Søren Kierkegaard

Una fugace osservazione su un particolare nel Don Giovanni

 Una fugace osservazione
su un particolare nel Don Giovanni [1]

di Søren Kierkegaard

 

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con una Nota su Kierkegaard recensore
di Marcello Gallucci

 

Il Don Giovanni [2] di Mozart è di nuovo in scena: a paragone delle molte pietanze riscaldate, sofisticate e prive di nutrimento, il teatro ha in quest’opera, come si dice in termini di pianificazione dell’economia domestica, un buon piatto da cui per molto tempo si può trarre giovamento, e il pubblico si rallegra all’idea di potervi assistere, anche se viene rappresentato di rado. - I giornali hanno già emesso le loro sentenze, esaminando la rappresentazione nell’insieme e nei dettagli, ma io non mi permetterò di avere un’opinione così pronta, neppure sulla valutazione dei giornali. C’è una bella, vecchia regola del defunto Socrate [3], quella di trarre modeste conclusioni dal poco che capiamo di una cosa, rispetto al tanto che non ne capiamo; la critica teatrale dei giornali mi suggerisce sempre la più grande modestia e un’ascetica astinenza da ogni conclusione.

Sull’esecuzione di Hr. Hansen [4] si è detto molto, con ampia validità generale e ammirevole prontezza, che è subito pronta. Io non presumo di avere un simile giudizio universale immediatamente pronto. Mentre è su un singolo punto, che ho notato, che desidererei soffermarmi un istante, richiamando l’interesse di un lettore, dacché io non ho affatto intenzione di trattenere nessuno che abbia fretta, o di far perdere tempo agli uomini d’affari. Mi soffermo su questo particolare tanto più volentieri per il fatto che lo considero non come un apogeo della concezione e della rappresentazione di Hr. H., di cui non mi faccio nessuna opinione generale, ma come un apogeo, sia che questo attore interpreti ogni parte altrettanto bene (il che infatti non può oscurare l’autentico splendore di un singolo dettaglio), sia che in altri passaggi riesca meno (il che potrebbe soltanto rendere l’apogeo più evidente in senso relativo). Questo punto è il duetto con Zerlina nel I atto, che, quand’anche si abbia una opinione diversa del significato del recitativo per le rappresentazioni sulle nostre scene, deve esser visto come un trionfo assoluto.

Ad un cantante si richiede prima di tutto la voce, quindi la recitazione, che è sintesi della voce e del sentimento, qualcosa di completamente diverso dalla flessibilità della voce nella coloratura o nel gorgheggio [5] , dato che come possibilità è reciproca commensurabilità, e come attualità è consonanza della voce e del sentimento nell’esecuzione; finalmente si richiede al cantante drammatico che il sentimento sia appropriato alla situazione e all’individualità poetica. Quando il cantante ha la voce, e vi aggiunge il sentimento, allora artisticamente è nella passione; se è anche attore, sarà perfino in grado, con la mimica, di abbracciare insieme gli opposti. Quanto più riflessivo è egli stesso, ed esperto nell’istruire la voce sul pianoforte del sentimento, tante più combinazioni avrà a disposizione e così potrà rispondere meglio alle richieste del compositore, naturalmente se il lavoro del compositore ha richieste da porre all’esecuzione del cantante e non appartiene alle opere insopportabili e ineseguibili. Se è meno riflessivo, non avrà quanto a sentimento e carattere così grandi dimensioni; ma una cosa resta: il fondamento universale di ogni sentimento, essere in grado di aggiungere la fantasia alla voce, poter cantare con fantasia. Una tale esecuzione è ciò che io ho ammirato in Hr. H. al punto suddetto.

