Premessa
In questo lavoro ci proponiamo di delineare le caratteristiche
fondamentali della musica francese tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta.
Il periodo in considerazione non presenta una sua unità e omogeneità,
anzi è dominato da una soluzione di continuità molto netta e di
non poca importanza, la Guerra mondiale. E anche a voler sostenere pervicacemente
la tesi della completa autonomia della musica nei confronti delle vicende storiche
e sociali e della sua purezza da ogni condizionamento esterno, nessuno può
fare a meno di riconoscere che l'impatto di un evento così traumatico
ha dovuto avere delle ripercussioni anche sull'arte ritenuta più distante
dalla concretezza della realtà. Sono ripercussioni che si possono riscontrare
a vari livelli e in sensi diversi: istituzionali, economiche, ideologico-politiche,
ma anche psicologiche ed emotive non indifferenti. Inoltre gli anni Trenta sono
un periodo drammatico e ambiguo, non certo sereno, spensierato e interrotto
bruscamente da un conflitto; mentre gli anni Venti possiedono un certo spirito
gioioso, una certa atmosfera di liberazione e di speranza, gli anni Trenta invece
sono chiaroscurali e contraddittori, sia di sottaciuta inquietudine sia di lenta
preparazione di una tragedia che si sentiva imminente e inesorabile: c'è
palpabile una specie di sentimento diffuso di disillusione, di fallimento, se
non di oscuro presagio. L'arte, molto prima della politica e della diplomazia,
o dei dibattiti intellettuali, riesce a recepire queste inquietudini e a trasferirle,
implicitamente o esplicitamente, all'interno delle proprie strutture e dei propri
modi espressivi. Essa si rivela un peculiare strumento di interpretazione della
realtà, al di qua di ogni concetto e di ogni mediazione logica.
Gli anni Trenta francesi, poi, ci sembrano doppiamente interessanti
per il fatto che la Francia, a differenza di altre zone europee, rimase parzialmente
immune da quelle conseguenze storiche che portarono in Italia e in Germania
al cancro dei totalitarismi. Gli storici si sono chiesti spesso le ragioni di
questa immunità della Francia (come dell'Inghilterra, anche se qui la
situazione sembra più facilmente spiegabile) rispetto alla deriva del
fascismo e dell'irrazionalità, pericoli gravanti ugualmente - e più
significativamente che in Inghilterra - anche nella patria della Rivoluzione
e dei diritti dell'uomo. Indagare sulla specificità storica di una nazione
però implica necessariamente un ampliamento dello sguardo al di là
delle problematiche puramente politiche o economiche, coinvolgendo invece riflessioni
interdisciplinari e ambiti che apparentemente sembrano risultare estranei a
tali condizionamenti. In tal caso ci si imbatte nella difficoltà di impostare
una relazione tra materie diverse, come tra storia e cultura, tra istituzioni
e società e tra società e arte, con il rischio sempre incombente
del semplice sociologismo o di analogie forzate e fittizie. Quello che a nostro
parere occorre fare per evitare ciò è innanzi tutto cogliere la
particolarità della situazione francese, contestualizzando storicamente
gli eventi culturali che meglio la caratterizzano, per poi condurre induttivamente
una sintesi critica di quelle relazioni e di quelle costanti che individuano
un territorio comune, un'atmosfera culturale fatta di analogie non superficiali
e di somiglianze non esteriori.
Addentrandoci ad analizzare la situazione musicale francese
poi ci imbattiamo in un altro rischio, comune d'altronde all'analisi di qualsiasi
altra situazione nazionale: ossia di cadere vittima dell'«etnologismo»,
consistente nel ravvisare delle peculiarità stilistiche ed estetiche
proprie di una popolazione, di un'etnia e di una razza, con le ambigue conseguenze
dell'esaltazione di una genialità nazionale o delle radici culturali
e delle tradizioni; cose che, dal punto di vista di un romanticismo storicamente
determinato possono avere un senso, ma che oggi possono suscitare in pari misura
o l'ilarità o il ribrezzo. Cogliere le caratteristiche comuni della musica
francese, al contrario, significa intravedere quello che c'è di fenomenologicamente
rilevante in stili ed autori anche differenti, ciò che consente loro
di appartenere non tanto a una comunità o a un'etnia, quanto a una medesima
atmosfera culturale di cui condividono frustrazioni e aspirazioni, linguaggi
e mondi immaginativi. Che le situazioni nazionali presentino delle specificità
e delle note comuni, è un dato di fatto, che però è determinato
più da concreti fattori storici e istituzionali che da presunte statiche
e astratte prerogative antropologiche.
Infine, il periodo in questione ci sembra estremamente interessante
in quanto coacervo di problemi storici e musicali, politici ed esistenziali,
che forse possono essere considerati un autentico riflesso di tutto il secolo
che ci lasciamo alle spalle.
