Carlo Migliaccio
La musica e la cultura parigina dagli anni Trenta agli anni Cinquanta

Questo saggio è l'elaborazione del testo di una conferenza tenuta il 4/4/2000 presso l'Istituto Magistrale «Bellini» di Novara, per il Corso di studio e di aggiornamento «La cultura a Parigi alla metà del Novecento», promosso dalla Società Filosofica Italiana e dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università del Piemonte orientale «A. Avogadro».

Premessa

In questo lavoro ci proponiamo di delineare le caratteristiche fondamentali della musica francese tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Il periodo in considerazione non presenta una sua unità e omogeneità, anzi è dominato da una soluzione di continuità molto netta e di non poca importanza, la Guerra mondiale. E anche a voler sostenere pervicacemente la tesi della completa autonomia della musica nei confronti delle vicende storiche e sociali e della sua purezza da ogni condizionamento esterno, nessuno può fare a meno di riconoscere che l'impatto di un evento così traumatico ha dovuto avere delle ripercussioni anche sull'arte ritenuta più distante dalla concretezza della realtà. Sono ripercussioni che si possono riscontrare a vari livelli e in sensi diversi: istituzionali, economiche, ideologico-politiche, ma anche psicologiche ed emotive non indifferenti. Inoltre gli anni Trenta sono un periodo drammatico e ambiguo, non certo sereno, spensierato e interrotto bruscamente da un conflitto; mentre gli anni Venti possiedono un certo spirito gioioso, una certa atmosfera di liberazione e di speranza, gli anni Trenta invece sono chiaroscurali e contraddittori, sia di sottaciuta inquietudine sia di lenta preparazione di una tragedia che si sentiva imminente e inesorabile: c'è palpabile una specie di sentimento diffuso di disillusione, di fallimento, se non di oscuro presagio. L'arte, molto prima della politica e della diplomazia, o dei dibattiti intellettuali, riesce a recepire queste inquietudini e a trasferirle, implicitamente o esplicitamente, all'interno delle proprie strutture e dei propri modi espressivi. Essa si rivela un peculiare strumento di interpretazione della realtà, al di qua di ogni concetto e di ogni mediazione logica.

Gli anni Trenta francesi, poi, ci sembrano doppiamente interessanti per il fatto che la Francia, a differenza di altre zone europee, rimase parzialmente immune da quelle conseguenze storiche che portarono in Italia e in Germania al cancro dei totalitarismi. Gli storici si sono chiesti spesso le ragioni di questa immunità della Francia (come dell'Inghilterra, anche se qui la situazione sembra più facilmente spiegabile) rispetto alla deriva del fascismo e dell'irrazionalità, pericoli gravanti ugualmente - e più significativamente che in Inghilterra - anche nella patria della Rivoluzione e dei diritti dell'uomo. Indagare sulla specificità storica di una nazione però implica necessariamente un ampliamento dello sguardo al di là delle problematiche puramente politiche o economiche, coinvolgendo invece riflessioni interdisciplinari e ambiti che apparentemente sembrano risultare estranei a tali condizionamenti. In tal caso ci si imbatte nella difficoltà di impostare una relazione tra materie diverse, come tra storia e cultura, tra istituzioni e società e tra società e arte, con il rischio sempre incombente del semplice sociologismo o di analogie forzate e fittizie. Quello che a nostro parere occorre fare per evitare ciò è innanzi tutto cogliere la particolarità della situazione francese, contestualizzando storicamente gli eventi culturali che meglio la caratterizzano, per poi condurre induttivamente una sintesi critica di quelle relazioni e di quelle costanti che individuano un territorio comune, un'atmosfera culturale fatta di analogie non superficiali e di somiglianze non esteriori.

Addentrandoci ad analizzare la situazione musicale francese poi ci imbattiamo in un altro rischio, comune d'altronde all'analisi di qualsiasi altra situazione nazionale: ossia di cadere vittima dell'«etnologismo», consistente nel ravvisare delle peculiarità stilistiche ed estetiche proprie di una popolazione, di un'etnia e di una razza, con le ambigue conseguenze dell'esaltazione di una genialità nazionale o delle radici culturali e delle tradizioni; cose che, dal punto di vista di un romanticismo storicamente determinato possono avere un senso, ma che oggi possono suscitare in pari misura o l'ilarità o il ribrezzo. Cogliere le caratteristiche comuni della musica francese, al contrario, significa intravedere quello che c'è di fenomenologicamente rilevante in stili ed autori anche differenti, ciò che consente loro di appartenere non tanto a una comunità o a un'etnia, quanto a una medesima atmosfera culturale di cui condividono frustrazioni e aspirazioni, linguaggi e mondi immaginativi. Che le situazioni nazionali presentino delle specificità e delle note comuni, è un dato di fatto, che però è determinato più da concreti fattori storici e istituzionali che da presunte statiche e astratte prerogative antropologiche.