Istintivamente ci si aspetta parecchio dal duetto con Zerlina. La prima scena con Anna [6] è troppo tempestosa per permettere a qualcuno di conoscere chiaramente Don Giovanni; invece qui tutto è in ordine, gli altri personaggi sono allontanati, l’attenzione è concentrata su come lui ora si comporterà al suo primo assalto, e pensiamo: ora vedremo se Don Giovanni è un gagà, un fanfarone (come diventa una persona che vuol essere un Don Giovanni), che ha in Leporello un ingenuo trombettiere e in Mozart un trovatore impotente, o se si tratta in effetti di quell’uomo famoso e delle sue celebri gesta. Il compositore esegue magistralmente la sua parte. L’accompagnamento è aggraziato e persuasivo, il suo ritornare affascina, come il ripetuto mormorio di un ruscello, mentre l’orchestra si chiude in se stessa e continua e non può smettere; fa sognare, e nondimeno cattura, così come il profumo dei fiori stordisce; trascina verso l’infinito, non con l’energia della passione, ma con un tranquillo anelito. Mozart sa bene cosa sta facendo, e una Zerlina non deve avere quelle qualità individuali che costituiscono il presupposto di un’altra concezione, per esempio il fortissimo trasporto della passione in una comunione di desiderio, in cui il desiderio autenticamente femminile, per energia e ardore, è quasi all’altezza della potenza naturale di Giovanni; o un abbandono autenticamente femminile per Giovanni, in cui un’infinita ricchezza femminile è data via; o una resistenza vinta, che crolla con fierezza; o una nobile semplicità, che è ingannata; o una purezza esaltata, che è contaminata; o un’umile interiorità che, una volta umiliata, è umiliata per tutta la vita; o una profonda ingenuità che, delusa, è delusa per sempre; o la santa passione dell’infinito, che è sviata in perdizione; o l’imprudenza femminile, che è portata alla rovina ecc. La seduzione di Zerlina è un matrimonio tranquillo, che si svolga pacificamente senza nessuna storia. Fondamentalmente le cose stanno così: lei non sa com’è successo [7] , ma è successo [8] , e così lei è stata sedotta; e il risultato dell’estremo sforzo di comprensione da parte di Zerlina è questo: non si spiega. Per quanto riguarda l’esecuzione di Zerlina, ciò è di grande importanza. Era perciò un errore, da parte di un’attrice altrimenti meritevole, Md. Kragh [9] , cantare la replica: «no! io non vorrei» [10] , con una grande enfasi, come fosse una decisione che fermentava in Zerlina. Tutt’altro. Lei è frastornata, le gira la testa, si sente il cuore strano sin dall’inizio. Se a questo punto le si danno dei pensieri, l’intera opera è sbagliata [11] . Il successivo «L’anima di Masetto sanguinerà» [12], ha la stesso vigore. Se fosse di natura simpatetica, nulla andrebbe bene [13] . La replica non deve voler dire di più, né essere cantata diversamente che per restare au niveau [14] con una gesticolazione involontaria, come per esempio stringere il grembiule, respingere l’abbraccio di Don Giovanni. Proprio questo rende lei bella e amabile, e la sua relazione con Masetto corretta. Sentire l’aria «batti, batti» [15] come un atto di riconciliazione è un vero e proprio errore. Ella non ha ancora completamente ripreso il po’ di giudizio che ha, sempre più che sufficiente al ménage con Masetto, ma non per sfuggire alla trappola di Don Giovanni; lei vede che Masetto è in collera, e così non le resta altro da fare che mettere a posto le cose con lui e con se stessa; perché per lei stessa l’intera faccenda non è chiara, e per lei la sua innocenza è, nella sua innocenza, assolutamente indubbia. Ella deve essere mantenuta in questa ingenuità; e proprio non capisce per nulla come mai Masetto si sia potuto arrabbiare così tanto. La riconciliazione non deve dunque avere nessun carattere salvifico. Niente affatto, non appena lei vede Don Giovanni, ricomincia di nuovo, e così deve di nuovo andare e piagnucolare un po’ davanti a Masetto, e così lo conforta, e così lei stessa crede, alla fine, che Don Giovanni e Masetto hanno litigato Dio sa perché, e che lei è quella che deve placarli entrambi. Lascia passare qualche anno, e va a visitare Madame Masetto; troverai Zerlina fondamentalmente immutata. Proprio come nell’opera va in giro trastullandosi, così ora nella sua casa va in giro sfaccendando, graziosa, amorevolissima, ecc. Se tu le chiedessi: «ma come andò veramente quella faccenda con quel tal Don Giovanni», risponderebbe: «sì, fu una cosa strana, una strano giorno nuziale, un tale parapiglia, e io dovevo stare all’erta dappertutto, ora c’era Masetto che ringhiava, ora Don Giovanni che voleva parlarmi, e non c’è dubbio che, se non ci fossi stata io, si sarebbero ammazzati l’un l’altro». Deve essere interpretata così, perché sia chiara la differenza femminile con Anna e Elvira. In proporzione, Anna è molto meno colpevole di Zerlina. Ella ha scambiato Don Giovanni per Ottavio, niente di più. Ma poiché è essenzialmente evoluta, tanto basta a turbarla forse per tutta la vita. Lei lo nasconde quanto più a lungo possibile, e poi s’infiamma per la vendetta. Ma Zerlina è imperturbabile, va allegramente sia a ballare con Don Giovanni, sia a confessarsi da Masetto, è tutto un po’ strano, e entrambi i signori interessati le vanno abbastanza bene, ciascuno a suo turno. Lei è dappertutto, sente di essere in compagnia di quelle distinte signore e sente di essere importante proprio come una di loro, partecipa alla cattura di Don Giovanni non per punirlo di averla sedotta, ma perché ha picchiato Masetto (è chiaro che confonde il fisico col morale), e per questo trova che Leporello sia altrettanto colpevole, perché anche lui ha picchiato Masetto, il suo caro piccolo Masetto, a cui lei vuole tanto bene, e che gli altri trattano così male. - Elvira è una figura femminile gigantesca che apprende con assoluta passione che cosa significhi essere sedotta. Lei non vuole trarre in salvo fuori dal mondo una briciola di onore, vuole fermare Don Giovanni, naturalmente con la riserva che, se Don Giovanni le sarà fedele, lei rinuncerà alla sua missione itinerante - ma anche in questo caso egli verrebbe fermato. Questo è autenticamente femminile, una superba trovata. Dunque lei, nella sua missione, come donna, è in un certo senso ausser sich [16] , e quindi deve precipitare in una luce comica in modo assolutamente coerente. Non penso a quella situazione profondamente tragica nel secondo atto, in cui lei prende Leporello per Don Giovanni, di cui un autore ha detto che è quasi crudele [17] , ma a qualcosa d’altro. Ella stessa è sedotta, ed ecco che vuol salvare qualcun altro, senza pensare che una simile impresa esige studi preliminari e parecchi esami, per acquisire la capacità di mettersi al posto degli altri. Cosa che lei, semplicemente, non può. Perciò non può neppure farsi capire da Zerlina. E’ qui che Elvira diviene comica. Lei trasferisce tutto il suo pathos su Zerlina, e alla fine Zerlina può comprendere meglio Don Giovanni, di quanto non possa capire Elvira. Un’attrice, che interpreti Zerlina, non deve quindi spaventarsi, presa d’angoscia alle parole di Elvira, come nei tempi andati veniva recitata la pièce; è davvero troppo. Ella deve stupirsi di questa nuova sorpresa, e stupirsi in modo tale che un buon spettatore sia prossimo a sorridere della situazione, mentre comprende la tragicità di Elvira.

