Ottavio de Carli
L'ars canonica di J. S. Bach.
Una introduzione


Testo di una conferenza tenuta a Brescia, Teatro Sancarlino, in data 6 marzo 2001 presso l'Associazione Mozart Italia - Brescia.
Si ringrazia l'Associazione per l'autorizzazione alla pubblicazione.

Può sembrare alquanto ambizioso affrontare in un incontro come questo, destinato a un pubblico non necessariamente competente in materia musicale, un repertorio ritenuto tra i più difficili. Ma il compito della divulgazione dovrebbe proprio essere quello di facilitare la comprensione di ciò che risulta ostico e complesso, e d'altra parte le opere dell'ultimo Bach costituiscono un momento tanto importante della nostra cultura musicale da essermi convinto che il gioco vale senz'altro la candela.

Mi servirò per l'occasione di alcune registrazioni e di alcune immagini - la multimedialità davvero facilita il compito -, e avvio il mio discorso proprio partendo dalla proiezione di una fotografia, raffigurante un ritratto di Bach abbastanza noto, quello dipinto a olio da Elias Gottlob Haußmann [1]Ritratto di Bach di Gottlob Haußmann .

Pervenutoci in due copie [2], è ritenuto oggi - assieme al "bel pastello, molto somigliante" realizzato dal cugino Gottlieb Friedrich Bach - l'unico ritratto sicuramente attendibile del musicista tedesco.

Lasciando perdere le diverse considerazioni che possiamo fare sul quadro - anche di ordine storico - soffermiamoci per il momento sul particolare del piccolo foglio che il compositore sembra volerci mostrare: è infatti tenuto in mano capovolto, in modo che sia facilmente leggibile per l'osservatore. Si tratta di un breve spartito musicale che subito attira la nostra attenzione, ma questo non deve apparire strano perché molto spesso i musicisti venivano ritratti con in mano frammenti di proprie composizioni. Era un modo sottile per definire il soggetto del quadro, riguardo non solo alla sua professione e posizione sociale, ma anche alla sua identità personale. Non molto tempo fa ho avuto occasione di identificare con precisione il soggetto di un ritratto anonimo, conservato in una collezione privata qui a Brescia, proprio grazie alla lettura del frammento musicale tenuto in mano dal personaggio raffigurato (si trattava di Hoste da Reggio, musicista minore vissuto nel XVI secolo).

Appare subito evidente che il foglio mostrato da Bach non contiene note a caso, tanto per sottolineare la condizione professionale del soggetto, ma una vera e propria composizione compiuta, il cui valore simbolico non deve assolutamente essere trascurato.

Si tratta di un canone che oggi viene catalogato come BWV 1076 e che fu pubblicato dapprima a Lipsia nel 1747 e poi da un certo Mizler, figura su cui ci soffermeremo tra poco, nell'ultima pagina dell'ultimo numero della Musikalische Bibliothek del 1754.

Osserviamo dunque la composizione, prendendola per comodità di lettura dalla prima stampa del 1747 [3]. Figura 2 "Canon triplex"

Il titolo precisa che si tratta di un Canon triplex a 6 voci, solo che i conti non sembrano tornare perché le voci scritte sono solo tre e non sei. Dove sono le tre voci mancanti? Non è difficile, per chi conosce la struttura di un canone musicale, capire che esse si trovano 'nascoste' nelle prime tre voci scritte, e che per realizzare integralmente la composizione è necessario risolvere quello che è in sostanza una sorta di gioco enigmistico musicale.

Nel ritratto di Haußmann Bach, sembra dunque porgerci con quella sua aria sottilmente sorniona - Piero Buscaroli parla di uno "sguardo diffidente" [4]- un vero e proprio quesito, quasi con atteggiamento di sfida. Se è vero che, come ho detto prima, nella breve pagina musicale è celata la chiave di lettura del ritratto, ne consegue che solo chi riuscirà a sciogliere l'enigma proposto potrà cogliere la personalità del maestro nella sua interezza.

Tutto questo non deve farci pensare alla trovata strampalata di un pittore in vena di scherzi: deve rimandare piuttosto a una tradizione antica che aveva radici profonde soprattutto nel mondo greco. Per gli antichi, l'uso dell'enigma costituiva infatti una prova di educazione o di cultura: il greco Pausania, vissuto nel II sec. d.C., scriveva che "fin dai tempi antichi i Greci considerati sapienti sviluppavano i loro discorsi mediante enigmi, e non in modo rettilineo" [5].

Aristotele, nella sua Poetica, ricordava che "il principio dell'enigma è proprio quello di collegare attraverso la parola l'ovvio con l'impossibile" [6], ma a questo riguardo, ben più noto e per noi più interessante è il mito della Sfinge, il terribile mostro metà donna e metà leone che, seduto su una roccia presso Tebe, uccideva chiunque non fosse in grado di rispondere al famoso quesito: "Qual è l'essere che ha una voce sola, che prima ha quattro, poi due, e poi tre piedi?". Apollodoro racconta che "Edipo sciolse l'enigma, dicendo che l'essere a cui alludeva la Sfinge era l'uomo: quando è bambino infatti ha quattro piedi perché si muove sostenendosi su tutti e quattro gli arti, adulto ne ha due, vecchio ne ha tre perché si aiuta col bastone" [7]. Il fatto che proprio l'enigma più terribile avesse come oggetto l'uomo deve far riflettere, perché anche nel caso del ritratto di Bach sembra che l'enigma sia la chiave per giungere all'essenza della sua persona.

Molte opere di Bach, d'altra parte, sembrano avere un profondo e consapevole valore enigmatico, soprattutto nella produzione degli ultimi anni della sua vita. La questione, per noi, sta nel riuscire a cogliere il significato di ciò che era ben più che un semplice trastullo intellettuale.

Quale concezione della musica si nascondeva, insomma, dietro a questo ritratto?

Una risposta esauriente richiederebbe una trattazione ben più articolata di quanto possano permettere i limiti di questo breve intervento.

