Gabriele Scaramuzza [1]
Hegel e la musica

Hegel L'atteggiamento che Freud denuncia all'inizio del suo saggio su Il Mosè di Michelangelo [2] sembra singolarmente in sintonia con l'atteggiamento di Hegel nei confronti dell'arte; e questo malgrado l'ovvia disparità di intenti e di contesti in gioco nei due autori. Entrambi non «intenditori» ma «profani», entrambi ciononostante profondamente affascinati dal mondo artistico, si mostrano tuttavia entrambi diffidenti di ogni godimento estetico che stia pago di sé e non sappia adeguatamente motivarsi. Riguarda anche Hegel il «contenutismo» di Freud (che in fondo è disagio di fronte a «forme» che non sanno compiutamente dirsi), la sua incapacità di abbandono silenzioso, la sua ritrosia a «lasciarsi prendere» senza sapere; la sua ricerca infine di conferme nei momenti rappresentativi e significativi che soprattutto la letteratura e le arti visive offrono. Riguarda entrambi soprattutto che un «cronico imbarazzo» - come si esprime Bloch - si manifesti in particolare nei confronti della musica, «arte senza oggetto e vuota», che «si accorda male con un'estetica così dedita al contenuto» quale quella hegeliana [3].

Per Freud non meno che per Hegel in primo piano emerge un'esigenza di riflessione. Preminente per Hegel, e per i tempi in cui vive - che per lui (non dimentichiamolo) sono i tempi della estrema dissoluzione dell'arte romantica - é un bisogno di filosofia, e di riflessione filosofica sull'arte. Un bisogno quindi di estetica, più che di arte: non a caso l'epoca della cosiddetta «morte dell'arte» è, com'è noto, anche l'epoca della nascita dell'estetica. E non è un caso che in questo contesto assuma un rilievo sintomatico il tema della musica - e che il tema della morte dell'arte costituisca uno sfondo imprescindibile del lavoro di Silvia Vizzardelli.

Nei confronti della musica si fa esemplarmente evidente quel tanto di insoddisfazione verso l'arte che serpeggia nel pensiero di Hegel: perché la musica in certo senso è la più squisitamente arte di tutte le arti, quella nei cui confronti con maggior evidenza si pone il problema dell'arte tout-court. Proprio la musica - in quanto musica assoluta beninteso - sembra incarnare nel contesto dell'estetica hegeliana ciò che è peculiare dell'arte in quanto tale [4]. Si può dire che essa è l'arte a proposito della quale il problema estetico si pone nella sua assoluta purezza.

Se è vero che per la prima volta, nell'estetica, «Hegel è costretto a confrontarsi con un piano sensibile» che «rivendica la propria dignità», che «rifiuta di essere assimilato senza residui dal contenuto spirituale; eppure è in rapporto intimo con esso» [5]. Se dunque nella sua generalità il problema dell'arte è il problema di un mondo sensibile che, restando tale (senza venire trasceso verso altre dimensioni spirituali), esprime da sé, nei modi che gli sono peculiari, un significato [6] e si fa una specifica modalità di esistenza della verità [7] - allora solo la musica (come pura musica, naturalmente) è arte e soltanto arte. Seconda arte romantica dopo la pittura, essa «partecipa in quanto tale a quel cammino di interiorizzazione dei contenuti, cui è propria l'emancipazione del sensibile», e in quanto tale sembra essere «paradossalmente l'unica forma d'arte che realizza, con pienezza, la risoluzione dello spirito nella sua apparenza» [8].