(La conclusione domani)

Conclusione

E ora a Don Giovanni. Unisca qui il cantante la sua fantasia alla voce e usi quest’esecuzione come una specie di accompagnamento, allora cosa succederà? La situazione diventa così una situazione di seduzione? Forse, ma non in un’opera; al contrario, in un dramma, in cui un seduttore non canta alla ragazza, ma per la ragazza, può con questo tramite contribuire al suo ingresso nel campo della fantasia. Abbozzerò una tale situazione. Supponiamo di avere a che fare non con una contadinella, ma con una Donna [18] , una ragazza evoluta dotata di qualità apprezzabili. Il seduttore ha una voce, e sa come aggiungervi della fantasia. Così talvolta canta per lei quel che le piace ascoltare. Poi un giorno casualmente, o almeno così dice, succede che sceglie per lei questo pezzo dal Don Giovanni. Lo esegue con tutta l’ispirazione della fantasia. Naturalmente non la guarda, non uno sguardo, non un sospiro, o tutto è perduto. Guarda verso il vuoto, e la sua voce ridesta il sentimento e l’allettamento della fantasia. Così la Donna ascolta, sicura com’è e poiché sa che lui non canta per lei, che non ha nulla a che fare con lei, che ciò non la riguarda, si abbandona all’infatuazione, e dal momento che si suppone abbiano la stessa forza, il seduttore deve provocare il primo incontro nella fantasia, faccia a faccia solo nel presentimento e nelle aspettative sfumate della fantasia. Se questa situazione si presentasse, fondamentalmente non si tratterebbe più di un’opera, ma costituirebbe la transizione da questa situazione alla realtà riflessa del seduttore in un dramma o in un racconto.

Ora, se Hr. Hansen si fosse proposto di dar forma a questa situazione in un dramma, la sua esecuzione sarebbe stata omnibus numeris absoluta [19] , e chiunque abbia senso per tali osservazioni sicuramente non negherà che stupisce ascoltare un’esecuzione così profonda. Calmo, con una voce insinuante, nostalgica e sognante, e tuttavia distinta nell’espressione, articolando ogni nota in modo che nulla si perda o vada perso, egli produce un raro effetto. Ma dal momento che si tratta di un’opera, e di questo si tratta qui - si deve spezzare una lancia a favore del fatto che questa esecuzione così eccellente non è al suo giusto posto, non è una mela d’oro in un piatto d’argento [20] . Don Giovanni non è un tenero suonatore di cetra, né un seduttore che al primo assalto debba valersi di una maschera del genere [21] . Si prenda un altro passaggio dell’opera, ad esempio l’aria per chitarra [22] , o il momento in cui Don Giovanni si intromette nella prima aria di Elvira, «poverina, poverina» [23] , direi, indugiando un po’ su quest’ultima, che qui deve essere usata quella esecuzione. Essenzialmente questa esclamazione non è diretta a nessuno, è Don Giovanni che si ferma a riflettere con se stesso e anticipa il godimento. Per questo la fantasia deve essere applicata alla voce, e l’ironico non deve sorgere dalla riflessione di Don Giovanni sulla situazione, ma deve essere per lo spettatore, che guarda Don Giovanni. Bisogna che l’attore, proprio per questo, stia bene attento a star fermo in quel momento, anche se è comunque giusto che lui, mentre viene eseguita l’aria, vada avanti e indietro con una certa tensione. Ma anzitutto non deve venire in avanti quando canta queste parole, perché Elvira non deve assolutamente sentirle. Né deve cantarle a Leporello, come per il resto delle parole durante l’aria. Essenzialmente significano solo che Don Giovanni è dell’umore giusto. L’impareggiabile effetto di questa situazione non deve risultare dalla riflessione di Don Giovanni o dalla sua valutazione, ma è da cercare nell’effetto d’insieme, come ha mostrato un autore [24] .

Nel duetto con Zerlina, Don Giovanni canta a Zerlina. Questo è Don Giovanni, e Zerlina è una graziosissima piccola contadinella. In relazione alla Donna della situazione inventata, era necessario iniziare in quel modo, perché non doveva essere assolutamente concupita lì per lì. Perciò tutto cominciava con un innocente sogno, e questo vale per tutte le seduzioni: un attacco prematuro, e tutto è perduto. Dal momento che Zerlina è una contadinella, non ne segue necessariamente che Don Giovanni dovrebbe cominciare con qualche impertinenza; Don Giovanni non lo farebbe mai. Irriflessivo, ma come potenza della natura, possiede sempre dignità e grazia. Il recitativo prima del duetto è abbastanza languido, nel senso buono del termine. Il che è giusto, perché Don Giovanni è privo di riflessione; e catturare una contadinella in una tal sorta di vasta invenzione fantastica, in un manto idealizzato [25] , quando uno, come Don Giovanni, è sicuro che lei nel frattempo è già abbastanza occupata a guardare e adorare il bell’uomo, sarebbe un eccellente modo per farle girare la testa. Un tizio che passasse velocemente ai fatti sarebbe capito troppo rapidamente da Zerlina e la metterebbe in allarme, perché in tutta la sua ingenuità Zerlina è pudica, e gli scherzi proprio non li capisce; ma questo lei proprio non lo crede cattivo. Nel frattempo, inoltre, e come commento di assoluta importanza al testo, si vuol vedere la superiorità di Don Giovanni, lo si vuol vedere catturare le mosche col miele, vedere che in un certo senso ha ragione quando dice ad Elvira: «era solo uno scherzo» [26] . La replica non è cattiva né ironica, è immediata; Don Giovanni considera Elvira troppo imponente per essere impressionata da una piccola relazione con la piccola Zerlina; lei, la sedotta [27] , e Zerlina! Sarebbe troppo facile dotare Don Giovanni di una piccola riflessione, ma nell’opera è l’arte proprio lì, nel tenerla via, perché Don Giovanni non diventi, con una sia pur piccola riflessione, una figura mediocre e l’opera fallisca nella costruzione. Attraverso il portamento, l’espressione, la gestualità, la rappresentazione, con la forza dell’intera figura, l’attore deve ora serbare la superiorità.Così ha inizio il duetto. La universalità sognante dell’accompagnamento (per il fatto che la musica è un medio [28] più universale) deve essere più chiaramente udibile nel momento in cui Don Giovanni si adopera a catturare Zerlina attraverso la forza della natura che è in lui e nell’accompagnamento. Quando è al massimo e vede il suo stordimento, e vede che il suo non volere è una devozione illusoria, allora raduna tutta la sua superiorità in un ultima, quasi imperiosa onnipotenza. E’ l’autocompiacimento di una forza della natura. L’accompagnamento, dal primo «sii mia» [29] non è quindi insinuante, ma energico e risoluto. Allora lei si abbandona. Per Don Giovanni naturalmente non è così. Qui si deve di nuovo vedere la sua superiorità. Rispetto ad Anna, Elvira e a donne simili a loro, non è inconcepibile che Don Giovanni, nel momento della sua vittoria, goda il piacere in modo così intenso, come un amante che dà proprio quel che riceve, da diventare per la prima volta seduttore solo nel momento successivo. Ma Zerlina è catturata e servita in un altro modo. Qui il piacere è proprio il divertimento, e Don Giovanni è immediatamente, da un punto di vista puramente musicale, nel suo elemento. Zerlina non è per lui per niente inferiore ad una qualunque altra giovane, ma qualcosa di diverso da Elvira e Anna, e a suo modo altrettanto attraente ed essenzialmente lo impegna allo stesso modo. Per cui, come devo ripetere, quando viene vista o sentita in relazione a Don Giovanni, Zerlina deve essere interpretata in modo tale da produrre in un buon spettatore una certa allegria, perché inutilmente userà la categoria della serietà con lei, e da strappargli un sorriso, quando viene vista in relazione a Masetto, perché Zerlina essenzialmente non è né sedotta né salvata, ma continuamente nei pasticci.