Brevemente, converrà ricordare soltanto alcuni aspetti fondamentali, e primo fra questi il fatto che la tradizione luterana aveva forti radici nel pensiero di S. Agostino: non per nulla Lutero era un monaco agostiniano. Agostino aveva dato della musica una definizione che poi divenne famosa ("Musica est scientia bene modulandi") e che a sua volta era fortemente debitrice nei confronti del pensiero pitagorico. La musica, secondo Agostino, era anzitutto una scienza, e come tale doveva impegnare la ragione più che l'istinto o i sensi (un coinvolgimento emotivo naturalmente non era escluso, ma doveva passare in secondo piano rispetto alla componente razionale). Il concetto del "bene modulandi" si riferiva proprio all'idea che la musica dovesse procedere secondo movimenti ben regolati, razionalizzati attraverso un gioco di proporzioni che fosse esprimibile attraverso rapporti numerici semplici. L'importanza di Agostino fu enorme, anche sul piano della pura estetica musicale, perché attraverso di lui l'antica mistica dei numeri di ascendenza pitagorica si fuse con la mistica cristiana e penetrò a pieno diritto nell'anima del pensiero occidentale. La concezione mistico-matematica della musica è ad esempio evidente nella famosa Harmonie Universelle (1636-7) di Marin Mersenne (1588-1648).

Per venire al pensiero sei-settecentesco, non possiamo dimenticare un'altra importante quanto famosa definizione della musica, elaborata da Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) che, com'è noto, era matematico oltre che filosofo. Secondo Leibniz, "Musica est exercitium aritmaeticae occultum nescientis se numerari animi" (la musica è un esercizio occulto di aritmetica dello spirito, ignaro del proprio numerare - cioè che, senza sapere, conta). Intesa come una sorta di calcolo inconscio, la musica era ancora una volta legata a una componente razionale e matematica. Ma il discorso sarebbe più complesso, perché in verità la filosofia sei-settecentesca cercava allora di conciliare il sapere scientifico acquisito attraverso il calculum e l'experimentum con le teorie neoplatoniche, che contemplavano la presenza nella natura di forze occulte, magiche o divine. Il neoplatonismo divenne infatti nel '700 una sorta di alchimia di tipo puramente spirituale, finalizzata a un'affannosa ricerca dei significati simbolici delle azioni e dei pensieri, come se la realtà trovasse concretezza non nei fatti, ma nei simboli e nelle allegorie (il tutto sfociò poi nella massoneria).

Baruch Spinoza (1632-77) aveva cercato di comporre il dissidio postulando l'esistenza di una sostanza, quella di Dio, fonte di ogni realtà: fra natura e Dio vi era identificazione, ma ciò vanificava la libertà umana, poiché tutto era ricondotto allo stato di necessità, in quanto geometricamente predeterminato. Leibniz era invece ricorso al concetto di un'armonia, di un ordine universale della natura che secondo lui era frutto di pure forze spirituali. Nel 1666 era anche entrato nella Confraternita dei Rosa-Croce, società segretissima di natura esoterica e magica, che in sostanza aspirava a conoscere la Natura per conoscere Dio. Ciò si conciliava bene con il pitagorismo, perché anche la dottrina di Pitagora era concepita come dottrina segreta, e d'altra parte la stessa filosofia di Platone aveva un'importante componente pitagorica, basti pensare alla cosmologia descritta nel Timeo: neopitagorismo e neoplatonismo si erano dunque perfettamente incontrati.

In questo contesto, non deve stupire che la cultura tedesca tardo-barocca conoscesse e frequentasse i testi degli autori neo-pitagorici, da Diogene Laerzio, a Porfirio, a Giamblico. La Summa Pythagorica di quest'ultimo (ampia opera in ben 10 libri) venne citata non a caso dal filologo Johann Matthias Gesner (1691-1761) nelle norme della Thomasschule, di cui fu rettore tra il 1730 e il 1734 [8] . Costui era amico di Bach (viveva nel suo stesso edificio), e ciò giustifica meglio le ragioni della digressione che ci siamo permessi di fare. In sintesi, Gesner associava le regole di vita degli alunni della sua scuola ai pitagorici, e in sostanza diceva: la verace conoscenza di Dio si può raggiungere solo attraverso il tenace esercizio dell'intelletto e dello spirito, e il maggiore ausilio per l'educazione è la musica. Ammiratore entusiasta - al limite della venerazione - del suo coinquilino (di lui disse che era un uomo che "sopravanzava Orfeo di molte volte ed Arione di venti volte"), Gesner rese certamente partecipe Bach delle sue conoscenze in merito alla dottrina pitagorica, ed è impensabile che il musicista non si interessasse ad essa, considerato anche l'interesse che nutriva per la musica antica. Ma Gesner ebbe anche un altro ruolo interessante ai fini del nostro discorso.

Prima di svolgere il suo incarico a Lipsia, egli era infatti stato rettore del ginnasio di Ansbach, dove era stato suo alunno un certo Lorenz Christoph Mizler von Kolof (1711-78). Terminati gli studi liceali, costui si iscrisse nel 1731 all'università di Lipsia e qui venne presentato da Gesner a Bach, il quale lo accolse prontamente tra i propri allievi.

Nel 1734 Mizler si laureò con una tesi dedicata a Bach e il cui titolo era tutto un programma: Dissertatio quod musica ars sit pars eruditionis philosophicae; e non dovrebbe passare inosservato che nell'edizione riveduta del 1736, l'opera usciva con il titolo lievemente modificato in Dissertatio quod musica scientia sit pars eruditionis philosophicae. Dopodiché il ventitreenne Mizler ottenne una cattedra e fu così il primo docente universitario "dopo 150 anni" a tenere lezioni sulla musica a Lipsia.

Di lui scrisse il Mattheson: "iniziò a tenere lezioni in matematica, filosofia e musica: della quale ultima disciplina egli è un particolare ammiratore, dal momento che non solo è in grado di suonare il violino, il flauto traverso e soprattutto il cembalo, ma ha anche scritto varie cose sulla musica e si è occupato, prima di altre cose, della letteratura musicale: poiché il suo intento principale è di dare alla musica forma compiuta come scienza, e di indagarne e metterne in ordine la storia" [9]. Con queste premesse, era quasi inevitabile che tra Bach e Mizler si instaurasse uno stretto rapporto di reciproca stima e amicizia.

Nel 1736 Mizler fondò la rivista Musikalische Bibliothek, che uscì fino al 1754 e che per noi è molto importante perché - l'abbiamo già ricordato - proprio nell'ultimo numero vi venne pubblicato il famoso canone del ritratto (BWV 1076). Il cerchio comincia a chiudersi, perché la rivista aveva un'impostazione marcatamente pitagorica, ed è sufficiente citare un paio di passi per rendersene conto.

