Fausto Petrella
Spazio artistico e umorismo in musica.
Il comico musicale e i suoi rapporti con il Witz
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I.
Introduzione. Umorismo, comicità e riso nella musica.
Anche nella musica ci s'imbatte nell'umorismo, nella comicità e
nel riso, che fanno parte della nostra comune esperienza. Una
ricerca sul rapporto tra il riso e la musica dovrebbe partire da
quest'evidenza.
E tuttavia si presentano
parecchie difficoltà, nel momento in cui si tenta di definire questo rapporto,
con l'intento di fornirgli una veste concettuale e interpretativa convincente.
Non deve essere un caso se il riso e il sorriso hanno alimentato una ricchissima
letteratura filosofica, antropologica, psicologica, psicoanalitica ecc., mentre
i comportamenti equivalenti in musica non hanno suscitato sinora altrettanto
interesse.
Colpisce che agli inizi
del Novecento si documenti una concentrazione di studi famosi, tra loro
indipendenti, sul comico, sul riso e sull'umorismo. Lo scritto freudiano
Il motto di spirito (Der Witz) e la sua relazione con l'inconscio è del
1905, e conoscerà una sua ripresa e aggiornamento nel 1927 («L'umorismo»);
Il Riso, saggio sul significato del comico di Bergson è del 1900
(l'anno della Traumdeutung), mentre il notevole saggio di Pirandello
L'umorismo fu scritto tra il 1906 e il 1908. Tutti questi scritti, e
anche molti altri che li precedono o li seguono di poco, contengono indicazioni
fondamentali sulla fenomenologia e l'interpretazione del riso, colto dalle più
varie prospettive. Questa valorizzazione del comico a cavallo del secolo, si può
forse considerare sia come effetto della crisi del positivismo del secolo
precedente, di cui l'inquieta umoralità romantica è una sorta di ombra
irriducibile e ribelle, sia come espressione delle pretese della scienza e dello
spirito critico di rendere ragione del riso, un fenomeno antitetico e in
opposizione alle istanze serie della razionalità scientifica dominante.
[1]
Il saggio pirandelliano,
per esempio, è ben consapevole della funzione anti-razionalistica dell'humour, e
invita alla cautela nell'identificare troppo facilmente, sino a confonderli,
l'alto umorismo dell'arte con la comicità. E Freud distingue con accuratezza
Witz, comicità e umorismo, a ciascuno dei quali fa corrispondere tecniche e
modi espressivi molto diversi tra loro.
Nessuna delle ricerche
citate - e quella freudiana per insistita affermazione di Freud stesso -
esaurisce la comprensione del riso, ma ognuna suggerisce, dalla propria
angolatura, elementi conoscitivi importanti, mostrando che la comicità «è un
tema senza fondo, un'area inesauribile di idee e discorsi» (Civita, 1984). Tutte
invece trascurano il comico musicale.
I motivi di questa
relativa negligenza nei confronti della musica possono essere diversi.
Ci troviamo intanto con la
musica di fronte a una gamma sconfinata di possibilità espressive. Uno spettro
variegatissimo di estrinsecazioni cangianti nel tempo sfida ogni sforzo di
semplificazione e ogni tentativo di stabilire una morfologia e una tipologia
adeguata.
L'umorismo in musica è poi
un aspetto particolare del più vasto problema del rapporto tra musica e affetti.
Un problema antico, di cui sappiamo che è difficile venire a capo in modo
soddisfacente (Fubini, 2002)
E' inoltre piuttosto
innaturale e difficile trasporre in ambito musicale ciò che sappiamo sul riso,
la festa, il Witz e la battuta spiritosa, stabilendo equivalenze ed
esercitando su tutto questo una riflessione critica e ordinatrice.
Due aforismi di
Lichtemberg tendono a scoraggiare un simile tentativo, e invitano a stabilire
una distanza ironica da tutto il problema. Dice il primo aforisma:
E' tanto
piacevole la musica all'orecchio che l'ascolta quanto gli spiace di
sentir parlare di musica (p. 163).
E il secondo:
Con il
Witz è come con la musica; più se ne sente e più si diventa
esigenti in finezza. (p. 151)
Musica e
Witz sono qui messi sullo stesso piano, mentre l'ascolto della musica è
contrapposto al discorso sulla musica. Il discorso critico si allontana dalle
proprietà musicali della parola, impegnandosi nell'esclusivo lavoro descrittivo,
razionale e speculativo. Lichtemberg tenta di dissuadere, forse saggiamente, non
dalla riflessione, ma dai suoi eccessi. Al riso e alla festa si deve innanzi
tutto partecipare, al canto ci si deve unire.
Un atteggiamento troppo
riflessivo fa sparire l'effetto comico-umoristico; ugualmente sparisce il riso
inestinguibile degli dei, l'
omerico, e gli dei stessi si nascondono all'arrivo dell'antropologo e di
personaggi affini.
Gli studi sul motto di
spirito fanno svaporare l'effetto umoristico delle esemplificazioni che
producono. Così accade, per altra via, anche con le antologie del comico. Per
quanto ben fatta sia la raccolta, troppe spiritosaggini insieme saturano
velocemente il palato. Si deve concludere che una collezione scritta di
barzellette o uno studio sul comico sono luoghi sociali inadatti allo sviluppo
del comico. Proprio gran parte degli studiosi del comico si rammarica
consapevolmente di questo.
L'arco di fenomeni che va
dal sorriso al riso, sia sul piano del comportamento (Ceccarelli 1988, p. 7 e
sg.), sia su quello del vissuto, varia lungo un gradiente continuo d'intensità.
Nell'umorismo abbiamo a che fare col sorriso e col riso moderato, con lampi e
innalzamenti d'umore istantanei e sempre fugaci. Con la comicità possiamo
trovare «la risata generosa, nata dal cuore» (Freud, 1928, p. 508), ma si può
anche ridere smodatamente.
Osserviamo che anche con
il comico musicale si può ridere parecchio, ma certo, almeno ai nostri giorni,
non «si muore dal ridere». Pare invece che di fronte alla comicità del
melodramma, il pubblico del passato arrivasse a smascellarsi dalle risa durante
lo spettacolo. Le testimonianze di Stendhal (1824) circa gli effetti della
comicità rossiniana sugli spettatori sono molto dimostrative. Mentre il pubblico
d'oggi ha abitudini differenti e l'effetto comico, un tempo dirompente, di certe
opere di Rossini sembra sbiadito. Il pubblico odierno «è piuttosto incline a
predisposizioni di ordine culturale ed estetico che ad un effettivo abbandono
alla gioia fisica del ritmo e del suono. Noi ridiamo ugualmente, anche se il
nostro riso è 'intellettuale' od è addirittura un sorriso alienato di fronte a
una forma di fruizione 'collettiva' ormai congelata» (Rognoni, 1968, p. 47 e
sg.).
L'espressione «morire dal
ridere» è assai significativa. Diciamo anche sbellicarsi sganasciarsi
scompisciarsi dalle risa, ridere a crepapelle e simili: tutti usi linguistici
che rilevano con forza la corporalità del riso, il suo carattere
d'impulso irrefrenabile soverchiante, non contenibile.
L'umore piacevole, a cui
il riso appartiene di diritto, non ponendo ostacoli dolorosi al nostro sentire,
non richiama su di sé la medesima esigenza riflessiva e l'elaborazione richiesta
da un sentimento greve e doloroso. E' soprattutto l'esperienza dolorosa a
imporre, a volte con urgenza, il superamento, la liquidazione e l'analgesia di
una riflessione distanziante. A questa funzione oltrepassante concorre in molti
casi la musica e il canto, a vario titolo. Non solo nel senso generale del
vecchio adagio esortativo «Canta che ti passa», ma anche attraverso quelle forme
istituzionalizzate e rituali del canto, con le quale molte culture fronteggiano
il grande dolore psichico.
Otteniamo, attraverso la
musica, una sorta di musicalizzazione del lamento. Il dolore morale e
fisico che si esprime nel lamento solitario, il grido doloroso di un'angoscia
senza interlocuzione e senza risposta - «irrelativa», diceva Ernesto De Martino
- acquista, con la sua trasformazione musicale, un ordine formale arginante.
Diventa possibile la ripetizione volontaria del pianto, a comando, e, per questa
via, un'abreazione socialmente controllata e, infine, una socializzazione del
dolore morale attraverso la partecipazione della collettività. Questi tre
aspetti, oggi non altrettanto documentabili come in passato, hanno accompagnato
lo sviluppo della cultura europea e mediterranea sin dalle sue origini, come ha
dimostrato ottimamente De Martino (1958), col soccorso etnomusicologico di Diego
Carpitella.
Conosciamo il lamento
nell'arte musicale, l'ay! reiterato e variato del melisma virtuosistico
che introduce la siguirya e altri canti gitano-andalusi (Dumas 1973); il
gemito indimenticabile dell'Innocente mussorgskiano; la «doina» vocale o
strumentale rumena, struggente melopea ornata che ha il medesimo carattere del
pianto, «autentica come un gemito, un grido» (Breazul, 1941). Qui la musica
imita il pianto e lo eleva a canto.