Infine, il periodo in questione ci sembra estremamente interessante in quanto coacervo di problemi storici e musicali, politici ed esistenziali, che forse possono essere considerati un autentico riflesso di tutto il secolo che ci lasciamo alle spalle.

 

A Parigi, intorno al 1929

Che il 1929 sia un anno cruciale per tutto il mondo occidentale è cosa risaputa, e non staremo qui a spiegarne le cause. Limitiamoci a registrare alcuni fatti significativi che ci interessano per la nostra argomentazione: al governo francese vi è l' "unione nazionale" che, pur presieduta da un conservatore come Raymond Poincaré, ha come ministro degli esteri quell'Aristide Briand che fin dal '22 aveva auspicato una politica di concessioni e di avvicinamento della Francia all'odiata Germania, insomma una linea non intransigente come lo era stata la politica di Clemenceau e dello stesso Poincaré. Aggiungiamo che l'anno in oggetto vede l'acme della produzione economica di tutto il periodo tra le due guerre. Ma con la successiva crisi economica inizia un periodo di recessione che avrà anche come conseguenza il fallimento della politica di riavvicinamento alla Germania, dove di lì a poco, anche a causa di questa accentuazione delle tensioni esterne, andrà al potere Hitler.

L.BlumNel '34 al Governo va il fronte popolare con Léon Blum, che mette in atto una politica di riforme sociali all'interno e consolida il fronte antifascista all'esterno (anche se poi la Francia non interverrà in Spagna). Su questa politica è assai significativo il documento della VII Internazionale, nella quale i comunisti assumono un atteggiamento realista, non utopistico né di compromesso, ma pragmatico, legato al presente, che intende comunicare con la base e con operai anche non politicizzati: «...è necessario smascherare il carattere demagogico di progetti simili [ossia progetti socialdemocratici lusingatori], spiegando ai lavoratori l'impossibilità di realizzare il socialismo finché il potere resta nelle mani della borghesia. Al tempo stesso bisogna, però, utilizzare singoli provvedimenti inclusi in questi progetti, e che si possono legare agli interessi vitali dei lavoratori, come punto di partenza per lo sviluppo di lotte di massa in un fronte unico assieme agli operai socialdemocratici». È quindi un atteggiamento che sospende la lotta per la dittatura proletaria, in vista di un'azione di «difesa degli interessi economici e politici immediati della classe operaia, la sua difesa contro il fascismo» e il capitalismo.

Nel '29 Edmund Husserl, poco dopo aver pubblicato le lezioni sulla Fenomenologia della coscienza interna del tempo, tiene alla Sorbona le celebri conferenze sulle Meditazioni cartesiane, inaugurando così l'influenza della fenomenologia nella filosofia francese successiva. Insieme all'esistenzialismo di Heidegger e al marxismo, questa corrente costituisce il punto di riferimento privilegiato del rinnovamento della filosofia francese, che vuole distanziarsi dallo spiritualismo e dal personalismo allora imperanti nelle Università.

In quell'anno muore, a Venezia, Sergej Djagilev, il più grande impresario musicale e teatrale della vita parigina nel primo quarto di secolo, grande scopritore di talenti. Il 1928 è l'anno dell'esecuzione controversa del Boléro di Ravel all'Opéra e nel '29 viene eseguita l'orchestrazione di La Valse in forma di balletto. Del '29-'30 è la composizione dei due concerti per pianoforte, sempre di Ravel (nel 1932 alla Salle Pleyel, prima del Concerto in Sol per pianoforte).

 

Musica e compositori a Parigi negli anni Trenta

Passiamo ora in veloce rassegna le principali posizioni e gli esponenti di spicco della vita musicale parigina negli anni Trenta.

Igor Stravinskij, colui che nel '13 aveva scandalizzato gli spettatori del Théâtre des Champs-Elysées con Le Sacre du printemps, ormai non si sente più a suo agio a Parigi: ha l'impressione che la sua musica non venga più recepita dai francesi. Nel 1930, a Bruxelles, viene eseguita la Sinfonia di salmi e a Parigi, nel 1932, l'oratorio Perséphone, su testo di Gide. Ma nel 1939, anche a causa della guerra, il compositore emigra in America. Maurice Ravel, che con Debussy è il più grande musicista francese del Novecento, inizia la sua china discendente che lo porterà alla morte nel '37 (dopo i due Concerti per pianoforte, compone solo le Trois Chansons de Don Quichotte à Dulcinée nel '32).

I Sei: come gruppo già nel '21 si sono sciolti, ma rimangono poi attivi autonomamente. Sono Darius Milhaud (1892-1974), che nel '30 e nel '32 compone le opere di argomento storico Maximilien e Bolivar rispettivamente; Francis Poulenc (1899-1963), Arthur Honegger (1892-1955), Germaine Tailleferre (1892-1983), che emigra negli USA nel '42, Georges Auric (1899-1983) e Louis Durey (1888-1979), le cui composizioni sono ispirate da posizioni politiche di stampo socialista.