In una nota a un trattato sulla musica del bizantino Michele Psello, Mizler scriveva: "Sulla concordanza e la simmetria dell'intero edificio del cosmo molto è stato detto dagli antichi sapienti, specie da Platone, che in questo punto segue la filosofia pitagorica; e molto è stato detto anche sulla musica dei corpi celesti, di cui si leggono tracce anche in Cicerone, nel Sogno di Scipione, e nel commentario di Macrobio. Che l'intero edificio del cosmo, come pensavano gli antichi, debba veramente essere composto secondo la più perfetta proporzione si può dedurre con sicurezza da questo: se nei singoli corpi celesti, come parti del tutto, si possono rinvenire tante eccellenti concordanze e perfezioni, quale armonia, quale perfezione e bellezza non deve essere presente nell'intero, nel capolavoro dell'essere più perfetto? Ora, poiché la musica è l'ordine migliore che l'intelletto umano può rappresentarsi, rispecchiato nella dimensione del piccolo, gli antichi hanno affermato del tutto a ragione che la musica rappresenta l'armonia dell'intero edificio del cosmo" [10].

Un secondo passo, scritto nell'aprile 1738, è altrettanto eloquente: "Se vogliamo convincerci del tutto delle verità musicali, dobbiamo aggiungere anche la conoscenza matematica, quale supremo grado della sapienza umana (...) Dove dunque sta scritto che gli antichi non intendevano migliorare la musica con la ratio matematica? Forse che le preoccupazioni di Archita, di Claudio Tolomeo e di altri non ci mostrano esattamente il contrario? Forse che i pitagorici non hanno misurato i suoni allo scopo di potersi orientare nell'esercizio della musica? Chi vorrà negare le molte testimonianze degli antichi? La cosa in verità è semplice, se soltanto la si sa dirimere correttamente. Certo, se io voglio approntare un pezzo di musica non è necessario che per prima cosa io mi metta a misurare i suoni uno per uno col compasso, ma se io, con l'aiuto della matematica, avrò prima indagato esattamente e conosciuto alla perfezione le proprietà dei suoni, allora potrò poi metterli insieme con la massima sicurezza. La conoscenza matematica dei suoni dà dunque al compositore una grande luce, anche se in forma mediata, non immediata, ed è molto utile per la preparazione di un pezzo di musica. Tuttavia, poiché la stragrande maggioranza degli esperti di musica non ha mai percorso queste vie, essi non riescono neppure a credere che le cose stiano così. Tutte le musiche consistono infatti di suoni, e i suoni sono regolati da rapporti reciproci diversi, su cui si fondano tutti gli effetti che la musica ha su di noi. Tuttavia, poiché tali rapporti sono costituiti da grandezze matematiche, e poiché le grandezze a loro volta sono un corrispettivo della matematica, allora per l'amor del cielo la si smetta di disputare contro la luce del sole, e di dire che le misurazioni matematiche dei suoni non appartengono alla teoria della composizione musicale".

E' chiaro che Mizler conosceva bene il frammento dell'Armonica del pitagorico Archita di Taranto, nel quale si diceva che tanto la geometria e l'aritmetica quanto la dottrina delle sfere e la musica erano di pertinenza della matematica, ed erano strettamente legate l'una all'altra, costituendo così le famose quattro dottrine del canone pedagogico del quadrivium, fissato dalla scolastica medievale.

A completamento degli scritti sulla Musikalische Bibliothek, potremmo citare anche una poesia, dal titolo Lob der Musik (Lode della musica), che Mizler compose, musicò e pubblicò a Lipsia a proprie spese in occasione della Pasqua del 1740. In essa, le ultime due strofe (nn. 5-6) costituivano una chiara confessione di fede pitagorica: "Ora io mi unisco ai greci, / che tanto t'hanno lodata, / perché ciò che divino c'è in te / si può leggere nella tua essenza. / Tu potesti risvegliare fin l'orecchio di Socrate / nella sua vecchiezza, / e per questo Platone e Pitagora / t'hanno innalzata sopra tutte le arti. / Tu racchiudi l'intero edificio del mondo, / cielo e terra sono in te. / Se quaggiù i suoni sono così nobili, / quale sarà la mia gioia lassù! / O cielo, vieni in mio aiuto, spezza le catene / che ancora mi legano alla terra, / perché possa unirmi al coro degli spiriti, / dove cantano le voci più pure" [11].

Ora se ci siamo soffermati tanto su Mizler, non è per il semplice fatto che avendo instaurato un rapporto di profonda amicizia con Bach, egli dovette avere più occasioni per discutere con lui di questioni inerenti alla filosofia della musica. Se egli divenne in definitiva il mediatore ermetico del pensiero pitagorico nelle ultime opere del Kantor (e in particolare nell'Arte della Fuga), ciò fu perché tra i due venne a crearsi un vincolo più stretto.

Nel 1738 Mizler annunciò la fondazione di una Correspondierende Societät der musicalischen Wissenschaften (Società di corrispondenza per le scienze musicali), insieme al conte Giacomo de Lucchesini (un comandante di un reggimento di corazzieri, che si dilettava nella composizione e che morì poi in battaglia nel 1739) e a Georg Heinrich Bümler, Kapellmeister ad Ansbach (1669-1745). Inutile dire che la Società aveva un'evidente matrice pitagorica: agli iscritti erano richieste competenze musicali, matematiche e filosofiche; inoltre c'era una pretesa etica, comunitaria e religiosa, dal momento che la Società era fondata "per servire solo la Chiesa e dunque onorare Iddio" e "per l'utilità della Repubblica". Il fatto poi che non si facesse espressamente il nome di Pitagora era in linea con gli antichi, che non osavano chiamare Pitagora per nome: i pitagorici amavano infatti comunicare in modo ermetico ed occulto, soprattutto attraverso simboli (solo in un caso documentato nel 1743, Mizler si attribuiva lo pseudonimo di Pitagora - Bümler era Archimede, Schröter era Terpandro, ecc.). I soci dovevano presentare una volta all'anno un lavoro teoretico o pratico, almeno fino all'età di 65 anni, e tale lavoro poteva poi essere discusso e commentato dagli altri soci. In particolare lo Statuto della Societät richiedeva "di approntare annualmente almeno una trattazione (...) di argomento libero che però indaghi approfonditamente la musica (...) I membri dovranno anche studiarsi che la loro indagine sia utile per l'esercizio, e dovranno portare sempre più in alto la musica pratica".

Ogni socio doveva pagare una quota annuale di 2 talleri, presentare un proprio ritratto a olio e per quanto possibile ricordarsi della Società all'atto del testamento.

