoniai doriche, frige e lidie già diffuse in età presocratica, un'altra nota trattiene il lettore avventato dall'ipotizzare qualsiasi parentela con i modi ecclesiastici che nel Medioevo portano lo stesso nome (p.233). Un'ulteriore distinzione terminologica utile, questa volta di natura teorica anzichè storica, è quella fra modo e scala. Il primo designa non solo un semplice insieme ordinato di suoni, ma anche un sistema di riferimenti con aspetti funzionali o gerarchici, come la finalis e le corde di recita nella modalità medievale. La distinzione è utile per non equivocare la riesumazione di elementi modali in epoca moderna e contemporanea. Spogliato della sua originale struttura e degli abiti melodici ad esso connessi, un modo diviene una semplice scala, una riserva di suoni di sapore arcaico o esotico non vincolante, quanto al modo d'uso, per il compositore. Nella Sonata in si minore di Liszt, ad esempio, "il modo viene inteso unicamente come inusitata collezione di suoni, come inedita riserva sonora da plasmare però secondo i canoni dello stile tonale" (p. 251). Osserviamo per inciso che questo è vero anche per molta parte dell'improvvisazione jazz classica, la cui teoria musicale parla non a caso di scale modali.

    Dal sistema pitagorico ai fasti barocchi del temperamento equabile, i metodi di accordatura sono classificati, nel quinto capitolo, secondo la distinzione fra sistemi divisivi e sistemi partitivi di divisione dell'ottava. I primi stabiliscono il tipo di intervalli costituenti la scala, diversi a seconda dei rapporti numerici che li definiscono (ad es. 3/2 per la quinta giusta); gli altri stabiliscono invece il numero di intervalli uguali in cui dividerla (ad es. 12 semitoni uguali fra loro). Il temperamento equabile appartiene a quest'ultimo tipo. Il problema dell'accordatura, a cavallo fra speculazione matematica e artigianato strumentale, si incrocia con coordinate storiche più generali. L'autore ossserva "come ogni passaggio da un tipo di accordatura ad un altro possa configurarsi come conquista di ciò che in un determinato momento storico viene sentito come irrinunciabile, ma al contempo come l'ammissione di ciò che sarebbe stato inaccettabile in epoca precedente" (p. 309, corsivo mio). Se sopra abbiamo evidenziato l'intreccio fra teoria e prassi, qui viene in primo piano quello fra speculazione ed estetica.

    L'intento della parte dedicata agli strumenti di analisi della morfologia e della sintassi melodica, sviluppato nel capitolo sesto, è quello di ricondurre a una formulazione generale efficace e pregnante la dimensione orizzontale della musica, in modo analogo a quanto l'armonia fa per la dimensione verticale. Lo stadio di evoluzione delle due discipline è però ben diverso, a tutto vantaggio dell'armonia. L'autore chiarisce da principio che l'enucleazione dell'elemento melodico dal contesto globale della composizione è molto difficoltosa, anche a causa del fatto che il suo livello descrittivo minimo "dipende da dua variabili correlate (altezza-tempo), quando invece la verticalità può contare su un livello descrittivo minimo dipendente da una sola variabile (l'altezza).

    Il seguito del capitolo sembra dargli ragione: pur nell'abbondanza delle fonti citate, e nonostante la ricchezza degli spunti, rimane l'impressione che la teoria musicale non abbia trovato, nei confronti della melodia, un punto di vista davvero soddisfacente. Il moltiplicarsi della casistica, le definizioni e le sottigliezze tassonomiche sfociano nel prevalere delle funzioni classificatorie e descrittive sulla reale potenza esplicativa delle teorie.

