Nicola Pedone
"Ah, bevessero del tossico..."
Mozart e i filosofi

Testo di una conferenza tenuta a Brescia, Teatro Sancarlino, in data 30 gennaio 2001 presso l'Associazione Mozart Italia - Brescia.
Si ringrazia l'Associazione per l'autorizzazione alla pubblicazione.

Il titolo scelto per l'incontro di questa sera mette scherzosamente in relazione un verso tratto dal secondo atto del Così fan tutte, con un saggio di Alfred Schutz, filosofo austriaco e teorico delle scienze sociali, successivamente naturalizzato americano, con il quale dovremo familiarizzare tra poco. Leggendo di seguito le due cose Ah, bevessero del tossico... Mozart e i filosofi, sembra quasi che Mozart abbia voluto augurare, o malaugurare, ai filosofi di avvelenarsi. Evidentemente le cose non stanno così; si tratta, come abbiamo detto, di un accostamento scherzoso il cui scopo è quello di introdurci con leggerezza, come sarebbe piaciuto a Mozart, nell'argomento della serata.

Volendo anticipare in poche parole, a mo' di guida in questo incontro, il pensiero di Schutz al riguardo, diciamo che l'intento dell'autore è quello di dimostrare in che modo Mozart abbia affrontato e risolto da musicista, dunque con mezzi prettamente musicali, un problema che ha impegnato i filosofi nel corso dei secoli: il legame tra musica e tempo e, sullo sfondo di questo, i grandi temi della comunicazione e dell'intersoggettività. L'opinione di Schutz - non dimentichiamolo, un filosofo - è che Mozart nel risolvere questi problemi sia stato addirittura più brillante dei filosofi stessi.

Ma procediamo con ordine, cercando innanzitutto di avvicinarci a un autore che, al di là di ambienti specialistici, non è forse molto noto in Italia. Alfred Schutz (in origine il nome era Schütz, con l'Umlaut) nasce a Vienna nel 1899. La sua formazione è improntata a studi economici, giuridici e sociali - campi in cui allora era dominante la figura di Max Weber - ma altrettanto forte, anzi irresistibile, si rivela presto l'attrazione verso la filosofia. Schutz entra così nella cerchia di Husserl, il grande filosofo fondatore della fenomenologia, e ne diventa un allievo promettente, tra i più amati dal maestro. L'opera fondamentale di questo periodo è Fenomenologia del mondo sociale [1] , del 1932, un'opera ponderosa, molto "tedesca" nel suo impianto e nella sua aspirazione sistematica. Il tentativo di Schutz è qui quello di applicare gli insegnamenti della fenomenologia husserliana allo studio del mondo sociale, di trovare cioè i "fondamenti" filosofici delle scienze sociali, secondo un'esigenza culturale che all'inizio del Novecento aveva investito diverse branche del sapere scientifico. Ma oltre al progetto di fondazione filosofica del sapere, c'è un'altra cosa che accomuna Schutz al destino di molti intellettuali europei ed è l'avversione al nazismo. Così, lasciata l'Austria asservita al Terzo Reich, il nostro autore ripara a Parigi nel 1938 e l'anno successivo negli Stati Uniti, dove si stabilirà definitivamente, acquistando la cittadinanza americana e modificando il cognome in Schutz. New York sarà la sua nuova città e qui insegnerà presso la New School for Social Research fino all'anno della morte, avvenuta nel 1959. Negli Stati Uniti si apre la seconda fase della produzione filosofica di Schutz, direttamente in lingua inglese. Se soprattutto Weber e Husserl erano stati i suoi riferimenti culturali in Europa, ora sono la sociologia americana e il pragmatismo di James e Mead ad influenzare il suo pensiero.

Che cosa interessa a Schutz della musica? Perché, a un certo punto, un teorico delle scienze sociali con pretese di fondazione filosofica si accosta alla musica? Va detto subito che Schutz non è un filosofo della musica in senso stretto, cioè non fa della musica l'argomento centrale del suo pensiero. Gli interessi documentati di Schutz per la musica appartengono al periodo americano e sono contenuti in tre brevi scritti [2] , quantitativamente marginali rispetto all'intero corpus, ma molto importanti per il contenuto. Il primo è un manoscritto datato 1944, pubblicato molto più tardi, nel 1976, dalla rivista Music and Man con il titolo di Fragments on the Phenomenology of Music. Gli altri due sono Making Music Together e Mozart and the Philosophers, rispettivamente del 1951 e del 1956 e si trovano nel secondo volume dei Collected Papers [3] . I Fragments, come suggerisce il termine dovuto al curatore F. Kersten, sono le bozze di un lavoro teorico sistematico mai portato a termine. Il suo contenuto è in parte confluito in Making Music Together (Fare musica insieme nella traduzione italiana, cfr. n. 2), mentre la data di Mozart and the Philosophers (Mozart e i filosofi) fa pensare che il saggio sia stato scritto in occasione del secondo centenario della nascita del musicista.

