Il titolo scelto per l'incontro
di questa sera mette scherzosamente in relazione un verso tratto
dal secondo atto del Così fan tutte, con un saggio di
Alfred Schutz, filosofo austriaco e teorico delle scienze
sociali, successivamente naturalizzato americano, con il quale
dovremo familiarizzare tra poco. Leggendo di seguito le due cose
Ah, bevessero del tossico... Mozart e i filosofi, sembra
quasi che Mozart abbia voluto augurare, o malaugurare, ai
filosofi di avvelenarsi. Evidentemente le cose non stanno così;
si tratta, come abbiamo detto, di un accostamento scherzoso il
cui scopo è quello di introdurci con leggerezza, come sarebbe
piaciuto a Mozart, nell'argomento della serata.
Volendo anticipare in poche
parole, a mo' di guida in questo incontro, il pensiero di Schutz
al riguardo, diciamo che l'intento dell'autore è quello di
dimostrare in che modo Mozart abbia affrontato e risolto da
musicista, dunque con mezzi prettamente musicali, un
problema che ha impegnato i filosofi nel corso dei secoli: il
legame tra musica e tempo e, sullo sfondo di questo, i grandi
temi della comunicazione e dell'intersoggettività.
L'opinione di Schutz - non dimentichiamolo, un filosofo - è che
Mozart nel risolvere questi problemi sia stato addirittura più
brillante dei filosofi stessi.
Ma procediamo con ordine, cercando
innanzitutto di avvicinarci a un autore che, al di là di
ambienti specialistici, non è forse molto noto in Italia. Alfred
Schutz (in origine il nome era Schütz, con l'Umlaut) nasce a
Vienna nel 1899. La sua formazione è improntata a studi
economici, giuridici e sociali - campi in cui allora era
dominante la figura di Max Weber - ma altrettanto forte, anzi
irresistibile, si rivela presto l'attrazione verso la filosofia.
Schutz entra così nella cerchia di Husserl, il grande filosofo
fondatore della fenomenologia, e ne diventa un allievo
promettente, tra i più amati dal maestro. L'opera fondamentale
di questo periodo è
Fenomenologia del mondo sociale [1]
, del 1932, un'opera ponderosa,
molto "tedesca" nel suo impianto e nella sua aspirazione
sistematica. Il tentativo di Schutz è qui quello di applicare
gli insegnamenti della fenomenologia husserliana allo studio del
mondo sociale, di trovare cioè i "fondamenti" filosofici delle
scienze sociali, secondo un'esigenza culturale che all'inizio
del Novecento aveva investito diverse branche del sapere
scientifico. Ma oltre al progetto di fondazione filosofica del
sapere, c'è un'altra cosa che accomuna Schutz al destino di
molti intellettuali europei ed è l'avversione al nazismo. Così,
lasciata l'Austria asservita al Terzo Reich, il nostro autore
ripara a Parigi nel 1938 e l'anno successivo negli Stati Uniti,
dove si stabilirà definitivamente, acquistando la cittadinanza
americana e modificando il cognome in Schutz. New York sarà la
sua nuova città e qui insegnerà presso la New School for Social
Research fino all'anno della morte, avvenuta nel 1959. Negli
Stati Uniti si apre la seconda fase della produzione filosofica
di Schutz, direttamente in lingua inglese. Se soprattutto Weber
e Husserl erano stati i suoi riferimenti culturali in Europa,
ora sono la sociologia americana e il pragmatismo di James e
Mead ad influenzare il suo pensiero.
Che cosa interessa a Schutz della musica?
Perché, a un certo punto, un teorico delle scienze sociali con
pretese di fondazione filosofica si accosta alla musica? Va
detto subito che Schutz non è un filosofo della musica in senso
stretto, cioè non fa della musica l'argomento centrale del suo
pensiero. Gli interessi documentati di Schutz per la musica
appartengono al periodo americano e sono contenuti in tre brevi
scritti [2]
, quantitativamente marginali rispetto all'intero corpus, ma
molto importanti per il contenuto. Il primo è un manoscritto
datato 1944, pubblicato molto più tardi, nel 1976, dalla rivista
Music and Man con il titolo di Fragments on the
Phenomenology of Music. Gli altri due sono Making Music
Together e Mozart and the Philosophers,
rispettivamente del 1951 e del 1956 e si trovano nel secondo
volume dei Collected Papers [3]
. I Fragments, come
suggerisce il termine dovuto al curatore F. Kersten, sono le
bozze di un lavoro teorico sistematico mai portato a termine. Il
suo contenuto è in parte confluito in Making Music Together
(Fare musica insieme nella traduzione italiana, cfr.
n. 2), mentre la data di Mozart and the Philosophers (Mozart
e i filosofi) fa pensare che il saggio sia stato scritto in
occasione del secondo centenario della nascita del musicista.