    Ben altra è la pregnanza della tradizione di studi sulla teoria dell'armonia, incrociata, anche nei periodi di massima "verticalità tonale" della musica, con l'angolo visuale del contrappunto armonico, ossia con la teoria della condotta delle parti (settimo capitolo). La lettura di questo capitolo è particolarmente gustosa per chi abbia alle spalle studi scolastici di armonia e conoscenza della manualistica corrente in Italia. Attraverso uno sguardo che spazia rapidamente dal Duecento ad oggi, l'insieme a-storico di precetti e regole che nei manuali viene presentato come armonia tout court riceve una salutare messa in prospettiva. L'armonia di scuola si presenta allora come un complesso di opzioni stratificate storicamente, che a differenza delle "teorizzazioni d'autore" - come può essere il Trattato di armonia di Rameau per il Settecento- intrattiene con la prassi musicale rapporti complessi e in parte contradditorii. Scorrendo il capitolo si osserva facilmente come le regole esposte nei manuali siano una sorta di precipitato di esigenze manifestate dai teorici lungo un arco di sette secoli, dunque in risposta a sollecitazioni culturali, stilistiche ed estetiche diversissime fra loro. Se il divieto delle quinte parallele è già codificato nel Trecento, le regole sulla risoluzione degli accordi eccedenti appaiono molti secoli dopo. Il risultato di questo processo di sedimentazione non lineare è per certi versi sconcertante. Un caso eclatante è quello delle regole di scuola sul contrappunto tonale. Destinate a organizzare un linguaggio, quello della tonalità, che ha nella simmetria e nella ripetizione i suoi punti di forza, esse discendono direttamente dalla prassi rinascimentale, dunque da un sistema -quello modale- radicalmente diverso: un pò come se con i principii dell'economia curtense si volessero formare degli operatori di borsa!

    Sonata e fuga sono i due archetipi formali di cui la prima parte dell'ottavo capitolo riassume la struttura. La parte finale affronta alcuni problemi generali di analisi formale, come la definizione di "tema" o la complessità con cui i vari livelli strutturali si presentano nelle opere musicali. La lezione che se ne trae è che un'analisi che si proponga di fare chiarezza a ogni costo è destinata a soccombere di fronte alla ricchezza chiaroscurale dei suoi oggetti. Chiunque si prenda il disturbo di "smontare" una fuga di Bach si rende conto che ambiguità, occultamento e sfasamento sono cardini del decorso compositivo. Qualunque tentativo sensato di darne una versione analitica farà dunque bene a non trattare questi fenomeni come imperfezioni residuali, ma a porli al centro del proprio orizzonte concettuale.

    4. Le ragioni della storia.

    Non si tratta di un libro di storia, è stata una delle prime avvertenze che abbiamo dato al lettore. Come ha mostrato il nostro escursus, questo non significa affatto che la dimensione storica sia assente. Potremmo anzi dire che quasi tutti i capitoli si occupano in modo più o meno indiretto di storia. Il taglio del libro determina però un approccio inusuale: sulla storia della musica, il punto di vista è al tempo stesso generale e selettivo. Svincolato dagli obblighi di una narrazione sistematica degli eventi, l'autore isola e mette a fuoco momenti particolari nell'evoluzione storica dei linguaggi musicali, cogliendone aspetti di ampia portata. Interessante è per esempio il passaggio dal rinascimento al barocco, che per molti versi corrisponde all'ingresso nell'età moderna della musica:questa transizione è affrontata in vari capitoli e messa a fuoco da punti di vista diversi ma convergenti nel delineare un'identità complessiva del fenomeno. Nel cap.2 si mostra come fra Cinque e Seicento "le quattro combinazioni mensurali dall'illustre passato arrivano a ridursi ad un unico tipo" (p.140). L'età moderna si apre dunque sotto il segno di una razionalizzazione che è anche impoverimento; alla multiforme varietà di tempi, prolazioni e proporzioni subentra un sistema di divisione lineare binaria più immediato ma schematico. La ricchezza metrica e ritmica "cede via via il campo a ricerche che si muovono in altre dimensioni del suono, come ad es. quelle nel campo dell'armonia (...) (p159). Il terzo capitolo interseca questa considerazione con un altro ordine di idee: il nuovo sistema di notazione rispecchia un cambio di estetica profondo. La ricerca della varietas rinascimentale viene soppiantata da un linguaggio che ha nella ripetitività dei giri cadenzali e nella regolarità della scansione dei punti di forza.

    Ogni capitolo sembra dunque tracciare un raggio verso la storia da un punto diverso della circonferenza. Ma, vista da vicino, anche quest'immagine è inesatta. Non solo una storia è qui in questione, ma una molteplicità di storie: la storia dei linguaggi musicali, la storia delle versioni che di quei linguaggi diedero i teorici, la storia dei manuali che ne condensarono, alterandole, le opinioni... "La vera storia consiste di storie al plurale", recita la frase di Dahlhaus che apre il libro. Come il demone del Vangelo di Marco, la storia sembra rispondere a chi la interroga "il mio nome è legione, perchè siamo molti" (Mc 5,9).

     Emanuele Ferrari

     

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