Proprio per questo nei suoi confronti si manifesta in modo paradigmatico l'atteggiamento tutto sommato ambivalente di Hegel verso l'arte tutta - un atteggiamento di interesse e di amore ma, insieme, non privo di latenti riserve. Nel modo di essere di Hegel verso la musica si esaspera infatti la sua globale considerazione, viziata di logocentrismo, dell'arte tout-court nell'insieme della vita dello spirito. La sua ferma scelta per la filosofia come direzione totalitaria della sua vita lo rende sospettoso più che mai verso la musica, verso quest'arte intraducibile in parole; la sua non piena effabilità lo lascia incerto, spaesato. A un tentativo di rivalutazione del sensibile Hegel mescola il tradizionale sospetto verso la vita sensibile tipico di non pochi filosofi (da Platone a Husserl): una sorta di diffidenza verso il godimento estetico, verso vissuti che restino «nell'indeterminato e nel vago» (e che nel regno della musica sembrano esser di casa).

Ma v'è di più: la musica è per Hegel anche l'arte «autenticamente» romantica, «la più romantica delle arti» [9]. Più precisamente, è arte caratteristica di un romanticismo in via di dissoluzione; si può anzi in generale dire che essa sia l'arte più coinvolta nel processo della «morte dell'arte» - e questo vuoi nei suoi aspetti (di arte vocale) che Hegel valuta positivamente, vuoi in quelli (di musica strumentale), più arrischiati ai suoi occhi. Se la pittura (dopo quella che Hegel chiama «l'epoca d'oro del tardo medioevo») ha superato gli anni del suo massimo fiorire, e la poesia è già arte in via di palese superamento di sé in direzione della filosofia, alla musica sembra per contro ora affidata l'unica possibilità di sopravvivenza in proprio dell'arte.

Ma proprio per questo essa risente più direttamente delle condizioni precarie di esistenza dell'arte nell'epoca del suo tramonto. Ne risente, e in certo modo insieme le interiorizza e dà loro un volto. E'come se nella musica si esprimesse il destino epocale dell'arte - un destino che, appunto, nell'ottica hegeliana è un destino di «morte». Questa morte, beninteso, non è scomparsa bensì mutata modalità di sopravvivenza, esistenza depauperata: sprofondata in una soggettività ineffettuale, l'arte ha perso la pienezza di senso esistenziale, il riconoscimento culturale e sociale, di cui godeva nel mitico passato della classicità. E di questo la musica appunto si fa testimonianza vivente.

Proprio per il suo essere così squisitamente ed esclusivamente arte, la musica più di ogni altra arte esibisce in sé le stigmate del declino dell'arte (dell'arte beninteso nel suo valore tipico e nel suo autonomo profilo); quasi che l'arte mediante essa ritrovasse sì la propria essenza, ma proprio «nel momento in cui sembra iniziare a perdersi» [10]. Con la musica in modo paradigmatico si rivela l'inadeguatezza dell'arte tutta nell'economia della vita dello spirito. Essa incarna in modo singolare la problematica modalità di sopravvivenza dell'arte in epoca moderna.

Così la musica ha in certo modo interiorizzato il senso della sminuita rilevanza di ciò in cui l'arte gioca se stessa nella modernità; vive splendidamente la morte dell'arte, al limite della propria stessa possibilità di sopravvivenza come evento estetico: in quello «spegnersi dolcemente» (pur nell'emanciparsi) del materiale sensibile, in quella «esitazione del senso» appunto, che la connota [11].

Come questo ha potuto avvenire, come la musica può risentire di tutto questo, e incarnarlo? Quel che abbiamo chiamato interiorizzazione, da parte della musica, del destino dell'arte trova espressione a vari livelli:

Innanzitutto in quell'avvertirsi come inadeguata, di per sé, alla pienezza della vita dello spirito, che la musica reca in sé; nella consapevolezza di non poter bastare a se stessa e nella spinta interiore a cercare sostegno fuori di sé: ciò che Silvia Vizzardelli di volta in volta definisce «nostalgia dell'approdo determinato», ricerca di «salvezza dal vano struggimento», «di nuove possibilità di redenzione», di «profondità semantica»; tensione ad «esorcizzare il rischio di un defluire trasognato di suoni e sentimenti», ancorandosi «al significato e al senso offerto dalle parole» [12].