Se vogliamo cogliere alcuni tratti essenziali del pensiero di Schutz a riguardo della musica è ai Frammenti e a Fare musica insieme che dobbiamo rivolgerci, lavori senz'altro di maggior respiro teorico. Innanzitutto, dobbiamo osservare che Schutz - e qui forse è il sociologo che lavora - pensa alla musica non in termini astratti, ma partendo proprio dalla situazione "concreta" del concerto, con il pubblico da una parte e gli interpreti dall'altra. Per quanto questa situazione mi possa sembrare familiare, dice Schutz, essa è un esempio di interazione sociale estremamente complessa, che si presta ad essere analizzata nelle sue diverse stratificazioni. Dalla parte dell'ascoltatore, per esempio, entrare nella sala da concerto significa disporsi in un'attitudine di ascolto completamente diversa da quella della vita quotidiana. Anche nella vita quotidiana ci sono i suoni, anzi il nostro mondo è avvolto di suoni più di quanto non lo sia una sala da concerto; tuttavia i suoni della quotidianità richiamano la nostra attenzione solo in quanto sono segnali di qualche cosa. Io sento il suono e cerco la cosa che l'ha prodotta, sento il trillo e rispondo al telefono, sento il clacson dell'automobile che mi sta dietro e mi rendo conto che devo ripartire. Sento voci dall'appartamento accanto e capisco che i miei vicini sono rientrati, sento un martello pneumatico e penso che giù in strada siano cominciati dei lavori. Il suono risulta per così dire incollato alla cosa che lo ha prodotto e io lo colgo soprattutto come segnale di una cosa materiale o tutt'al più come istruzione di un'operazione che devo compiere. Ebbene, nel momento in cui entro nella sala da concerto, tutto ciò, il mondo degli oggetti, viene per così dire messo tra parentesi, entra in una zona d'ombra rispetto alla mia attenzione. E io posso concentrarmi sui suoni in quanto tali, sul loro disporsi secondo forme e geometrie che non hanno nulla a che fare con le fonti e i materiali che li hanno prodotti. Che importanza ha sapere che in questa orchestra i corni stanno a destra o a sinistra o che l'oboista è un signore di mezza età? E allo stesso modo anche il pubblico e la sala entrano in una zona d'ombra della mia attenzione [4] .

Altro tema di grande interesse è quello della memoria. Memoria è un termine vasto, al cui interno possiamo individuare almeno due facoltà distinte. C'è, innanzitutto, una memoria che potremmo difinire esterna al brano musicale ed è la memoria dell'ascoltatore, il suo archivio personale, una sorta di garzantina sempre a portata di mano, frutto delle letture che l'ascoltatore ha fatto, delle sollecitazioni che ha ricevuto, delle sue consuetudini e delle esperienze che ha nei confronti di quella musica, di quel determinato stile o linguaggio musicale. Questo sistema di conoscenze è sempre "a portata di mano" (at the hand) e io posso attingervi attraverso un atto memorativo consapevole. Per esempio, nel momento in cui mi accingo ad ascoltare un minuetto di Haydn che non ho mai ascoltato prima, io, ascoltatore acculturato, frequentatore abituale di concerti e sinfonie, metterò in opera il mio sistema di conoscenze. E in base a questo mi aspetterò un brano strutturato in un certo modo, con una parte A subito ritornellata, cui seguirà una parte B, anch'essa ripetuta da capo a fondo. Mi aspetto anche che ad A + B seguirà una sorta di appendice, comunemente denominato Trio, in una tonalità imparentata con quella del minuetto, e così via.