Un riso che si presentasse
o «scappasse» là dove ci si aspetterebbe il pianto o la compunzione, sarebbe
invece «fuori posto», sorprendente, e tale da interessare in certi casi la
psicopatologia. Le connessioni esistenti tra la melanconia più cupa e l'euforia
estrema nella quale può trasformarsi anche repentinamente, la prossimità del
dolore morale al suo culmine con l'esplodere del riso dionisiaco sono fenomeni
ben documentati nell'esperienza psicopatologica.
Lo psicoanalista non può
fare a meno, dovendo parlare di riso, di connettere il riso al pianto, come due
aspetti di un unico problema, anche se non si dovrebbe abusare di questa
connessione. Il riso non è soltanto una difesa dalla depressione, a meno di
considerare depressiva l'esperienza corrente, caratterizzata da un
mal de vivre usuale, da una «infelicità comune», come Freud riteneva.
La musica è collegata a
queste misteriose oscillazioni dell'animo umano, in modi sui quali è difficile
pronunciarsi.
Una delle più umoristiche,
o addirittura comiche, composizioni musicali esistenti,
Ein musikalischer spass, Uno scherzo musicale K. 522, sulla
quale dovrò tornare, fu la prima opera scritta da Mozart subito dopo la morte
del padre Leopold. La sua composizione è preceduta di poco da una poesia
scherzosamente patetica, scritta da Mozart in morte del suo passero (Hildesheimer,
1977). La connessione tra la morte del padre e la produzione di questa
composizione comica è palese.
[2]
Il suo significato resta tuttavia del tutto incerto, né mi sembra utile
sbizzarrirsi in congetture interpretative al riguardo.
Il sorgere del riso e
della comicità è faccenda davvero complicata, e lo è ancora di più in
riferimento alla musica.
Tutti conosciamo canzoni
patetiche, che raggiungono un gran successo, anche se tristi, e che in certi
casi possono addirittura far piangere. Esistono canzoni «strappacuore» e
lacrimogene, apparentemente «al di là del principio di piacere», come
Capinera. Una mia paziente da piccola se la faceva cantare ripetutamente
dalla nonna proprio per piangerci sopra. Questa canzone narrativa, a causa del
testo musicato, sembrava dare voce al malinconico romanzo familiare al centro
della nevrosi infantile della paziente. Ci volle un lungo lavoro perché questa
tristissima musichetta mostrasse il suo aspetto ridicolo e fosse liquidato il
suo potere deprimente per la paziente.
[3]La ricezione di questa canzone si è in ogni caso
modificata nel corso del secolo. Dopo essere caduta nell'oblio, «Capinera»
poteva essere presentata, circa settant'anni dopo (dai «Gufi») come un cimelio
ridicolo, degno di un'esecuzione buffa, da cabaret.
In certi casi una canzone
appare spiritosa perché fa il verso, nella musica e anche nelle parole, a
canzoni pesantemente patetiche del genere «Capinera», smascherandone la melensa
insulsaggine e rincarandone il patetismo.
Il ritornello di una
canzonetta, proposta da Renzo Arbore anni fa, diceva:
Ricordati papà,
ricordati papà,
la mamma è morta già sull'autostrà...
In questo caso un certo
effetto comico di parole e musica è assicurato.
Troviamo musiche allegre
sin dall'antichità: le canzoni destinate al ballo, al corteggiamento,
all'enunciazione euforica e scherzosa dell'amore, dove il patire si trasforma in
un divertimento che arriva allo stordimento; canzoni vivaci e spiritose, adatte
alla festa, alla tavola e al vino. Moltissima musica colta e popolare ha avuto
(e forse continuerà in parte ad avere, ma qui si dovrebbe aprire un lungo
discorso) chiare finalità nella direzione dell'intrattenimento piacevole, della
satira, del motteggio, eccetera: che si tratti di musica strumentale o per voce
e strumenti. I testi musicati non lasciano dubbi sulle intenzioni sicuramente
ludiche, d'alleggerimento e di spasso, di queste musiche.
La musica non potrebbe
realizzare alcuna comicità, se non riuscisse anche a dare espressione ai grandi
dolori, alla passione amorosa non corrisposta, all'odio e alle sofferenze più
diverse. Troviamo tutto questo nella musica e nel canto colto, ma anche in
quello popolare, e talvolta in forme elevate o elevatissime, come nel canto dei
gitani spagnoli. Il flamenco distingue un cante grande, profondo e
viscerale, da un cante cico, che include generi più leggeri, dedicati
alla danza d'insieme e di tono allegro e spiritoso. Si ammette tuttavia che
anche un canto piccolo possa innalzarsi a grandi altezze, se trattato con
specifico impegno esecutivo da parte dell'interprete. Dal punto di vista
emotivo-espressivo i confini fra generi musicali, come quelli fra tristezza e
gioia, possono dunque essere sfumati. Del resto, dal punto di vista del
fruitore, «una musica triste può benissimo essere oggetto di godimento», come ha
osservato Walter Cerf (1956) nel suo studio sull'umore e le emozioni nell'arte.
Lacrime di tristezza
mescolate a sorrisi mostrano che gli stati emotivi «misti» sono quasi la regola
nel nostro paesaggio emotivo, osservato a tutto campo. Nel paesaggio musicale
può accadere lo stesso. Si provi a definire i colori emotivi cangianti di una
Mazurca di Chopin o di un allegro
di un Quartetto di Mozart. Il variabile trascolorare dell'umore qui
riscontrabile è una delle possibili definizioni dell'umorismo, vicino
all'origine ippocratica di questa parola dalle troppe implicazioni, che collega
l'anima al corpo attraverso i suoi variabili «umori».
Tuttavia legittimamente
dobbiamo distinguere i generi «bassi» della musica di consumo dalla musica
colta, detta anche «seria». La serietà riguarda l'impegno formale dell'opera, la
sua destinazione a un pubblico competente, in luoghi a ciò deputati, il suo
riferirsi a una tradizione compositiva ed esecutiva, eccetera. Ciò che è «serio»
sembrerebbe escludere il divertimento, il comico, l'umoristico. Ma sappiamo che
non è così. Benché seria, la musica «classica» si è sempre confrontata
con l'umorismo, il comico, lo scherzoso, il beffardo, ecc.
Ciò è attestato anche dal
linguaggio con cui la musica parla di se stessa, dal suo lessico (Dalmonte,
1955). Allegro è il primo movimento di una Sinfonia e talvolta anche
l'ultimo, come anche nella forma Sonata. Ma conosciamo lo scherzo, certi
rondò, il capriccio, la fantasia, le danze veloci,
talvolta inserite ad arte in contesti più seriosi per alleggerire l'ascolto,
fino a quell'humoresque
che per sua natura è vivace e capricciosa, cangiante d'umore.
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II.
Comicità e umorismo in Freud.
Gli scritti freudiani sul comico sono il punto di partenza della
mia circoscritta analisi del problema. Le considerazioni che
farò non si ispirano soltanto a lui, ma considereranno anche gli
sviluppi post-freudiani in tema di musica. L'intera riflessione
trova nella psicoanalisi, anche se non soltanto in essa, i suoi
riferimenti concettuali principali. Saranno chiari nel corso del
discorso, i motivi di questa scelta di campo. Purtroppo né in
Freud né negli altri due autori citati troviamo alcun accenno al
comico musicale, quasi che esso sia inesistente. Le
esemplificazioni sulle quali Freud costruisce le sue analisi e
le sue ipotesi metapsicologiche sul Witz, il comico e il
riso consistono in un campionario tratto soprattutto dalla
letteratura tedesca, da un esteso repertorio di barzellette,
ebraiche e non, o dal racconto di circostanze umoristiche
appartenenti alla propria esperienza di vita.
L'indagine freudiana sul
Witz si presta male ad essere esposta sinteticamente. Per di più nella
psicoanalisi odierna si è perduta la ricchezza delle considerazioni e
argomentazioni sviluppate in quell'opera. Essa è invece, a parere mio e di altri
studiosi, di straordinaria acutezza, ma anche di gran complessità.
[4]
Il suo interesse metodologico consiste nel procedimento con cui Freud
cerca di gettare qualche luce su processi psichici riconosciuti come complicati.
Come già aveva fatto nella Traumdeutung, Freud mobilita una puntigliosa
ed estesa analisi che, prendendo le mosse dalla morfologia del Witz, mira
a illuminare qualche aspetto del processo che conduce all'effetto umoristico e
al riso.
Della sua analisi, quattro
sono i punti principali che desidero sottolineare in funzione del nostro
problema.
1. Il
riso (o il sorriso) che scatta con il comico, mostra in atto un fenomeno
energetico, i cui aspetti quantitativi sono in primo piano ed evidenti per
tutti. Per Freud nel riso si scarica una tensione ed è spesa un'energia che
nella serietà corrente della vita deve essere altrimenti impegnata. E' questa
dissipazione improvvisa, che il Witz riesce a promuovere, ad essere
piacevole.