A Parigi,
intorno al 1929
Che il 1929 sia un anno cruciale per tutto il mondo occidentale
è cosa risaputa, e non staremo qui a spiegarne le cause. Limitiamoci
a registrare alcuni fatti significativi che ci interessano per la nostra argomentazione:
al governo francese vi è l' "unione nazionale" che, pur presieduta
da un conservatore come Raymond Poincaré, ha come ministro degli esteri
quell'Aristide Briand che fin dal '22 aveva auspicato una politica di concessioni
e di avvicinamento della Francia all'odiata Germania, insomma una linea non
intransigente come lo era stata la politica di Clemenceau e dello stesso Poincaré.
Aggiungiamo che l'anno in oggetto vede l'acme della produzione economica di
tutto il periodo tra le due guerre. Ma con la successiva crisi economica inizia
un periodo di recessione che avrà anche come conseguenza il fallimento
della politica di riavvicinamento alla Germania, dove di lì a poco, anche
a causa di questa accentuazione delle tensioni esterne, andrà al potere
Hitler.
Nel
'34 al Governo va il fronte popolare con Léon Blum, che mette in atto
una politica di riforme sociali all'interno e consolida il fronte antifascista
all'esterno (anche se poi la Francia non interverrà in Spagna). Su questa
politica è assai significativo il documento della VII Internazionale,
nella quale i comunisti assumono un atteggiamento realista, non utopistico né
di compromesso, ma pragmatico, legato al presente, che intende comunicare con
la base e con operai anche non politicizzati: «...è necessario smascherare
il carattere demagogico di progetti simili [ossia progetti socialdemocratici
lusingatori], spiegando ai lavoratori l'impossibilità di realizzare il
socialismo finché il potere resta nelle mani della borghesia. Al tempo
stesso bisogna, però, utilizzare singoli provvedimenti inclusi in questi
progetti, e che si possono legare agli interessi vitali dei lavoratori, come
punto di partenza per lo sviluppo di lotte di massa in un fronte unico assieme
agli operai socialdemocratici». È quindi un atteggiamento che sospende
la lotta per la dittatura proletaria, in vista di un'azione di «difesa
degli interessi economici e politici immediati della classe operaia, la sua
difesa contro il fascismo» e il capitalismo.
Nel '29 Edmund Husserl, poco dopo aver pubblicato le lezioni
sulla Fenomenologia della coscienza interna del tempo, tiene alla Sorbona
le celebri conferenze sulle Meditazioni cartesiane, inaugurando così
l'influenza della fenomenologia nella filosofia francese successiva. Insieme
all'esistenzialismo di Heidegger e al marxismo, questa corrente costituisce
il punto di riferimento privilegiato del rinnovamento della filosofia francese,
che vuole distanziarsi dallo spiritualismo e dal personalismo allora imperanti
nelle Università.
In quell'anno muore, a Venezia, Sergej Djagilev, il più
grande impresario musicale e teatrale della vita parigina nel primo quarto di
secolo, grande scopritore di talenti. Il 1928 è l'anno dell'esecuzione
controversa del Boléro di Ravel all'Opéra e nel '29 viene eseguita
l'orchestrazione di La Valse in forma di balletto. Del '29-'30 è
la composizione dei due concerti per pianoforte, sempre di Ravel (nel 1932 alla
Salle Pleyel, prima del Concerto in Sol per pianoforte).
Musica e
compositori a Parigi negli anni Trenta
Passiamo ora in veloce rassegna le principali posizioni e gli
esponenti di spicco della vita musicale parigina negli anni Trenta.
Igor Stravinskij, colui che nel '13 aveva scandalizzato gli
spettatori del Théâtre des Champs-Elysées con Le Sacre
du printemps, ormai non si sente più a suo agio a Parigi: ha l'impressione
che la sua musica non venga più recepita dai francesi. Nel 1930, a Bruxelles,
viene eseguita la Sinfonia di salmi e a Parigi, nel 1932, l'oratorio
Perséphone, su testo di Gide. Ma nel 1939, anche a causa della
guerra, il compositore emigra in America. Maurice Ravel, che con Debussy
è il più grande musicista francese del Novecento, inizia
la sua china discendente che lo porterà alla morte nel '37 (dopo i due
Concerti per pianoforte, compone solo le Trois Chansons de Don Quichotte
à Dulcinée nel '32).
I Sei: come gruppo già nel '21 si sono sciolti, ma rimangono
poi attivi autonomamente. Sono Darius Milhaud (1892-1974), che nel '30 e
nel '32 compone le opere di argomento storico Maximilien e Bolivar
rispettivamente; Francis Poulenc (1899-1963), Arthur Honegger (1892-1955),
Germaine Tailleferre (1892-1983), che emigra negli USA nel '42, Georges Auric
(1899-1983) e Louis Durey (1888-1979), le cui composizioni sono ispirate da
posizioni politiche di stampo socialista.