Questo ha come conseguenza l'atteggiamento di Hegel, segnato da sospetti, verso la musica strumentale [13] (proprio in tempi in cui questa ormai si era affermata e stava raggiungendo vertici altissimi): troppo musica e soltanto musica, troppo esclusivamente arte per poter esser valorizzata appieno - questo il suo difetto. Hegel misconosce l'autonoma significanza della musica assoluta, diffida dell'intrinseca drammaticità che la percorre [14] e vi scorge soprattutto i rischi di perdersi nel tecnicismo o nell'estetismo di un godimento mistico-ineffabile.

Ma la musica è arte paradigmatica nei tempi della morte dell'arte non solo perché il suo destino contempla la sua dissoluzione in altro da sé (nella poesia, in cui dapprima cerca sostegno, e cui poi cede il posto, nella tensione dello spirito verso la filosofia), ma anche perché in questo prefigura (in positivo e al negativo) situazioni e rischi tipici dello sviluppo successivo delle arti. Opportunamente osserva D'Angelo che «proprio mentre Hegel annuncia la 'morte dell'arte' egli individua e descrive con straordinaria chiaroveggenza e lucidità alcuni tratti decisivi dell'arte moderna e dell'atteggiamento moderno nei confronti dell'arte» [15].

Il processo di morte dell'arte è anche un processo di autonomizzazione dell'arte [16], di progressiva presa di coscienza (che si consegna appunto nell'estetica) della peculiarità delle proprie possibilità significativa e del proprio mondo (vuoi a livello strutturale, vuoi creativo, vuoi fruitivo) da parte dell'arte [17]. E tra i motivi che rendono sospetta agli occhi di Hegel la musica strumentale si annoverano i rischi (che egli aveva già individuato a proposito della pittura olandese, ma che qui si accentuano) di perdersi in una sorta di estetismo nel fruire o per altro verso di tecnicismo nel creare - che sono poi entrambe forme di un soggettivismo improduttivo e chiuso in sé, modi diversi di mancare l'alta destinazione dell'arte.

HegelHegel presagisce e stigmatizza l'esplodere di una soggettività espressiva incontrollabile, lo svincolarsi del godimento dell'arte da più profondi valori spirituali, il prendere piede di forme di sentimentalismo nella fruizione dell'arte (quello che Moritz Geiger riproverà come dilettantismo nell'esperienza dell'arte, e che vedrà come il maggior rischio incombente sulla cultura tardoromantica). Sul versante opposto del conoscitore Hegel contesta un tipo di fruizione che emargina da sé ogni godimento estetico, l'affermarsi di un fruitore soltanto tecnicamente avvertito (correlativamente alla proposta di un'arte, qual è la musica strumentale secondo lui, che gioca se stessa prevalentemente a livello di un'abilità costruttiva a sé fine [18]). Contestualmente stigmatizza quelli che considera i tecnicismi fini a sé dei compositori, gli specialismi degli intenditori, l'esibizione virtuosistica degli interpreti (per quanto ammiri i cantanti italiani) [19] - che non sono che modi di mancare la sostanza della musica [20] (una sostanza pur sempre spiritualmente assai elevata, ancorché di grado inferiore rispetto alla filosofia).

In queste sue reazioni Hegel può esser (e talvolta certamente è) retrivo nel gusto, ma è preveggente al tempo stesso, e sembra anticipare tendenze che prenderanno piede in seguito. Egli sembra ad es. contestare ante litteram, potremmo dire forzando un poco i termini, quel culto del tutto esteriore di una correttezza che non si sostanzia di spiritualità (il rischio cioè di un «brutto» per eccesso di formalismo) che Wagner metterà in caricatura nella figura di Beckmesser. Si può inoltre sostenere che la diffidenza hegeliana verso la musica assoluta (come peraltro verso ogni forma di arte pura) avrà un seguito nel Wagner che teorizza «il sacrificio di ogni pur grande pregio poetico e musicale a favore del dramma» [21]. Ma di una diffidenza similare si troverà traccia anche nel Verdi che dichiara: «Purtroppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica»«, e altra volta invita il musicista a s'effacer [22]. Certo, il contesto è diverso e ben diverse sono le finalità in gioco (volte al privilegiamento del dramma, e non certo della filosofia, in Wagner e Verdi); ma analoghe in fondo sono le tendenze a funzionalizzare la musica ad altro, e le riserve verso la musica assoluta (e dunque verso ogni purezza estetica e verso ogni godimento a sé fine [23]).