Se vogliamo cogliere alcuni tratti
essenziali del pensiero di Schutz a riguardo della musica è ai
Frammenti e a Fare musica insieme che dobbiamo
rivolgerci, lavori senz'altro di maggior respiro teorico.
Innanzitutto, dobbiamo osservare che Schutz - e qui forse è il
sociologo che lavora - pensa alla musica non in termini
astratti, ma partendo proprio dalla situazione "concreta" del
concerto, con il pubblico da una parte e gli interpreti
dall'altra. Per quanto questa situazione mi possa sembrare
familiare, dice Schutz, essa è un esempio di interazione sociale
estremamente complessa, che si presta ad essere analizzata nelle
sue diverse stratificazioni. Dalla parte dell'ascoltatore, per
esempio, entrare nella sala da concerto significa disporsi in
un'attitudine di ascolto completamente diversa da quella della
vita quotidiana. Anche nella vita quotidiana ci sono i suoni,
anzi il nostro mondo è avvolto di suoni più di quanto non lo sia
una sala da concerto; tuttavia i suoni della quotidianità
richiamano la nostra attenzione solo in quanto sono segnali di
qualche cosa. Io sento il suono e cerco la cosa che l'ha
prodotta, sento il trillo e rispondo al telefono, sento il
clacson dell'automobile che mi sta dietro e mi rendo conto che
devo ripartire. Sento voci dall'appartamento accanto e capisco
che i miei vicini sono rientrati, sento un martello pneumatico e
penso che giù in strada siano cominciati dei lavori. Il suono
risulta per così dire incollato alla cosa che lo ha prodotto e
io lo colgo soprattutto come segnale di una cosa materiale o
tutt'al più come istruzione di un'operazione che devo compiere.
Ebbene, nel momento in cui entro nella sala da concerto, tutto
ciò, il mondo degli oggetti, viene per così dire messo tra
parentesi, entra in una zona d'ombra rispetto alla mia
attenzione. E io posso concentrarmi sui suoni in quanto tali,
sul loro disporsi secondo forme e geometrie che non hanno nulla
a che fare con le fonti e i materiali che li hanno prodotti. Che
importanza ha sapere che in questa orchestra i corni stanno a
destra o a sinistra o che l'oboista è un signore di mezza età? E
allo stesso modo anche il pubblico e la sala entrano in una zona
d'ombra della mia attenzione [4]
.
Altro tema di grande interesse è
quello della memoria. Memoria è un termine vasto, al cui interno
possiamo individuare almeno due facoltà distinte. C'è,
innanzitutto, una memoria che potremmo difinire esterna
al brano musicale ed è la memoria dell'ascoltatore, il suo
archivio personale, una sorta di garzantina sempre a
portata di mano, frutto delle letture che l'ascoltatore ha
fatto, delle sollecitazioni che ha ricevuto, delle sue
consuetudini e delle esperienze che ha nei confronti di quella
musica, di quel determinato stile o linguaggio musicale. Questo
sistema di conoscenze è sempre "a portata di mano" (at the
hand) e io posso attingervi attraverso un atto memorativo
consapevole. Per esempio, nel momento in cui mi accingo ad
ascoltare un minuetto di Haydn che non ho mai ascoltato prima,
io, ascoltatore acculturato, frequentatore abituale di concerti
e sinfonie, metterò in opera il mio sistema di conoscenze. E in
base a questo mi aspetterò un brano strutturato in un certo
modo, con una parte A subito ritornellata, cui seguirà una parte
B, anch'essa ripetuta da capo a fondo. Mi aspetto anche che ad A
+ B seguirà una sorta di appendice, comunemente denominato Trio,
in una tonalità imparentata con quella del minuetto, e così via.