Erik Satie (1866-1925) lascia la sua eredità alla Ecole d'Arcueil, il cui maggior rappresentante è Henri Sauguet (1901-1989), che nel 1936 compone La chartreuse de Parme. L'Ecole de Paris (1928-1939), invece, è formata perlopiù da musicisti immigrati a Parigi, che hanno in comune uno stile che fonde neoclassicismo e folklore, avanguardia e musica di consumo, jazz e altre contaminazioni. Sono il ceco Bohuslav Martinu (1890-1959), l'ungherese Tibor Harsanyi (1998-1954), il polacco Alexander Tansmann (1897-1986), il rumeno Marcel Mihalovici (1898-1985).

Nel 1936 viene fondato il gruppo Jeune France in reazione all'accademismo e al neoclassicismo di maniera, oltre che alla dodecafonia. Intento principale è di «suscitare e diffondere una musica viva, in uno stesso slancio di sincerità, di generosità, di coscienza artistica», per colmare il divario tra artista e pubblico. Da un lato abbiamo Yves Baudrier (1906-1988) e Daniel Lesur (1908), che propongono un umanismo musicale di tipo psicologico, dall'altro André Jolivet (1905-1974) e Olivier Messiaen (1908-1992). Per Jolivet l'umanisimo è inteso in senso universalista, mentre per Messiaen cosmico e teologico. Ciò si realizza in virtù di un'attenta indagine nei riguardi delle sorgenti del comporre e dell'essenza della musica stessa, ossia rivolgendosi alle espressioni musicali degli antichi, dei primitivi, delle civiltà esotiche, della religiosità, della magia (ricordiamo che Jules Combarieu nel 1909 aveva scritto il fondamentale studio La musica e la magia), persino degli animali.

Molti compositori si dedicano anche alla musica per film: già Satie lo aveva fatto con Entr'acte di René Clair. E poi abbiamo Auric (A nous la liberté di R. Clair), Thiriet (Les enfants du paradis di Marcel Carné, 1943-45), Honegger (Napoleon di Abel Gance; Les Misérables di Raymond Bernard), Milhaud (Mme Bovary di Renoir, Espoir di Malraux, Gaugin di Resnais), Jacques Ibert, Joseph Kosma e altri.

 

Significati musicali e culturali

Il fatto di porsi in alternativa, o almeno in un atteggiamento di diffidenza nei confronti delle ricerche musicali seriali e dodecafoniche, ha spesso messo la musica francese fino al '45 in una cattiva luce presso la musicologia e i giovani compositori del secondo dopoguerra: spesso si è ritenuto quel periodo poco interessante per lo sviluppo del linguaggio musicale e per il progresso delle ricerche formali e tecniche, e quei musicisti troppo leggeri perché poco «impegnati» nella sperimentazione. Questa remora è stata corroborata da un'impostazione filosofica tendente a concepire lo svolgimento storico della musica occidentale novecentesca in senso univoco e unidirezionale, inoltre determinato precipuamente da scelte di carattere linguistico. Forse oggi, con mente più disincantata rispetto ai giudizi critici prevalenti fino circa agli anni Settanta, possiamo rivisitare le caratteristiche estetiche principali di quella musica, al fine di coglierne degli aspetti che sfuggano a una stigmatizzazione ideologica.

Per contestualizzare la musica francese all'interno dello sviluppo del linguaggio musicale occidentale, dobbiamo notare che la comprensibilità della musica classica si è basata soprattutto sulla corrispondenza tra orizzontalità e verticalità, tra armonia e melodia. La voce cantante, o il tema, espressione dell'interiorità o in ogni caso della soggettività, acquisiva il suo senso solo se supportata da una struttura spaziale di riferimento, con la quale si poneva in equilibrio, e anche quando vi erano delle discrepanze, queste venivano ricomposte nella stabilità della cadenza. Il romanticismo, pur avendo sancito questo fondamentale assunto linguistico e percettivo della musica, nello stesso tempo ne ha radicalizzato gli elementi di scissione interna e di inquietudine. Ciò si è realizzato attraverso un'elaborazione polifonica sempre più complessa, che si basava sull'ampliamento delle funzioni armoniche delle parti intermedie («l'ipertensione delle parti centrali», come efficacemente si è espresso Massimo Mila). L'estrema conseguenza di questa tendenza, che si realizza con Wagner, ha portato alla fusione dei parametri percettivi della musica, tanto che a breve termine si sarebbe arrivati con Schönberg al loro completo sconvolgimento. Questo è il cammino che ha portato alla atonalità, soprattutto nell'area germanica.