Freud è quasi ossessionato
in quest'opera da una sorta di contabilità psichica che il Witz, il
comico e l'umorismo attivano e presuppongono. La moneta di questa
contabilità è fatta di quantità energetiche che sono risparmiate rispetto al
loro «investimento anteriore» e abituale. Gli investimenti già altrimenti
impegnati, grazie a questo storno, possono così essere scaricati, «spesi»,
generando il piacere della comicità e la «dissipazione» del riso. Freud
manifesta una straordinaria finezza linguistica e retorica nell'analisi dei
motti, ma resta costante anche la sua attenzione al gioco degli investimenti e
disinvestimenti emotivi richiesti nelle varie circostanze linguistiche e insieme
situazionali. Tutto questo sullo sfondo di un'idea centrale e ricorrente: quella
dell'impegno inevitabile e necessario di energie, d'abitudine sottratte al
piacere, e che le strategie dell'umorismo e del comico permettono di
risparmiare, destinandole appunto al piacere. La vita, la dura realtà, richiede
e assorbe una grande impegno di investimenti per l'autosostentamento, per
l'adattamento a innumerevoli richieste e esigenze, per il fronteggiamento e l'evitamento
del dolore e dello spiacevole d'ogni tipo.
Il motto di spirito
riesce a «stornare» investimenti impegnati comunemente
- nel lavoro logico
- nei processi di
astrazione
- nell'impiego
richiesto dall'aderenza al reale, dal rapporto con la realtà - nelle
limitazioni e inibizioni imposte dalla censura, cosciente o inconscia.
Insomma,
come dirà Koestler (1964, p. 19), la funzione del riso consiste in parte nell'
«alleggerire momentaneamente le pressioni utilitarie». Ma la concezione
freudiana sembra estendere notevolmente l'area rispetto alla quale il riso
rappresenta un disimpegno.
Qualsiasi cosa si voglia
pensare oggi di quest'impostazione economica ed «energetica», si manifesta in
essa l'esigenza di non disgiungere la componente psicofisiologica e edonica del
riso dagli altri importanti fattori (morfologici, linguistici, circostanziali)
che caratterizzano il Witz, ma di cogliere la necessaria connessione tra
le strategie psicosociali, linguistiche, retoriche del comico e il fenomeno di
dissipazione piacevole che si scarica nel riso attraverso il corpo, la motilità
e la voce. La metapsicologia del Witz
e del comico cercano di rendere pensabile questa connessione, l'articolazione
tra le forze in gioco e il senso specifico che qui si manifesta.
Incluso il senso del nonsenso, che conduce al riso.
In questa prospettiva
Freud stesso sintetizza conclusivamente la sua analisi così:
Il piacere
dell'arguzia (Witz) c'è parso derivare dal dispendio
inibitorio risparmiato, il piacere della comicità dal dispendio
rappresentativo (o d'investimento) risparmiato e il piacere
dell'umorismo dal dispendio emotivo risparmiato (1905, p. 211).
2.
Un secondo punto è il riferimento al sogno. Nella formulazione del motto di
spirito e della comicità Freud trova gli stessi meccanismi operanti nel sogno:
la condensazione, come quella, divenuta celebre, di «familionari», il gioco di
parole che creato da Heine; le sostituzioni, i travestimenti, le trasposizioni,
lo smascheramento, la caricatura, la contraffazione, eccetera.
Ma sarebbe sbagliato
identificare semplicisticamente comicità e sogno, perché sono assai diversi sia
i regimi di coscienza implicati (nel sogno si dorme, nel motto di spirito si è
ben svegli); sia la funzione comunicativa, che il sogno non possiede altrettanto
esplicitamente rispetto al Witz; e infine il carattere pluripersonale del
motto di spirito, che comporta come minimo il coinvolgimento di due o tre
persone.
Una volta compiuta
doverosamente la distinzione tra sogno e motto di spirito, la si deve subito
attenuare, perché anche il motto è senz'altro una via di accesso all'inconscio,
nel quale si tuffa istantaneamente per subito riemergere. Lampo onirico nella
veglia o istantanea regressione affettiva con veloce emersione, in ogni caso
l'affinità col sogno è evidente.
Freud, spesso accusato di
aver costruito una «one person psychology», rivela, qui più che altrove,
un'attitudine transazionale, per il ruolo complementare che egli assegna alla
seconda e alla terza persona nel compimento del motto in azione.
E' tuttavia innegabile che
il motto «viene», zampilla involontariamente nella mente di chi lo crea, che ne
può ridere anche fra sé e sé - . Esso si genera nel gioco tra preconscio e
inconscio di chi lo produce, con un automatismo che può essere talvolta
socialmente imbarazzante e trascurare le convenienze o le alleanze con una
parte, se non con tutto l'uditorio, che pure è implicato nella sua produzione.
Ciò che è comico per
qualcuno, può non esserlo per tutti, e per le più varie ragioni. Talvolta il
comico si sviluppa a spese e a danno di qualcuno. Lo sviluppo del motto e del
comico richiedono «concordanza» psichica o almeno una disponibilità per tale
concordanza. Il Witz
produce affratellamento tra gli uomini, ratificando un «patto di complicità
tra emittente e destinatario» del Witz, che riguarda il non detto, il non
dicibile in quanto appartenente all'inconscio linguistico (Segre, 1982); ma al
tempo stesso presuppone in grande misura l'intesa che rinforza.
Il pubblico dei concerti
utilizza un luogo molto specifico, destinato ritualmente a un ascolto che
esclude i rumori del mondo, imponendo una specifica disciplina del silenzio e
dell'immobilità; ma non tutti apprezzano o gradiscono, sempre e concordemente
l'opera o la sua esecuzione. La musica è per chi l'ama un luogo di conflitti
passionali e per qualcuno un oggetto d'odio e insofferenza (Rosolato, 1982).
Del resto non tutti i
sogni producono piacere, senza per questo smentire il principio di piacere che
governa la produzione onirica e certamente il comico. Analogamente, tutta la
musica ha a che fare col sogno e la sua attività immaginativa, ma non è
propriamente sogno, e non tutta produce comicità. Occorre non fare d'ogni erba
un fascio, e distinguere accuratamente i fenomeni e i processi in gioco. Freud
fornisce una buona lezione riguardo alla necessità di fare delle distinzioni, e
insieme mostrare somiglianze e punti di connessione.
Una somiglianza va subito
detta: come il sogno mette in immagini pensieri, affetti, resti diurni ecc., di
cui il racconto del sogno fornirà un prima interpretazione, così la musica può
mettere in forma sonora l'esperienza nella sua complessità. Come il sogno
traduce il pensiero in un linguaggio visuo-rapresentativo, alle cui 'regole'
deve assoggettarsi, così la musica si serve di una trascrizione sonora,
impiegando immagini musicali e assoggettandosi a regole di composizione con i
suoni.
Arnold
Schönberg scrisse il suo Trio per archi op. 45 durante una
convalescenza. L'Autore affermò di avervi descritto la sua malattia (un
infarto del miocardio), i trattamenti medici ricevuti, le iniezioni
cardiache, l'infermiere e tutto il resto.
[5] Chi ascolta il Trio non può sapere nulla di
questa trasformazione, né può supporla. La trasformazione avvenuta è
irreversibile e non si può risalire alla sua fonte esperienziale senza
adeguate testimonianze, né sarebbe di qualche utilità compiere il processo
trasformativo a ritroso.
3.
Un terzo punto riguarda l'implicazione regressiva e infantile del motto di
spirito e del riso. Il riso si ricollega all'età nella quale «non conoscevamo il
comico, non eravamo capaci di motteggiare e non avevamo bisogno dell'umorismo
per sentirci felici di vivere». E' all'infanzia beata che ci si deve rivolgere
per comprendere il riso. E in un duplice senso.
Intanto la vita psichica
del piccolo bambino richiede ancora un impegno energetico modesto, anche grazie
al soccorso protettivo dell'adulto. Ciò rende il bambino disponibile a ridere,
ma anche a piangere, per un nonnulla.
E poi il ricorso
all'ipotesi, da Freud appena accennata, che il riso abbia come suo precursore il
sorriso del lattante sazio e soddisfatto dopo la poppata al petto materno. Si
tratta nel 1905 (n. di p. 131) di un'osservazione marginale, che troverà
tuttavia grandi sviluppi di tutti i tipi. Nella nota che dedica a ciò, il
problema posto da Freud riguarda «la spiegazione fisiologica del riso», il
quesito, tipicamente darwiniano, «di sapere donde derivino o come si possano
interpretare le azioni muscolari proprie del riso». Siamo ancora lontani dai
successivi sviluppi di quest'idea.
4. Il
saggio freudiano sull'Umorismo, del 1927, senza negare la particolare
economia sottesa al riso, prospetta l'umorismo nel teatro mentale della seconda
topica e nel gioco tra Io, super-Io ed Es. L'umorismo riesce ad attuare il
ripudio di una realtà avversa e l'affermazione vittoriosa del principio di
piacere, ottenendo in questo l'accordo del Super-io, la sua complicità o la
temporanea sospensione della sua severità. In questo modo l'umorismo si
inserisce «nella grande schiera dei metodi costruiti dalla psiche umana per
sottrarsi alla costrizione della sofferenza, una schiera che comincia con la
nevrosi, culmina nella follia, e nella quale sono compresi l'intossicazione, lo
sprofondamento in se stessi, l'estasi» (1927, p. 505). Tuttavia, come l'arte,
l'umorismo manifesta questo suo potere analgesico «senza uscire dal terreno
della salute psichica».
Nell'umorismo Freud coglie
un che di grandioso e nobilitante, un'affermazione dell'invulnerabilità
dell'Io contro l'avversità e i traumi del mondo esterno: siamo sul terreno
dell'illusione comica, del narcisismo trionfante e grandioso che caratterizza il
gioco infantile, attuato con la protezione del super-Io. Troviamo qui
anticipazioni importanti di temi che saranno altrimenti sviluppati dalla
psicoanalisi post-freudiana.