Forse questo o quello, o parecchi, persino i più, potrebbero pensare che tutto questo è insensato, anche perché quasi mai Zerlina è stata vista come oggetto di un’interpretazione estetica. Io stesso sono incline a giudicarlo insensato, e mi sento quindi obbligato a chiedere scusa a Hr. Hansen per il caso in cui, vedendo che viene menzionato il suo nome, dovesse prendersi il disturbo di leggere questo scritto, e perdono a «Fædrelandet » dal momento che io, in modo abbastanza singolare, ho recato fastidio con un simile contributo, la cui colpa è precisamente di non essere abbastanza ponderoso. Hr. Hansen può facilmente perdonarmi. Quale fortuna, quando un uomo ha un’aspirazione, e ha fatto la sua scelta di vita, avere proprio il tipo di voce da cantante che ha lui, che fortuna, quando un uomo ha un’aspirazione e ha scelto la sua professione, avere come attore qualità altrettanto buone di quelle che lui in effetti ha. Quando un uomo è stato così dotato, e qualcosa ha anche acquistato, può facilmente sprecare un po’ del tempo delle prove per il suo modo di camminare o di stare in piedi. In verità io non dovrei proprio credere che le mie gambe e la mia andatura siano in qualche rapporto con la mia concezione di quest’opera immortale; dovrei andare subito a procurarmene un altro paio [30] .

A.
 

Nota su Kierkegaard recensore
di Marcello Gallucci
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In un certo senso posso dire del Don Giovanni quel che Elvira dice a Don Giovanni: «Tu hai ucciso la mia felicità». Perché in verità quest’opera mi ha preso così diabolicamente che io non potrò mai dimenticarla. E’ l’opera che mi ha rapito, come Elvira, dalla calma notte del chiostro.

(Papirer, II A, 491)

Nel corso dell’Ottocento, l’opera di Mozart è sicuramente tra le più rappresentate nel Teatro Reale danese: lo statistisk Fremstilling pubblicato nel 1896-99 da A. Aumont ed E. Collin riporta ben 245 rappresentazioni, di cui una buona parte nella stagione prettamente kierkegaardiana, tanto che il 23 settembre 1848 il Teatro Reale ne celebrava la centesima replica [31] . Due, in questo periodo, gli interpreti di maggior spicco del personaggio: l’italiano Giovan Battista Cetti e Christian Hansen. Il primo interpretò l’opera ininterrottamente dal 18 maggio 1822 al 1837; il secondo, che aveva esordito nel ruolo il 28 maggio 1839, dopo l’interruzione già ricordata ne riprese i panni il 23 febbraio 1845 e non li abbandonò che il 27 gennaio 1870, quando fu sostituito da Erhardt Hansen.

Alla base delle analisi di Kierkegaard vanno dunque considerate sia l’interpretazione di Cetti, sia quella di Hansen. Se quest’ultimo è infatti il destinatario manifesto del breve saggio qui presentato, Gli stadi erotici immediati..., pubblicato nella prima parte di Enten-Eller (1843) ma elaborato nel corso di un lungo periodo precedente, raccoglie gli esiti di una passione nata probabilmente nel 1835 [32] , all’epoca della maggiore frequentazione dei teatri da parte del giovane Kierkegaard. E dietro le figure eponime di Don Giovanni e Papageno, Kiekegaard ammira per l’appunto Cetti [33] .

Il che non deve meravigliare. Alle origini della nuova sensibilità culturale per lo spettacolo, nella Danimarca dell’Ottocento, c’è un nutrito gruppo di italiani. Comici viaggianti, attori di alta tradizione, o cantanti, scenografi e coreografi perfettamente inseriti nella società del tempo: la loro estrema versatilità obbliga il teatro a un confronto serrato con temi nuovi e nuove attitudini sceniche. Ne nascono un gusto e un’influenza che, nella personalità più interessante dell’epoca sotto questo profilo, Hans Christian Andersen, verranno apertamente dichiarati: la tournée del 1915 al teatro di Vesterbro del pantomimo-acrobata Giuseppe Casorti, inimitabile Arlecchino nel Principe dei ladri, infiamma la sua immaginazione infantile al punto da inciderla per sempre, determinando il suo destino di uomo di teatro. E così i fantasiosi costumi della sua maturità per Il Corvo, che radicalizzano l’aspetto da maschere dell’arte di tutti i personaggi, possono esser letti come omaggio proprio alla tradizione «italiana» di Casorti. Del resto nei suoi libretti d’opera si avverte ben più di un’eco dell’insegnamento di Giuseppe Siboni (il cantante pedagogo che lo introdusse per primo alla musica moderna), mentre Vincenzo Galeotti (predecessore di Bournonville, che realizzò una cinquantina di balletti per il Teatro Reale) informò la sua concezione della coreografia, e le scene di Cocchi costituiscono il precedente d’obbligo per il suo gusto esotico della scena [34] .

