Che
ci sia una qualche relazione tra la musica e il mondo degli affetti, delle emozioni,
dei sentimenti è cosa ripetuta in vario modo fin dalla più remota
antichità. Tutt'altro discorso definire in termini più precisi
in cosa consista questa relazione, come si configuri, le motivazioni profonde
di questo rapporto. Nella storia del pensiero musicale il rapporto musica-sentimento
si collega a molti altri problemi e primo fra tutti alla questione della natura
linguistica della musica e quindi in definitiva al vecchio problema della semanticità
della musica. Si è in presenza dunque di un nodo di problemi che hanno
tormentato filosofi, critici e pensatori da vari secoli senza che si sia mai
data una soluzione soddisfacente. Ovviamente, una soluzione non c'è,
ma piuttosto ci sono tante diverse impostazioni e diversi sguardi sul problema,
ognuno dei quali porta una sua luce sulla questione, rappresenta un'interpretazione
che svela un aspetto, una parte della verità. Ci accontenteremo perciò
di affrontare alcune delle questioni che emergono da questo intricato nodo speculativo,
senza la pretesa di risolvere alcunché ma solamente, se è possibile,
di fare chiarezza su alcuni punti, e se riusciremo in ciò, e non è
cosa da poco, sarà già un grosso successo.
La prima domanda che ci si può porre di fronte al problema
dell'affettività della musica è se tale questione abbia una qualche
rilevanza storica, nel senso che non tutte le musiche presentano lo stesso tipo
di rapporto con l'affettività. In modo più specifico nella storia
della musica - ci si riferisce ovviamente in particolare alla musica della tradizione
occidentale - si sono avvicendati epoche in cui il rapporto con il mondo degli
affetti o non si poneva o si poneva in tutt'altri termini. Il fatto che proprio
nel secolo XVIII sia sorta l'affektenlehre non è forse casuale,
così come il fatto che proprio a partire da quest'epoca il problema si
sia posto con tanta insistenza nel pensiero musicale può essere un indizio
che la musica stessa ha assunto caratteri tali da favorire o addirittura imporre
una concezione della musica come strettamente legata agli affetti. Ma questo
è un problema in buona parte storico o che almeno può spiegare
perché una riflessione specificatamente filosofica si sia sviluppata
con tanta fortuna proprio a partire dal secolo XVIII. Il problema in realtà
si è posto parallelamente all'invenzione e allo sviluppo del melodramma,
musica affettiva per eccellenza. Ma su questo punto sarà bene ritornare
più avanti.
Quando si parla di rapporto tra la musica e il mondo degli
affetti domina in genere una serie di fraintendimenti e di confusioni. Cosa
significa sottolineare tale rapporto: che il compositore esprime nella
musica da lui creata il proprio mondo affettivo? Che la musica incorpora dei
significati inerenti al mondo degli affetti e delle emozioni? Che chi ascolta
la musica trova una rispondenza con il proprio mondo affettivo e che quindi
prova emozioni? O ancora che la musica denota o connota o forse imita gli affetti?
O forse tutto questo insieme? E' necessario fare chiarezza su tutto questo nodo
complicato e confuso di questioni e cercare, se è possibile di separare
i problemi per analizzarli uno per uno. A monte di questi interrogativi c'è
un problema più vasto sorto, forse non a caso, anche questo nel secolo
XVIII: la musica è un linguaggio? E quali rapporti ha con il linguaggio
verbale? E quali tratti specifici rivela rispetto a quest'ultimo? E se è
un linguaggio anche se sui generis quali sono gli oggetti a cui rimanda?
A partire dal Settecento si afferma genericamente che la musica è imitazione
o espressione dei sentimenti e delle emozioni e si vuole affermare con ciò
che la musica ha un rapporto privilegiato con il nostro mondo emotivo piuttosto
che con la ragione e i concetti: questa importante affermazione ha costituito
una base fondamentale su cui impostare tutta la futura estetica musicale.