Erik Satie (1866-1925) lascia la sua eredità alla Ecole
d'Arcueil, il cui maggior rappresentante è Henri Sauguet (1901-1989),
che nel 1936 compone La chartreuse de Parme. L'Ecole de Paris
(1928-1939), invece, è formata perlopiù da musicisti immigrati
a Parigi, che hanno in comune uno stile che fonde neoclassicismo e folklore,
avanguardia e musica di consumo, jazz e altre contaminazioni. Sono il ceco Bohuslav
Martinu (1890-1959), l'ungherese Tibor Harsanyi (1998-1954), il polacco Alexander
Tansmann (1897-1986), il rumeno Marcel Mihalovici (1898-1985).
Nel 1936 viene fondato il gruppo Jeune France in reazione
all'accademismo e al neoclassicismo di maniera, oltre che alla dodecafonia.
Intento principale è di «suscitare e diffondere una musica viva,
in uno stesso slancio di sincerità, di generosità, di coscienza
artistica», per colmare il divario tra artista e pubblico. Da un lato abbiamo
Yves Baudrier (1906-1988) e Daniel Lesur (1908), che propongono un umanismo
musicale di tipo psicologico, dall'altro André Jolivet (1905-1974) e
Olivier Messiaen (1908-1992). Per Jolivet l'umanisimo è inteso in senso
universalista, mentre per Messiaen cosmico e teologico. Ciò si realizza
in virtù di un'attenta indagine nei riguardi delle sorgenti del comporre
e dell'essenza della musica stessa, ossia rivolgendosi alle espressioni musicali
degli antichi, dei primitivi, delle civiltà esotiche, della religiosità,
della magia (ricordiamo che Jules Combarieu nel 1909 aveva scritto il fondamentale
studio La musica e la magia), persino degli animali.
Molti compositori si dedicano anche alla musica per film: già
Satie lo aveva fatto con Entr'acte di René Clair. E poi abbiamo
Auric (A nous la liberté di R. Clair), Thiriet (Les enfants
du paradis di Marcel Carné, 1943-45), Honegger (Napoleon di
Abel Gance; Les Misérables di Raymond Bernard), Milhaud (Mme
Bovary di Renoir, Espoir di Malraux, Gaugin di Resnais), Jacques
Ibert, Joseph Kosma e altri.
Significati
musicali e culturali
Il fatto di porsi in alternativa, o almeno
in un atteggiamento di diffidenza nei confronti delle ricerche musicali seriali
e dodecafoniche, ha spesso messo la musica francese fino al '45 in una cattiva
luce presso la musicologia e i giovani compositori del secondo dopoguerra: spesso
si è ritenuto quel periodo poco interessante per lo sviluppo del linguaggio
musicale e per il progresso delle ricerche formali e tecniche, e quei musicisti
troppo leggeri perché poco «impegnati» nella sperimentazione.
Questa remora è stata corroborata da un'impostazione filosofica tendente
a concepire lo svolgimento storico della musica occidentale novecentesca in
senso univoco e unidirezionale, inoltre determinato precipuamente da scelte
di carattere linguistico. Forse oggi, con mente più disincantata rispetto
ai giudizi critici prevalenti fino circa agli anni Settanta, possiamo rivisitare
le caratteristiche estetiche principali di quella musica, al fine di coglierne
degli aspetti che sfuggano a una stigmatizzazione ideologica.
Per contestualizzare la musica francese
all'interno dello sviluppo del linguaggio musicale occidentale, dobbiamo notare
che la comprensibilità della musica classica si è basata soprattutto
sulla corrispondenza tra orizzontalità e verticalità, tra armonia
e melodia. La voce cantante, o il tema, espressione dell'interiorità
o in ogni caso della soggettività, acquisiva il suo senso solo se supportata
da una struttura spaziale di riferimento, con la quale si poneva in equilibrio,
e anche quando vi erano delle discrepanze, queste venivano ricomposte nella
stabilità della cadenza. Il romanticismo, pur avendo sancito questo fondamentale
assunto linguistico e percettivo della musica, nello stesso tempo ne ha radicalizzato
gli elementi di scissione interna e di inquietudine. Ciò si è
realizzato attraverso un'elaborazione polifonica sempre più complessa,
che si basava sull'ampliamento delle funzioni armoniche delle parti intermedie
(«l'ipertensione delle parti centrali», come efficacemente si è
espresso Massimo Mila). L'estrema conseguenza di questa tendenza, che si realizza
con Wagner, ha portato alla fusione dei parametri percettivi della musica, tanto
che a breve termine si sarebbe arrivati con Schönberg al loro completo
sconvolgimento. Questo è il cammino che ha portato alla atonalità,
soprattutto nell'area germanica.