Rispetto a quella di Andersen, la vocazione di Kierkegaard è di tipo completamente opposto. La sua passione di spettatore non nasce a teatro, vi viene trasferita e proviene da un regno totalmente diverso. È di tipo nostalgico e retorico insieme. Deriva da un gioco paterno ricordato in una delle pagine iniziali dell’incompiuto Johannes Climacus o de omnibus dubitandum est, e si compone con la scaltrita capacità di uno sguardo teso a cogliere, della grazia e del fascino, i fondamenti scenici. Ne risulta un’attenzione unica, per l’epoca, alle concrete determinazioni psico-fisiche che, organizzando il lavoro dell’attore sulla scena, lo rendono significante.

Vale la pena di rileggerla, questa pagina:

...il padre qualche volta gli proponeva di passeggiare su e giù per la stanza tenendolo per mano. A prima vista sembrava un magro compenso, ma, come l’abito di fustagno, nascondeva un tutt’altro contenuto. Accettata l’offerta, egli lasciava Giovanni completamente libero di scegliere dove sarebbero andati. Essi uscivano allora dalla porta della città, dirigendosi verso un castello dei dintorni, o fino alla spiaggia, o bighellonavano per le strade, sempre a piacimento di Giovanni perché il padre era capace di tutto. Durante quest’andar su e giù per la stanza, il padre raccontava tutto ciò che essi vedevano: salutavano i passanti, le vetture correvano con strepito assordante e soverchiavano la voce del padre; le frutta della fruttivendola sembravano più invitanti che mai. Egli raccontava tutto in modo piacevole ed attuale, fin nei particolari più insignificanti, tutto quel che Giovanni già conosceva; e negli altri argomenti a lui sconosciuti era così circostanziato e intuitivo, che dopo mezz’ora di passeggio con il padre, si sentiva spossato e stanco come se avesse passeggiato fuori per un’intera giornata. Quest’arte magica del padre, Giovanni la imparò ben presto. Ciò che prima non era stato altro che un semplice giro epico, divenne presto drammatico: essi cominciarono a parlare mentre camminavano. Se prendevano le vie ben note, si sorvegliavano a vicenda, perché non fosse omesso alcun particolare. Se la strada era sconosciuta a Giovanni, egli lavorava di fantasia, mentre la straordinaria inventiva del padre era in grado di dare forma a tutto, di usare ogni desiderio del bambino come un pezzo del dramma che si stava svolgendo. Per Giovanni sembrava che il mondo sorgesse dalle loro conversazioni. (...)[35].

Kierkegaard ne erediterà un’attitudine alla distanza nella quale situare tutto il fascino dello spettacolo, da cui originerà poi la produzione critica espressamente dedicata al teatro, manifestamente i tre testi principali: questo En flygtig Bemærkning, del 1845, Krisen og en Krise i en Skuespillerindes Liv, scritto nel 1847-48 e finalmente l’inedito - Kierkegaard vivente - Hr. Phister som Capt. Scipio (i Syngestikket «Ludovic»), del 1848 [36] . Un’attitudine che propriamente è un rimpianto, un inseguire, attraverso il paradosso della ripetizione il dono della grazia istintiva e precisa di un Cetti, la straordinaria dote scenica di Johanne Heiberg, o l’incredibile capacità comica di Phister.

Tutti e tre questi saggi hanno in comune un dato, interrogano le modalità della ripresa di uno spettacolo: in rapporto all’idea del personaggio - ma un’idea, come s’è visto, affatto concreta e prammatica, in cui viene affermata la preminenza d’ordine retorico-significante della presenza attoriale [37] ; onde la comparazione si può estendere al rapporto con lo stesso personaggio (la parte della protagonista in Giulietta e Romeo, con la quale la Heiberg sedicenne aveva ottenuto un successo eclatante) riportato in scena a distanza di quasi vent’anni dalla stessa attrice, che quindi si trova in condizione di dover ricostruire come processo consapevole e attento il gioco delle forze e delle tensioni costitutivo del ruolo; o, ancora, all’analisi delle modalità di rappresentazione di un personaggio partendo da principi che oggi definiremmo di «opposizione» alle dominanti emotive, una sorta di «otkaz» [38] ante litteram intimamente giocato sul rapporto mente-corpo nella costruzione delle condizioni di approccio al personaggio (nell’analisi di Kierkegaard, Phister, per la sua partitura fisica, non parte dal processo esteriore di imitazione dei movimenti di un ubriaco, ma da uno stato mentale antitetico: costruisce una fitta trama di gesti e movimenti per nascondere agli altri la realtà del suo stato, onde la sua magistrale bravura risulta basata sull’estrema perizia nel controllo di sé e, come suggerito qui, sulla capacità di «abbracciare insieme gli opposti» in uno stesso luogo retorico, il corpo dell’attore).