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III. Dopo
Freud.
Non sono mancati dopo Freud riconsiderazioni delle sue tesi sul
comico e un certo numero di studi psicoanalitici sulla musica.
Ma è anche evidente la difficoltà a connettere le due aree.
La psicoanalisi post-freudiana che si è occupata di musica ha
molto valorizzato i momenti neonatali e addirittura prenatali
dell'enveloppe sonore del sé, del bagno di suoni (Anzieu, 1976),
del rapporto del feto con i ritmi, i suoni e i rumori del corpo
materno (Mancia, 1998). Alla ricerca della primordiale e
misconosciuta origine delle singolari e illimitate
valorizzazioni immaginative che il suono mostra di saper
assumere su di sé, la psicoanalisi si rivolge al bambino. Il
valore affettivo del suono per l'uomo va cercato nel suo
rapporto con la materia sonora primigenia, da cui derivare le
origini dei suoi poteri incantatori e i suoi profondi legami con
la vita emotiva. Il suono si presta a essere considerato come il
prototipo di un'esperienza anteriore a ogni compromissione con
l'oggetto materiale e con la pesantezza e corposità del reale e
dei nostri bisogni. La materia sonora è percepita «prima della
parola» (Di Benedetto, 2000), e, sembra, già prima della
nascita. Dall'articolarsi del suono con l'esperienza materna
agli inizi della vita si formerà la parola e il linguaggio.
Insomma, alla ricerca
dell'origine della musica, la psicoanalisi si è appoggiata alle Madri, a una
mitologia plausibile del materno originario, che fece scrivere con bella enfasi
a Fornari (1984): «All'inizio era il suono, il Suono era presso la Madre. La
Madre era il suono».
In realtà, occorre
considerare che la protoesperienza sonora, d'origine materna, si accompagna al
misconoscimento dell'origine materna dell'esperienza da parte del feto o del
neonato. La realtà materna è ancora tutta da venire, tutta da costruire. Semmai
questa protoesperienza preverbale e preoggettuale sta a fondamento (o va nella
medesima direzione) di alcune caratteristiche fenomenologiche del suono.
Ricordiamo la possibilità del suono di essere percepito in assenza dell'oggetto
sonoro, a distanza (a differenza del colore, che in assenza della cosa colorata
può solo essere pensato, ma non percepito); e ancora la strutturale «evanescenza
e fantomaticità» del suono, la sua relativa indipendenza dallo stato delle cose,
la sua assolutezza e il suo «prestarsi a sopravvalutazioni metafisiche». Ci si
imbatte per questa via nel pensiero che «il suono potrebbe esserci anche se il
mondo non ci fosse», nell'idea ricorrente di un' «essenza extramondana del
suono» (Piana, 1991, 73 e seg.). L'immaterialità apparente del suono,
soprattutto la «spiritualità» di certi suoni prodotti ad arte, sembra alludere a
un mondo disincarnato e assottigliato, che si allontana da ogni materialità,
inclusa quella materna.
Si può tuttavia anche
dire, all'opposto, che il suono partecipa e anticipa la realtà traumatica «senza
nome» alla quale l'esperienza infantile è sottoposta da stimolazioni
soverchianti, caricandosi così di valenze negative. E' la violenza del rumore,
l'asprezza dei suoni, il minaccioso 'fortissimo' lacerante, che può farsi avanti
in tutto il suo spaventoso stridore, come «il rauco suon della tartarea tromba»,
evocato dal Tasso
[6]
. E in ogni caso il suono ha anche a che fare fortemente col mondo e i suoi
molti segnali, certamente solo materni alle origini, o più o meno filtrati dalla
rêverie e dalla risposta materna, secondo Bion (1962). Ma poi anche non -
materni, non familiari, e tuttavia sempre entro il quadro delle opposizioni di
principio, rese possibili proprio dal riferimento materno originario e
misconosciuto dall'infante.
Il materno è insomma
dappertutto, è l'origine ignorata e la fonte, la «materia prima», il terminus
ad quem, nostalgicamente ricercato nel ciclo incessante delle sostituzioni
simboliche e nei movimenti progressivi e regressivi della vita. E nello stesso
tempo la madre è un'amministratrice dei movimenti negativi e ostili che si
animano nelle relazioni oggettuali e nel sé infantile, una calmieratrice della
distruttività nascente, ma anche un'attizzatrice e una convogliatrice del dolore
e della rabbia infantile.
Se il sorriso del bambino
soddisfatto è un modello possibile della sorgente del riso, difficilmente
potremmo comprendere su questa sola base la grande varietà delle forme del riso
(ma non solo del riso: qui sono le variopinte qualità estesiche del mondo a
essere in gioco), che pure hanno nella relazione infantile materna le loro
premesse. Qui troviamo il pianto e il riso, e le specifiche risposte che
ottengono, tra le quali la voce pacificante e il sorriso della madre.
Lo psicoanalista deve
tuttavia riconoscere che il suono non è solo la Madre. E che infine la
dimensione acustica non è molto più implicata col materno di quanto lo sia tutta
la sensorialità - visiva, tattile, olfattiva, cenestesica - nel piacere e nel
dolore, nel soddisfacimento e nella privazione spiacevole.
Il comico musicale invita
insomma a guardare (e ad ascoltare) anche in altre direzioni.
|
IV.
Comicità della musica «pura» e rapporto con la parola.
Un'indagine sul comico in musica farebbe bene a rinunciare,
nella misura del possibile, al riferimento alla parola o anche
all'azione scenica, e quindi al comico musicale che si realizza
appoggiandosi a testi, tipicamente dell'Opera comica, nella
farsa musicale, nell'opera buffa e simili.
Dovrebbe invece mettersi
alla ricerca di una comicità soltanto sonora, di un umorismo legato alla musica
come tale, cioè alla «pura» musica.
Un problema analogo se lo
poneva già Theodor Reik (1953). A proposito della capacità d'ironia della
musica., si proponeva nel suo studio, senza riuscirci, di escludere ogni
riferimento a musiche compromesse col linguaggio della parola. Reik pensò allora
di rinunciare alle uscite ironiche «dei cortigiani del Rigoletto, di Iago
nell'Otello, del monologo di Falstaff sull'onore, dell'aria di Beckmesser dei
Maestri Cantori, ecc.» A esempi come questi non si dovrebbe ricorrere. Evitare
riferimenti extramusicali è quasi impossibile, evidentemente, se l'esempio più
pertinente di Reik è il poema sinfonico Till Eulenspigel. La musica di Strauss,
con grande sapienza mimetica, allude continuamente ai tiri burloni del
personaggio evocato, di una forte valenza narrativa e ad una consolidata e
prorompente caratterizzazione. Ascoltiamo ammirati, ma non ridiamo, pur essendo
in grado di cogliere la geniale trascrizione musicale dello spirito burlesco,
dell'ironia e del sarcasmo in gioco.
Gli altri esempi di Reik ci allontanano ancora di più dal problema
propriamente musicale, perché l'autore cita «le sue associazioni musicali, in
genere in riferimento a un testo, ma talvolta anche da sole» (p. 101) Si tratta
di improvvise e involontarie reminiscenze musicali, piegate, spesso
inconsapevolmente, a un uso ironico in certe circostanze della sua vita. La
musica che a tratti gli viene in mente riceve un significato ironico
collegandosi a intenzioni preconsce che stanno essenzialmente in lui, nelle sue
intenzioni più o meno consapevoli, e non necessariamente nella musica come tale.
Citerò
qui il ricordo di una mia personale esperienza. Si tratta
dell'osservazione di un anziano signore, appassionato cultore di musica,
al momento della sortita da una malattia cardiaca che aveva minacciato
gravemente la sua vita. Il moribondo, uscito dal suo stato soporoso,
come primo atto espressivo si mise improvvisamente a canticchiare a
bassa voce, tra lo stupore dei presenti, una frase orchestrale… del
Gianni Schicchi. I suoi parenti l'avevano dato per morto, e anche lui
stesso aveva pensato di essere alla fine del viaggio, ma invece era
ancora ben vivo!
Per chi conosce Gianni Schicchi, il significato sarcastico (e
insieme vitale) di quella citazione musicale è lampante, molto meglio
rappresentato da questa citazione musicale, che mediante un lungo
discorso. Il fatto di canticchiare era di per sé una manifestazione di
vitalità e risorgente buon umore. Ma la specifica evocazione musicale, e
la sua connessione a una precisa vicenda operistica (è inscenato
l'inganno, per cui un vero morto è sostituito da un finto moribondo)
nascondeva e mitigava, in forma comicamente e sinteticamente mascherata,
molti dolorosi pensieri sulla sua fine prossima.
Sarebbe stato assai diverso se lo stesso anziano signore avesse
canticchiato nella medesima circostanza qualche tema, a lui ben noto,
dei Quattro ultimi lieder di Richard Strauss, magari in qualche passo
riecheggiante Morte e trasfigurazione. Un'evocazione di questa musica
amatissima in quel momento critico avrebbe significato soltanto una
forma di autocommiserazione, l'accenno a un sublime epicedio dedicato
alla fine della propria vita.