In Francia si è seguito un percorso
del tutto diverso, per quanto motivato da istanze simili e determinato ugualmente
da una crisi storica dei linguaggi e della funzione sociale e comunicativa della
musica. Le personalità di Debussy prima
e di Stravinskij dopo hanno costituito per così dire un baluardo nei
confronti della deriva wagneriana e hanno portato la musica in una direzione
del tutto diversa, anche se non opposta. Se con Debussy le funzioni dell'armonia
sono giunte ugualmente alla loro dissoluzione (attraverso l'emancipazione della
dissonanza) e all'amalgama della polarizzazione tra la dimensione orizzontale
e quella verticale, tuttavia egli non ha mai perso il riferimento a quel particolare
punto di equilibrio, oltre il quale il senso linguaggio musicale perde consistenza
e «la percezione unitaria dei suoni nella sintesi dell'accordo» viene
screditata (Mila). Certo, questo equilibrio in Debussy viene continuamente messo
in discussione, spostato, problematizzato, reso incerto, ma pur sempre perseguito,
posto come canone implicito del fare compositivo. Tanto che sia l'ultimo Debussy,
sia gran parte della produzione di Ravel, sia le ricerche di Stravinskij possono
essere considerate dei tentativi di ricostituire fenomenologicamente una forma
musicale che altrimenti si sarebbe smarrita nel caos e nell'indistinto. Sia
la tecnica politonale e polimodale, sia il recupero neoclassico delle forme
tradizionali hanno il valore dell'acquisizione di una base strutturale e nel
contempo percettiva della musica da cui occorre far partire la ricerca, anche
in direzioni nuove e aperte (per esempio nei confronti di musiche esotiche o
del jazz).
Viene recuperato così non tanto
la pura e semplice forma tradizionale, esteriore e rigida, quanto il far
forma, il principio compositivo della creazione artistica, la base prelinguistica
e preformale del comporre creativo e non imitativo. Questo ha portato i musicisti
che hanno seguito queste orme a una sorta di purificazione espressiva, spesso
ai limiti del non-sense ironico e dell'ascetismo (Satie), finalizzata comunque
a ripristinare la dimensione umana e percettiva del fare e dell'ascoltare musica.
Da ciò la preferenza per quel parametro cui tradizionalmente si associa
l'espressione lirica soggettiva, la melodia, che quindi acquista nuovo impulso,
nuovo spessore e nitidezza (nello stesso Satie, antiromantico per eccellenza,
l'armonia non ha quasi consistenza, mentre la melodia emerge nei suoi accenti
di tristezza e di amarezza). E similmente il ruolo della voce nella musica di
Poulenc e di Honegger ripropongono in modi diversi una medesima esigenza di
comunicabilità. In essi la melodia va intesa in senso ampio, come melodicità,
capacità di strutturare nel tempo gli elementi sonori, anche armonici
(non a caso in Debussy e Stravinskij si hanno spesso melodie di accordi) e ritmici:
essi sembrano concepire la melodia, al pari dell'Estetica di Hegel, come
sintesi di armonia e ritmo.
Dal punto di vista prettamente formale,
la musica francese post-debussyana è caratterizzata, come abbiamo già
accennato, da un marcato spirito neoclassico. Questa tendenza, iniziatasi con
l'ultimo Debussy, trova in Stravinskij il massimo esponente: la svolta si verifica
nel 1920 con il Pulcinella, e prosegue fino agli anni Cinquanta, anche
nel periodo americano. Ma tutta la generazione dei musicisti francesi del dopoguerra
è stata influenzata dal neoclassicismo stravinskijano. Secondo Milhaud
la svolta neoclassica del musicista russo è stata determinata dall'assorbimento
della musica e dell'estetica francese, che lo avrebbe portato a «sostituire
alla sua arte prodigiosamente colorata, russa, orientale, al suo clima quasi
asiatico, alle sue armonie complesse, ai suoi ritmi barbari violenti come un
uragano, una musica sobria, limitata all'essenziale, improntata a un'economia
di mezzi e a un senso delle proporzioni che tuttavia non ne impedivano né
la grandezza, né la grazia, ma anzi ci restituiva un sentimento senza
artificio, limpido e purificato».
Negli anni Trenta, è vero, il neoclassicismo
diviene una maniera, ma anche la reazione della Jeune France non è
radicalmente oppositiva e di rottura ideologica, tanto che lo stesso Baudrier
si richiama esplicitamente a Stravinskij. Per Baudrier l'influenza di Stravinskij
è un «problema delicato» ma che non può essere affrontato
se non liberandosi da condizionamenti di tipo puramente formale e stilistico,
impostandolo invece sulla temporalità che informa la creazione e il processo
compositivo. Se la musica classica si è basata sulla ricerca di una congruenza
tra tempo (inteso come organizzazione del discorso musicale) e durata sensibile
(ossia lo stile e le funzioni musicali riconoscibili da ogni ascoltatore), Stravinskij
ha immesso in questo contrasto una dose di imprevedibilità e di choc,
non accettando di buon grado che quella raggiunta congruenza si cristallizzasse
in forme convenzionali. Il compositore russo quindi ha avuto il merito, secondo
Baudrier, di distinguere l'atto creativo dall'apparenza della forma esteriore,
riconducendo piuttosto il problema della creazione a un «approfondimento
sensibile e intellettuale che colga il significato di quelle forme», quindi
a un intervento superiore che non si identifica né con il formalismo
né con il tecnicismo, ma per Baudrier con la «realtà dialettica»
e psicologica.