Naturalmente i soci non furono molti: nel 1738 vi erano solo i tre fondatori; l'anno seguente ne entrarono altri quattro, tra i quali, come socio numero 6, il cinquantottenne Georg Philipp Telemann (1681-1767), Musikdirektor e Kantor ad Amburgo. Nel 1745 si iscrisse come undicesimo socio il sessantenne Georg Friedrich Händel, ormai da decenni residente in Inghilterra.

Johann Sebastian Bach entrò nella Società nel giugno 1747, all'età di 62 anni, e fu per sua volontà il socio il n. 14 (il numero 14 rappresentava la somma dei numeri corrispondenti a ciascuna lettera del nome Bach: B=2, A=1, C=3, H=8 [12] ).

Come ritratto ufficiale da presentare alla Societät al momento del suo ingresso, Bach offrì il dipinto di Elias Gottlob Haußmann che abbiamo osservato, e con ciò il cerchio si chiude sempre più, collegando strettamente tra loro il ritratto, l'enigma, il canone, la Correspondierende Societät, Mizler e il pensiero pitagorico.

Va ricordato che, escluso l'impegno svolto da Mizler nella Musikalische Bibliothek - divenuta di fatto l'organo ufficiale della Società -, l'attività svolta dal sodalizio fu pressoché inesistente. Per quanto ne sappiamo l'unico socio che si impegnò a presentare l'annuale contributo 'scientifico' fu proprio Bach, che nel 1747 offrì le proprie Variazioni canoniche BWV 769, nel 1748 presentò l'Offerta musicale BWV 1079, e nel 1749 l'Arte della Fuga BWV 1080. Nel 1750 il Kantor morì ma, raggiunta ormai l'età di 65 anni, il regolamento lo avrebbe comunque esonerato dall'obbligo.

In ogni caso la Società non era destinata ad avere vita lunga: quando nel 1755 l'ultimo socio, il trentaseienne Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus, si iscrisse come ventesimo della lista, la Società si era di fatto sciolta. Mizler, compiuti anche gli studi in medicina, si era nel frattempo trasferito come medico a Varsavia e anche la Musikalische Bibliothek non veniva più pubblicata.

Consapevoli ora dello stretto legame esistente tra la musica di Bach e il pensiero pitagorico, può essere utile - anche per un semplice ascolto guidato, quale intende essere il nostro - riflettere sugli aspetti 'matematici' della musica, che non a caso è rappresentabile, come una qualunque funzione matematica, su un sistema di assi cartesiani. E'infatti possibile rappresentare una qualunque linea melodica nello spazio, ponendo ad esempio sull'asse delle ordinate i valori relativi alle altezze sonore, e su quello delle ascisse la dimensione invece temporale. In tal modo una semplice funzione y = f(x) come quella indicata nella fig. 3, potrebbe indicare una linea melodica ascendente.

Figura 3

 

Si tratta in realtà di un'intuizione antichissima, perché tutta la notazione neumatica medievale è in qualche modo fondata su questo principio. La fig. 4 mostra un esempio di notazione beneventana, nella quale le linee che rappresentano la melodia si dispongono non solo seguendo il testo (dimensione temporale da sinistra a destra), ma soprattutto cercando di indicare con la massima precisione possibile l'ampiezza degli intervalli (dimensione spaziale, in senso verticale):

 

Figura 4

Poiché tracciando una semplice linea nello spazio è possibile tracciare l'andamento di una qualsiasi melodia, noi ci serviremo di questo rudimentale sistema per il nostro discorso. Naturalmente la notazione tradizionale offre una serie di informazioni in più, ma questo sistema non solo ha il vantaggio di essere di più immediata lettura per chi non ha confidenza con note e spartiti, ma si dimostra perfino più efficace per cogliere alcuni importanti aspetti riguardo alla struttura delle composizioni.

Prendiamo, per iniziare, una semplice melodia di poche note

midi

 

 

Con una semplice linea, questa melodia può essere così rappresentata:

 

Fin qui non c'è davvero nulla di sensazionale. Però il grafico, ancor più che lo spartito tradizionale, mette in risalto un aspetto che l'orecchio non aveva affatto notato: infatti è sufficiente un fugace colpo d'occhio per rendersi subito conto che la melodia ha una struttura simmetrica. Se eseguissimo la stessa melodia a ritroso, partendo cioè dall'ultima nota per arrivare alla prima, il risultato sarebbe infatti invariato.

Tutto questo stimola interessanti riflessioni riguardo al concetto di simmetria, che è un concetto geometrico, dunque in qualche modo anche matematico (una funzione matematica ha un suo simmetrico negativo facilmente riconoscibile: Y = f(x) e Y = -f(x))

Ciò che qui maggiormente ci interessa, è il problema della riconoscibilità, perché non è detto che la percezione di un negativo simmetrico sia sempre immediata. Certamente, se noi prendiamo in considerazione una qualsiasi lettera dell'alfabeto, questa risulterà sempre facilmente percepibile anche se disposta 'a specchio', cioè ribaltata attorno ad un asse di rotazione verticale o orizzontale:

Ci sono però forme di riflessione più complessa, dove nel processo di traslazione verso il rispettivo simmetrico si perdono alcuni aspetti della riconoscibilità, e l'identificazione dell'originale con il suo 'negativo' non è immediata.

E' tipico il caso ad esempio dei negativi fotografici, nei quali le immagini sembrano perdere almeno alcune delle loro proprietà di riconoscibilità. Osservando un negativo fotografico spesso è perfino difficile riconoscere il ritratto di uno stretto conoscente, dal momento che non se ne riescono a cogliere molte sfumature.

L'argomento richiederebbe un approfondimento che non possiamo affrontare in questa sede. Mi limito solo a ricordare quanto sia stato importante - e lo sia tuttora - l'effetto del negativo negli studi sulla S. Sindone di Torino.Fu anzi proprio grazie alla scoperta della sua negatività da parte di Secondo Pia nel 1898, che la scienza moderna ha iniziato a interessarsi del misterioso lenzuolo. Ancora oggi questo aspetto della negatività dell'immagine e del suo rapporto con il positivo costituisce materia di uno studio specifico della scienza sindonologica, a dimostrazione della complessità delle sue implicazioni [13].

Tornando alle questioni riguardanti la simmetria e la riconoscibilità, sono ben note agli enigmisti le forme dei palindromi, espressioni verbali che si mantengono immutate pur dopo averne invertito il senso. In generale sono espressioni necessariamente piuttosto elementari (Anilina, Anna ama Anna, ecc.), tuttavia in alcuni casi il carattere palindromico non è di immediata percezione, ad esempio nell'espressione Aceto nell'enoteca.