D'altronde è proprio all'opera che Hegel consegna i destini di una musica che, legatasi alla parola, da essa ottiene una conferma dei mondi di significati che trasmette. La musica affida, nel contesto del suo pensiero, la propria possibilità di sopravvivenza all'incontro con la parola, mette a repentaglio ogni propria consistenza autonoma nel bisogno di trovare sostegno in un testo: sacro dapprima in via priviligiata; ma poi anche profano, nell'epoca in cui tutti gli dei con la loro corte di santi e miracoli abbandonano il teatro dell'arte - ai tempi di Hegel dunque, ai tempi della fine dell'arte romantica e del futuro che in questa fine si prefigura.

E' noto che Hegel privilegia la musica vocale, predilige la melodiosa voce umana [24]. Privilegia il melodramma, dunque, il quale pure peraltro nasce e si afferma nell'epoca della morte dell'arte [25]. In certo senso intravede in esso (o, meglio, in certe sue espressioni) l'unica via di legittima affermazione della musica ai suoi tempi. In ciò Hegel sembra presentire il grande ruolo che il teatro in musica svolgerà nell'800.

Si tratta tuttavia di vedere a che tipo di melodramma egli pensi: certo Gluck, certo Rossini, certo Mozart. Ma non a caso non nomina il Don Giovanni nell'Estetica [26], condanna Weber [27], tace sul Fidelio. Ma tace anche (e questo lo si sottolinea per solito di meno, ma è altrettanto significativo) della Lodoiska e della Medea di Cherubini, della Vestale di Spontini; più in là della Muta di Portici e del Fra'Diavolo di Auber, e anche del Guglielmo Tell di Rossini - opere tutte rappresentate per la prima volta allorché egli era ancora vivo.

In prospettiva certamente Hegel rifiuta quanto in talune di queste opere si prefigura degli sviluppi futuri dell'opera ottocentesca: le vie che saranno calcate da Meyerbeer e da Verdi, a maggior ragione da Wagner [28]. Preventivamente Hegel condanna le direzioni che saranno egemoni nel dramma musicale ottocentesco, tra melodramma italiano, dramma musicale e grand'opéra. In particolare diffida di quella che sarà una via maestra del teatro musicale ottocentesco, quella inaugurata da Weber: la via del caratteristico, del realismo (e sullo sfondo del brutto [29]) - in cui avrebbe probabilmente visto solo un trionfo dell'orrore in musica. Proviamo per un attimo a immaginare che Hegel sia vissuto qualche anno in più (e non sarebbe così impensabile) e avesse assistito a una rappresentazione di Norma e di Lucia di Lammermoor, o di Robert, le diable e degli Ugonotti, e magari persino di L'olandese volante, di Ernani, o addirittura di Tannhäuser. Un sogno impossibile e conturbante, quasi un incubo - e tuttavia paradossalmente rivelatore dei limiti non solo del suo gusto, ma della sua intera teorizzazione musicale!

 

Note
 

[1] Queste pagine traggono spunto dalla lettura del libro di Silvia Vizzardelli, L'esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel (Roma, Bulzoni Editore 2000; d'ora innanzi citato con la sigla SV) - un lavoro accattivante, e tuttavia rigorosamente analitico; uno di quei libri che fa piacere leggere, malgrado la materia ardua (e non esisteva nulla di altrettanto impegnativo in Italia sul tema).