Debussy

In Francia si è seguito un percorso del tutto diverso, per quanto motivato da istanze simili e determinato ugualmente da una crisi storica dei linguaggi e della funzione sociale e comunicativa della musica. Le personalità di Debussy prima e di Stravinskij dopo hanno costituito per così dire un baluardo nei confronti della deriva wagneriana e hanno portato la musica in una direzione del tutto diversa, anche se non opposta. Se con Debussy le funzioni dell'armonia sono giunte ugualmente alla loro dissoluzione (attraverso l'emancipazione della dissonanza) e all'amalgama della polarizzazione tra la dimensione orizzontale e quella verticale, tuttavia egli non ha mai perso il riferimento a quel particolare punto di equilibrio, oltre il quale il senso linguaggio musicale perde consistenza e «la percezione unitaria dei suoni nella sintesi dell'accordo» viene screditata (Mila). Certo, questo equilibrio in Debussy viene continuamente messo in discussione, spostato, problematizzato, reso incerto, ma pur sempre perseguito, posto come canone implicito del fare compositivo. Tanto che sia l'ultimo Debussy, sia gran parte della produzione di Ravel, sia le ricerche di Stravinskij possono essere considerate dei tentativi di ricostituire fenomenologicamente una forma musicale che altrimenti si sarebbe smarrita nel caos e nell'indistinto. Sia la tecnica politonale e polimodale, sia il recupero neoclassico delle forme tradizionali hanno il valore dell'acquisizione di una base strutturale e nel contempo percettiva della musica da cui occorre far partire la ricerca, anche in direzioni nuove e aperte (per esempio nei confronti di musiche esotiche o del jazz).

Viene recuperato così non tanto la pura e semplice forma tradizionale, esteriore e rigida, quanto il far forma, il principio compositivo della creazione artistica, la base prelinguistica e preformale del comporre creativo e non imitativo. Questo ha portato i musicisti che hanno seguito queste orme a una sorta di purificazione espressiva, spesso ai limiti del non-sense ironico e dell'ascetismo (Satie), finalizzata comunque a ripristinare la dimensione umana e percettiva del fare e dell'ascoltare musica. Da ciò la preferenza per quel parametro cui tradizionalmente si associa l'espressione lirica soggettiva, la melodia, che quindi acquista nuovo impulso, nuovo spessore e nitidezza (nello stesso Satie, antiromantico per eccellenza, l'armonia non ha quasi consistenza, mentre la melodia emerge nei suoi accenti di tristezza e di amarezza). E similmente il ruolo della voce nella musica di Poulenc e di Honegger ripropongono in modi diversi una medesima esigenza di comunicabilità. In essi la melodia va intesa in senso ampio, come melodicità, capacità di strutturare nel tempo gli elementi sonori, anche armonici (non a caso in Debussy e Stravinskij si hanno spesso melodie di accordi) e ritmici: essi sembrano concepire la melodia, al pari dell'Estetica di Hegel, come sintesi di armonia e ritmo.

Dal punto di vista prettamente formale, la musica francese post-debussyana è caratterizzata, come abbiamo già accennato, da un marcato spirito neoclassico. Questa tendenza, iniziatasi con l'ultimo Debussy, trova in Stravinskij il massimo esponente: la svolta si verifica nel 1920 con il Pulcinella, e prosegue fino agli anni Cinquanta, anche nel periodo americano. Ma tutta la generazione dei musicisti francesi del dopoguerra è stata influenzata dal neoclassicismo stravinskijano. Secondo Milhaud la svolta neoclassica del musicista russo è stata determinata dall'assorbimento della musica e dell'estetica francese, che lo avrebbe portato a «sostituire alla sua arte prodigiosamente colorata, russa, orientale, al suo clima quasi asiatico, alle sue armonie complesse, ai suoi ritmi barbari violenti come un uragano, una musica sobria, limitata all'essenziale, improntata a un'economia di mezzi e a un senso delle proporzioni che tuttavia non ne impedivano né la grandezza, né la grazia, ma anzi ci restituiva un sentimento senza artificio, limpido e purificato».

Negli anni Trenta, è vero, il neoclassicismo diviene una maniera, ma anche la reazione della Jeune France non è radicalmente oppositiva e di rottura ideologica, tanto che lo stesso Baudrier si richiama esplicitamente a Stravinskij. Per Baudrier l'influenza di Stravinskij è un «problema delicato» ma che non può essere affrontato se non liberandosi da condizionamenti di tipo puramente formale e stilistico, impostandolo invece sulla temporalità che informa la creazione e il processo compositivo. Se la musica classica si è basata sulla ricerca di una congruenza tra tempo (inteso come organizzazione del discorso musicale) e durata sensibile (ossia lo stile e le funzioni musicali riconoscibili da ogni ascoltatore), Stravinskij ha immesso in questo contrasto una dose di imprevedibilità e di choc, non accettando di buon grado che quella raggiunta congruenza si cristallizzasse in forme convenzionali. Il compositore russo quindi ha avuto il merito, secondo Baudrier, di distinguere l'atto creativo dall'apparenza della forma esteriore, riconducendo piuttosto il problema della creazione a un «approfondimento sensibile e intellettuale che colga il significato di quelle forme», quindi a un intervento superiore che non si identifica né con il formalismo né con il tecnicismo, ma per Baudrier con la «realtà dialettica» e psicologica.