Il secondo tipo di memoria è quello che potremmo definire interno al brano, ed è una memoria inconscia o passiva, come avrebbe detto il maestro di Schutz, Husserl. Qui non devo sforzarmi di ricordare alcunché: sono piuttosto i materiali percettivi che, in virtù di come sono fatti, si depositano nella mia coscienza per poi richiamarsi all'interno del brano, formando rimandi e costituendo, in questo modo, ciò che propriamente è la forma del brano musicale. Un certo tratto musicale (un inciso melodico, un disegno ritmico, un colore timbrico, un intervallo, ecc.) a un certo punto dell'ascolto ridesta inconsciamente qualcosa di analogo che dall'inizio di quel brano si era depositato da qualche parte nella mia memoria "passiva". È un po' ciò che succede quando un volto che compare tra la folla mi fa dire improvvisamente "quella persona l'ho già vista". Si stabilisce, cioè, un legame, una sorta di ponte tra la percezione presente e una dato precedentemente esperito che, in quel momento e sotto quella determinata sollecitazione, torna alla memoria. Se noi riusciamo a seguire un brano musicale nel suo svolgersi, a trovarvi un senso, è innanzitutto in virtù di questo tipo di memoria.

Questo, schematicamente, per quanto riguarda l'ascoltatore.

Ma dalla parte dell'interprete, che cosa succede? L'interprete ha davanti a sé un leggio con la partitura, ossia un foglio di carta con sopra alcuni segni che dovrà interpretare (veri geroglifici per chi non sa decifrarli!). Leggere quei segni non è altro che avere la capacità di disciogliere nel flusso temporale un oggetto di per sé atemporale - il progetto del compositore, ora "rappreso" nella partitura - e di renderlo disponibile per l'ascoltatore nel presente vivido dell'ascolto. Questa decifrazione della partitura, a sua volta, richiede complesse mediazioni culturali. Necessita cioè di un apprendimento tramandato da una scuola, alle spalle della quale c'è poi l'intera società, con i propri valori e il proprio sapere "socialmente derivato e socialmente approvato", per usare l'espressione dello Schutz "sociologo", che anche qui ci ha dato analisi illuminanti.

Dunque, la situazione del concerto rivela intrecci sociali decisamente interessanti. E, tuttavia, lo Schutz filosofo sente l'esigenza di spingersi oltre. Avevamo detto, in apertura, che il nostro è un autore sensibilmente attratto dalla tematica dei fondamenti. E forse ora siamo in grado di capire perché Schutz, pur non essendo un "filosofo della musica", abbia sviluppato questa attenzione filosofica per la musica. La ragione risiede nel fatto che la musica per Schutz sembra esibire in maniera veramente esemplare la situazione originaria (paramount situation) di qualunque processo comunicativo: se vogliamo sapere che cosa sta alla base di un processo comunicativo, sembra dirci Schutz, prima ancora che rivolgerci al linguaggio e ai processi comunicativi già linguisticamente strutturati, è alla musica che dobbiamo indirizzarci per cercare di comprendere che cosa succede durante l'esecuzione di un brano, quando gli "attori" precedentemente ricordati - l'interprete, l'ascoltatore, ma anche il compositore, non dimentichiamolo - "convengono" nella sala da concerto. Lì, forse, nel momento dell'esecuzione/ascolto troveremo il pre-requisito, l'a priori di qualunque processo comunicativo. Perché si dia comunicazione, continua Schutz, è necessario innanzitutto che ci sia una comunità di persone che condividono uno spazio e un tempo, proprio come noi qui in questo momento, mentre io vi sto parlando e voi mi ascoltate. "Face to face" è l'espressione che Schutz prende in prestito dalla coeva sociologia americana per indicare questo rapporto di compresenza e di condivisione di uno spazio. E questo "face to face" va assunto in senso forte, proprio un trovarsi faccia a faccia, non una presenza "virtuale" di quelle alle quali siamo ormai abituati attraverso gli attuali mezzi di comunicazione. La situazione muterebbe se queste stesse parole se fossero lette, vi sarebbe allora una situazione che Schutz definisce una "quasi-simultaneità", come vedremo poi, cioè una situazione derivata, come quella che si ha all'ascolto di un disco. Oltre a "face to face" Schutz usa l'espressione "grow together", invecchiare insieme, secondo me molto efficace. Una comunità di persone è dunque veramente tale, e non un insieme di "Io" irrelati, solo quando "condivide uno spazio" e "invecchia insieme": questa è la situazione originaria di qualunque processo comunicativo. Tutto il resto è derivato; ecco perché Schutz prende le distanze da quei tentativi che tendono a porre il linguaggio come situazione paradigmatica di comunicazione, che si tratti di lingue vere e proprie o del linguaggio dei gesti. Il linguaggio, sembra rispondere Schutz, appartiene a un momento successivo, già categorialmente strutturato: è necessario invece poter retrocedere a una situazione più originaria e la musica - non dimentichiamolo mai: nel momento vivido in cui viene eseguita e ascoltata - è quanto di più prossimo abbiamo a questa situazione originaria.