Un
diverso esempio di burlesco tragico-patibolare è la Marche et réminiscences
pour mon dernier voyage, per pianoforte, una delle ultime composizioni di
Rossini. L'autore, che immagina i propri funerali, si produce, tra le altre
cose, in citazioni musicali da arie di proprie opere...l'ultima delle quali è
dal Barbiere: Buona sera, miei signori!
[7]
Se una musica preesistente
può servire a una rappresentazione indiretta di affetti e fantasie che stanno
nella persona a cui viene in mente, sembra ovvio che anche un'invenzione
musicale ex novo possa servire allo stesso scopo.
Ma proviamo ora, davvero e
radicalmente, a togliere alla musica i riferimenti a testi, come nel Lied; a
situazioni predefinite da narrazioni drammaturgiche, come nell'Opera comica; o a
illustrazioni programmatiche, come nel Poema sinfonico.
La musica si presenta
allora nella sua purezza, come insieme di suoni, ritmi, intensità, timbri,
organizzazione prosodica temporale e spaziale dei flussi sonori e delle
combinazioni dei suoni tra loro, in decorsi localizzati e individuabili.
Possiamo ora chiederci:
può nascere il comico o l'umoristico da tutto questo? Possiamo applicare alla
musica «pura» i criteri che Freud sviluppa e applica al Witz?
La risposta è, a mio
avviso, affermativa in entrambi i casi, ma con alcune precisazioni e
limitazioni.
La musica - si dice -
gioca con i suoni e il musicista è libero di metterli insieme a piacimento.
Anche con le parole si può giocare, combinandole a proprio arbitrio, ma non
senza che sia compromesso, anche gravemente, il senso convenzionale del
discorso.
Ci s'imbatte subito nella
tipica questione della capacità della musica di significare e delle sue capacità
(o incapacità) denotative e semantiche.
Senza entrare in questa
complicata questione, occorre notare che le analogie tra le tecniche del motto e
quanto accade nella musica sono parecchie. «Le parole sono un materiale plastico
con il quale si può fare di tutto», scrive Freud (1905, p. 30); «Come punto
nodale di molteplici rappresentazioni, la parola è per così dire un polisenso
predestinato e le nevrosi (rappresentazioni ossessive, fobie) si servono, non
meno arditamente del sogno, dei vantaggi che la parola offre in questo modo per
la condensazione e il travestimento» (Freud, 1899, p. 313).
[8]
Da un lato è proprio la
componente musicale dell'intonazione del materiale fonico della parola e della
frase a limitare le proprietà polisemiche della parola, a togliere le ambiguità
e le indeterminatezze del discorso, concorrendo in modo rilevante a precisarne
il significato. Insomma, è «il tono che fa la musica», contribuendo a definire
il vero senso di un discorso, andando sempre oltre le parole impiegate.
Dall'altro, una parola
ridotta al suo contenuto fonico, scomposta nelle sue sottounità fonetiche, perde
la sua referenzialità e la sua capacità denotativa.
Quando le
parole si associano tra loro per assonanza, per analogia fonetica o per
ecolalia, quando nella frase la sequenza di parole segue prevalentemente
le vie associative delle immagini sonore delle parole, con invadenza
dell'allitterazione, si assiste a un impoverimento delle capacità
comunicative del discorso. Un vasto numero di ricerche ha da tempo
dimostrato che nei celebri esperimenti di associazione verbale a liste
di parole, quando sono presenti in eccesso risposte «inferiori» o
«primitive» (le Klangsreaktionen
di Jung, le associazioni per rima, le risposte iterative, perseveranti,
o incoerenti con la parola-stimolo), ci troviamo di fronte a una
degradazione delle connessioni semantiche del linguaggio. In condizioni
normali le risposte associative maggiormente frequenti hanno comunemente
stretti legami logico - linguistici o semantici con la parola-stimolo.
Un eccesso di risposte «inferiori» testimonia di uno scadimento
patologico, a volte anche solo funzionale, del linguaggio e delle
funzioni nervose superiori implicate.
In certe condizioni di compromissione cognitiva o di disturbo delle
funzioni simboliche è compito del terzo cogliere i processi di
significazione affettiva in gioco, valorizzando gli aspetti comunicativi
non formalmente dominati e che si sottraggono a una piena intenzionalità
discorsiva. Questo accade fisiologicamente col pianto e il riso
infantile e in genere nella comunicazione con bambini molto piccoli.
Anche la comunicazione quando esiste un'alterazione psicotica del
linguaggio pone i medesimi problemi.
[9]
Se il
significato delle parole cede il posto agli elementi fonetici costitutivi, si
accentua una dimensione fonica, ritmica, fàtica ed emotiva del discorso. Ciò
accade a spese del senso del discorso, come nel nonsense
in rima, nelle filastrocche e simili.
Il gioco verbale presente
in molti motti di spirito comporta la conservazione del significato delle parole
e al tempo stesso l'accentuazione di molti aspetti musicali - rime, risonanze
interne, rimandi fonici - come accade, tipicamente, nel testo poetico e in certi
motti di spirito particolarmente felici. Questa condizione può essere presente
nel teatro in musica, e il Maestro di cappella di Cimarosa (con i suoi «bio,
bio», «blaberle bla», ecc.) ce ne fornisce un tipico esempio, ma non può
appartenere alla musica pura.
Per stabilire un'analogia
del Witz con la musica pura, occorre necessariamente limitarsi a
considerare solo alcune delle varie tecniche del motto indicate da Freud.
Dobbiamo allora riferirci
soprattutto al Klangwitz, al «Motto fonico», che gioca appunto su rime e
assonanze. Perché in musica non sono possibili effetti verbali del genere
«Rousseau - roux et sot» (Freud, 1905, p. 26 e 37), ottenuti tipicamente
mediante suoni omofoni, ma anche sfruttando i diversi significati dei vocaboli
corrispondenti ai suoni. Invece la condensazione
(timbrica o armonica), la sovrapposizione (di suoni diversi, con
effetti che vanno dalla fusione al contrasto più aspro), o certe piccole
variazioni
del medesimo materiale sonoro appartengono tutte alla musica e possono trovare
nel Witz qualche riscontro. Così, per esempio, possono generare effetti
umoristici note dapprima appoggiate e che successivamente diventano staccate; o,
al ripresentarsi di una melodia, lievi modificazioni prodotte da un'alterazione
o da una stonatura inattesa, o da un cambiamento modale o timbrico repentino.
Se una cellula melodica,
nella sua ripresa variata, è ripresentata spezzata e intercisa da pause, si
possono creare effetti veramente nuovi di vario tipo, dall'affanno a una
movimentazione, se non obbligatoriamente umoristica, certamente affine ad un
moto umoristico. Se l'umorismo deve essere qui evocato, è soprattutto nell'ampio
senso del suo collegamento alla variabilità dell'umore, che la musica può
esasperare espressivamente in molti modi.
Una parola, depotenziata
delle sue articolazioni fonetiche e dai vincoli della referenzialità, è
ridotta ai suoni che la costituiscono. Un suono che possiamo comporre con
altri suoni, a piacimento, realizza radicalmente la possibilità di «impiego
molteplice». E' questo senz'altro il caso della musica, ma anche del Witz.
Se nel
Flauto magico le Tre Damigelle mettono il lucchetto alle labbra di
Papageno, lo sentiremo fare comicamente un «hm hm hm hm» perfettamente
intonato, all' unisono col fagotto, finché, tolta questa limitazione, la
parola articolata riacquisterà la possibilità di esprimersi pienamente nel
canto. E tuttavia il mugolio di Papageno è del tutto musicale, intonato e
ritmico, e a suo modo in dialogo con altri personaggi.
Nella
conversazione ordinaria non si otterrebbe alcun vantaggio comunicativo da una
parola ridotta a suoni inarticolati. Nella musica le cose vanno diversamente. Il
suono della pura musica, pur privato della parola e depotenziato dalle
possibilità dischiuse dal significato del discorso verbale, si arricchisce di
autonome possibilità espressive, che alla parola ordinaria sono precluse.
Il suono musicale acquista
l'intensità, la purezza, la maneggevolezza, la molteplicità timbrica delle voci
e dei colori degli strumenti musicali. Gli strumenti musicali sono invenzioni
straordinarie, della cui esistenza ci si dovrebbe sempre stupire. Ciascuno
strumento con la sua estensione, sonorità e personalità timbrica!
Es. 1
Il nonno di Pierino e il lupo avrebbe potuto avere la voce del
flauto, anziché quella del fagotto? Ovviamente si, e in questo caso sarebbe
stato un nonno dalla voce flautata e senza quell'aria di severità bonaria che
può competere a un nonno-fagotto.
Certi registri rochi
dell'organo si prestano a rappresentare «i grugniti della bestia
dell'Apocalisse» e altri le voci angeliche (spiegava Messiaen in una intervista
televisiva sull'organo). Ma una volta indicate le potenzialità semantiche
tendenziali dei suoni e dei timbri strumentali, con le relative aspettative
espressive, ci disponiamo anche ad accogliere e a goderci le continue
trasgressioni e variazioni rispetto a tutto questo. Le voci angeliche potrebbero
mettersi a cantare delle canzonacce da osteria. Ma anche senza immaginare
questo, la trasgressione è una componente essenziale della musica, come ha fatto
notare puntualmente Leonard Meyer (1956). Ogni forma di trasgressione è d'altra
parte possibile, perché tutti questi colori sono composti secondo
regole, combinando i suoni artificiali e prodotti ad arte, tra loro e
in successione, con ogni tipo di gradualità fonica.