Che questa interpretazione di Stravinskij non sia fuori luogo è dimostrato dal fatto che per Stravinskij la scelta di una forma musicale o un'altra era relativamente indifferente (tanto che le sue scelte sono andate in direzioni talora disparate), e che quindi il suo neoclassicismo può essere considerato in senso metodologico (come è dimostrato nelle conferenze tenute ad Harvard nel '39, poi pubblicate come Poétique musicale) e non solamente tecnicistico e «disumanizzante», come lo hanno inteso alcuni suoi critici; e il suo formalismo va inteso come una sorta di metaformalismo, che si applica sui principi temporali della costituzione della forma e non sul risultato compiuto.

La stretta relazione tra il significato del neoclassicismo francese con il concetto di temporalità è anche al centro degli studi di due teorici che, pur arrivando a conclusioni assai diverse da quelle di Baudrier, si rivelano decisivi per comprendere sia Stravinskij che i musicisti a lui collegati: Pierre Suvcinskij, che nel 1939 scrive un saggio intitolato La notion du temps et la musique e Gisèle Brelet, che all'argomento ha dedicato il suo voluminoso saggio Le temps musical, del '49. Sia Suvcinskij che la Brélet oppongono a un tempo psicologico, appannaggio di certa musica romantica e in particolare wagneriana, un tempo ontologico, proprio di musicisti come Bach, Mozart, Verdi e Stravinskij; e per capire di che cosa si trattaRavel (a sinistra) e Stravinskij essi fanno ricorso alla categoria della «calma dinamica», consistente in un «ripristino interiore e formale delle leggi e dell'ordine», nonché al concetto di «crononomia», ossia una temporalità misurata e controllata, che ha il potere di sospendere il rilassamento emotivo dei sentimenti, per giungere alla soddisfazione del sentimento reale e superiore del tempo. Evidente è in queste espressioni estetiche l'influenza del pensiero di Bergson che, per quanto piuttosto elusa negli ambienti filosofici, rimane determinante in ambito estetico. Prova ne è il fatto che una sintesi dell'influenza filosofica bergsoniana con le istanze musicologiche si ha in Vladimir Jankélévitch: il filosofo francese di origine russa ha concepito la musica come espressione paradossale - nel senso di particolare forma linguistica nel contempo priva di tutte le funzioni linguistiche - di quell'ineffabile, la cui articolazione non può che essere di natura temporale e che trova proprio nella crononomia stravinskijana un significativo momento di esplicitazione.

La superiorità del livello temporale della creazione e della composizione rispetto alle componenti linguistiche può essere anche la spiegazione di un'altra componente chiave della musica francese del periodo, oltre che di quella di Stravinskij: l'eclettismo e il gusto della contaminazione. Più che altrove, la musica in Francia si è confrontata e ha assorbito le esperienze della modernità: da Debussy a Poulenc, da Ravel a Milhaud il linguaggio si è arricchito di immissioni e di contaminazioni derivanti dal jazz e dal music-hall, dalla tradizione e dall'esotismo orientale. In Honegger, per esempio, persino la musica tedesca rientra nelle scelte stilistiche di un oratorio come Jeanne au bucher (scritto in collaborazione con Paul Claudel) per far parte di una sintesi politonale superiore. Se poi si pensa al ricorrente neoromanticismo, ci si chiederà se non sia in contraddizione con la spinta antiromantica che anima un po' tutti questi musicisti. Al contrario, quello a cui si assiste è una sorta di purificazione del romanticismo dagli eccessi del sinfonismo di fine-Ottocento e del wagnerismo, in vista del recupero di una drammaticità pudica, non ostentata ma intimamente vissuta. Nelle opere di autori come Emmanuel Bondeville (1898-1987), Darius Milhaud, Henri Sauguet e Francis Poulenc, gli eroi vengono umanizzati, in senso anche passionale ma estremamente controllato e dominato dallo spirito di litote; così in Jacques Ibert, Marcel Delannoy, Claude Arrieu, Joseph Kosma, Maurice Thiriet, la spontaneità si unisce all'intensa drammaticità, l'umanità alla semplicità. Essi sembrano insomma voler risalire alla radice più ingenua e autentica del romanticismo. E persino un «modernista» dinamico e vitale come Honegger, nel '31 scrive Les cris du monde, un'opera in cui il senso di solitudine umana di fronte alla civiltà di massa si esprime con accenti di estrema riservatezza e moderazione.