Vi è una sorta di prossimità tra musica e linguaggio
messa in evidenza dal continuo discutere da oltre due secoli da una parte sul
se e sul come la musica possa essere considerata un linguaggio e dall'altra
dai continui tentativi di separarla e distinguerla dal linguaggio. Evidentemente
deve esserci un qualche legame con il linguaggio se si pone mente al fatto che
la musica nella sua storia secolare è quasi sempre stata associata al
linguaggio e la strada che nel mondo occidentale l'ha portata ad un'esistenza
autonoma è stata lunga e tormentata. Non solo ma non bisogna dimenticare
che la strada verso l'autonomia si è aperta proprio alla fine del secolo
XVI con i teorici dell'armonia da una parte e la Camerata dei Bardi dall'altra.
Strano a dirsi ma forse senza l'invenzione del melodramma non sarebbe neppure
nata la musica strumentale pura. Infatti quest'ultima nasce solo dalla consapevolezza
che la musica da sola, i suoni senza l'ausilio della parola hanno una loro autonoma
portata espressiva e affettiva. Da questa convinzione è nata l'idea che
la musica potesse e anzi dovesse unirsi alla parola: si trattava infatti o di
un completamento e un'integrazione tra due ordini altrimenti carenti di espressività
e che potevano quindi trovare la loro pienezza espressiva solo dalla loro unione,
o dell'avvicinamento tra due linguaggi diversi e autosufficienti che tuttavia
potevano trovare un punto d'incontro nella loro comune capacità di esprimere
gli affetti e le emozioni da cui ne sarebbe derivato un potenziamento.
La nascita e lo sviluppo del formalismo a partire dal secolo
XIX si fonda su alcune premesse fondamentali: l'esistenza di un universo 'semanticamente
chiuso'. L'esigenza fondamentale del formalismo è di salvare la specificità
del linguaggio musicale ma dalle sue tesi emerge sempre la sensazione che vi
sia una carenza di fondo nelle sue affermazioni. Il formalismo radicalizzato
porta ad un assurdo logico cioè all'esistenza di un linguaggio sprovvisto
delle caratteristiche più elementare di ogni linguaggio cioè la
capacità di denotare. Il simbolo presentativo, o il simbolo opaco a ancora
tante altre definizioni che compaiono nelle teorie formalistiche sulla musica
rivelano sempre al fondo l'esigenza di recuperare in qualche modo il rapporto
con il nostro mondo emotivo ed affettivo altrimenti negato. Anche il formalismo
più radicale, come quello di Strawinsky, recupera poi alla fine l'espressività
della musica quando afferma che la musica è espressione e simbolo di
un'unità di ordine superiore: «L'unità dell'opera - afferma
Strawinsky - ha la sua risonanza. La sua eco che la nostra anima percepisce,
risuona sempre di più. L'opera finita si propaga dunque come comunicazione
e rifluisce verso il suo principio. Il ciclo allora è chiuso. Ed è
così che la musica ci appare come un elemento di comunicazione con il
prossimo - e con l'Essere» (Strawinsky, Poétique musicale,
Le bon Plaisir, Paris, 1952, p. 97). Sempre su questo tema, per venire a testi
più vicini ai nostri giorni, merita ricordare un passo de La filosofia
della musica di Giovanni Piana: «Ciò che è ineffabile
è ora un contenuto troppo grande per il contenente della parola, cosicché
siamo qui alla presenza di una sovrabbondanza di senso, di un suo straripamento.
Ora per quanto un atteggiamento formalistico possa inizialmente sembrare lontano
dal connettere la musica all'ineffabile in questa accezione esaltata, tuttavia
vi è certamente una via che conduce dall'uno all'altro polo, che stabilisce
tra essi una sorta di singolare solidarietà. Forse più precisamente:
quanto più si esaspera il tema dell'oggettività e della sintassi,
quanto più si sottolinea l'essere in sé dell'opera come un essere
in sé che si separa da ogni legame con il mondo, tanto più nettamente
l'impostazione del problema tende a un completo ribaltamento non appena si avanza
nuovamente la pretesa dell'espressione. Nella musica non vi è spazio
per ninne nanne. Ma nemmeno essa parla delle cose grandi. Essa parla di nulla,
o semplicemente non parla. Eppure in queste negazioni vi è l'affermazione
di tutte le cose troppo grandi che essa fa trasparire proprio in questo
suo non-dire. L'assenza di senso deve avere come contraccolpo l'eccesso
di senso, l'insistenza su una nozione di segno il cui rapporto designativo
si propone fin dall'inizio come un oscuro enigma prepara il balzo all'enfasi
della cifra indecifrabile» (Filosofia ella musica, Guerrini e Associati,
Milano 1991, p. 271). Ma anche se ci rivolgiamo al capostipite del formalismo
musicale, cioè a Hanslick, si può notare come sia presente nel
suo Il bello musicale un ansia di recuperare un qualche rapporto con
la vita affettiva, così energicamente negata, nella ben nota affermazione
che la musica esprime, imita, riproduce, ricorda la dinamica dei sentimenti.