Che questa interpretazione di Stravinskij
non sia fuori luogo è dimostrato dal fatto che per Stravinskij la scelta
di una forma musicale o un'altra era relativamente indifferente (tanto che le
sue scelte sono andate in direzioni talora disparate), e che quindi il suo neoclassicismo
può essere considerato in senso metodologico (come è dimostrato
nelle conferenze tenute ad Harvard nel '39, poi pubblicate come Poétique
musicale) e non solamente tecnicistico e «disumanizzante», come
lo hanno inteso alcuni suoi critici; e il suo formalismo va inteso come una
sorta di metaformalismo, che si applica sui principi temporali della costituzione
della forma e non sul risultato compiuto.
La stretta relazione tra il significato
del neoclassicismo francese con il concetto di temporalità è anche
al centro degli studi di due teorici che, pur arrivando a conclusioni assai
diverse da quelle di Baudrier, si rivelano decisivi per comprendere sia Stravinskij
che i musicisti a lui collegati: Pierre Suvcinskij, che nel 1939 scrive un saggio
intitolato La notion du temps et la musique e Gisèle Brelet, che
all'argomento ha dedicato il suo voluminoso saggio Le temps musical,
del '49. Sia Suvcinskij che la Brélet oppongono a un tempo psicologico,
appannaggio di certa musica romantica e in particolare wagneriana, un tempo
ontologico, proprio di musicisti come Bach, Mozart, Verdi e Stravinskij; e per
capire di che cosa si tratta
essi fanno ricorso alla categoria della «calma dinamica», consistente
in un «ripristino interiore e formale delle leggi e dell'ordine»,
nonché al concetto di «crononomia», ossia una temporalità
misurata e controllata, che ha il potere di sospendere il rilassamento emotivo
dei sentimenti, per giungere alla soddisfazione del sentimento reale e superiore
del tempo. Evidente è in queste espressioni estetiche l'influenza del
pensiero di Bergson che, per quanto piuttosto elusa negli ambienti filosofici,
rimane determinante in ambito estetico. Prova ne è il fatto che una sintesi
dell'influenza filosofica bergsoniana con le istanze musicologiche si ha in
Vladimir Jankélévitch: il filosofo francese di origine russa ha
concepito la musica come espressione paradossale - nel senso di particolare
forma linguistica nel contempo priva di tutte le funzioni linguistiche - di
quell'ineffabile, la cui articolazione non può che essere di natura
temporale e che trova proprio nella crononomia stravinskijana un significativo
momento di esplicitazione.
La superiorità del livello temporale
della creazione e della composizione rispetto alle componenti linguistiche può
essere anche la spiegazione di un'altra componente chiave della musica francese
del periodo, oltre che di quella di Stravinskij: l'eclettismo e il gusto della
contaminazione. Più che altrove, la musica in Francia si è confrontata
e ha assorbito le esperienze della modernità: da Debussy a Poulenc, da
Ravel a Milhaud il linguaggio si è arricchito di immissioni e di contaminazioni
derivanti dal jazz e dal music-hall, dalla tradizione e dall'esotismo
orientale. In Honegger, per esempio, persino la musica tedesca rientra nelle
scelte stilistiche di un oratorio come Jeanne au bucher (scritto in collaborazione
con Paul Claudel) per far parte di una sintesi politonale superiore. Se poi
si pensa al ricorrente neoromanticismo, ci si chiederà se non sia in
contraddizione con la spinta antiromantica che anima un po' tutti questi musicisti.
Al contrario, quello a cui si assiste è una sorta di purificazione del
romanticismo dagli eccessi del sinfonismo di fine-Ottocento e del wagnerismo,
in vista del recupero di una drammaticità pudica, non ostentata ma intimamente
vissuta. Nelle opere di autori come Emmanuel Bondeville (1898-1987), Darius
Milhaud, Henri Sauguet e Francis Poulenc, gli eroi vengono umanizzati, in senso
anche passionale ma estremamente controllato e dominato dallo spirito di litote;
così in Jacques Ibert, Marcel Delannoy, Claude Arrieu, Joseph Kosma,
Maurice Thiriet, la spontaneità si unisce all'intensa drammaticità,
l'umanità alla semplicità. Essi sembrano insomma voler risalire
alla radice più ingenua e autentica del romanticismo. E persino un «modernista»
dinamico e vitale come Honegger, nel '31 scrive Les cris du monde, un'opera
in cui il senso di solitudine umana di fronte alla civiltà di massa si
esprime con accenti di estrema riservatezza e moderazione.