La sigla E sta per la trad. it. dell'Estetica di Hegel, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi 1967.

[2] Cfr. Saggi sulla letteratura, l'arte e il linguaggio, vol. I, trad. it. di S. Daniele, Torino 1969, p. 185.

[3] E. Bloch, Soggetto-Oggetto, trad. it. e cura di R. Bodei, Bologna 1975, pp. 298 e 299.

[4] «Se noi in generale possiamo già considerare l'attività nel regno del bello come una liberazione dell'anima, come uno sciogliersi da ogni costrizione e limitatezza, perché l'arte addolcisce con teoretico formare anche i destini tragici più violenti e li fa divenire oggetto di godimento, la musica spinge al culmine più alto questa libertà» (E 999).

[5] SV 13.

[6] Silvia Vizzardelli dice di una «espressività non referenziale» che attribuisce «all'intima normatività della forma la facoltà di far nascere presso di sé significati 'inclusivi'» (SV 27).

[7] Esemplificando, tra le tante note affermazioni hegeliane: «L'arte presenta alla coscienza la verità sotto forma sensibile» (E 118); «nell'arte abbiamo a che fare non con un congegno meramente piacevole o utile», bensì «con un dispiegarsi della verità» (E 1381).

[8] E con ciò stesso, sempre paradossalmente, la musica sembra la sola arte «cui, a rigore, possa essere riconosciuto il carattere della classicità» (SV 88).

[9] Heimsoeth, Hegels Philosophie der Musik, in «Hegel-Studien», 2 (1963), p. 180.

[10] SV 230; e cfr. 194: «Quanto più la musica è vera musica, (...) tanto più Hegel la vede incamminata lungo il sentiero del disimpegno, di un perverso alleggerimento della solidità etico-spirituale. (...) Quando cioè la sensibilità estetica rivela, nella musica, il suo vero volto, è già iniziato il processo di 'decadenza'. Come se l'arte in senso pieno cominciasse a 'morire' proprio nel pieno della sua affermazione».

[11] V. rispettivamente Bloch, Soggetto-Oggetto, cit. p. 292; e SV 122.

[12] SV 104, 161, 187; e cfr. 198 («il sentimento ha bisogno della cosa stessa», che non coincide con «la luminosità morente del suono, bensì con densità del significato»).

[13] Hegel, Lezioni di estetica, trad. e introd. di P. D'Angelo, Bari 2000, p. 261: un mondo di puri rapporti tra suoni «non soddisfa lo spirito». La «determinazione originaria» della musica è il discorso. E tuttavia «può anche divenire autonoma», come accade «in epoca moderna, in cui essa erige gli edifici architettonici dell'armonia, che soddisfano soltanto i conoscitori. In nessun'altra arte succede in eguale misura che soltanto uno studio intellettuale possa assicurare il soddisfacimento». Quanto più la musica «diventa autonoma, tanto più essa viene ad appartenere solo all'intelletto, ed è una mera artificiosità, che esiste solo per il conoscitore ed è infedele allo scopo dell'arte». E cfr. G. Biller, Zur Frage der funkionalen Aktualität Hegelscher Musikästhetik, «Giornale di Metafisica», 1-2/XXXI, 1976, p. 63. Sopravvive in Hegel un retaggio del passato: della nota svalutazione della musica, e in particolare della musica strumentale, tipica per lo più dell'estetica settecentesca.

[14] E che pur intuisce ad es. nelle sinfonie di Mozart (E 1031: «una concertazione drammatica, una specie di dialogo»); Cfr. K. Schütthauf, Melos und drama. Hegels Begriff der Oper, «Hegel-Studien», Beiheft 27 (1986), p. 194.

[15] D'Angelo, Simbolo e arte in Hegel, Bari 1989, p. 227.