Si direbbe che il formalismo avverte sempre il suo limite e voglia in qualche
modo correggersi dei suoi eccessi. La rescissione di ogni legame con l'affettività
e con il simbolismo che è costitutiva di ogni teoria formalistica sembra
non soddisfare pienamente gli stessi formalisti i quali tendono poi a far ricomparire
sotto nuova veste il legame negato. D'altra parte anche le teorie che pongono
l'accento sul potere espressivo e denotativo della musica avvertono l'esigenza
di mettere in luce i caratteri specifici dell'espressione musicale e distinguere
l'espressività della musica da quella del linguaggio verbale e sottolineare
in qualche modo il carattere di sistema chiuso e sintattico del linguaggio nonché
la specificità del simbolismo musicale.
La confutazione più radicale del formalismo è
la constatazione che della musica si parla, si può parlare, si cercano
i suoi significati, anche se nascosti e problematici e d'incerta interpretazione,
si cerca di tradurla in parole, mentre se fosse veramente un sistema 'semanticamente
chiuso', sarebbe impossibile ogni tentativo di fare un discorso sulla musica
che non si limitasse a spiegare, a illustrare la forma del sistema. Degli affetti,
di cui la musica sarebbe in qualche modo espressione, in realtà se ne
parla sempre e la critica in generale cerca proprio di esplicitare questo misterioso
rapporto tra la musica e il mondo degli affetti. In realtà il rapporto
del cosiddetto linguaggio musicale con il linguaggio verbale e dunque il rapporto
tra la musica e il mondo degli affetti è assai complicato e ambiguo.
Val la pena ricordare uno scritto assai significativo di Adorno che come sempre
è assai vigile nel cogliere la complessità dialettica dei problemi.
Così si legge nel suo scritto:
«In musica non si tratta di significati, ma di gesti,
e in quanto essa è linguaggio, è un linguaggio fatto di gesti
solidificati, al pari della trascrizione delle note come storicamente è
formata. Non si può domandare cosa essa comunichi quale proprio senso,
ma il tema della musica è questo: come i gesti possano essere eternati.
Dato ciò, la ricerca del senso della musica, che dovrebbe manifestarsi
in un razionale riconoscimento della sua raison d'être, si dimostra
illusione, trasposizione arbitraria nel regno delle intenzioni, verso il quale
la musica fuorvia a causa della sua somiglianza con il linguaggio. Fin dove
la musica eguaglia di fatto i linguaggi, essa si riferisce, puro nome, all'assoluta
unità di cosa e segno, che nella sua immediatezza è irraggiungibile
da ogni umano sapere. Negli utopistici e disperati sforzi verso il nome, consiste
il legame della musica con la filosofia, alla quale proprio per questo la musica
nella sua idea sta incomparabilmente più vicina di ogni altra arte. Ma
nella musica il nome appare unicamente come puro suono, svincolato dalle cose,
e quindi il contrario di qualsiasi significato, di qualsiasi intenzione di un
senso. Ma poiché la musica non sa immediatamente il nome - l'assoluto
come suono - bensì si affatica, per così dire, alla sua evocazione
costruttrice per mezzo di un complesso processo, viene essa stessa intanto implicata
ove valgono le categorie come razionalità, senso, significato, linguaggio.
Il paradosso di ogni musica sta nello sforzo verso quell'inintenzionale per
il quale è stata scelta l'impropria parola di 'nome' , soltanto in grazia
della sua partecipazione alla razionalità nel senso più ampio.