I suoni possono salire e
scendere, rotolarsi e saltellare, amalgamarsi tra loro e disgiungersi. Una
melodia o un ritmo possono essere palleggiati da sezioni strumentali differenti,
darsi addosso l'una con l'altro, integrarsi, contrastarsi, litigare e
amoreggiare.
Dicendo «colori», ho
abbandonato il terreno narrativo, che costantemente si ripresenta, per spostare
l'attenzione su una più astratta analogia del suono con i colori e la loro
composizione. Tuttavia si deve notare che anche nelle formulazioni più astratte
il momento narrativo si presenta con particolare vigore.
Kandinsky ha tentato di
creare una tavola dei colori, radicando le loro differenti qualità affettive in
una mistica dell'interiorità. Interiorità e immaginazione dettano ai diversi
colori la loro necessità espressiva e stabiliscono una specifica semantica
affettiva. Kandinsky ha creato in tal modo una sorta di grammatica dei colori e
ha stabilito i criteri di una combinatoria possibile, una sintassi potenziale e
infine un vero teatro astratto di affetti puri, combinabili tra loro. Sino a
vedere in ciascun colore una persona vivente, la personificazione di un affetto.
«I tubetti (dei colori) - scriveva Kandinski
[10]
- sono come esseri umani, di grande ricchezza interiore, ma dall'aspetto
dimesso, che improvvisamente, in caso di necessità, rivelano e attivano le loro
forze segrete».
Gli affetti sono sempre
alla ricerca di forme e contenuti rappresentativi, in un incessante gioco di
sostituzioni, elisioni, ma anche di parole qualificative per poterli
dire e nominare. Si possono ottenere effetti artistici eliminando ogni
riferimento oggettuale, nel tentativo di raggiungere un suono o un colore puri,
prossimi a un mondo preumano o preverbale, dove la più pura espressione si
coniuga alla pura astrazione, come nell'Urschrei, il grido originario
dell'Espressionismo.
La macchina composita e
magnifica della grande orchestra moderna rappresenta un simbolo ideale, ma anche
molto concreto, di una creatività individuale che riesce a integrarsi in una
collettività armonica; e al tempo stesso l' orchestra può essere considerata una
proiezione prismatica del soggetto in una plurivocità ordinata e, soprattutto,
programmaticamente perseguita e voluta. Un insieme preordinato e prescritto
contrasta e padroneggia l'emergenza critica individuale e collettiva, quale si
presenta in realtà costantemente nella vita. In musica l'emergenza è il non
dominato, il non integrato, sino al caos imprevedibile. Un rischio «artistico»,
programmaticamente attuato, si sostituisce ai grandi rischi sempre presenti
nell'esistenza umana, nella natura e nella società.
(Es. 2)
Il maestro di cappella di Domenico Cimarosa, breve intermezzo giocoso
di indubbia comicità, è un esempio di teatro nel teatro, o meglio di un teatro
in musica che parla della musica nel momento del suo farsi. Ascoltiamo un
maestro di cappella alle prese con la concertazione di due arie strumentali di
diverso carattere. Assistiamo all'indisciplina degli strumentisti, e della
musica stessa, che tende a scappare da tutte le parti, alle esortazioni
euforiche e agli innervosimenti del maestro sull'orlo della disperazione, e alla
sua necessità di condurre comunque il suo piccolo gregge strumentale a buon
fine, dai bordi della catastrofe appena sfiorata e della confusione, sino alla
realizzazione dell' «armonico fracasso», «dell'assieme che tiene ciascheduno
facendo la sua parte»: cioè la realizzazione dell'opera che stiamo ascoltando.
Nella
musica l'alternarsi di confusione e ordine, e il loro contrasto, diventa un vero
e proprio gioco: l'ordine formale di un tema si dissolve nella sua variazione,
si perde nel silenzio o in uno sviluppo che lo rende irriconoscibile, ma prima o
poi ritorna, si ripropone e addirittura si può riproporre con insistenza comica.
Il tuffo nell'indistinto della beata confusione, che gode del disordine e di un
gioco illimitato, richiede che si riemerga in qualche luogo noto e
riconoscibile. I processi di scissione e di ricomposizione che regolano il
nostro rapporto con la realtà e con noi stessi, e che Bion (1963) ha
caratterizzato come continua oscillazione PS↔D, sono comunque regolati a loro
volta, scritti e prescritti nella musica. Non si deve scambiare la simulazione
artistica dell'esperienza di confusione con l'esperienza confusionale che si può
dare spontaneamente, nel nostro rapporto col mondo e con gli altri, e che
rappresenta una matrice fondamentale dell'angoscia catastrofica. Il caos non
prevale mai in musica, e, quando prevale, siamo comunque noi a produrlo, o
qualcuno per noi, cioè la musica e i musicisti. Il nonsenso prodotto ad arte
diverte sullo sfondo del senso che viene abbandonato per un po' e per gioco, in
forme non cogenti e reversibili. Il pensiero musicale simula l'espandersi
temporaneo di elementi beta, in un gioco sempre finito, improvviso e
sorprendente, e comunque voluto, ricercato.
[11]
|
V.
Teatro dell'ascolto e spazio artistico.
La
musica, per potersi manifestare, richiede che i suoni e le loro combinazioni
operino entro uno spazio-tempo riservato, in un setting dedicato
all'ascolto e che permetta di realizzare l'evento musicale: vale a dire
l'esecuzione e la creazione di uno spazio artistico specifico, che si
anima nell'ascolto. Un vero teatro dell'ascolto, dove possono succedere le più
diverse estrinsecazioni sonore (Petrella 1996).
Per illustrare la nozione
di spazio artistico vorrei riferirmi a un notevole passo dell'autobiografia di
Richard Wagner (1911), che implicitamente rende sensibili con acutezza le
peculiarità dello spazio artistico e le dinamiche immaginative che lo possono
attraversare. Al centro del discorso troviamo il rapporto di tensione tra la
dimensione musicale e la nuda parola comunicante.
Wagner, ascoltatore
d'eccezione del Fidelio di Beethoven, cerca di render conto del
cambiamento radicale che interviene nel passaggio dal canto alla parola parlata
in una scena cruciale dell'opera, nell'interpretazione dalla grande cantante
Schröder Darvient nella parte di Eleonora.
Di quale
effetto fosse capace una parola decisiva emessa, nel soverchio degli
effetti, con un'approssimazione al puro accento parlato, ella (la
Darvient) aveva già dato prova nel Fidelio, trascinando il
pubblico al più alto entusiasmo con la frase: «Un passo avanti, e sei
morto!», dove ella diceva, più che non cantasse, la parola «morto».
Quest'effetto smisurato l'avevo subìto anch'io, e derivava dal
meraviglioso terrore che s'impadroniva di me, nel sentirmi piombare
improvvisamente, come per un colpo di scure del carnefice, dalla sfera
ideale, in cui la musica solleva anche le più raccapriccianti
situazioni, sul nudo suolo della più terribile realtà. Le sommità del
sublime si manifestavano qui in immediata rivelazione; ed io me la
spiego, appoggiandomi al ricordo di questa impressione, come il baleno
fulmineo che illumina in tal modo due mondi affatto diversi, nel punto
in cui si toccano eppure si separano completamente, che noi proprio in
quell'istante gettiamo effettivamente lo sguardo in entrambi i mondi ad
un tempo. Ma quale eccezionale condizione rappresenti questo sacro
momento, che non si può sfruttare per nessun fine egoisticamente
personale, me lo apprese quel giorno il completo insuccesso della grande
artista nel suo proposito. La nuda parola, espressa con rauco suono, fu
come una doccia fredda: non vi vedemmo null'altro che un effetto
teatrale mancato. (p. 208-209)
Nell'improvviso passaggio dal canto al parlato, l'ascolto wagneriano rende
percepibile lo spazio immaginario nel quale si giocano, in quel momento
culminante del Fidelio, grandi effetti e tensioni formidabili. E' compito
dell'arte dell'interprete rendere questi moti sensibili, visibili e infine
percepibili con chiarezza, sia pure nel baleno di un istante. Parola e canto,
che convivono, uniti o separati, senza disturbarsi - in altri momenti e in
contesti ben distinti del medesimo
Singspiel - in quell'istante appaiono appartenere a due mondi
radicalmente contrapposti e contrastanti. Avvertiamo come «sublime» il contrasto
tra la sfera dell'alto raccapriccio e la caduta al suolo della realtà più cruda.
Ma basta poco perché quest'effetto di grandiosa animazione del contrasto venga
meno. L'effetto comico è alle soglie e tutto il resoconto di Wagner finisce per
avere un che di umoristico.
Penso sia importante
interrogarsi su questo racconto wagneriano. Esso rivela in modo molto diretto
qualcosa che è sempre presente nell'arte e anche nella musica, ma che è
difficile da rendere esplicito con tanta sensibile chiarezza riflessiva: è il
dispositivo che rende possibile l'esperienza artistica, lo sviluppo
dell'esperienza sublime, ma anche la comicità, il riso e l'umorismo.