La condivisione di uno spazio e di un tempo comuni è dunque la condizione a priori di ogni comunicazione. E con questo siamo giunti a cogliere la centralità del tempo, il vero nucleo di questa nostra serata. Ora, se noi cerchiamo di interrogarci sulla natura del tempo, senza porci tutti quei problemi che ai filosofi hanno procurato veri e propri crampi mentali, la prima cosa che ci viene in mente probabilmente è che il tempo è una cosa che "passa" e che si "misura": che si tratti di una misurazione approssimativa o raffinata, fatta con orologi a lancette o digitali o osservando il moto degli astri, il tempo è comunque uno scorrere misurabile e quindi suddivisibile. Ebbene, risponde Schutz, questa idea di tempo che così bene si accorda con il nostro senso pratico è ciò che un filosofo come Bergson, altro maestro di pensiero riconosciuto da Schutz, definiva tempo "esterno" o "spazializzato". È, appunto, il tempo degli orologi, indubbiamente utile per il funzionamento della nostra vita: è grazie a questo tempo, per esempio, che noi oggi ci siamo ritrovati qui più o meno "alla stessa ora" ed è in virtù di questo tempo che funzionano le fabbriche, gli uffici e le scuole, che partono i treni e gli aerei. Riconosciuta l'utilità dello "standard social time", senza il quale non ci sarebbe neppure la possibilità di una qualsivoglia organizzazione sociale, non dobbiamo però cadere nell'errore di concludere che questo sia il tempo nella sua natura originaria. Essa va piuttosto cercata nella durata interiore, quella che Bergson definiva la durée. La durée è la dimensione autentica del tempo, che non è fatta di misurabilità e non è percepita come somma infinita di istanti che si collocano uno accanto all'altro come perle di una collana. Al contrario, l'esperienza del tempo si dà innanzitutto nella durata, nella quale io colgo il fenomeno come un un unico flusso. Solo successivamente, nel momento dell'analisi, si dà la possibilità di "spezzettare" questo unico flusso unitario, appunto di analizzarlo e studiarlo. Il paradosso della freccia di Zenone, che Schutz riprende e discute a questo proposito, si fonda proprio sull'indebita sovrapposizione dei due piani: quello dell'esperienza, in cui io colgo il movimento della freccia come un qualcosa di unitario dal momento in cui essa parte fino a quando coglie il bersaglio, e quello dell'analisi, che mi consente di "fermare" col pensiero la freccia in volo e di chiedermi: quale posizione occupa ora la freccia? O come dice la fisica: in quale punto p si trova la freccia nell'istante t ? Di qui, appunto, la conclusione paradossale: non è possibile, sommando una serie di posizioni statiche della freccia, ottenere il movimento della stessa.

Ebbene, la musica ha a che fare eminentemente con il tempo interno, anzi, per usare le parole del nostro autore "il tempo interno, la durée, è la forma vera e propria di esistenza della musica" [5]. Anche sulla musica, ovviamente, posso condurre un'analisi, isolando i temi e le loro articolazioni interne in periodi, frasi, semifrasi, ecc. Ma tutto ciò appartiene al momento dell'analisi, che interviene a posteriori, a cose avvenute, proprio come nel paradosso di Zenone. Allo stesso modo, posso misurare la durata, e chiedermi appunto "quanto dura" un determinato brano (cosa che interessa chi lavora alla radio, come me, per esempio); ma in questo modo ci stacchiamo dall'esperienza originaria della durata, che non è né percezione di istanti che poi vanno a sommarsi, né misurazione. L'esperienza della durata è, appunto, percezione di un flusso ininterrotto e unitario. Nell'ascolto di un brano musicale noi siamo interamente immersi nella dimensione del tempo interno, nella durée, mentre nel momento in cui decidiamo di misurare quello stesso brano, noi entriamo nella dimensione del tempo esterno o misurabile o spazializzato. Tutti noi abbiamo ben presente il senso di imbarazzo e impreparazione che coglie un musicista alla domanda "quanto dura quel brano?" E questo perché i musicisti hanno ben chiara la percezione della durata in termini di tempo interno, ma non hanno mai preso in mano l'orologio per "misurare" effettivamente la lunghezza del brano, almeno fintantoché qualcuno, per esempio un organizzatore di concerti o un programmista radiofonico, non glielo abbia chiesto esplicitamente. Schutz vuole essere particolarmente chiaro su questo punto e introduce alcune osservazioni di carattere psicologico per spiegarci come le due dimensioni, tempo interno e tempo esterno, siano tra loro incommensurabili. Il fenomeno dell'attesa fornisce un esempio illuminante di tutto ciò: la stessa quantità di tempo esterno può sembrarci un'eternità se l'abbiamo trascorsa in un ospedale, aspettando l'esito dell'operazione di una persona cara, o volata via in un attimo se l'abbiamo trascorsa piacevolmente con un amico. Eppure il tempo esterno, quello degli orologi, ci dice che in entrambi i casi è trascorsa esattamente la stessa quantità di tempo.