Simile a una Sfinge, si fa beffe di chi la studia con l'incessante
promessa di significati, che concede anche di tanto in tanto; ma questi sono
ad essa, nel senso più vero, mezzi per la morte del significato, e in
essi perciò la musica mai si esaurisce. Finché essa si svolgeva
in un insieme di tradizioni in certo modo chiuso, come quello degli ultimi trecentocinquant'anni
, l'irresolvibile che è in lei, che suggerisce ogni significato, e non
ne intende propriamente nessuno, poteva rimanere nascosto. Nella tradizione
era inclusa l'esistenza della musica, ed essa era data come cosa ovvia pur nelle
più avvincenti e sorprendenti esperienze. Ma oggi che la musica non è
più sostenuta dalla tradizione, la sua enigmaticità viene alla
luce debole e indigente come un punto interrogativo e si contorce non appena
le si chiede di dichiarare che cosa propriamente essa comunichi. Il nome infatti
non è per nulla una comunicazione del proprio oggetto.
Cotesta manifestazione del carattere enigmatico della musica
fa deviare verso la questione del suo essere, mentre intanto il processo che
lo ha prodotto proibisce tale domanda. La musica non ha il proprio oggetto,
non possiede il nome, ma tende ad esso e anche perciò protesa verso il
proprio sfacelo. Se la musica giungesse per un istante al punto intorno a cui
volteggiano i suoni, questo sarebbe il suo compimento e la sua fine. Il suo
rapporto con quello che essa non vuole raffigurare, ma solo evocare, è
quindi infinitamente mediato. Il nome medesimo è ad essa così
poco presente, come ai linguaggi umani, e quelle Teodicee della musica che la
presentano come un'apparizione del divino, e che hanno ancor oggi tanta fortuna,
sono bestemmie, perché attribuiscono alla musica la dignità della
Rivelazione, mentre essa come arte non è altro che la forma di preghiera
serbata nella secolarizzazione, forma che per poter sopravvivere si vieta il
proprio oggetto, rimettendolo al pensiero» (del presente rapporto tra filosofia
e musica, in 'Archivio di Filosofia', 1953, pp. 34-35).
Il denso discorso di Adorno porta al centro del problema.
La musica evoca significati ma non giunge mai al significato e non si esaurisce
mai in essi; volteggia attorno al nome ma ove lo raggiungesse si trasformerebbe
in linguaggio e andrebbe incontro alla sua rovina in quanto musica. Questo tormentato
rapporto con il linguaggio è forse proprio una delle caratteristiche
più dense e ambigue della musica stessa. E la storia stessa della musica
lo dimostra ampiamente: infatti nella prassi comune, dalla Grecia antica ai
nostri giorni, il rapporto della musica con la letteratura e con la poesia è
sempre stato altamente tormentato e sempre discusso e problematizzato. Ma prendiamo
ad esempio il caso della Camerata dei Bardi e dei suoi teorici i quali hanno
voluto sottolineare il carattere non linguistico della musica relegata unicamente
a sottolineare la portata affettiva della parola. Ma d'altro canto i teorici
dell'armonia, Zarlino in testa, hanno voluto invece sottolineare il carattere
propriamente linguistico della musica e il suo conseguente potere denotativo,
anche se limitato all'area degli affetti. Il melodramma ma anche la musica strumentale
pura dal seicento sino alla fine del periodo barocco nascono dall'integrazione
di queste due prospettive che sembrano antitetiche ma che peraltro dimostrano
ancora una volta come la musica da una parte sia vicina al linguaggio ma dall'altra
tenda continuamente a distaccarsene e a differenziarsene. Non è un caso
se il melodramma adotterà i modi di dire della musica strumentale
e d'altra parte la musica strumentale evocherà a sé il potere
semantico proprio del linguaggio melodrammatico. Musica vocale e musica strumentale
si fondano proprio su questa vicinanza problematica che fa sì che possano
coesistere e anzi completarsi a vicenda, seppure in una tensione non mai sopita
a causa di un necessario ma problematico incontro. Tutte le polemiche sviluppatesi
dalla fine del Cinquecento sino alla fine del secolo XVIII sulla superiorità
della poesia rispetto alla musica a causa della sua limitata capacità
di imitare gli affetti indicano come qualsiasi discorso filosofico sulla musica
senta il bisogno di paragonare la musica al linguaggio verbale piuttosto che
dare un giudizio sulla musica che si fondi sulla musica stessa. Si direbbe che,
come dice il proverbio, 'la lingua batte dove il dente duole'! La musica pertanto
non si può svincolare dal suo rapporto costitutivo con il linguaggio:
la soluzione rousseaiana che già si profilava nelle teorie della Camerata
dei Bardi e di Galilei e che verrà ancora ripresa a lungo nel romanticismo,
da Herder in poi, sino a Wagner e oltre, rivelano tutta la loro pregnanza.