Per questo è importante sottolineare un dettaglio non semplicemente cronologico: tutti e tre questi saggi «estetici» (il primo firmato emblematicamente A., l’autore pseudonimo della parte estetica di Enten-Eller; il secondo Inter et Inter, quasi a sottolineare il carattere di interludio nell’ambito della produzione principale, ormai trasferita ad altra dimensione; il terzo siglato Procul, che è proprio chi va indietro - per cogliere il fondamento di un effetto, o anche chi compara, nella ripetizione, l’azione e la sua memoria) sono scritti a breve distanza dal romanzo filosofico più bello ed avvincente dell’Ottocento, La ripresa, che ruota tutto attorno a un assurdo viaggio «teatrale» a Berlino per provare se, ritrovando gli stessi attori nelle stesse condizioni, la ripetizione non divenga un fenomeno psicologicamente (nell’accezione kierkegaardiana del termine) possibile [39] . La soluzione negativa dell’esperimento si ribalta nella diversa posizione della domanda: se dalla parte dello spettatore la sola cosa che si ripete è «l’impossibilità della ripresa» [40] , dalla parte dell’attore si precisa un compito che non è più quello dato dal semplice rapporto di casuale coincidenza tra l’età e la parte (una ragazza di diciott’anni, diabolicamente carina, che gioca a far la parte di Giulietta, un lirico appassionato che vuol dar vita a Don Giovanni) la cui rappresentazione non si offre perciò come rapporto «eminente» all’ideale. L’attore, il vero attore, realizza in sé il miracolo quando si rapporta idealmente alla parte, cioè quando l’ordine accidentale delle casualità (l’avere realmente diciott’anni) viene superato da un preciso ed assoluto «servizio all’idea»: costituendo attraverso un potenziamento espressivo - mediato in questo caso dal tempo - un «ritorno sempre più intensivo» al «primo momento» [41] quello della giovinezza, quello della seduzione.

Il teatro della nostalgia non è quello che non crede al miracolo: è quello che lo insegue nella dolorosa ansia della sua inattualità, della sua immediata dismissione. Il fanciullo che dal padre, aveva imparato come le parole potessero creare un mondo, che adulto ha inseguito quella magia nella precisa elaborazione dei concetti e nella concatenazione dei periodi vuole, spettatore allo stesso modo dei processi logici e delle meraviglie sceniche, che un identico principio governi ogni fenomeno, estetico come etico come religioso.

Marcello Gallucci

 


Note

[1] En flygtig Bemærkning betræffende en Enkelthed i Don Juan, pubblicato in origine su «Fædrelandet» («La Patria») in due puntate (nn. 1890-1891, 19 e 20 maggio 1845), ora in S. Kierkegaard, Samlede Værker (Opere complete), a cura di A. B. Drachmann, J. L. Heiberg, H. O. Lange e P. Rohde, 4a ed. in 20 voll., København, Gyldendal 1962-64, vol. XIII pp. 51-57. Gli appunti preparatori in Papirer (anden forøgede udgave ved N. Thulstrup, København, Gyldendal 1968-78, 13 voll.), VI B 188-190. Traduzione di Marcello Gallucci e Ulla Hammer Mikkelsen.

[2] La prima danese del Don Giovanni risale al 5 maggio 1806 (Teatro Reale di Copenaghen), mentre è del 1822 l’esordio nella parte principale del cantante italiano Giovan Battista Cetti, le cui interpretazioni sono alla base delle riflessioni di Kierkegaard ne Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico (in S. Kierkegaard, Enten-Eller. Un frammento di vita, a c. A. Cortese, 5 voll, Torino, Adelphi 1976-89, tomo I). L’opera venne quindi rappresentata regolarmente ogni anno fino al 1839; nel 1845 tornò di nuovo sulle scene (cinque rappresentazioni tra febbraio e maggio).

[3] Rif. a Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 22, in cui Socrate, rispondendo a Euripide, afferma che, poiché il poco che aveva potuto capire dell’opera di Eraclito gli era parso buono, pensava che lo fosse anche il tanto che non aveva compreso.

[4] Jørgen Christian Hansen (1812-80) interpretò Don Giovanni dal 1839 al 1870. È probabilmente il baritono danese più popolare dell’Ottocento. Aveva esordito nel 1836 come Hans Heiling nell’opera di Marschner, una parte in cui fu notato per la caratteristica liquidità del timbro e l’esecuzione calda e appassionata, che in breve lo portarono ad essere un eccellente interprete del Guglielmo Tell rossiniano e un celeberrimo e insuperato Don Giovanni, del cui fascino sottolineava il profilo demoniaco. L’interpretazione straordinariamente appassionata di Hansen, che poggiava più sull’istinto musicale che su una tecnica virtuosistica ben esperita, lo portò in breve ad essere l’interprete per eccellenza delle romanze danesi. Cfr. T. Krogh, Guldaderen, in AA. VV., Teatret paa Kongens Nytorv, København, Det Berlingske Bogtrykkeri, 1948, p. 104.

[5] Papirer, VI B, 188, continua: "nel gorgheggio, impregnato di sentimento, che Hr. H possiede. in questo punto; lì si esige che il sentimento sia giusto. Quando si accampa una tale pretesa, ne consegue che raramente si trova qualcosa di corrispondente da ascoltare; ma proprio perché qui si può ascoltare da Hr. H. qualcosa che davvero vale il biglietto, proprio per questo io desidero diffondermi su questo punto, dal momento che è interessante per l’interpretazione di tutta l’opera."

[6] Atto I, sc.7. K. cita dall’adattamento del testo di Da Ponte fatto da L. Kruse nel 1807, in cui la divisione delle scene e la loro distribuzione nei due atti spesso non corrisponde all’originale (ad es. questa compare come Atto II, sc. 2). Nel periodo 1833-1848, poi, un ulteriore intervento portò l’opera da due a quattro atti, mentre nel 1844-45 il testo di Kruse fu rivisto in più punti da N.C.L. Abrahams. Sulla rielaborazione di Kruse per l’interpretazione di Du Puy del 1806, nata per espungere ogni motivo moralmente imbarazzante dal Don Giovanni, si veda l’op. cit. di Krogh a p. 73. A noi preme però sottolineare come la diversa distribuzione della vicenda nella rielaborazione di Kruse (con una Elvira che compare al secondo tempo, armata di pugnale) si ponga come atto drammaturgicamente non indifferente, perché mette in opera una diversa visione dei nessi degli episodi tra di loro, fino a determinare per reazione una lettura, quella kierkegaardiana appunto, che in molti passi può esser letta come dichiarata opposizione all’attitudine invalsa.