Il secondo tipo di memoria è
quello che potremmo definire interno al brano, ed è una
memoria inconscia o passiva, come avrebbe detto il maestro di
Schutz, Husserl. Qui non devo sforzarmi di ricordare alcunché:
sono piuttosto i materiali percettivi che, in virtù di come sono
fatti, si depositano nella mia coscienza per poi richiamarsi
all'interno del brano, formando rimandi e costituendo, in questo
modo, ciò che propriamente è la forma del brano musicale. Un
certo tratto musicale (un inciso melodico, un disegno ritmico,
un colore timbrico, un intervallo, ecc.) a un certo punto
dell'ascolto ridesta inconsciamente qualcosa di analogo che
dall'inizio di quel brano si era depositato da qualche parte
nella mia memoria "passiva". È un po' ciò che succede quando un
volto che compare tra la folla mi fa dire improvvisamente
"quella persona l'ho già vista". Si stabilisce, cioè, un legame,
una sorta di ponte tra la percezione presente e una dato
precedentemente esperito che, in quel momento e sotto quella
determinata sollecitazione, torna alla memoria. Se noi riusciamo
a seguire un brano musicale nel suo svolgersi, a trovarvi un
senso, è innanzitutto in virtù di questo tipo di memoria.
Questo, schematicamente, per
quanto riguarda l'ascoltatore.
Ma dalla parte dell'interprete,
che cosa succede? L'interprete ha davanti a sé un leggio con la
partitura, ossia un foglio di carta con sopra alcuni segni che
dovrà interpretare (veri geroglifici per chi non sa
decifrarli!). Leggere quei segni non è altro che avere la
capacità di disciogliere nel flusso temporale un oggetto di per
sé atemporale - il progetto del compositore, ora "rappreso"
nella partitura - e di renderlo disponibile per l'ascoltatore
nel presente vivido dell'ascolto. Questa decifrazione della
partitura, a sua volta, richiede complesse mediazioni culturali.
Necessita cioè di un apprendimento tramandato da una scuola,
alle spalle della quale c'è poi l'intera società, con i propri
valori e il proprio sapere "socialmente derivato e socialmente
approvato", per usare l'espressione dello Schutz "sociologo",
che anche qui ci ha dato analisi illuminanti.
Dunque, la situazione del
concerto rivela intrecci sociali decisamente interessanti. E,
tuttavia, lo Schutz filosofo sente l'esigenza di spingersi
oltre. Avevamo detto, in apertura, che il nostro è un autore
sensibilmente attratto dalla tematica dei fondamenti. E forse
ora siamo in grado di capire perché Schutz, pur non essendo un
"filosofo della musica", abbia sviluppato questa attenzione
filosofica per la musica. La ragione risiede nel fatto che la
musica per Schutz sembra esibire in maniera veramente esemplare
la situazione originaria (paramount situation) di
qualunque processo comunicativo: se vogliamo sapere che cosa sta
alla base di un processo comunicativo, sembra dirci Schutz,
prima ancora che rivolgerci al linguaggio e ai processi
comunicativi già linguisticamente strutturati, è alla musica che
dobbiamo indirizzarci per cercare di comprendere che cosa
succede durante l'esecuzione di un brano, quando gli "attori"
precedentemente ricordati - l'interprete, l'ascoltatore, ma
anche il compositore, non dimentichiamolo - "convengono" nella
sala da concerto. Lì, forse, nel momento dell'esecuzione/ascolto
troveremo il pre-requisito, l'a priori di qualunque processo
comunicativo. Perché si dia comunicazione, continua Schutz, è
necessario innanzitutto che ci sia una comunità di persone che
condividono uno spazio e un tempo, proprio come noi qui
in questo momento, mentre io vi sto parlando e voi mi ascoltate.