[16] SV 192, 217. E il rendere autonomi i suoni, sappiamo, non è per Hegel «propriamente conforme all'arte» (E 1011).

[17] Osserva giustamente Fulvio Papi che la «morte dell'arte» in Hegel significa «che l'arte non è più la rappresentazione sensibile di un'altra sostanza spirituale, il mondo greco o quello del cristianesimo, ma deve misurarsi ora con la propria possibilità di verità, e in questa prova, ovviamente può anche fallire e diventare, come Hegel stesso aveva veduto, il luogo del futile, dell'arbitrario, del gioco» (Per un'estetica propositiva, «Agorà», IV, 2000, p. 486).

[18] Come Hegel già denunciava a proposito della pittura olandese, in cui «i mezzi della rappresentazione divengono fine per se stessi, cosicché l'abilità soggettiva e l'applicazione del mezzo artistico si elevano a tema oggettivo dell'opera d'arte» (E 670).

[19] «Anzi, specialmente nella musica incontriamo questa semplice analisi intellettuale per la quale nell'opera d'arte non c'è altro che la abilità di un virtuosismo» (E 1011). Nella musica autonoma Hegel intravede il rischio di una «esasperazione della perizia tecnica, cui spetta il compito di risarcire la povertà interiore con la delimitazione specialistica delle competenze» (SV 231).

[20] Perciò Hegel annota che i musicisti professionisti «sono spesso le persone spiritualmente più insignificanti» (E 1039).

[21] Sono parole di Cosima, ma che ben sintetizzano il pensiero del marito (C. Wagner, La mia vita a Bayreuth 1883/1930, trad. it. Milano 1982, p. 178).

[22] A Boito nel 1881 scrive: «Io credo che in teatro, come nei maestri è lodevole talvolta il talento di non far musica, e di saper s'effacer, così nei poeti è meglio qualche volta più del bel verso, la parola evidente e scenica» (Carteggio Verdi-Boito, a cura di M. Medici e M. Conati, Parma 1978, p. 31).

[23] Un frutto pervertito di una simile tendenza ( a voler essere cattivi) può esser forse rintracciato nella soddisfazione con cui qualcuno negli anni del nazismo osservava che «forse mai come adesso l'Anello di Wagner è stato sentito così poco come godimento e tanto come compito e servizio» (cit. da da Hans Mayer, Richard Wagner a Bayreuth 1876-1976, trad. it. Torino 1981, p. 104).

[24] Cfr. E 1030: «la voce umana contiene la totalità ideale dei suoni», «può esser percepita come il suono stesso dell'anima»; e ancora: «nel canto l'anima sgorga dalla propria carne».

[25] Il legame tra il tema della «fine dell'arte» e opera nelle riflessioni hegeliane è rilevato anche da A. Gethmann-Siefert, Das «moderne» Gesamtkunstwerk: die Oper, «Hegel-Studien», Beiheft 34 (1992), p. 165.

[26] Cfr. Schütthauf, op. cit., pp. 185, 190. Sui rapporti tra Hegel e la musica del suo tempo in generale cfr. C. Dahlhaus, Hegel und die Musik seiner Zeit, «Hegel-Studien», Beiheft 22 (1983), pp. 333-50.

[27] Cfr. E 181-182; Schütthauf, op. cit., pp. 188, 190.

[28] Sui rapporti tra Wagner e Hegel cfr J. Söring, Hegel un die Roman-Theorie Richard Wagners, «Hegel-Studien»«»Beiheft 27 (1986), pp. 195-212; Schütthauf, op. cit., p. 193.

[29] Su questi temi v. Dahlhaus, Il realismo musicale, trad. it. Bologna 1987, pp. 43-61 (su Hegel e Weber le pp. 48-51). V'è qui una certa consonanza col rifiuto di Rosenkranz, nell'Estetica del Brutto, della nascente opera nazionale tedesca e italiana: di Marschner, di Spohr ad es., ma anche di Donizetti.

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