[7] Cfr. Gli stadi erotici immediati... cit., p. 171.

[8] Per questo Leporello e Zerlina sarebbero magnificamente in grado di discorrere insieme, qualora lui le dicesse riguardo a Don Giovanni ciò che, in passato, aveva detto a Elvira e che la indignò più di ogni altra cosa: «sì, oh sì, è talmente strano, perché non appena uno arriva lì, non c’è più nessuno». E Zerlina gli risponderebbe: «non è proprio come dico sempre io, che non si sa affatto come succede?» (N.d.A - cfr. A. I, sc. 3

[9] Boline Margrethe Kragh, nata Abrahamsen (1810-1839), interpretò la parte di Zerlina dal 1829 al 1839.

[10] Per Kierkegaard, che segue l’edizione citata, il duetto del primo atto (sc. 3 nell’ed. Kruse) recita: «Voglio - No! - non voglio! (...) L’anima di Masetto sanguinerà».

[11] L’impianto sarebbe in tal caso alterato: cioè il pensiero profondo e greco, che Don Giovanni inciampa in un fuscello di paglia, su una piccola Zerlina, mentre soccombe a forze completamente diverse. L’effetto totale e l’unità del tutto ne sarebbero turbati. La passione di Anna, l’omicidio del Commendatore, il nuovo incontro con Elvira, tutto va contro Don Giovanni: è quasi allo stallo e per la prima volta nella sua vita gli manca il fiato. Tutto ciò è successo così velocemente, nelle prime due scene, che l’opera è ancora al suo inizio. Ora come deve essere questa seduzione, che ha luogo nella pièce? Delle due l’una: o è quella talmente difficile e pericolosa, da eccitare con lo stimolo della tensione la sua passione estrema e la sua forza estrema (il che naturalmente indebolirebbe l’effetto e sarebbe indebolito per effetto di Anna ed Elvira), o è quella di un’insignificante, piccola, amabile contadinella, naturalmente bella e infantile, un tipo di donna che solo con approssimazione si può trovare nel Nord, e per il quale la chiesa cattolica ha una categoria mista. Don Giovanni è allora ben nel suo elemento, ma l’effetto degli altri personaggi nell’opera non è indebolito. Questa è l’intenzione di Mozart, e in questo senso la pièce ha la sua bella unità e Mozart il suo fausto compito. Don Giovanni e Zerlina sono immediatamente in rapporto l’uno con l’altra come una forza della natura con la naturale destinazione, un rapporto puramente musicale. (N.d.A.)

[12] Atto I, sc. 3 nella trad. Kruse; per noi Atto I, sc. 9: «Mi fa pietà Masetto».

[13] Chiaro richiamo alla Nemesi greca, la cui azione avviene talvolta grazie a mezzi apparentemente insignificanti.

[14] In francese nel testo.

[15] In italiano nel testo.

[16] «Fuori di sé», in tedesco nel testo.

[17] Cfr. Gli stadi erotici immediati..., cit., p. 209.

[18] In italiano nel testo.

[19] Perfetta sotto ogni aspetto. In latino nel testo

[20] Così Proverbi, 25, 11, di «una parola detta a suo tempo».

[21] «Nel caso di Don Giovanni occorre usare l’espressione ’seduttore’ con gran cautela, se preme dire qualcosa di giusto piuttosto che una banalità. E ciò non perché Don Giovanni sia troppo buono, ma perché egli non cade affatto sotto determinazioni etiche. Preferirei quindi definirlo un impostore, dal momento che c’è pur sempre qualcosa di molto equivoco in quest’altra espressione. Per essere seduttore occorre sempre una certa riflessione e una certa coscienza, ed è solo quando queste sono presenti che può essere appropriato parlare di scaltrezza, di mosse e di abili assalti. Questa coscienza manca però a Don Giovanni: Egli perciò non seduce. Egli desidera, ed è questo desiderio ad avere un effetto seducente, in tal senso egli seduce. Egli gode dell’appagamento del desiderio: appena ne ha goduto, cerca un nuovo oggetto, e così all’infinito. Egli perciò inganna, certo, ma senza organizzare il suo inganno in precedenza; è la potenza propria della sensualità a ingannare le sedotte, o meglio, è una sorta di nemesi». S. Kierkegaard, Gli stadi erotici immediati..., cit., p. 168.

[22] Atto II, sc. 3.

[23] Atto I, sc. 6.

[24] Cfr. Gli stadi erotici immediati... cit., p.196.

[25] Papirer VI B, 190, ha invece: «che fantastica per le sue mani morbide».

[26] Cfr. Atto I, sc. 10: «ch’io voglio divertirmi».

[27] Per eccellenza. In greco nel testo.

[28] Medium, nota A. Cortese, « è in genere di valore astratto rispetto a ’Middel’, ’mezzo’, di valore concreto. La differenza è fatta particolarmente risaltare, dal punto di vista dell’uso, in questo saggio (Gli stadi erotici...), dove ’Medium’ ha un suo specifico valore filosofico-speculativo e indica sì la funzione attraverso cui si realizza un determinato fine, ma solo nel suo esser funzione (quindi, se vicino al ’termine medio’ motore del sillogismo aristotelico, pure vicino e in polemica con il ’Mittel’ , ’medio-mezzo’ della ’Vermittelung’, ’mediazione’, hegeliana, a sua volta corrispondente al danese ’Mediation’, in Enten-Eller usato numerose volte nella Parte seconda), mentre ’Middel’ ha valore più generico e indica questo o quell’oggetto, cioè propriamente il funtore, attraverso cui si realizza un determinato fine» (op. cit., pp. 221-22, n. a p. 115).