Ora - e qui ci avviciniamo a un nodo veramente importante - se ci fermassimo a questa fase del discorso, cioè al tempo nella sua autentica e originaria dimensione di durata interiore, approderemmo inevitabilmente a un esito solipsistico: ogni individuo ha la propria percezione di durata, e questa, come abbiamo visto, è per sua natura incommensurabile e incomunicabile. Ognuno di noi, potremmo anche dire parafrasando il poeta, si trova inchiodato e "trafitto" dalla propria durée. Ebbene la musica è invece, secondo Schutz, ciò che consente alle singole durate interiori di raccogliersi intorno a un evento comune, di "sincronizzarsi", per così dire, uscendo in questo modo dal solipsismo. Se ora torniamo brevemente a quello che avevamo detto sulle figure dell'esecutore e dell'ascoltatore e aggiungiamo la terza figura importante - non l'abbiamo citata prima perché spesso non è presente, anche per motivi anagrafici, al concerto - che è quella dell'autore, vediamo che questo rapporto a tre lo possiamo ora esplicitare meglio con le riflessioni appena compiute. L'autore è colui che ha concepito il brano, cioè è il primo che lo ha "vissuto" nella dimensione del tempo interno. Sucessivamente, come abbiamo visto, attraverso i mezzi che gli ha insegnato la sua cultura, ha consegnato questa creazione del tempo interno a una partitura. L'esecutore, a sua volta, ha ridato vita temporale a quei segni, cioè ha preso quel progetto, temporaneamente "congelato", e lo ha sciolto nuovamente nel presente vivido dell'esecuzione, rendendolo così disponibile per l'ascoltatore, anzi per la comunità degli ascoltatori che, in questo modo, rivivono lo stesso senso di durata, la durée, il tempo interno che era stato quello dell'autore. Come abbiamo accennato poc'anzi, tra l'esecutore e l'ascoltatore si stabilisce un rapporto di simultaneità, mentre tra queste due figure e il compositore si stabilisce un rapporto di quasi simultaneità, per il fatto che il compositore non è presente; e, tuttavia, tutte le fasi dello sviluppo interiore, della freccia - per usare nuovamente l'immagine e la metafora di prima - sono state rivissute: la musica significa essenzialmente rivivere un flusso, rivivere una "durée", rivivere un'esperienza del tempo interno. Il miracolo che riesce alla musica, prima ancora che ad altre forme di comunicazione, è quello di "sincronizzare" tante durate interiori, che per loro definizione sarebbero appunto incomunicabili. Per dirlo con le parole dell'autore

"Sebbene separato da centinaia di anni, quest'ultimo (cioè l'ascoltatore) partecipa con quasi simultaneità al flusso di coscienza del primo (il compositore), eseguendo con lui, passo dopo passo e mentre si compie, l'articolazione del suo pensiero musicale. Lo spettatore, in questo modo, si trova unito al compositore da una dimensione temporale comune a entrambi, che non è altro che una forma derivata del presente vivido condiviso dai partners di un'autentica relazione faccia a faccia (face to face), quale si instaura tra chi parla e chi ascolta" [6] .