"Face to face" è l'espressione che Schutz prende in prestito
dalla coeva sociologia americana per indicare questo rapporto di
compresenza e di condivisione di uno spazio. E questo "face to
face" va assunto in senso forte, proprio un trovarsi faccia a
faccia, non una presenza "virtuale" di quelle alle quali
siamo ormai abituati attraverso gli attuali mezzi di
comunicazione. La situazione muterebbe se queste stesse parole
se fossero lette, vi sarebbe allora una situazione che Schutz
definisce una "quasi-simultaneità", come vedremo poi, cioè una
situazione derivata, come quella che si ha all'ascolto di un
disco. Oltre a "face to face" Schutz usa l'espressione "grow
together", invecchiare insieme, secondo me molto efficace. Una
comunità di persone è dunque veramente tale, e non un insieme di
"Io" irrelati, solo quando "condivide uno spazio" e "invecchia
insieme": questa è la situazione originaria di qualunque
processo comunicativo. Tutto il resto è derivato; ecco perché
Schutz prende le distanze da quei tentativi che tendono a porre
il linguaggio come situazione paradigmatica di comunicazione,
che si tratti di lingue vere e proprie o del linguaggio dei
gesti. Il linguaggio, sembra rispondere Schutz, appartiene a un
momento successivo, già categorialmente strutturato: è
necessario invece poter retrocedere a una situazione più
originaria e la musica - non dimentichiamolo mai: nel momento
vivido in cui viene eseguita e ascoltata - è quanto di più
prossimo abbiamo a questa situazione originaria.
La condivisione di uno spazio e
di un tempo comuni è dunque la condizione a priori di
ogni comunicazione. E con questo siamo giunti a cogliere la
centralità del tempo, il vero nucleo di questa nostra serata.
Ora, se noi cerchiamo di interrogarci sulla natura del tempo,
senza porci tutti quei problemi che ai filosofi hanno procurato
veri e propri crampi mentali, la prima cosa che ci viene in
mente probabilmente è che il tempo è una cosa che "passa" e che
si "misura": che si tratti di una misurazione approssimativa o
raffinata, fatta con orologi a lancette o digitali o osservando
il moto degli astri, il tempo è comunque uno scorrere misurabile
e quindi suddivisibile. Ebbene, risponde Schutz, questa idea di
tempo che così bene si accorda con il nostro senso pratico è ciò
che un filosofo come Bergson, altro maestro di pensiero
riconosciuto da Schutz, definiva tempo "esterno" o
"spazializzato". È, appunto, il tempo degli orologi,
indubbiamente utile per il funzionamento della nostra vita: è
grazie a questo tempo, per esempio, che noi oggi ci siamo
ritrovati qui più o meno "alla stessa ora" ed è in virtù di
questo tempo che funzionano le fabbriche, gli uffici e le
scuole, che partono i treni e gli aerei. Riconosciuta l'utilità
dello "standard social time", senza il quale non ci sarebbe
neppure la possibilità di una qualsivoglia organizzazione
sociale, non dobbiamo però cadere nell'errore di concludere che
questo sia il tempo nella sua natura originaria. Essa va
piuttosto cercata nella durata interiore, quella che Bergson
definiva la durée. La durée è la dimensione
autentica del tempo, che non è fatta di misurabilità e non è
percepita come somma infinita di istanti che si collocano uno
accanto all'altro come perle di una collana. Al contrario,
l'esperienza del tempo si dà innanzitutto nella durata, nella
quale io colgo il fenomeno come un un unico flusso. Solo
successivamente, nel momento dell'analisi, si dà la possibilità
di "spezzettare" questo unico flusso unitario, appunto di
analizzarlo e studiarlo. Il paradosso della freccia di Zenone,
che Schutz riprende e discute a questo proposito, si fonda
proprio sull'indebita sovrapposizione dei due piani: quello
dell'esperienza, in cui io colgo il movimento della freccia come
un qualcosa di unitario dal momento in cui essa parte fino a
quando coglie il bersaglio, e quello dell'analisi, che mi
consente di "fermare" col pensiero la freccia in volo e di
chiedermi: quale posizione occupa ora la freccia? O come dice la
fisica: in quale punto p si trova la freccia nell'istante
t ? Di qui, appunto, la conclusione paradossale: non è
possibile, sommando una serie di posizioni statiche della
freccia, ottenere il movimento della stessa.
Ebbene, la musica ha a che fare
eminentemente con il tempo interno, anzi, per usare le parole
del nostro autore "il tempo interno, la durée, è la forma
vera e propria di esistenza della musica" [5].