La musica sarebbe dunque strettamente legata al linguaggio
e anzi rappresenta forse una parte dello stesso linguaggio. Non tutto nel linguaggio
è ordine e sintassi, non tutto è calcolo e riflessione; una parte
del linguaggio è suono, è musica, è immagine del sentimento
allo stato puro. Potremmo dire, secondo una formula più attuale, che,
secondo Rousseau, la musica rappresenta l'elemento prelinguistico presente nel
linguaggio stesso, in ogni linguaggio costituito. Il sentimento, come slancio
espressivo, non mediato ancora da strutture schematizzate e sclerotizzate, come
forza primigenia, naturale, per usare un termine che si può prestare
a molti fraintendimenti. Ma il sentimento allo stato puro, allo stato del cri
animal, come si esprimeva Diderot, rischia l'informale, rischia di essere
confinato nel grido, nel prelinguistico. Perciò Rousseau rifiuta la musica
strumentale pura perché troppo lontana dal senso, priva anche dell'aspirazione
alla denotazione, rischiando così o il puro ornamento o il sentimento
allo stato puro e informale. La ricostituzione dell'unità perduta, cioè
il grido dell'animo che prende forma e viene a rappresentare l'atto espressivo
nella sua completezza e nella sua pregnanza è per l'appunto il canto,
dove la musica si fa simbolo e il linguaggio ritrova tutta la sua portata espressiva
originaria. La polemica di Rousseau contro l'armonia e contro le teorie di Rameau,
in favore della melodia, esprime anzitutto una concezione della musica come
temporalità, come flusso della coscienza in cui possono trovare vita
ed espressione i nostri affetti che fluiscono nel tempo come la melodia, contro
le astrazioni dell'armonia con il suo vocabolario prefissato delle passioni
e delle emozioni. Mondo che però trova la sua unità, la sua forma,
la sua pienezza solamente nel suo vitale contatto con il linguaggio. Rousseau
ha dunque individuato perfettamente questa prossimità di musica
e linguaggio e al tempo stesso ha intuito come nel linguaggio stesso sia presente
una sorta di musicalità come suo lato affettivo, come elemento prelinguistico
da cui il linguaggio verbale non può prescindere. Le teorie rousseauiane
della musica spiegano bene l'esistenza della musica vocale ma sembrano insufficienti
a dimostrare la presenza della musica strumentale pura nella sua autonomia e
nella sua portata espressiva. Il romanticismo ci viene incontro a spiegare l'autosufficienza
della musica strumentale ma ancora una volta nel segno della relazione con la
parola. La musica infatti giungerebbe là dove la parola non giunge, in
quelle regioni dove il verbo tace e lascia il posto per l'appunto all'indicibile,
cioè all'espressione musicale.
La musica ha dunque sempre bisogno del linguaggio per definire
il suo significato o meglio il suo senso? Non ha abbondantemente dimostrato
nella storia di questi ultimi secoli di avere un senso anche se svincolata dal
linguaggio verbale? Si è detto che la musica 'volteggia' in prossimità
del linguaggio, ma che non è linguaggio. Questa affermazione ci riporta
al problema della semanticità della musica e quindi del suo rapporto
con il mondo degli affetti, problema che è strettamente connesso alla
traducibilità della musica e alla questione del se e del come si possa
parlare della musica. Si è spesso detto che la musica è un linguaggio
intraducibile, ma se così fosse, in senso stretto non potremmo neppure
parlare della musica mentre l'esperienza di tutti è che della musica
si parla continuamente e che si può scrivere interi libri sulla musica,
sensati a loro modo, in cui si cerca di dire cosa vuol significare la musica.