Si tratta di un apparato
idealizzante e illusionistico che si accompagna alla creazione degli oggetti
immaginari ideali, che nella musica prendono vita e corpo attraverso
l'esecuzione. Questa creazione di oggetti immaginari ideali è il risultato di
una Spaltung, di una scissione (Split), che isola l'esperienza
artistica dalla realtà e crea, nel suo spazio e per chi ascolta, una nuova
realtà, provvista di caratteristiche e potenzialità proprie.
Entro lo spazio dell'opera
musicale troviamo l'elevato e l'abissale, una sfera sublime e una sfera terrena
in contrasto, e, in generale, un paesaggio sonoro che viene percorso dallo
spettatore immobile, prodotto da un esecutore che lo sviluppa a beneficio
dell'ascoltatore. Ma ciò accade sullo sfondo e nel cavo di una tensione tra
questa interiorità e ciò che l'opera tiene al suo esterno - innanzi tutto il
rumore e il caotico, ma anche il casuale, e in generale il polo mondano
dell'esperienza, assimilato a una pura negatività da annullare e zittire. La
musica si espande e lavora entro questo spazio-tempo silenzioso ed esclusivo.
Ciò che è stato escluso non può indifferentemente esservi immesso. Dentro
la musica deve dominare in modo assoluto il suono organizzato, offrendosi
all'ascolto in tutta la sua purezza, e quindi non come accompagnamento o
complemento dell'azione drammaturgica, né come puro accessorio di una musica di
scena. La musica stessa crea la propria scena, riempiendola a piacere e
organizzandola. Benché nascano dal corpo e dal cimento del corpo degli esecutori
con gli strumenti, i suoni della musica, una volta prodotti, sembrano vivere di
vita propria e sviluppare le loro aeree vicissitudini combinatorie.
L'umorismo e il comico in
musica nascono ed operano entro il teatro dell'ascolto così generato.
[12]
L'esistenza di questo spazio artificiale, che tiene il disordine e
l'imprevisto al di fuori, concentrando e limitando tutte le possibilità del
gioco della rappresentazione entro il suo dominio artificioso, è la condizione
preliminare della pura comicità musicale.
Pirandello (nel cap. V de
L'umorismo), affermava, senza alcun riferimento alla musica, che l'arte
convenzionale, come tutte le costruzioni ideali e illusorie, tende a fissare la
vita: «la fissa in un momento o in vari momenti determinati: la statua in un
gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile», astraendo,
concentrando e rappresentando «l'idealità essenziale e caratteristica» delle
cose e degli individui.
L'umorismo ha il compito
di contrastare questa idealizzazione. Anche la musica riesce a fissare «quel che
è mobile, mutabile, fluido», ma al tempo stesso è capace di simularne la
mobilità, con i suoi contrasti,
contraddizioni e digressioni, con quello che di slegato,
scomposto e capriccioso caratterizza la vita, in contrasto con
le sintesi idealizzatici dell'arte. Le parole impiegate da Pirandello per
qualificare l'umorismo sono quelle sottolineate, e si attagliano perfettamente
alla musica in generale.
Inoltre, sempre la
trascrizione sonora dell'esperienza e l'invenzione musicale allontanano dalla
gravità del reale, anche quando la musica finge la massima gravità. Se
«improvvisazione, variazione, effetti d'eco o rispecchiamenti, consonanze e
dissonanze, accelerare o ritardare, moto parallelo o contrario, introdurre un
tema nuovo, sono tutte attività comuni a musica, sviluppo del bambino, gioco e
lavoro analitico» (Schön, 2001), si deve allora cogliere anche la presenza
immanente dell'umorismo nella musica, in ogni.musica? Si potrebbe cioè affermare
che ogni musica possiede una valenza umoristica intrinseca?
Probabilmente sì, in un senso molto generale. La musica presenterebbe, per le
sue caratteristiche strutturali, intrinseche proprietà umoristiche, che le
appartengono di diritto e che la differenziano specificamente da altre arti.
Infine, proprio perché è mobilmente espressiva, la musica può anche non
esserlo, esattamente come una persona vivace, che all'occorrenza può essere
atona, impassibile o fare l'indifferente. Anche il gioco tra inarticolato e
articolato richiede di essere dominato. Ciò non significa che non vi possano
essere aspetti inconsci presenti nell'opera e tali da produrre effetti di vario
genere, che diventano consapevoli allo sguardo o all'orecchio di qualche
fruitore, per restare in altri casi impercepiti o agire subliminarmente[13].
|
VI. La
musica che fa ridere.
Perché
il sorriso dello spettatore diventi riso generoso e spasso, occorre che si
attuino certe ulteriori condizioni.
Ci troviamo di fronte, a
«tecniche del comico» in musica che possono coesistere, senza escludersi
reciprocamente. Consideriamo i seguenti esempi.
a. L'opera musicale può
neutralizzare e totalmente dimenticarsi della corporeità: del corpo materiale
dell'esecutore e dell'ascoltatore, della corporalità del suono e del mondo. I
suoni generano una pura forma disincarnata e spirituale, un'aerea stilizzazione
vocale e strumentale. Ma in essa ad un tratto il corpo si fa presente in vari
modi, irrompendo sulla scena, senza necessariamente incrinare o spezzare il
sogno, come accade invece nell'episodio narrato da Wagner.
La smorfia di un
pizzicato, la piroetta di un glissando improvviso, la sguaiataggine di un ottone
intrusivo possono far ridere. La sublime purezza, l'elevazione virtuosistica
celestiale è a un tratto deliberatamente contaminata, macchiata.
E'
interessante rammentare qui la testimonianza autobiografica di Igor
Strawinskij su una delle sue prime impressioni sonore infantili. Racconta
Strawinskij: durante le vacanze estive passate in campagna da bambino, un
vecchio contadino muto, rosso di pelo e seminudo, era oggetto della
curiosità dei ragazzini, che gli si avvicinavano con timore. All'avvicinarsi
dei ragazzi impauriti, il muto si metteva a cantare un canto costituito da
due sillabe, le uniche che riuscisse a pronunciare, «prive di qualsiasi
senso, ma che alternava con un'incredibile destrezza in un movimento assai
vivo. Accompagnava questo chiocciare nel seguente modo: applicava la palma
della mano destra sotto l'ascella sinistra, poi, con un gesto rapido, faceva
muovere il braccio sinistro appoggiandolo sulla mano destra. Faceva così
uscire da sotto la camicia una serie di suoni abbastanza sospetti, ma ben
ritmati e che per eufemismo si potevano definire baci di nutrice. La
cosa - continua Strawinskij - mi divertiva pazzamente e, a casa, mi sforzavo
con molto zelo di imitare questa musica. Tanto e così bene che mi proibirono
di servirmi di un accompagnamento così indecente. Non mi restavano così che
le due tristi sillabe, che per me perdevano così ogni attrattiva».
Le
Croniques de ma vie (1935) si aprono con questo vivido ricordo (di
copertura), dove la corporalità del suono musicale si manifesta per la prima
volta al bambino in forma prorompente e in molte sue componenti
fondamentali, tutte simultaneamente presenti: l'artificio, la comunicazione,
gli affetti, la relazione, il divieto, la bassa corporalità, l'impaccio
della parola articolata...
Molte
gag musicali dei clown si basano sul contrasto tra la leggerezza del suono e la
resistenza e carnalità della materia e del corpo. Una forma di comicità si
manifesta quando il virtuosismo trascendentale, da pura espressione ed
espansione lirica o acrobatica, mostra a un certo punto la corda, si impappina e
cala le brache. Il lavoro e lo sforzo esecutivo prima occultati si manifestano
d'un tratto. Ma poi il puro gioco riprende e ricrea l'illusione che aveva
spezzato, come un prestigiatore fa mostra di spiegare il suo trucco, che in
realtà si rivelerà invece essere una magia ancora più abile.
I Capricci
di Paganini sono un buon esempio di umorismo lirico-acrobatico, veramente
funambolico. Essi non hanno tuttavia nulla di comico, ma ci fanno stare col
fiato sospeso, anche noi a camminare sulla corda, piroettando sul vuoto. Perché
compaia il comico, bisogna rappresentare ulteriori ostacoli e difficoltà, per
uscirne egualmente vittoriosi, come nel Circo di Chaplin, quando il
funambolo improvvisato, assalito da un branco di scimmie, potrebbe cadere da un
momento all'altro, ma riesce tuttavia a compiere gloriosamente il suo percorso.
b. La musica può farsi
beffe di se stessa, mettendo in caricatura la musica stessa e chi la produce.
Oggetto di riso può essere
il divismo dei grandi cantanti del passato, con i loro tic vocali da mettere
alla berlina, sottolineando caricaturalmente le smancerie del patetico sublime o
i manierismi della coquetterie canora. I grandi effetti comici realizzati
dalle gag esilaranti di Michael Aspinall sono ottenuti imitatando e
sbeffeggiando la vocalità e la gestualità delle cantanti d'opera. Le sue parodie
della «prima donna» mostrano con garbo impietoso gli artifici nascosti sotto lo
smalto della pura idealità vocale.