Anche sulla musica, ovviamente, posso condurre un'analisi,
isolando i temi e le loro articolazioni interne in periodi,
frasi, semifrasi, ecc. Ma tutto ciò appartiene al momento
dell'analisi, che interviene a posteriori, a cose avvenute,
proprio come nel paradosso di Zenone. Allo stesso modo, posso
misurare la durata, e chiedermi appunto "quanto dura" un
determinato brano (cosa che interessa chi lavora alla radio,
come me, per esempio); ma in questo modo ci stacchiamo
dall'esperienza originaria della durata, che non è né percezione
di istanti che poi vanno a sommarsi, né misurazione.
L'esperienza della durata è, appunto, percezione di un flusso
ininterrotto e unitario. Nell'ascolto di un brano musicale noi
siamo interamente immersi nella dimensione del tempo interno,
nella durée, mentre nel momento in cui decidiamo di
misurare quello stesso brano, noi entriamo nella dimensione del
tempo esterno o misurabile o spazializzato. Tutti noi abbiamo
ben presente il senso di imbarazzo e impreparazione che coglie
un musicista alla domanda "quanto dura quel brano?" E questo
perché i musicisti hanno ben chiara la percezione della durata
in termini di tempo interno, ma non hanno mai preso in mano
l'orologio per "misurare" effettivamente la lunghezza del brano,
almeno fintantoché qualcuno, per esempio un organizzatore di
concerti o un programmista radiofonico, non glielo abbia chiesto
esplicitamente. Schutz vuole essere particolarmente chiaro su
questo punto e introduce alcune osservazioni di carattere
psicologico per spiegarci come le due dimensioni, tempo interno
e tempo esterno, siano tra loro incommensurabili. Il fenomeno
dell'attesa fornisce un esempio illuminante di tutto ciò: la
stessa quantità di tempo esterno può sembrarci
un'eternità se l'abbiamo trascorsa in un ospedale, aspettando
l'esito dell'operazione di una persona cara, o volata via in un
attimo se l'abbiamo trascorsa piacevolmente con un amico. Eppure
il tempo esterno, quello degli orologi, ci dice che in entrambi
i casi è trascorsa esattamente la stessa quantità di tempo.
Ora - e qui ci avviciniamo a un
nodo veramente importante - se ci fermassimo a questa fase del
discorso, cioè al tempo nella sua autentica e originaria
dimensione di durata interiore, approderemmo inevitabilmente a
un esito solipsistico: ogni individuo ha la propria percezione
di durata, e questa, come abbiamo visto, è per sua natura
incommensurabile e incomunicabile. Ognuno di noi, potremmo anche
dire parafrasando il poeta, si trova inchiodato e "trafitto"
dalla propria durée. Ebbene la musica è invece, secondo
Schutz, ciò che consente alle singole durate interiori di
raccogliersi intorno a un evento comune, di "sincronizzarsi",
per così dire, uscendo in questo modo dal solipsismo. Se ora
torniamo brevemente a quello che avevamo detto sulle figure
dell'esecutore e dell'ascoltatore e aggiungiamo la terza figura
importante - non l'abbiamo citata prima perché spesso non è
presente, anche per motivi anagrafici, al concerto - che è
quella dell'autore, vediamo che questo rapporto a tre lo
possiamo ora esplicitare meglio con le riflessioni appena
compiute. L'autore è colui che ha concepito il brano, cioè è il
primo che lo ha "vissuto" nella dimensione del tempo interno.
Sucessivamente, come abbiamo visto, attraverso i mezzi che gli
ha insegnato la sua cultura, ha consegnato questa creazione del
tempo interno a una partitura. L'esecutore, a sua volta, ha
ridato vita temporale a quei segni, cioè ha preso quel progetto,
temporaneamente "congelato", e lo ha sciolto nuovamente nel
presente vivido dell'esecuzione, rendendolo così disponibile per
l'ascoltatore, anzi per la comunità degli ascoltatori che, in
questo modo, rivivono lo stesso senso di durata, la durée,
il tempo interno che era stato quello dell'autore. Come abbiamo
accennato poc'anzi, tra l'esecutore e l'ascoltatore si
stabilisce un rapporto di simultaneità, mentre tra queste
due figure e il compositore si stabilisce un rapporto di
quasi simultaneità, per il fatto che il compositore non è
presente; e, tuttavia, tutte le fasi dello sviluppo interiore,
della freccia - per usare nuovamente l'immagine e la metafora di
prima - sono state rivissute: la musica significa essenzialmente
rivivere un flusso, rivivere una "durée", rivivere un'esperienza
del tempo interno. Il miracolo che riesce alla musica, prima
ancora che ad altre forme di comunicazione, è quello di
"sincronizzare" tante durate interiori, che per loro definizione
sarebbero appunto incomunicabili. Per dirlo con le parole
dell'autore
"Sebbene separato da
centinaia di anni, quest'ultimo (cioè l'ascoltatore) partecipa
con quasi simultaneità al flusso di coscienza del primo (il
compositore), eseguendo con lui, passo dopo passo e mentre si
compie, l'articolazione del suo pensiero musicale. Lo
spettatore, in questo modo, si trova unito al compositore da una
dimensione temporale comune a entrambi, che non è altro che una
forma derivata del presente vivido condiviso dai partners di
un'autentica relazione faccia a faccia (face to face),
quale si instaura tra chi parla e chi ascolta" [6]
.