E poco oltre, parlando appunto di questa relazione di mutua sintonia, Schutz dice:

"Abbiamo pertanto la seguente situazione: due serie di eventi del tempo interno, una appartenente al flusso di coscienza del compositore, l'altra al flusso di coscienza dello spettatore, sono vissuti in simultaneità, simultaneità che viene creata attraverso il flusso in svolgimento del processo musicale. (...) Questa condivisione dell'altrui flusso di esperienza nel tempo interno, questo vivere in comune nel presente vivido, costituisce ciò che abbiamo chiamato relazione di mutua sintonia, l'esperienza del "Noi", che sta a fondamento di ogni possibile comunicazione." [7]

Dopo questa introduzione, abbiamo gli elementi per affrontare finalmente il tema Mozart e i filosofi. Diciamo subito che l'attenzione di Schutz si concentra eminentemente sul teatro di Mozart, perché è proprio qui che Mozart è in grado di insegnare qualcosa ai filosofi. Non certamente da un punto di vista "dottrinario", ché, anzi, le letture filosofiche di Mozart dovettero essere ben poca cosa ma, come accennavo in apertura, in quanto musicista. Il teatro, e quello musicale in particolare, attrae molto l'attenzione di Schutz perché in genere il teatro funziona attraverso l'esibizione di una serie di situazioni che a loro volta "sono soltanto occasioni tipizzate per consentire l'esibizione di atteggiamenti tipici da parte dei personaggi" [8]. Le situazioni in cui posso trovarmi quotidianamente sono per Schutz riconducibili a un certo numero di tipi (ecco perché il nostro autore parla di "occasioni tipizzate") e il teatro le usa per costruirvi sopra le proprie trame. Sono situazioni sociali dotate di un certo tasso di intersoggettività, situazioni, cioè, in cui la reazione di ciascun soggetto determina a sua volta reazioni negli altri soggetti, che a loro volta produrranno nuovi effetti, e così via. Se nell'opera italiana coeva a Mozart questa tipizzazione raggiunge il suo massimo di convenzionalità, con personaggi e intrecci ampiamente codificati "nelle mani di Mozart anche una situazione tipizzata diventa unica e concreta, individuale e atipica grazie al significato particolare che essa ha per ciascuno dei personaggi che vi partecipano". E questa, prosegue Schutz, è precisamente la condizione in cui ciascuno di noi si trova nella vita di tutti i giorni:

"Io sono sempre coinvolto in una situazione che - per usare un termine della sociologia moderna - devo definire e che, a dispetto della sua tipicità, ha per me e per ciascuno dei miei simili un significato unico e particolare. Le mie interrelazioni con i miei simili, le loro interpretazioni della mia situazione e la mia delle loro codeterminano il significato che questa situazione ha per me. Questa complicata trama di significati è costitutiva della nostra esperienza del mondo sociale. Si potrebbe correttamente dire che l'arte drammatica di Mozart è piuttosto una rappresentazione della struttura fondamentale del mondo sociale che un'imitazione della natura. Attraverso mezzi puramente musicali egli non solo illumina dall'interno il significato nei termini del quale ognuno dei personaggi in scena definisce la situazione, ma riesce anche a far partecipare noi spettatori a questo processo". [9]

L'arte non è imitazione della natura, e qui il bersaglio è evidentemente Rousseau, a meno che per natura non si intenda quella particolare "natura" che è l'essere sociale dell'uomo; ma allora la musica non sarà l'imitazione di sentimenti "naturali", quanto piuttosto l'esplorazione dell'essere sociale dell'uomo. Ma quali sono questi "mezzi puramente musicali" cui fa riferimento Schutz? Fondamentalmente tre. Innanzitutto, un uso originale del recitativo ("Mozart applica spesso una tecnica particolare per condurre l'ascoltatore dalla regione crepuscolare del recitativo fino alla profondità della durée" [10]). In secondo luogo, l'assegnazione di un ruolo ancor più innovativo all'orchestra, che svolge una doppia funzione:

"Da un lato essa separa la realtà del mondo della scena dalla realtà della vita quotidiana, che è quella dello spettatore in platea; dall'altro, amalgama il flusso della durée interna dell'ascoltatore con gli eventi interni dei personaggi sulla scena in un singolo flusso unificato del processo musicale in svolgimento". [11]