In musica come abbiamo potuto sperimentare, si possono creare effetti molto più complessi, tanto da annullare completamente il grado di riconoscibilità. Inoltre, contrariamente alle espressioni verbali e similmente a quanto si è mostrato più sopra riguardo alla lettera R, esistono due forme di simmetria, a seconda che si faccia riferimento ad un asse verticale o a un asse orizzontale. La nostra melodia possiede dunque anche un corrispettivo speculare che semplicemente inverte il senso degli intervalli utilizzati (rotazione della linea del grafico attorno ad un asse orizzontale):


 

midi

 

 

Come era avvenuto anche nella versione precedente, il piccolo brano musicale si presenta bruttino e insignificante, fino a che - esattamente a metà del suo corso - improvvisamente compare l'inaspettata sorpresa: la melodia è quella di Fra' Martino campanaro!

A questo punto è chiaro che, come è stato possibile celare una melodia tanto conosciuta attraverso un semplice procedimento di inversione, allo stesso modo e a maggior ragione un raffinato uso dell'ars combinatoria potrà nascondere forme e strutture ben più complesse e interessanti, che potranno essere svelate solo dopo aver sciolto l'enigma iniziale. In musica non esiste infatti la sola linearità, ma è anche possibile applicare procedimenti di sovrapposizione di più melodie contemporaneamente, secondo possibilità praticamente infinite. Il cosiddetto 'canone' consiste proprio nella sovrapposizione di due o più melodie assolutamente identiche, che tuttavia iniziano in tempi e ad altezze differenti; e si ha un 'canone enigmatico' quando il compositore non indica espressamente quando e dove far partire le voci successive alla prima. Ma in un canone una melodia può essere sovrapposta in diversi modi anche al suo corrispettivo 'negativo', o al suo retrogrado (dall'ultima nota alla prima), ecc. L'unica condizione, volendo comporre musica, è che poi l'insieme 'funzioni' e non suoni totalmente cacofonico.

Bach

La cosiddetta ars canonica di Bach è fortemente incentrata su questa sorta di enigmistica musicale, nella quale il discorso è condotto attraverso un abile gioco 'a nascondino' dei temi, più o meno chiaramente riconoscibili. Ben più che un semplice gioco intellettuale, per Bach dedicarsi ai canoni era opera di una speculazione complessa, forse di derivazione mistico-pitagorica e comunque destinata e comprensibile solo a degli iniziati. Certamente per lui il canone era dimostrazione di uno sbalorditivo virtuosismo compositivo, sempre condotto con un fortissimo senso del rigore e della razionalità.

Per rendersene conto, può essere sufficiente prendere in considerazione la struttura delle cosiddette Variazioni Goldberg, ampia composizione strutturata in trentadue parti (un'Aria di 32 battute, trenta variazioni su di essa e una ripresa conclusiva dell'Aria stessa) secondo un principio formale rigoroso e una concezione architettonica molto complessa [14]. In tale raccolta le Variazioni sono disposte a gruppi di tre, e l'ultima di ciascun gruppo consiste sempre in un canone a tre voci, costruito su intervalli via via ascendenti (dall'unisono alla nona). Le variazioni che più qui ci interessano sono dunque le seguenti:

Variatio 3: Canone all'unisono

Variatio 6: Canone alla 2ª

Variatio 9: Canone alla 3ª

Variatio 12: Canone alla 4ª

Variatio 15: Canone alla 5ª in moto contrario

Variatio 18: Canone alla 6ª

Variatio 21: Canone alla 7ª

Variatio 24: Canone alla 8ª

Variatio 27: Canone alla 9ª

Proviamo ad ascoltare tre di queste Variazioni, seguendone la struttura sui grafici che abbiamo imparato ad usare:

Variatio 3 Canone all'unisono a 1 Clav.

(si noti come la linea rossa sia identica a quella verde)

 

Variatio 6 Canone alla 2ª a 1 Clav.

(si noti come la linea rossa sia identica, ma disposta un gradino in alto rispetto alla verde)

 

 

Variatio 12 Canone alla 4ª (a 1 Clav.) per moto contrario

(si noti come la linea rossa sia disposta a canone, ma speculare rispetto alla verde)

Potremmo naturalmente seguire anche gli altri canoni utilizzando lo stesso ausilio grafico, ma ritengo più opportuno soffermarmi su altre importanti considerazioni che completano il discorso.

Il manoscritto autografo delle Variazioni Goldberg è andato perduto, ma restano diciotto esemplari della prima edizione a stampa, pubblicata a quanto sembra nel 1741. Di queste diciotto copie, particolarmente importante è quella appartenuta a Bach stesso e oggi conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Département de musique, Ms. 17669: venne acquistata alla considerevole cifra di 700.000 franchi). La copia contiene numerose correzioni di mano di Bach degli errori di stampa, ma comprende anche un'appendice autografa, rinvenuta nel 1974 e risalente probabilmente al 1745. Tale appendice porta il titolo di Verschiedene Canones über die ersteren acht Fundamental-Noten vorheriger Arie von J. S. Bach, cioè "Canoni diversi sopra le prime otto note del basso dell'Aria di Bach" (BWV 988) e consiste in 14 canoni (si noti ancora una volta la presenza simbolica del numero 14), costruiti sulle prime 8 note del basso dell'aria, tutti contenuti in un'unica pagina e oggi classificati come BWV 1087.

Si tratta di una raccolta importante, che dimostra il grande interesse di Bach per l'ars canonica nell'ultimo decennio della sua vita, culminato poi con le Variazioni canoniche Vom Himmel hoch e l'Offerta musicale. Poiché nelle Variazioni Goldberg non aveva variato il basso dell'Aria, sembra che con questa aggiunta Bach abbia inteso colmare la lacuna [15] . Ciò che è curioso, è che due di questi canoni erano già stati riprodotti, e cioè:

- il n.11 (già catalogato come BWV 1077) nell'album di uno studente di Lipsia, Johann Gottfried Fulde (15 ottobre 1747).

- il n.13 (BWV 1076) proprio nel ritratto di Haussmann che ormai conosciamo bene. A questo punto è giunto il momento di sciogliere l'enigma, ed ascoltare questo canone seguendone sul grafico lo schema:

 

esecuzione completa - solo le due voci superiori (Canone 1) - solo le due voci centrali (Canone 2) - solo le due voci inferiori (Canone 3))

 

Canon triplex a 6 voci BWV 1076 (1087 n. 13)

Osservando con un po' di attenzione, si può notare che si tratta della sovrapposizione di tre canoni per moto contrario: il primo riguarda le linee rossa e nera, il secondo quelle arancione e verde e il terzo quelle viola e blu [16] . Esso inoltre è strutturato in modo tale da poter essere eseguito all'infinito (la parte inclusa nella parentesi tratteggiata può essere continuamente ripetuta). Si tratta di una combinazione alquanto complessa, che tuttavia non ci offre ancora un panorama completo delle possibili soluzioni elaborate da Bach.