E poco oltre, parlando appunto di
questa relazione di mutua sintonia, Schutz dice:
"Abbiamo pertanto la
seguente situazione: due serie di eventi del tempo interno, una
appartenente al flusso di coscienza del compositore, l'altra al
flusso di coscienza dello spettatore, sono vissuti in
simultaneità, simultaneità che viene creata attraverso il flusso
in svolgimento del processo musicale. (...) Questa condivisione
dell'altrui flusso di esperienza nel tempo interno, questo
vivere in comune nel presente vivido, costituisce ciò che
abbiamo chiamato relazione di mutua sintonia, l'esperienza del
"Noi", che sta a fondamento di ogni possibile comunicazione." [7]
Dopo questa introduzione, abbiamo gli
elementi per affrontare finalmente il tema Mozart e i
filosofi. Diciamo subito che l'attenzione di Schutz si
concentra eminentemente sul teatro di Mozart, perché è proprio
qui che Mozart è in grado di insegnare qualcosa ai filosofi. Non
certamente da un punto di vista "dottrinario", ché, anzi, le
letture filosofiche di Mozart dovettero essere ben poca cosa ma,
come accennavo in apertura, in quanto musicista. Il teatro, e
quello musicale in particolare, attrae molto l'attenzione di
Schutz perché in genere il teatro funziona attraverso
l'esibizione di una serie di situazioni che a loro volta "sono
soltanto occasioni tipizzate per consentire l'esibizione di
atteggiamenti tipici da parte dei personaggi" [8].
Le situazioni in cui posso trovarmi quotidianamente sono per
Schutz riconducibili a un certo numero di tipi (ecco
perché il nostro autore parla di "occasioni tipizzate") e il
teatro le usa per costruirvi sopra le proprie trame. Sono
situazioni sociali dotate di un certo tasso di
intersoggettività, situazioni, cioè, in cui la reazione di
ciascun soggetto determina a sua volta reazioni negli altri
soggetti, che a loro volta produrranno nuovi effetti, e così
via. Se nell'opera italiana coeva a Mozart questa tipizzazione
raggiunge il suo massimo di convenzionalità, con personaggi e
intrecci ampiamente codificati "nelle mani di Mozart anche una
situazione tipizzata diventa unica e concreta, individuale e
atipica grazie al significato particolare che essa ha per
ciascuno dei personaggi che vi partecipano". E questa, prosegue
Schutz, è precisamente la condizione in cui ciascuno di noi si
trova nella vita di tutti i giorni:
"Io sono sempre coinvolto
in una situazione che - per usare un termine della sociologia
moderna - devo definire e che, a dispetto della sua tipicità, ha
per me e per ciascuno dei miei simili un significato unico e
particolare. Le mie interrelazioni con i miei simili, le loro
interpretazioni della mia situazione e la mia delle loro
codeterminano il significato che questa situazione ha per me.