Questo passo è di particolare importanza perché coglie in pieno la capacità della musica di porsi come mezzo di sincronizzazione (Schutz parla di capacità di amalgamare) di diversi flussi interni di durée, quelli dei personaggi tra loro e quelli tra i personaggi da una parte e l'ascoltatore dall'altra. Infine, e più importante, vi è il trattamento dei concertati. Qui Mozart, staccandosi nettamente dai suoi contemporanei, riesce veramente a creare nelle sue opere "una comunità intersoggettiva tra le varie dramatis personae" [12]. Il teatro d'opera ha, rispetto alla vita comune e allo stesso teatro di prosa, il privilegio di poter far "parlare" in simultaneità diverse persone, senza che questo determini un guazzabuglio incomprensibile. Ebbene, dice Schutz, nei suoi concertati Mozart fa qualcosa di più:

"egli usa questo mezzo specifico dell'opera musicale per presentare nell'immediatezza le relazioni intersoggettive in cui i suoi personaggi si trovano implicati. Nonostante la loro reazione differenziata rispetto alla situazione comune, nonostante le loro caratteritiche individuali, esse fanno insieme, sentono insieme, vogliono insieme come una comunità, come un Noi. Ciò non significa, ovviamente, che essi fanno, sentono o vogliono la stessa cosa, o con uguale intensità. Al contrario, concertati come quello che possiamo ammirare nel finale primo di Figaro mostrano chiaramente diversi raggruppamenti di personae, sia in rapporto di cooperazione, sia di antagonismo. Cionondimeno, anche nell'antagonismo essi si trovano legati in una situazione intersoggettiva di comunità, in un Noi". [13]

Proprio come Guglielmo che, nel finale del Così fan tutte, sembra per un momento dissociarsi dall'atmosfera di generale gaiezza per il matrimonio appena celebrato e mentre gli altri tre, sorretti da un'orchestra seducente e melliflua, intonano:

 

E nel tuo, nel mio bicchiero

Si sommerga ogni pensiero,

E non resti più memoria

Del passato ai nostri cor.

Guglielmo, dicevo, tra sè, contrappunta a più riprese

 

Ah, bevessero del tossico,

Queste volpi senza onor!

Prima di lasciarvi, permettetemi un'ultima citazione da Schutz, che vorrei porre a suggello di questa nostra serata.

"Ritengo che l'argomento principale di Mozart non sia, come credeva Cohen, l'amore. È, piuttosto, il mistero metafisico dell'esistenza di un universo umano di pura socialità, l'esplorazione delle molteplici forme in cui l'uomo incontra il suo simile e lo conosce. L'incontro dell'uomo con l'uomo all'interno di un mondo umano è la cosa che più interessa a Mozart. Questo spiega l'umanità perfetta della sua arte. Il suo mondo rimane il mondo umano anche se vi irrompe il trascendente. Il regno del sacro nel Flauto magico o gli eventi sovrannaturali nel Don Giovanni appartengono essi stessi al mondo umano. Essi rivelano il posto dell'uomo nell'universo in quanto esperito in termini umani". [14]

Nicola Pedone

 

Note

[1] A. Schütz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, Wien, Springer-Verlag, 1932, 1960²; La fenomenologia del mondo sociale, tr. it. di Franco Bassani, Bologna, Il Mulino, 1974. La traduzione italiana è condotta sull'edizione del 1960, ma tiene conto dell'importante traduzione inglese del 1967 The Phenomenology of the Social World, curata da G. Walsh e F. Lehnert per la Northwestern University Press.

[2] Questi tre scritti sono disponibili per il lettore italiano in A. Schutz, Frammenti di fenomenologia della musica, a cura di N. Pedone, Milano, Guerini e Associati, 1996.

[3] Una parziale traduzione in italiano dei Collected Papers si ha in A. Schutz, Saggi sociologici, a cura di A. Izzo, Torino, UTET, 1979.

[4] Il tema di come vengano selezionati gli oggetti dell'attenzione all'interno dei percorsi percettivi è sicuramente di grande interesse e Schutz vi ha dato contributi notevoli. Rimandiamo il lettore interessato a A. Schutz Il problema della rilevanza, tr. it. A cura di G. Riconda, Rosenberg & Sellier, Torino 1975.

[5] A. Schutz, Fare musica insieme, p. 105. In A. Schutz Frammenti di fenomenologia della musica, cit.

[6] Ibid., p. 106.

[7] Ibid., p. 108.

[8] A. Schutz, Mozart e i filosofi, p. 134. In A. Schutz Frammenti di fenomenologia della musica, cit.

[9] Ibid., p. 135.

[10] Ibid., p. 137.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p. 138

[13] Ibid., p. 138-39.

[14] Ibid., p. 139.


 

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