L'ultimo dei 14 Canoni presenta ad esempio uno schema che non può non stupire:

 

Canon a 4 per Augmentationem et Diminutionem BWV 1087 n. 14

(la linea nera e quella verde sono per moto retto, mentre la rossa e la blu sono per moto contrario; la linea rossa raddoppia i valori della nera, la verde raddoppia i valori della rossa e la blu raddoppia i valori della verde)

Probabilmente quanto abbiamo osservato non deve essere ritenuto come il semplice svago intellettuale di un compositore abile nel contrappunto; piuttosto, le riflessioni che abbiamo fin qui sviluppato ci inducono a tenere alcuni concetti nella debita considerazione. Queste composizioni sembrano infatti possedere connotazioni di carattere fortemente pitagorico, e facciamo qui riferimento a tre princìpi in particolare:

  • Principio dell'enigma. I canoni si presentano come enigmi da risolvere. In questo senso anche l'Arte della fuga è pienamente pitagorica, perché il manoscritto, pur essendo in bella copia, non riportava alcun titolo scritto da Bach (quello che c'è è postumo, aggiunto dal genero Johann Christoph Altnickol), né indicazioni dell'autore, della strumentazione o del tempo. Al tempo di Pitagora i libri non riportavano il titolo, che come uso necessario e generalizzato nacque soltanto nell'ultimo quarto del sec. V a. C. (questo però Bach non poteva saperlo). La tradizione ricorda che i pitagorici insegnavano anche con gli enigmi.

  • Principio dello specchio. Il carattere speculare dei canoni per moto contrario potrebbe rispecchiare l'idea pitagorica del rapporto (inteso fin dalle origini in senso musicale) fra l'archetipo e la sua immagine. Secondo Giamblico, Pitagora udiva e intendeva "lui solo l'armonia universale e la competizione canora delle sfere e degli astri, che vi si muovevano (...); di ciò intendeva offrire ai suoi discepoli delle immagini, come meglio riusciva, imitando la musica delle sfere con gli strumenti e con la nuda voce umana. Giacché era convinto di essere il solo fra i mortali in grado di udire e di intendere i suoni del cosmo (...) gli altri uomini dovevano accontentarsi, guardando a lui e ai doni che egli elargiva loro, dell'aiuto e della guida di immagini e di allusioni, poiché ad essi non era dato cogliere i primi e puri archetipi nella loro verità: proprio allo stesso modo in cui anche noi ci sforziamo di mostrare le eclissi di sole in uno specchio d'acqua profondo o attraverso la pece fusa oppure in uno specchio nero a quelle persone che, per l'eccessiva luminosità dei raggi, non sono in grado di guardare il sole direttamente" [17].

Il principio dello specchio ritorna anche nella notazione musicale greca (alfabetica), la cui invenzione viene attribuita da Aristide Quintiliano allo stesso Pitagora.

In realtà, in tutta la storia delle religioni si è sempre data importanza allo specchio: nel mondo antico era familiare l'idea che la creazione visibile fosse uno specchio di Dio. In Egitto, a partire dal Medio Regno, il disco solare era l'archetipo della lastra di rame dello specchio; in Asia minore, la dea Hebat, "regina del cielo", teneva in mano come attributo uno specchio; nei misteri dionisiaci si sperava di riconoscere nell'immagine dello specchio l'anima disciolta dal corpo, che ascendeva all'esistenza immortale e perciò si metteva uno specchio nella tomba degli iniziati.

Lo specchio dell'oracolo metteva in luce la verità, come il sole, e un retaggio di tale credenza è poi rimasto nel famoso "specchio delle mie brame" nella favola di Biancaneve. Non è forse un caso che Seneca considerasse lo specchio come simbolo dell'autoesame sul piano etico.

Anche nella Bibbia lo specchio possedeva un grande valore simbolico. Nell'Antico Testamento si dice ad esempio che la sapienza "è un riflesso della luce di Dio, uno specchio lucido della sua attività ed è un'immagine della sua bontà" [18]. Anche nel Vangelo Cristo viene considerato il riflesso dell'immagine di Dio ("Chi ha visto me ha visto il Padre" [19]), e S. Paolo fu a riguardo ancora più esplicito: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello spirito del Signore" [20]. Altrove scrisse invece: "Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio; ma un giorno saremo a faccia a faccia dinanzi a Dio" [21]; e a lui fece eco Gregorio di Nissa dicendo che l'uomo, per vedere Dio, deve avere un'anima pura come uno specchio risplendente.

Nel Medioevo certi specchi, come simbolo della luce, venivano consacrati in chiesa, e nei secoli XV-XVI la Madonna era detta "speculum sine macula" (specchio senza macchia). Curiosamente nel Rinascimento prevalse poi il significato dello specchio come simbolo di vanità e di egoismo, e come tale giudicato negativamente (anche per i suoi legami con la superstizione e i culti dionisiaci).

  • Principio della monade. I canoni sono composizioni complesse la cui struttura è essenzialmente derivata da un unico tema generatore di tutte le altre parti. L'idea che tutte le cose abbiano la loro radice nell'uno, nell'unità, è un'idea pitagorica. Diogene Laerzio scriveva: "Alessandro, nella serie dei filosofi, racconta di aver trovato nei quaderni dei pitagorici anche queste informazioni: il principio di tutte le cose è l'unità (la monade); ma dall'unità nasce la dualità indeterminata che, quasi in guisa di materia, sta alla radice dell'unità, come sua causa..." [22].

Come abbiamo già avuto occasione di ricordare più sopra, la tradizione luterana aveva forti radici nel pensiero agostiniano, che ebbe un ruolo abbastanza rilevante nel processo di cristianizzazione della filosofia pitagorica. Da questo punto di vista, l'ars canonica di Bach rappresenta senza dubbio un importante punto di arrivo, perché sembra riuscire a combinare magistralmente il misticismo matematico-pitagorico con la simbologia cristiana.