Certamente la traducibilità della musica è problematica ma se
si dicono cose della musica e sulla musica che hanno un senso e non sono solamente
uno sproloquio significa che un qualche tipo di traducibilità esiste
e che va ricercata e spiegata. Probabilmente il senso della musica può
essere esplicitato parzialmente e approssimativamente con parole ma sempre su
un piano metaforico. Infatti, e su questo tutti concordano, si tratta di due
ordini linguistici radicalmente diversi - sempre ammesso che la musica sia un
linguaggio e se la si vuole definire come tale è solamente per metafora.
Come afferma con acume Michel Imberty «non si passa dal linguaggio alla
musica per gradi successivi di generalizzazione, poiché i due sistemi
non sono dello stesso ordine. E tutti i lavori che si accaniscono a cercare
delle corrispondenze strette, di termine a termine, falsano il problema»
(Suoni Emozioni Significati, Clueb, Bologna 1986, p. 56). La musica dunque
non significa ma piuttosto suggerisce, «cioè crea delle forze
immaginative che provocano e orientano le associazioni verbali; o, se si vuole,
delle direzioni semantiche, che sotto forma di impressioni vaghe e fluttuanti
si manifestano alla coscienza del soggetto che le cristallizza con delle parole
in significati precisi» (Ibid.).
Ciò che distingue radicalmente la musica dal linguaggio
verbale è forse proprio il suo particolare rapporto con il mondo degli
affetti. Con il linguaggio verbale si possono indicare tutti gli affetti possibili,
mediante parole che non hanno nulla a che fare con gli affetti connotati; si
tratta perciò di un rapporto del tutto convenzionale. Nella musica invece
la frase musicale assomiglia, ha una relazione intrinseca con l'affetto
che denota o che esprime o a cui allude o ancora che suscita nell'ascoltatore.
Potremmo avanzare l'ipotesi che vi sia una sorta isomorfismo tra l'espressione
musicale e gli affetti. Nel linguaggio verbale questo isomorfismo affiora quando
l'espressione verbale è esclamata, intonata, gridata, quando cioè
s'insinua in essa quell'elemento musicale che la pura espressione verbale non
prevede o prevede solamente come elemento accessorio e inessenziale. In questo
caso l'elemento musicale può non solo aumentare considerevolmente l'efficacia
del discorso verbale ma a volte può addirittura contraddirlo o vanificarlo.
Da ciò si può dedurre che vi è una sorta di autonomia semantica
dell'espressione musicale che può assumere il suo colorito emotivo ed
affettivo sia quando combinato con il linguaggio verbale sia quando viene isolato
come un elemento autonomo e indipendente. Evidentemente diverso è il
significato o il senso della musica quando è associata a un testo letterario
o quando si trova sola senza il supporto di parole. Comunque anche quando isolato
e autonomo rispetto al linguaggio verbale, la musica mantiene sempre quell'ambigua
e forse contraddittoria vicinanza con il linguaggio e forse proprio questa vicinanza
fa sì che si possa parlare della musica ed allora viene alla luce una
sorta di traducibilità metaforica, anche se nessun discorso sulla
musica può esaurire i suoi significati o meglio il suo senso. Con ragione
Imberty parla di 'interpretazione della musica' a proposito di un possibile
discorso sulla musica che cerchi di rivelare il suo senso e le interpretazioni
sono infinite nel senso che non esauriscono mai il suo significato; in tale
prospettiva a ragione afferma che 'ogni discorso sulla musica è dunque
metaforico' e così continua: «Ma al di là della metafora,
la forma musicale resta un linguaggio puramente virtuale in cui si elabora una
intenzione di senso non restituibile a livello di parole e di frasi del linguaggio
verbale. Da ciò la molteplicità quasi infinita di interpretazioni
possibili, la loro pertinenza e al tempo stesso la loro parziale arbitrarietà:
questa ultima segna lo scarto inevitabile tra l'universo del discorso istituito
come tale (ciò che abbiamo chiamato connotazione primaria) e l'universo
dell'intenzionalità poetica o musicale. Questa rottura conferma
l'opposizione senso (intenzionalità) - significato (manifestato-mascherato)»
(Ibid. pp. 82-83). E' vero che si tratta per la musica di un linguaggio virtuale
ma che continuamente ci suggerisce discorsi intorno ad esso. Quindi non c'è
una rottura o un'opposizione tra i due linguaggi ma forse si potrebbe parlare
di contiguità, di integrazione, di vicinanza nel senso che l'uno completa
e prolunga l'altro. Questo spiega almeno in parte il motivo per cui la musica
da molti secoli a questa parte si è sempre accompagnata a testi poetici
di cui non si può dire che sia l'illustrazione e tanto meno la traduzione
ma forse si potrebbe parlare di integrazione. Questo matrimonio, da sempre
giudicato problematico, eppure è sempre avvenuto e i risultati sono sempre
stati per lo più ottimi. Evidentemente ci deve essere qualche motivo
intrinseco della bontà dell'unione e della sua naturalezza e dell'insistenza
con cui i musicisti hanno sempre cercato la collaborazione del poeta e del letterato.