Questa complicata trama di significati è costitutiva della
nostra esperienza del mondo sociale. Si potrebbe correttamente
dire che l'arte drammatica di Mozart è piuttosto una
rappresentazione della struttura fondamentale del mondo sociale
che un'imitazione della natura. Attraverso mezzi puramente
musicali egli non solo illumina dall'interno il significato nei
termini del quale ognuno dei personaggi in scena definisce la
situazione, ma riesce anche a far partecipare noi spettatori a
questo processo". [9]
L'arte non è imitazione della natura, e
qui il bersaglio è evidentemente Rousseau, a meno che per natura
non si intenda quella particolare "natura" che è l'essere
sociale dell'uomo; ma allora la musica non sarà l'imitazione di
sentimenti "naturali", quanto piuttosto l'esplorazione
dell'essere sociale dell'uomo. Ma quali sono questi "mezzi
puramente musicali" cui fa riferimento Schutz? Fondamentalmente
tre. Innanzitutto, un uso originale del recitativo ("Mozart
applica spesso una tecnica particolare per condurre
l'ascoltatore dalla regione crepuscolare del recitativo fino
alla profondità della durée" [10]).
In secondo luogo, l'assegnazione di un ruolo ancor più
innovativo all'orchestra, che svolge una doppia funzione:
"Da un lato essa separa la
realtà del mondo della scena dalla realtà della vita quotidiana,
che è quella dello spettatore in platea; dall'altro, amalgama il
flusso della durée interna dell'ascoltatore con gli
eventi interni dei personaggi sulla scena in un singolo flusso
unificato del processo musicale in svolgimento". [11]
Questo passo è di particolare importanza
perché coglie in pieno la capacità della musica di porsi come
mezzo di sincronizzazione (Schutz parla di capacità di
amalgamare) di diversi flussi interni di durée, quelli
dei personaggi tra loro e quelli tra i personaggi da una parte e
l'ascoltatore dall'altra. Infine, e più importante, vi è il
trattamento dei concertati. Qui Mozart, staccandosi nettamente
dai suoi contemporanei, riesce veramente a creare nelle sue
opere "una comunità intersoggettiva tra le varie dramatis
personae" [12].
Il teatro d'opera ha, rispetto alla vita comune e allo stesso
teatro di prosa, il privilegio di poter far "parlare" in
simultaneità diverse persone, senza che questo determini un
guazzabuglio incomprensibile. Ebbene, dice Schutz, nei suoi
concertati Mozart fa qualcosa di più:
"egli usa questo mezzo
specifico dell'opera musicale per presentare nell'immediatezza
le relazioni intersoggettive in cui i suoi personaggi si trovano
implicati. Nonostante la loro reazione differenziata rispetto
alla situazione comune, nonostante le loro caratteritiche
individuali, esse fanno insieme, sentono insieme, vogliono
insieme come una comunità, come un Noi. Ciò non significa,
ovviamente, che essi fanno, sentono o vogliono la stessa cosa, o
con uguale intensità. Al contrario, concertati come quello che
possiamo ammirare nel finale primo di Figaro mostrano
chiaramente diversi raggruppamenti di personae, sia in
rapporto di cooperazione, sia di antagonismo. Cionondimeno,
anche nell'antagonismo essi si trovano legati in una situazione
intersoggettiva di comunità, in un Noi". [13]
Proprio come Guglielmo che, nel
finale del Così fan tutte, sembra per un momento
dissociarsi dall'atmosfera di generale gaiezza per il matrimonio
appena celebrato e mentre gli altri tre, sorretti da
un'orchestra seducente e melliflua, intonano:
E nel tuo, nel mio bicchiero
Si sommerga ogni pensiero,
E non resti più memoria
Del passato ai nostri cor.
Guglielmo, dicevo, tra sè,
contrappunta a più riprese
Ah, bevessero del tossico,
Queste volpi senza onor!
Prima di lasciarvi, permettetemi
un'ultima citazione da Schutz, che vorrei porre a suggello di
questa nostra serata.
"Ritengo che l'argomento
principale di Mozart non sia, come credeva Cohen, l'amore. È,
piuttosto, il mistero metafisico dell'esistenza di un universo
umano di pura socialità, l'esplorazione delle molteplici forme
in cui l'uomo incontra il suo simile e lo conosce. L'incontro
dell'uomo con l'uomo all'interno di un mondo umano è la cosa che
più interessa a Mozart. Questo spiega l'umanità perfetta della
sua arte. Il suo mondo rimane il mondo umano anche se vi irrompe
il trascendente. Il regno del sacro nel Flauto magico o
gli eventi sovrannaturali nel Don Giovanni appartengono
essi stessi al mondo umano. Essi rivelano il posto dell'uomo
nell'universo in quanto esperito in termini umani". [14]
Nicola Pedone