L'undicesimo dei 14 Canoni BWV 1087 che abbiamo poco fa citato costituisce un caso abbastanza esemplare: trascritto nell'album di uno studente di Lipsia, Johann Gottfried Fulde [23] , esso era accompagnato da una didascalia dal senso abbastanza incomprensibile per i non iniziati: oltre alla dicitura Domino Possessori hisce notulis commendare se volebat J. S. Bach, colpisce infatti l'enigmatica indicazione: Symbolum Christus Coronabit Crucigeros. Osserviamo innanzitutto il canone, seguendolo attraverso il grafico:

 

 

Canone BWV 1077 (1087 n. 11).

Si noti il canone formato dalle due voci superiori (linee blu e arancione), disposte per moto contrario. Colpisce nella linea blu l'inizio, formato da cinque note cromaticamente discendenti. Si tratta di una figura simbolica, la cui dolente discesa raffigurava nel linguaggio retorico del tempo la sofferenza di Cristo (il richiamo era alle cinque ferite - mani, piedi e costato) così da costituire un vero e proprio lamento crucis. È da notare che tale figurazione del lamento crucis appare anche nella Var. 25 (il numero cinque elevato al quadrato!) (Adagio) delle Variazioni Goldberg: non è un caso che Wanda Landowska, riferendosi a questa variazione, parlasse di una "Corona di spine".

Attraverso l'inversione a specchio della melodia, la linea arancione trasforma la dolente caduta in un'ascesa faticosa, raffigurante il concetto del "Coronabit": essa svela in questo modo il paradosso cristiano secondo cui solo chi fa propria la croce verrà incoronato. Inoltre l'incrocio e l'inversione delle parti porta alla raffigurazione di una c, lettera che fin dai tempi antichi costituiva un importante simbolo cristologico. Solo il linguaggio musicale poteva rappresentare con tanta efficacia e precisione l'immagine di un Cristo che nella sofferenza trova il senso della propria esaltazione dunque, che soffre e muore, ma nel contempo si glorifica.

Il canone rimanda fra l'altro al monogramma adottato da Bach, nel quale le sue iniziali (rappresentate a specchio) erano legate al simbolo della croce (ancora la lettera c), e disposte sotto una corona di dodici pietre (sette più in alto, a simboleggiare la completezza, e cinque più in basso, a ricordo della sofferenza):

Monogramma di Bach

Monogramma di Bach

Anche in qui, come nel ritratto, solo attraverso i significati nascosti si giunge alla persona: e in questo caso Bach sembra voler intrecciare il proprio nome con il destino di Cristo.

Potremmo naturalmente continuare a lungo su queste tracce (solo l'Arte della Fuga BWV 1080 sarebbe materia di studio estremamente ampia), ma l'intento era solo quello di offrire uno spunto iniziale di lettura. Concludiamo quindi presentando semplicemente qualche altro esempio, tratto questa volta dall'Offerta musicale BWV 1079.

Non staremo a descrivere nei dettagli la storia e le ragioni di tale straordinaria raccolta, ma ci limitiamo a ricordare che essa fu dedicata al re Federico II di Prussia, che Bach visitò a Potsdam il 7 maggio 1747, un mese prima di iscriversi alla Societät der musicalischen Wissenschaften. Federico II era flautista ed è probabile che fosse un membro onorario della Societät [24].

Bach inserì nella raccolta anche dei canoni enigmatici, alcuni dei quali possiamo qui ascoltare con l'ausilio ormai familiare del grafico:

 

esecuzione dapprima della linea rossa, poi della linea nera - esecuzione completa)

 

Ein Musicalisches Opfer BWV 1079 - Canon 1 a 2

E' un canone perfettamente simmetrico nel quale la linea rossa, letta da sinistra verso destra, corrisponde esattamente alla linea nera, letta da destra verso sinistra.

Canon a 2 (Quaerendo invenietis)

 

Questo canone a due voci per moto contrario è caratterizzato dall'indicazione "quaerendo invenietis" (cercando troverete), che sottolinea l'aspetto enigmatico della composizione: tocca infatti all'interprete risolvere il problema di come e dove disporre la seconda voce. La soluzione qui proposta (linea rossa) è quella generalmente accettata.

Canon a 5 a 2 "Ascendente modulatione ascendat Gloria Regis"

 

Concludiamo con questo canone che da un certo punto di vista rappresenta una delle più curiose composizioni della storia della musica occidentale. Si tratta in effetti di un canone perpetuo, che cioè potrebbe essere eseguito all'infinito, poiché la conclusione conduce direttamente a un nuovo inizio: ma a questa, che è una caratteristica comune a moltissimi canoni, se ne aggiunge un'altra, in apparenza insignificante. Ad ogni ripresa, il canone ricomincia la sua melodia un tono più sopra, così che dopo sei ritornelli esso si ritrova identico alla partenza ma un'ottava più sopra (nello schema vengono indicati i sei punti di partenza). Generalmente il canone viene eseguito in questo modo, e al raggiungimento dell'ottava lo si conclude bruscamente, anche perché sei riprese della stessa melodia sono obiettivamente fin troppe. Il senso simbolico ne risulta in ogni caso chiarissimo, anche perché è la stessa didascalia posta da Bach a spiegarlo: la gloria del Re (a cui il canone era dedicato) [25], segua di pari passo l'ascensione della melodia.

Fin qui nulla di eccezionale, se non fosse che in realtà il canone non prevede conclusioni. E terminato il ciclo di un'ottava, ne ascenderebbe subito un'altra e poi un'altra ancora, e così all'infinito. Cosa succederebbe, se tale esecuzione 'filologica' venisse effettivamente realizzata? Il canone salirebbe sempre più, aumentando le frequenze sonore fino alle soglie dell'udibile; poi passerebbe agli ultrasuoni; a frequenze sempre più alte, l'impulso entrerebbe nel mondo delle onde radio, poi degli infrarossi, fino a farsi luce visibile; continuerebbe poi la sua strada verso gli ultravioletti, i raggi x e i raggi gamma... e chi ben conosce la fisica potrà indicare meglio di me il destino di una simile composizione.

Noi qui ci limitiamo a concludere, rilevando che tutto questo ci porta a una dimensione cosmica della musica. E forse, ancora una volta il cerchio si chiude, perché da Bach il pensiero torna inevitabilmente al mondo mistico-pitagorico dell'armonia delle sfere...

Ottavio de Carli

ottavio.decarli@tin.it

 

Note
 

[1] Oggi conservato nello Stadtgeschichtliches Museum di Lipsia.