In nessun luogo come nel canto, cioè nella vicinanza o meglio fusione
tra un testo letterario e una musica si avverte la congruenza tra i due tipi
di espressione e si direbbe che tutto ciò che normalmente manca ad un
testo verbale gli venga conferito dai suoni che l'accompagnano.
Il buon Rousseau aveva indubbiamente visto giusto quando parlava
del recupero di un'unità originaria, ormai perduta, di quando il canto
era l'espressione completa di un uomo non ancora alienato da una civiltà
che aveva parcellizzato le sue facoltà. In effetti nel canto quella frattura
o quella opposizione tra senso e significato di cui parla Imberty, perlomeno
quando si tratta di un'opera riuscita, non affiora e i due linguaggi allora
convivono e si completano perfettamente. Cosa significa quando si afferma che
la musica aderisce al testo e che la parola si scioglie nella musica? Non è
certo la musica che illustra o spiega il testo ma neppure il testo che esplicita
i significati nascosti della musica. Si tratta di un unico linguaggio reso possibile
proprio da questa vicinanza originaria tra le due espressioni che tanto spesso
sembrano opporsi l'una all'altra.
Si era ipotizzato che la musica rappresentasse il prelinguistico
presente in ogni linguaggio ma forse il discorso qui ci porterebbe troppo lontano
e andrebbe approfondito in altre direzioni. Indubbiamente però si può
affermare che la musica porta alla luce, mette in evidenza, sottolinea e fa
emergere ciò che nel linguaggio è soffocato o rimane allo stato
latente. Ma può operare in tal senso proprio perché vi è
questa parentela originaria tra il suono della musica e il suono della parola.
Nell'oggettività della parola e nel suo impersonale potere denotativo
la musica vi porta quell'elemento personale, affettivo, emotivo che la parola,
votata al significato, ha in parte, ma non totalmente perduto. Qualsiasi discorso
verbale porta ancora con sé un elemento musicale che contribuisce a precisare
e a definire anche in senso stretto il suo significato. Così come il
linguaggio verbale normalmente tende a prescindere dall'elemento musicale sino
a poterne fare a meno, così la musica può giungere sino a diventare
autonomo linguaggio prescindendo dall'elemento discorsivo. Come il linguaggio
verbale conserva tuttavia qualcosa della musicalità connessa all'intonazione
della parola e tale musicalità s'incorpora in qualche modo al potere
denotativo della parola, così il linguaggio dei suoni quando si rende
autonomo conserva ancora il ricordo di un rimando per lo meno al mondo degli
affetti e delle emozioni, anche se 'polisemico' come è stato detto, anche
se incerto e a volte ambiguo ma pur percepibile. Una sorta di linguaggio che
viene prima del linguaggio, linguaggio che viene prima del potere denotativo
della parola ma che pur è ricco di richiami e di risonanze, forse in
grazia - come si è detto - anche di un certo isomorfismo del linguaggio
dei suoni con quello dei sentimenti e degli affetti.