Sembra cioè che le espressioni
di angoscia e di urlo disperato o gli accenti prometeici presenti in tanta arte
contemporanea non appartengano al mondo culturale francese, tanto che da un
lato Gide e Jankélévitch teorizzano la litote come capacità
di dire molto con molto poco e dall'altro Cocteau, Duchamp e Breton fanno dell'ironia
e del pastiche un mezzo d'espressione autentica. Ma ciò non vuol
dire che le motivazioni profonde le siano estranee. È solo che un contesto
storico di minor tensione ideologica ha consentito ai francesi di esprimersi
in forme artistiche meno estreme e allucinate, anche se non per questo meno
immaginative e trasgressive. Se le propaggini del romanticismo altrove avevano
portato alle conseguenze dell'espressionismo, in Francia le avanguardie sono
dadaiste e surrealiste. Inoltre le filosofie dell'angoscia vengono pienamente
recepite, ma filtrate e canalizzate in un alveo umanistico e sensistico teso
a mettere in gioco libertà e corporeità del soggetto, come avviene
nel pensiero di Sartre e Merleau-Ponty.
Ci avviciniamo quindi a un altro aspetto
caratterizzante la musica francese: la ricerca di un'immediatezza e di una semplicità,
finalizzata cioè al sentire diretto, empirico e persino edonistico dell'arte
musicale nella sua relazione con la soggettività. Se la dodecafonia disdegnava
l'approvazione del pubblico e la godibilità estetica, al contrario presso
i francesi di questa generazione la preoccupazione maggiore sembra essere quella
di non perdere mai il contatto con l'ascoltatore e quindi di non condurre la
ricerca musicale in un alveo di inflessibile intransigenza nei confronti dei
gusti del pubblico. Per Honegger la musica deve essere «percepita dalla
gran massa degli ascoltatori e deve essere sufficientemente priva di banalità
per interessare i melomani»; inoltre «deve cambiare carattere e diventare
diretta, semplice, con un bel portamento: il popolo se ne infischia della tecnica
e delle eccessive rifiniture». Boheslav Martinu affermava: «L'ordine,
la chiarezza, la misura, il gusto e l'espressione diretta e sensibile, le qualità
dell'arte francese che ho sempre ammirate», e per Maurice Thiriet, la musica
deve essere «una sorgente di gioia e non una costrizione dello spirito».
Se altrove il piacere e il sentimento apparivano sospetti e rischiavano di essere
tacciati per spensieratezza e frivolezza, in Francia vengono rivendicati come
primarie e autentiche aspirazioni della musica. «Se c'è qualcosa
che vale nella mia musica è il fatto che è attraversata da un
sentimento», diceva Sauguet, mentre il suo maestro Satie sosteneva che
«tutti i grandi artisti sono degli amatori». Questo significa cioè
liberare la musica dalla maledizione moralistica secondo cui l'edonismo dovesse
essere bandito come lusinga inutile o affare da donnette.
Parallelamente, il soggettivismo viene
ridicolizzato dall'estetica e dalla filosofia. Ma il recupero del soggettivismo
e dell'umanismo, nonché la rivendicazione delle istanze percettive e
sensibili dell'ascoltatore da parte dell'estetica musicale, si associano al
particolare significato che l'uomo e il soggetto hanno per la filosofia francese.
Secondo la Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty l'esistenza,
nel suo distinguersi dall'essenza, ritrova senso e spessore nella sua corporeità,
che è il viatico privilegiato per stabilire quel rapporto immediato con
il mondo, che è il fine ultimo dell'approccio fenomenologico. Così
la musica, se si distanzia dal mondo in cui è inserita e dal tessuto
intersoggettivo che garantisce la comunicabilità del suo linguaggio peculiare,
finisce per ridursi a un'essenza o a un concetto, proprio come il soggetto,
nel rivendicare la sua purezza trascendentale, finisce per isolarsi dal vissuto
concreto e immanente, dalla storia, dalla responsabilità etica. In questa
opzione di adamantina inviolabilità esso perderebbe ciò che ha
di più proprio, la sua soggettività e la sua umanità.