[2] Haußmann ne fece infatti anche una copia nel 1748, che finì poi nel lascito ereditario di Carl Philipp Emanuel Bach e da qui in una collezione privata inglese. Dal 1953 è a Princeton (USA), proprietà del musicologo William H. Scheide. C'è però chi sostiene che il quadro conservato in America sia l'originale e non la copia.

[3] Conservata presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna e riprodotta in Hans-Eberhard Dentler, L'Arte della fuga di Johann Sebastian Bach, Milano, Skira, 2000.

[4] Piero Buscaroli, Bach, Milano, Mondadori 1985, p. 418.

[5] Pausania, Graeciae Descriptio, VIII, 8, 3, riportato in H.-E. Dentler, L'Arte della fuga... cit., p. 16.

[6] Aristotele, Poetica, 22, p. 1458a 26.

[7] Apollodoro, Biblioteca, III, 5, 8. Udita la risposta esatta, la Sfinge si uccise gettandosi dalla rupe.

[8] Gesetze der Schule zu S. Thomae, Lipsia, 1733.

[9] Johann Mattheson, Grundlage einer Ehrenpforte, Amburgo, 1740, p. 230.

[10] Lorenz Christoph Mizler, Neu eröffnete "Musikalische Bibliothek" oder Gründliche Nachricht nebst unpartheyischem Urtheil von musikalischen Schriften und Büchern, III, 2, p. 174. Il passo è riportato in H.-E. Dentler, L'Arte della fuga... cit., p. 33.

[11] La poesia venne pubblicata nella raccolta Sammlungen auserlesener moralischer Oden, ed è citata in H.-E. Dentler, L'Arte della fuga... cit., p. 32.

[12] Volendo mettersi a giocare con i numeri, è da notare che la somma delle cifre corrispondenti al nome J. S. Bach (J=9; S=18; Bach=14) dà il numero 41, che è speculare al 14. In verità quando Bach entrò, i soci erano solo 11 perché Lucchesini e Bümler erano morti: due di essi, inoltre, avevano già passato i 65 anni (Georg Philipp Telemann e Heinrich Bokemeyer).

[13] Evitando di addentrarmi in un tema tanto vasto e complesso, rimando genericamente ai numerosi studi compiuti da Aldo Guerreschi, specializzatosi da oltre quarant'anni nella fotografia tecnico-scientifica della Sindone, e dal fisico Nello Balossino, che da tempo si dedica all'elaborazione informatica dell'immagine sindonica.

[14] Il titolo originale della raccolta era Clavier Übung (IV) bestehend in einer ARIA mit verschiedenen (30) Veränderungen. Generalmente datate 1742, si ritiene oggi siano precedenti di circa un anno. Secondo Forkel, Bach componendo le Variazioni avrebbe accolto un preciso invito rivoltogli da Johann Gottlieb Goldberg (1727-56), un suo allievo che allora si trovava al servizio del conte Hermann Carl von Keyserlingk, ambasciatore della Russia alla corte di Dresda. Keyserlingk soffriva di insonnia e Goldberg avrebbe dovuto intrattenerlo suonandogli il cembalo. Il racconto suona però molto strano e inverosimile, perché Goldberg aveva allora solo quattordici anni, e poi questa non è certo musica di intrattenimento. Inoltre Bach avrebbe in qualche modo presentato il suo omaggio (ad esempio con una dedica ossequiosa) a Keyserlingk, che fra l'altro - sempre secondo Forkel - l'avrebbe ricambiato con una coppa d'oro contenente 100 luigi d'oro, guarda caso sparita. Infine va rilevato che non vi è traccia di tutto questo in alcuna testimonianza dell'epoca.

[15] Anche in questo caso i canoni sono disposti secondo un criterio in progressione: non sugli intervalli tra le entrate delle voci, ma sulla loro complessità (i primi quattro sono infatti a sole 2 voci).

[16] Nel corso dell'incontro è stato proposto l'ascolto dapprima dei tre canoni separati, poi del loro insieme.

[17] De vita Pytagorica liber, citato in H.-E. Dentler, L'Arte della fuga... cit., p. 56.

[18] Libro della Sapienza, 7, 26.

[19] Vangelo di Giovanni, 14, 9

[20] II Lettera ai Corinzi, 3, 18

[21] I Lettera ai Corinzi, 13, 12

[22] Citato in H.-E. Dentler, L'Arte della fuga... cit., p. 64.

[23] Catalogato come BWV 1077

[24] Sulle sue effettive qualità musicali, conviene tuttavia ricordare quanto ebbe una volta a riferire Carl Philipp Emanuel Bach a un francese: "Voi credete che il re ami la musica; ma ama solo il flauto; e ancora, se voi credete che lui ami il flauto, vi sbagliate; lui ama solo il suo flauto".

[25] Citiamo la dedica con la quale Bach offrì la composizione a Federico II di Prussia: "Offerta / Musicale / A Sua Maestà il Re di Prussia etc. / molto umilmente dedicata / da / Johann Sebastian Bach / Graziosissimo Sovrano, con la più profonda sottomissione dedico a Vostra Maestà un'Offerta Musicale la cui parte più nobile proviene dalle Sue auguste mani. Con reverenziale piacere mi sovvengo ancora della sovrana grazia tutta particolare con la quale tempo fa Vostra Maestà medesima, nel corso di una mia permanenza a Potsdam, si è degnata di eseguire al cembalo un thema per una fuga, in pari tempo graziosamente ingiungendomi di tosto svilupparlo alla Sua augusta presenza. Fu mio deferente dovere ubbidire al comando di Vostra Maestà. Ma assai presto mi accorsi che in mancanza della necessaria preparazione, l'elaborazione non era potuta essere quella che un thema così eccellente richiedeva. Pertanto, giunsi alla conclusione, e subito me ne assunsi l'impegno, che occorreva rielaborare in modo più compiuto questo thema veramente reale e farlo conoscere quindi al mondo. Questo proposito è stato ormai realizzato secondo le mie capacità e altra intenzione non ha se non quella irreprensibile di celebrare, quantunque soltanto in un piccolo punto, la gloria di un monarca la cui grandezza e forza tanto nelle scienze della guerra e della pace quanto specialmente nella musica, tutti devono ammirare e venerare. Oso aggiungere questa preghiera umilissima: che Vostra Maestà si degni di onorare il presente modesto mio lavoro con una graziosa accoglienza e conceda ancora per l'avvenire la Sua altissima grazia sovrana all'autore Di Vostra Maestà servitore umilissimo ed obbedientissimo / Lipsia., 7 luglio 1747"

 

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