Sembra cioè che le espressioni di angoscia e di urlo disperato o gli accenti prometeici presenti in tanta arte contemporanea non appartengano al mondo culturale francese, tanto che da un lato Gide e Jankélévitch teorizzano la litote come capacità di dire molto con molto poco e dall'altro Cocteau, Duchamp e Breton fanno dell'ironia e del pastiche un mezzo d'espressione autentica. Ma ciò non vuol dire che le motivazioni profonde le siano estranee. È solo che un contesto storico di minor tensione ideologica ha consentito ai francesi di esprimersi in forme artistiche meno estreme e allucinate, anche se non per questo meno immaginative e trasgressive. Se le propaggini del romanticismo altrove avevano portato alle conseguenze dell'espressionismo, in Francia le avanguardie sono dadaiste e surrealiste. Inoltre le filosofie dell'angoscia vengono pienamente recepite, ma filtrate e canalizzate in un alveo umanistico e sensistico teso a mettere in gioco libertà e corporeità del soggetto, come avviene nel pensiero di Sartre e Merleau-Ponty.

Ci avviciniamo quindi a un altro aspetto caratterizzante la musica francese: la ricerca di un'immediatezza e di una semplicità, finalizzata cioè al sentire diretto, empirico e persino edonistico dell'arte musicale nella sua relazione con la soggettività. Se la dodecafonia disdegnava l'approvazione del pubblico e la godibilità estetica, al contrario presso i francesi di questa generazione la preoccupazione maggiore sembra essere quella di non perdere mai il contatto con l'ascoltatore e quindi di non condurre la ricerca musicale in un alveo di inflessibile intransigenza nei confronti dei gusti del pubblico. Per Honegger la musica deve essere «percepita dalla gran massa degli ascoltatori e deve essere sufficientemente priva di banalità per interessare i melomani»; inoltre «deve cambiare carattere e diventare diretta, semplice, con un bel portamento: il popolo se ne infischia della tecnica e delle eccessive rifiniture». Boheslav Martinu affermava: «L'ordine, la chiarezza, la misura, il gusto e l'espressione diretta e sensibile, le qualità dell'arte francese che ho sempre ammirate», e per Maurice Thiriet, la musica deve essere «una sorgente di gioia e non una costrizione dello spirito». Se altrove il piacere e il sentimento apparivano sospetti e rischiavano di essere tacciati per spensieratezza e frivolezza, in Francia vengono rivendicati come primarie e autentiche aspirazioni della musica. «Se c'è qualcosa che vale nella mia musica è il fatto che è attraversata da un sentimento», diceva Sauguet, mentre il suo maestro Satie sosteneva che «tutti i grandi artisti sono degli amatori». Questo significa cioè liberare la musica dalla maledizione moralistica secondo cui l'edonismo dovesse essere bandito come lusinga inutile o affare da donnette.

Parallelamente, il soggettivismo viene ridicolizzato dall'estetica e dalla filosofia. Ma il recupero del soggettivismo e dell'umanismo, nonché la rivendicazione delle istanze percettive e sensibili dell'ascoltatore da parte dell'estetica musicale, si associano al particolare significato che l'uomo e il soggetto hanno per la filosofia francese. Secondo la Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty l'esistenza, nel suo distinguersi dall'essenza, ritrova senso e spessore nella sua corporeità, che è il viatico privilegiato per stabilire quel rapporto immediato con il mondo, che è il fine ultimo dell'approccio fenomenologico. Così la musica, se si distanzia dal mondo in cui è inserita e dal tessuto intersoggettivo che garantisce la comunicabilità del suo linguaggio peculiare, finisce per ridursi a un'essenza o a un concetto, proprio come il soggetto, nel rivendicare la sua purezza trascendentale, finisce per isolarsi dal vissuto concreto e immanente, dalla storia, dalla responsabilità etica. In questa opzione di adamantina inviolabilità esso perderebbe ciò che ha di più proprio, la sua soggettività e la sua umanità.

Non a caso i musicisti della Jeune France, nel loro rifiuto di ogni tecnicismo e dello spirito di sistema di certa musica d'avanguardia, intendono «reincarnare la musica nell'uomo», riportarla a contatto con la vita, con la natura, con le leggi psicologiche che presiedono alla comprensione della realtà come tessuto emotivo e immaginifico, non come pura strutturazione logica e consequenziale. Dice Daniel-Lesur, in un'espressione apparentemente lapalissiana: «Una sola cosa importa: che la musica contenga molta musica. E perciò occorrerebbe che l'uomo non sia inumano». Ossia, sembra volerci dire, come la musica non rinvia altro che a se stessa, così l'uomo, creatore della musica, non deve dimenticare ciò che la musica stessa è per l'uomo. L'umanismo musicale francese va cioè al di là del puro psicologismo e anche sopravanza la sola esperienza dei musicisti della Jeune France. Il problema è più universale e va collegato a questioni fondamentali di natura filosofico-musicale e coinvolge considerazioni estetiche di più ampia portata, che in questa sede ci limitiamo solo a suggerire. Quella dei musicisti francesi è una terza via rispetto all'effusione sentimentalistica romantica e al serialismo astratto, paragonabile a ciò che l'umanismo esistenzialista sartriano, nella famosa conferenza del '46, propone come una terza via tra il marxismo massimalista e il cattolicesimo personalista e, politicamente parlando, una terza forza rispetto a reazione e comunismo, quando nel '48 Sartre fonda il «Rassemblement démocratique révolutionnaire». Indubbiamente la musica francese è stata spesso scettica rispetto a soluzioni radicali e integraliste, ma solo una visione manichea della ricerca musicale imputerebbe a questo atteggiamento di essere apologetico o conservatore.