Non a caso i musicisti della Jeune
France, nel loro rifiuto di ogni tecnicismo e dello spirito di sistema di
certa musica d'avanguardia, intendono «reincarnare la musica nell'uomo»,
riportarla a contatto con la vita, con la natura, con le leggi psicologiche
che presiedono alla comprensione della realtà come tessuto emotivo e
immaginifico, non come pura strutturazione logica e consequenziale. Dice Daniel-Lesur,
in un'espressione apparentemente lapalissiana: «Una sola cosa importa:
che la musica contenga molta musica. E perciò occorrerebbe che l'uomo
non sia inumano». Ossia, sembra volerci dire, come la musica non rinvia
altro che a se stessa, così l'uomo, creatore della musica, non deve dimenticare
ciò che la musica stessa è per l'uomo. L'umanismo musicale francese
va cioè al di là del puro psicologismo e anche sopravanza la sola
esperienza dei musicisti della Jeune France. Il problema è più
universale e va collegato a questioni fondamentali di natura filosofico-musicale
e coinvolge considerazioni estetiche di più ampia portata, che in questa
sede ci limitiamo solo a suggerire. Quella dei musicisti francesi è una
terza via rispetto all'effusione sentimentalistica romantica e al serialismo
astratto, paragonabile a ciò che l'umanismo esistenzialista sartriano,
nella famosa conferenza del '46, propone come una terza via tra il marxismo
massimalista e il cattolicesimo personalista e, politicamente parlando, una
terza forza rispetto a reazione e comunismo, quando nel '48 Sartre fonda il
«Rassemblement démocratique révolutionnaire». Indubbiamente
la musica francese è stata spesso scettica rispetto a soluzioni radicali
e integraliste, ma solo una visione manichea della ricerca musicale imputerebbe
a questo atteggiamento di essere apologetico o conservatore.
La frattura
della Guerra
Per
quanto gli anni dell'occupazione nazista furono pur sempre abbastanza ricchi
di cultura, di vita letteraria e di rappresentazioni teatrali, con opere di
Claudel, Sartre e Henri de Montherlant, il gruppo Jeune France si scioglie,
Messiaen, al pari di tanti altri intellettuali, viene mobilitato e poi fatto
prigioniero. Naturalmente la produzione di autori ebrei viene osteggiata: Milhaud,
di origini ebraiche, fugge negli Stati Uniti nel 1940 all'indomani dell'armistizio
tra Francia e Germania.
In ogni caso, tutta la musica francese riflette al suo interno
le angosce per la situazione. Anche la chanson, pur derivando dalla spensierata
chanson de variétés della belle-époque, assume
a poco a poco i toni dell'impegno e della coscienza storica: del 1942 è
Le chant du partisan di Joseph Kessel, e poi abbiamo Les enfants d'Auschwitz
di René Louis Laforge, Nuit et brouillard di Jean Ferrat, anticipazioni
di quella che sarà la chanson del dopoguerra, con l'attenzione di Enrico
Macias per le vicende della guerra d'Algeria, fino alla stagione esistenzialistica
degli anni Cinquanta-Sessanta, e con le personalità di Brassens, Vian,
Aznavour.
Nel '40 Sauguet esprime nella Symphonie expiatoire il
suo turbamento per le vicende storiche e nel '44 Honegger compone per la radio
Battements du monde, un accorato appello per le vittime della guerra.
Ma una delle espressioni più significative del rapporto tra musica e
sublimazione della sofferenza si ha con il Quatuor pour la fin du temps
di Olivier Messiaen, composto nel 1941 per un atipico quartetto formatosi alla
bell'e meglio tra i prigionieri del campo di concentramento tedesco, dove lo
stesso compositore era internato, e che ha per oggetto una visione apocalittica
e nel contempo onirica: l'angelo dell'Apocalisse di S. Giovanni, aureolato dell'arcobaleno,
annuncia la fine dei tempi. Il misticismo di Messiaen è umanizzato, nonché
vivido e carnale, animato da un senso di profonda solidarietà umana;
negli stessi anni Jankélévitch conclude La menzogna (un
saggio scritto nel 1940 durante il ricovero all'ospedale di Marmande per una
ferita durante un combattimento) con queste parole che, pur scritte da un filosofo
ateo, ugualmente si attagliano bene alla spiritualità di Messiaen: «Che
la pace sia dunque sulla terra, da questo momento, con tutte queste volontà
sorde, cieche e più che folli; e agli altri, d'ora in poi, non manchino
né la speranza né il coraggio» Inoltre la religiosità
del compositore francese si associa ad audaci sperimentazioni melodiche e ritmiche,
ma sempre su un fondo neoromantico e neoclassico. Prendiamo per esempio il pezzo
n. 5, Louange à l'étérnité de Jésus:
è una melodia accompagnata, ma le novità si trovano nella struttura
temporale, non nello stile. Anche le reminiscenze tonali non sono un problema
per Messiaen: come egli depura il tempo da ogni psicologismo, così depura
il linguaggio da ogni ideologia.
Musica e
compositori dopo il 1945: lo sperimentalismo, il teatro
Indubbiamente l'immediato dopoguerra francese è animato
in generale da uno spirito di ricostruzione, unito a un deciso slancio europeista
che non era riuscito a prendere forma negli anni precedenti: dominano le figure
di Charles De Gaulle, di Robert Schuman, sono gli anni "felici» della
IV Repubblica, prima della crisi algerina e del conseguente crollo del 1958.