[29] Atto I, sc. 9.

[30] A parte l’evidente riferimento autoironico - siamo oltretutto a brevissima distanza dal feroce attacco del «Corsaren» che si sarebbe basato proprio sulla debole costituzione di Kierkegaard per metterlo in ridicolo - va sottolineato come K. colga in tutta la sua negatività un aspetto fondamentale della consuetudine teatrale dell’Ottocento, non solo danese. Solo verso il 1870 la necessità di un maggior numero di prove per la definizione dei particolari e la concertazione dell’azione scenica, rilevata a più riprese nel corso del secolo dai maggiori critici e ribadita in queste pagine, avrebbe portato alla nascita dei primi Scenenistruktører. Nel periodo in questione, invece, i Regieprotokoller del Kongelige Teaters Arkiv rivelano che, a breve distanza dalla lettura d’insieme dell’opera (periodo di solito impiegato dagli attori e dai cantanti per provare singolarmente ed imparare a memoria la parte) erano considerate sufficienti 6 o 7 prove (ma nel caso del vaudeville ne bastavano 2 o3) per giungere alla prima dello spettacolo. Sull’insieme della questione si veda F.J. Marker, Hans Christian Andersen and the Romantic Theatre, Toronto (USA), University of Toronto & Oxford University Press, 1971, p. 165 sgg.

[31] Cfr. Det danske Nationalteater / 1748-1889. / En statistik Fremstilling / af / Det Kongelige Teaters Historie fra Skuepladens Aabning paa Kongens / Nytorv 18. December 1784 til Udgangen af Sæsonen 1888-89 / ved / Arthur Aumont og Edgar Collin. / Udgivet ned Statsunderstøttelse. København, Jorgensen & Co., 1896-99 (3 voll.), Første Afsnit. Alfabetisk Sæsonsregister, 1896, pp. 146-51.

[32] Al giugno 1835 risale infatti un abbozzo di lettera di K. in cui si pongono per la prima volta insieme i nomi di Don Giovanni e Faust, a proposito dei quali K. mostra di conoscere una vasta letteratura (Papirer cit., I A 72 - cfr. W. Lowrie, A short life of Kierkegaard, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 19653, p. 93 sgg.), mentre nel 1836 già compare l’individuazione della differenza tra i due in forza del carattere erotico irriflesso di Don Giovanni (Papirer, I A 227).

[33] È d’altronde la rappresentazione del Flauto Magico del 26 gennaio 1837, con Cetti nella parte di Papageno, ad ispirare il commento al secondo stadio dell’erotico nella musica. Cfr. H. Fenger, Kierkegaard, the myths and their origins, Westford, Mass. (USA), New Haven and London - Yale University Press, p. 14.

[34] Cfr. F. J. Marker, Hans Christian Andersen and the Romantic Theatre, cit.

[35] Johannes Climacus ovvero de omnibus dubitandum est, trad. parziale in S. Kierkegaard, Diario, I (1834 - 1849), a c. di C. Fabro, Brescia, Morcelliana 19622, p. 399. Il libro risale probabilmente al 1844, e segue di poco il viaggio teatrale a Berlino raccontato in La ripetizione.

[36] Per La crisi e una crisi nella vita di un’attrice si può oggi leggere la traduzione di I. L. Rasmussen Pin in Maschere kierkegaardiane, a c. di L. Amoroso, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, mentre per Il signor Phister come Capitan Scipione (nell’opera comica «Ludovico») si rimanda al volume a cura di chi scrive e di Ulla Hammer Mikkelsen di prossima uscita presso l’editore Monteleone.

[37] Cfr., del resto, la pregnante affermazione contenuta nel saggio sul vaudeville di Scribe Il primo amore, nell’edizione danese di J.L. Heiberg andata in scena al Teatro Reale nel 1831: "Non mi trovo perciò nella situazione in cui assai saggiamente o stupidamente sono in genere i recensori, dato che prima parlano del canovaccio e poi, a parte, della realizzazione per il teatro. Per me è la realizzazione stessa il canovaccio" (Enten-Eller, cit., vol. II p. 140). A. Cortese rende qui con «canovaccio» il termine Stykke, che noi abbiamo preferito tradurre come «pièce», in forza di un valore semantico indicato in nota dallo stesso Cortese e che ormai, nell’ambito degli studi sul teatro, è definitivamente acquisito.

[38] Il movimento di negazione tematizzato da Mejerchol’d come fondamento dell’arte dell’attore, i cui effetti possono esser misurati - sul terreno della realizzazione scenica - ad esempio leggendo le pagine di Vs. E. Mejerchol’d. Il revisore, .a c. di Anna Tellini, Vibo Valentia, Monteleone 1997, che raccoglie gli stenogrammi delle prove di quello che sicuramente è stato il più importante spettacolo dell’avanguardia teatrale russa del Novecento.

[39] Cfr. S. Kierkegaard, La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Constantin Constantius (1843), tr. it. di A. Zucconi, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, p. 42 sgg. Cfr. ancora Papirer, IV A 178: "Il viaggio di C. Constantius a Berlino non è un fatto fortuito: egli sviluppa principalmente la sua simpatia per il «Possen» e giunge qui all’estremo dell’umorismo" (tr. it. cit., p. 394. Il Possen è la farsa popolare di cui i maggiori esponenti, all’epoca del soggiorno di K. a Berlino, erano per l’appunto Beckmann e Grobecker, gli attori ricordati nel romanzo).

[40] Cfr. La ripresa cit., p. 53. Va chiarito che il termine Gjentagelsen vale in danese tanto «ripresa» quanto «ripetizione» o «replica».

[41] Cfr. La crisi è una crisi..., cit., p. 231.

 

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