 

La frattura della Guerra

SartePer quanto gli anni dell'occupazione nazista furono pur sempre abbastanza ricchi di cultura, di vita letteraria e di rappresentazioni teatrali, con opere di Claudel, Sartre e Henri de Montherlant, il gruppo Jeune France si scioglie, Messiaen, al pari di tanti altri intellettuali, viene mobilitato e poi fatto prigioniero. Naturalmente la produzione di autori ebrei viene osteggiata: Milhaud, di origini ebraiche, fugge negli Stati Uniti nel 1940 all'indomani dell'armistizio tra Francia e Germania.

In ogni caso, tutta la musica francese riflette al suo interno le angosce per la situazione. Anche la chanson, pur derivando dalla spensierata chanson de variétés della belle-époque, assume a poco a poco i toni dell'impegno e della coscienza storica: del 1942 è Le chant du partisan di Joseph Kessel, e poi abbiamo Les enfants d'Auschwitz di René Louis Laforge, Nuit et brouillard di Jean Ferrat, anticipazioni di quella che sarà la chanson del dopoguerra, con l'attenzione di Enrico Macias per le vicende della guerra d'Algeria, fino alla stagione esistenzialistica degli anni Cinquanta-Sessanta, e con le personalità di Brassens, Vian, Aznavour.

Nel '40 Sauguet esprime nella Symphonie expiatoire il suo turbamento per le vicende storiche e nel '44 Honegger compone per la radio Battements du monde, un accorato appello per le vittime della guerra. Ma una delle espressioni più significative del rapporto tra musica e sublimazione della sofferenza si ha con il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, composto nel 1941 per un atipico quartetto formatosi alla bell'e meglio tra i prigionieri del campo di concentramento tedesco, dove lo stesso compositore era internato, e che ha per oggetto una visione apocalittica e nel contempo onirica: l'angelo dell'Apocalisse di S. Giovanni, aureolato dell'arcobaleno, annuncia la fine dei tempi. Il misticismo di Messiaen è umanizzato, nonché vivido e carnale, animato da un senso di profonda solidarietà umana; negli stessi anni Jankélévitch conclude La menzogna (un saggio scritto nel 1940 durante il ricovero all'ospedale di Marmande per una ferita durante un combattimento) con queste parole che, pur scritte da un filosofo ateo, ugualmente si attagliano bene alla spiritualità di Messiaen: «Che la pace sia dunque sulla terra, da questo momento, con tutte queste volontà sorde, cieche e più che folli; e agli altri, d'ora in poi, non manchino né la speranza né il coraggio» Inoltre la religiosità del compositore francese si associa ad audaci sperimentazioni melodiche e ritmiche, ma sempre su un fondo neoromantico e neoclassico. Prendiamo per esempio il pezzo n. 5, Louange à l'étérnité de Jésus: è una melodia accompagnata, ma le novità si trovano nella struttura temporale, non nello stile. Anche le reminiscenze tonali non sono un problema per Messiaen: come egli depura il tempo da ogni psicologismo, così depura il linguaggio da ogni ideologia.

 

Musica e compositori dopo il 1945: lo sperimentalismo, il teatro

Indubbiamente l'immediato dopoguerra francese è animato in generale da uno spirito di ricostruzione, unito a un deciso slancio europeista che non era riuscito a prendere forma negli anni precedenti: dominano le figure di Charles De Gaulle, di Robert Schuman, sono gli anni "felici» della IV Repubblica, prima della crisi algerina e del conseguente crollo del 1958.

Con i musicisti della nuova generazione, ossia Pierre Boulez, Jean-Louis Martinet, Serge Nigg, Jean Barraqué, si ha un deciso riavvicinamento al serialismo e alla ricerche europee più avanzate: sono per la maggior parte allievi sia di Messiaen sia di René Leibowitz, profondo conoscitore delle avanguardie viennesi e della tecnica dodecafonica. Tuttavia queste esperienze vengono sempre mediate dallo spirito di libertà e di invenzione, che rimane una delle peculiarità della musica francese. Anche il tecnicismo, il rumorismo - attuato da Jolivet e da Messiaen, nonché dal fondatore della «musica concreta» Pierre Schaeffer (1910-1995) - non sono fine a se stessi. E quando la musica, con Boulez, prende la piega strutturalista e rigorista, ha sempre come motivazione e come fine la libertà e la creatività (significativo è il titolo di uno dei suoi scritti più noti, Per volontà e per caso). Persino gli elementi cosmologici, presenti in Jolivet e Messiaen, non si rifanno certo a una cosmologia razionalista o pitagorica, né a una poetica dell'abbandono mistico e della passività ascetica, ma vi si riflette in essi l'uomo nella sua più intima connessione con il cosmo e con la natura.