Con i musicisti della nuova generazione, ossia Pierre Boulez,
Jean-Louis Martinet, Serge Nigg, Jean Barraqué, si ha un deciso riavvicinamento
al serialismo e alla ricerche europee più avanzate: sono per la maggior
parte allievi sia di Messiaen sia di René Leibowitz, profondo conoscitore
delle avanguardie viennesi e della tecnica dodecafonica. Tuttavia queste esperienze
vengono sempre mediate dallo spirito di libertà e di invenzione, che
rimane una delle peculiarità della musica francese. Anche il tecnicismo,
il rumorismo - attuato da Jolivet e da Messiaen, nonché dal fondatore
della «musica concreta» Pierre Schaeffer (1910-1995) - non sono fine
a se stessi. E quando la musica, con Boulez, prende la piega strutturalista
e rigorista, ha sempre come motivazione e come fine la libertà e la creatività
(significativo è il titolo di uno dei suoi scritti più noti, Per
volontà e per caso). Persino gli elementi cosmologici, presenti in
Jolivet e Messiaen, non si rifanno certo a una cosmologia razionalista o pitagorica,
né a una poetica dell'abbandono mistico e della passività ascetica,
ma vi si riflette in essi l'uomo nella sua più intima connessione con
il cosmo e con la natura.
La frattura della guerra si ripercuote altresì
sul teatro musicale francese: con Marcel Landowski (1915), Claude Prey (1925),
Maurice Ohana (1914-1992), che nel '47 fonda il Gruppo Le Zodiaque in
contrapposizione al neoromanticismo della Jeune France, abbiamo un vero
e proprio teatro decostruzionista. Tra le due guerre i generi teatrali prevalenti
erano l'opera cosiddetta de demi-caractère, apparentemente frivola
e leggera, ma rappresentata da compositori di rilievo come André Messager
(1853-1929), Gabriel Pierné (1863-1937), Claude Terrasse (1867-1923):
si trattava di un misto tra opera buffa, operetta e opera comica, frivola sì
ma con accenti di sottile amarezza.
I caratteri del teatro del dopoguerra sono invece del tutto
differenti: da Le rire de Nils Halérius, del 1944, che trae ispirazione
dalla filosofia indiana, all'inquietante Le ventriloque (1957) e alla
trasgressiva L'opéra de poussière (1962), Landowski inserisce
elementi metateatrali, autoriflessivi e disillusi, tramite la frammentazione
del canto e l'uso cinico della caricatura e della citazione: «Se l'arte
lirica - dice Landowski -, non ha più il diritto per ragioni economiche,
di ricercare se stessa, di tentare delle esperienze, di sbagliarsi, è
irrimediabilmente votata alla sparizione, dato che ogni forma d'arte che non
si rinnova, si sclerotizza, deperisce e muore». Influenzato dall'arte cinematografica,
Ohana così si esprime: «Procedo per sequenze, basando tutto su dissolvenze
incrociate veloci, brusche, la cui imprevedibilità crea un fulcro-base».
In Claude Prey (Lettres perdues, del 1960) le relazioni testuali e interstestuali
sono smantellate e non ricostruite, la parodia e l'improvvisazione disintegrano
la musica e il linguaggio viene deriso, sì da far prevalere la finzione
e il gioco degli specchi.
Dal punto di vista della cultura filosofica, siamo nel periodo
in cui Heidegger è ormai entrato pienamente nella cultura francese e
nel '60 Derrida comincia i suoi primi passi filosofici; del 1967 è Della
grammatologia, dove il filosofo francese critica il logocentrismo della
metafisica occidentale, consistente nell'affidare alla voce il privilegio del
logos e nel considerarla mezzo espressivo capace di ricondurre l'essere
all'ente, rendendolo comprensibile al soggetto nella sua finitudine. L'unità
verbale, invece, va secondo Derrida «slogata», ridotta a parzialità
e traccia, poiché per lui la scrittura è anteriore alla voce,
la differenza all'identità.
Ma tutto ciò il teatro francese degli anni postbellici,
in un certo senso e con i propri mezzi espressivi, lo aveva già sperimentato
sulla scena. Anche in questo caso, quindi, la musica sembra porsi come un'anticipazione,
una peculiare esperienza ricettiva delle determinazioni storiche, culturali
e filosofiche più profonde, che possono esprimersi solo a livelli di
mediazione riflessiva più ampi e spesso posteriori. Nella particolare
situazione della musica francese della metà del Novecento, queste sottili
relazioni culturali, questi impliciti o espliciti rimandi interdisciplinari,
emergono con un'evidenza che né lo storico, né il filosofo né
il musicologo possono eludere.
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