La frattura della guerra si ripercuote altresì sul teatro musicale francese: con Marcel Landowski (1915), Claude Prey (1925), Maurice Ohana (1914-1992), che nel '47 fonda il Gruppo Le Zodiaque in contrapposizione al neoromanticismo della Jeune France, abbiamo un vero e proprio teatro decostruzionista. Tra le due guerre i generi teatrali prevalenti erano l'opera cosiddetta de demi-caractère, apparentemente frivola e leggera, ma rappresentata da compositori di rilievo come André Messager (1853-1929), Gabriel Pierné (1863-1937), Claude Terrasse (1867-1923): si trattava di un misto tra opera buffa, operetta e opera comica, frivola sì ma con accenti di sottile amarezza.

I caratteri del teatro del dopoguerra sono invece del tutto differenti: da Le rire de Nils Halérius, del 1944, che trae ispirazione dalla filosofia indiana, all'inquietante Le ventriloque (1957) e alla trasgressiva L'opéra de poussière (1962), Landowski inserisce elementi metateatrali, autoriflessivi e disillusi, tramite la frammentazione del canto e l'uso cinico della caricatura e della citazione: «Se l'arte lirica - dice Landowski -, non ha più il diritto per ragioni economiche, di ricercare se stessa, di tentare delle esperienze, di sbagliarsi, è irrimediabilmente votata alla sparizione, dato che ogni forma d'arte che non si rinnova, si sclerotizza, deperisce e muore». Influenzato dall'arte cinematografica, Ohana così si esprime: «Procedo per sequenze, basando tutto su dissolvenze incrociate veloci, brusche, la cui imprevedibilità crea un fulcro-base». In Claude Prey (Lettres perdues, del 1960) le relazioni testuali e interstestuali sono smantellate e non ricostruite, la parodia e l'improvvisazione disintegrano la musica e il linguaggio viene deriso, sì da far prevalere la finzione e il gioco degli specchi.

Dal punto di vista della cultura filosofica, siamo nel periodo in cui Heidegger è ormai entrato pienamente nella cultura francese e nel '60 Derrida comincia i suoi primi passi filosofici; del 1967 è Della grammatologia, dove il filosofo francese critica il logocentrismo della metafisica occidentale, consistente nell'affidare alla voce il privilegio del logos e nel considerarla mezzo espressivo capace di ricondurre l'essere all'ente, rendendolo comprensibile al soggetto nella sua finitudine. L'unità verbale, invece, va secondo Derrida «slogata», ridotta a parzialità e traccia, poiché per lui la scrittura è anteriore alla voce, la differenza all'identità.

Ma tutto ciò il teatro francese degli anni postbellici, in un certo senso e con i propri mezzi espressivi, lo aveva già sperimentato sulla scena. Anche in questo caso, quindi, la musica sembra porsi come un'anticipazione, una peculiare esperienza ricettiva delle determinazioni storiche, culturali e filosofiche più profonde, che possono esprimersi solo a livelli di mediazione riflessiva più ampi e spesso posteriori. Nella particolare situazione della musica francese della metà del Novecento, queste sottili relazioni culturali, questi impliciti o espliciti rimandi interdisciplinari, emergono con un'evidenza che né lo storico, né il filosofo né il musicologo possono eludere.

Bibliografia essenziale

  • Pierre Suvcinskij, La Notion du Temps et la Musique, in «La revue musicale», mai-juin 1939, pp. 71-80,
  • H.H. Stuckenschmidt, Neue Musik, Berlin 1951 (La musica moderna. Da Debussy agli anni Cinquanta, trad. it. di A. Lanza e M. Donà, Einaudi, Torino 1960)
  • Yves Baudrier, Avec Igor Stravinskij, in «Musique russe», Paris 1953, pp. 139-149
  • Gisèle Brelet, La musique contemporaine en France, in AA.VV. Histoire de la musique française, Paris 1960-1963
  • Vladimir Jankélévitch, La musique et l'ineffable, Armand Colin, 1961, Seuil, 1983 (La musica e l'ineffabile, trad. it. e introduz. di E. Lisciani-Petrini, Tempi Moderni, Napoli 1985, Bompiani, Milano 1998)
  • Jean Roy, Musique française, Debresse, Paris 1962
  • Massimo Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino 1975
  • G. Armellini, La canzone francese, Roma 1979
  • France-Yvonne Bril, Il teatro musicale nel secolo XX, in AA.VV., «Musica in scena», Utet, Torino 1995, vol. II, pp.639-694
  • Su Internet: Centre de documentation de la musique contemporaine de Paris, http://www.cdmc.asso.f

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