Anche la musica pura può
assumere tratti parodistici. Si adopera allora a contraffare, per eccesso o per
difetto, il suo apparato formale, a sottolineare i suoi manierismi procedurali e
i suoi errori costruttivi. La composizione può risultare volutamente scomposta,
formalmente sgangherata, a beneficio del divertimento dell'ascoltatore. I
difetti costruttivi o esecutivi dell'opera sono allora evidenziati, accentuati
caricaturalmente ed esibiti, prodotti da un'estrema maestria e non da
un'insipienza da musici del villaggio.
(Es. 3)
L'esempio più caratteristico di queste parodie è Uno scherzo musicale K
522 di Mozart. Il discorso contrappuntistico è volutamente debole e
incespicante; alla pretenziosità delle intenzioni del compositore messo alla
berlina segue una «rozza bastonatura»; i suoi slanci lirici si rivelano di una
melensaggine convenzionale maldestra. Abert (2000) analizza accuratamente questi
tratti della composizione, dove Mozart finge con somma maestria l'incompetenza
presuntuosa di un compositore da strapazzo. La musica è volutamente bistrattata.
Ma si attiva un gioco sottile tra costruzione del discorso e attacco al discorso
musicale e a chi lo produce. Con gli accordi finali si realizza il crollo
armonico e formale dell'opera. L'aggressione alla lingua nasconde ovviamente
un'aggressione personale. Verso chi? Verso il padre appena morto? Un'area
congetturale si apre alle nostre fantasie, senza che se ne possano definire i
termini effettivi.
c. Esistono generi
musicali, che devono stare ben separati tra loro e non possono convivere
tranquillamente. La loro coesistenza, una musica nella musica, genera vari
effetti di contrasto, di mise en abyme e di caratterizzazione spesso
umoristica (rivolta a una situazione, a un ambiente). Tipiche di queste
commistioni le citazioni musicali suonate dall'orchestrina sulla scena nel
Don Giovanni; la parodia dell'aria italiana cantata dal tenore italiano nel
Cavaliere della rosa; l'aria francese da salotto nell' Eugenio Onieghin.
Qui tuttavia non c'è comicità, ma solo un umorismo riflessivo prodotto
dall'imitazione.
(Es. 4)
Ma se un nobile, elegante e spedito Quartetto di Haydn si trasforma senza
discontinuità in una canzone dozzinale che tutti riconoscono, per poi tornare ad
essere se stesso, l'effetto comico è assicurato.
[14]
E' come se un elegante, distinto e ben vestito signore si mettesse
improvvisamente a tenere un comportamento volgare e inammissibile, facendo finta
di niente. La situazione si degrada improvvisamente, perché si mescolano generi
e «modi» che devono stare rigorosamente separati per motivi di etichetta o di
sicurezza. Assistiamo al fenomeno di una degradazione improvvisa e alla
simulazione di un disimpegno formale che, direbbe Freud, si scarica nel riso.
Siamo coinvolti da uno smascheramento del sublime e dal suo scadimento, cioè dal
fenomeno dell'abbassamento, della Herabsetzung, generatrice di
comicità (snizenie, dirà Bachtin (1965, p. 25) sulle orme di Freud).
d. Le possibilità sono
innumerevoli. (Es. 5)
Ecco allora un esempio opposto al precedente. Le ottime trascrizioni di
Alexander Weinmann comprimono elegantemente in un quartetto d'archi con
contrabbasso i ricchi colori e le espansioni orchestrali dei Walzer di Lenner e
degli Strauss. La trascrizione consente la loro importazione nell'ambito della
musica da camera, con effetti vari: qui non abbiamo comicità, ma all'opposto una
valorizzazione di aspetti intimi e colloquiali, un assottigliamento dello
slancio orchestrale variopinto in sottolineature conversative umoristiche. Nelle
trascrizioni di Weinmann queste composizioni acquistano inediti toni
cameristici, salottieri nel senso migliore della parola. Si crea un effetto
nuovo e un cambiamento notevole d'ambiente, che sorprende e spiazza le attese di
chi identifica il suono e il linguaggio del quintetto d'archi con le forme e le
atmosfere di Haydn, Mozart e Beethoven.
e. Mozart ha scritto
parecchie composizioni con intenti dichiaratamente comici, finalizzate allo
spasso degli esecutori. Il gioco umoristico investe anche il testo musicato, con
contrasti divertenti: troviamo così imitazioni di uno stile operistico mediante
un insieme vocale con strumenti, ma su parole stravaganti e neologismi che vanno
a costituire un dialogo assurdo e spesso pepato.
(Es. 6)
Il quartetto Caro mio Druck und Schluck o (Es. 7) il
Bandl-Terzett K. 441 sono un buon esempio di questo tipo di comicità,
che si burla dei modi operistici.
(Es. 8)
Alcuni canoni mozartiani a più voci inscrivono nello stile severo del canone a
cappella varie trovate e scherzetti testuali, talvolta osceni, come il famoso
Difficile lectu mihi Mars et jonicu difficile (K 559). Per Paumgartner
(1940) questi canoni mozartiani «sono l'equivalente musicale delle lettere alla
cuginetta».
f. La musica può imitare
la natura, le persone, le loro voci, i versi degli animali e la musica stessa,
traendo da tutto ciò effetti comici diversi, a patto che si realizzi una qualche
degradazione, una desublimazione o una caricatura di qualche aspetto.
(Es. 9)
Due ecclesiastici tardorinascimentali, musicisti e buontemponi d'ingegno, Orazio
Vecchi, con l'Anfiparnaso,e Adriano Banchieri col suo Festino nella
sera del Giovedì grasso o con la Pazzia senile, e altro
ancora, ci hanno lasciato madrigali drammatici parodistici irresistibili, dove
le voci di un quintetto vocale fanno il verso a vecchi rimbambiti, imitano i
versi di animali di vario genere, il suono di strumenti musicali a plettro, o le
grida e i discorsi in plurimi dialetti degli abitanti sulle rive del Brenta. Il
nobile sound madrigalistico, senza abbandonare l'impegno esecutivo e con
la massima serietà, si impegna anche in queste mirabili e spassose
«sciocchezze».
g. Si può confrontare
l'imitazione caricaturale madrigalistica con un esempio strumentale simile, ma
assai lontano, per epoca e per area culturale. (Es. 10)
Un tremolo indiavolato di due straordinari violinisti tzigani russi degenera
improvvisamente in un battibecco tra due uccelli, o, se si preferisce, tra due
persone litigiose o, più semplicemente, tra due violini che cercano di parlarsi
imitando la prosodia di un discorso, per poi beccarsi scompostamente, con una
verve irresistibile e quasi scurrile, che strappa il riso
[15]
.
h. In altri casi, la
comicità scaturisce da un gioco, che mette in contrasto ridanciano musica e
testo, sovvertendo i loro rapporti canonici, custoditi da una salda e potente
tradizione. In età medioevale, e semel in anno, le«feste asinarie», la
festa dei folli e altre consimili, si burlavano pesantemente della musica
liturgica. Avveniva che il basso clero imitasse, satireggiandole, le forme e i
modi del gregoriano, stravolgendo le parole del rito religioso. Questa parodia
blasfema del sacro istituito si scatenava annualmente e carnevalescamente in
coincidenza col Capodanno. La profanazione musicale non era che un momento di
una pratica di licenza che metteva sottosopra l'ordine canonico dei riti e dei
divieti della Chiesa. René Clemencic (1979) ha tentato una godibile
ricostruzione, sulla base di manoscritti, di queste pratiche carnevalesche.
[16]Clemencic
ricorda che tali pratiche resistettero alla repressione ecclesiastica sino al
XVI° secolo. Esse sono da considerare una parte non trascurabile di quella
carnevalizzazione che culminerà nell'opera di Rabelais e che Bachtin (1965) ha
analizzato nel suo famoso saggio.
Questo piccolo campionario
mostra, senza alcuna pretesa esaustiva, la varietà dell'umorismo e la capacità
della musica, spesso della pura musica, di indurre il riso utilizzando un certo
numero di tecniche del comico.
|
VII.
Quando la musica imita il riso.
Vorrei
ora esaminare un differente aspetto del riso nella musica. Non come la musica
suscita il riso, ma come la musica assume il riso nel proprio linguaggio e come
lo trasmette agli ascoltatori. Se esiste la musicalizzazione del pianto e del
lamento, abbiamo anche quella del riso. La musica vocale e strumentale, per
importare il riso dentro il suo dispositivo, deve imitarlo, stilizzarlo, con lo
scopo di piegarlo infine alle proprie esigenze.
Nel
compiere questa operazione mimetica, la musica dispone di maggiori
strumenti espressivi rispetto alla mimesi del riso nella scrittura,
oltre ad avvalersi dell'iniziativa e del contributo dell'interprete..
Sugli
Ha-ah, he-he, hi-hi, hu-hu, ho-ho del riso si è sviluppata nel
1600 e sino all'Illuminismo un tentativo di codificazione delle varie
forme di risata, basata sull'ipotesi di una stretta connessione tra le
diverse vocali e gli umori corrispondenti ai vari temperamenti.
[17]
La
musica può sedurre l'ascoltatore a identificarsi col riso della musica.
L'ascolto silenzioso e l'inibizione della propria voce nell'ascolto sono allora
abbandonati e l'ascoltatore si associa con un vero riso al riso della musica.
Questa seduzione è
smaccata solo nella musica che aspira alla comicità. Si verifica in tale caso
qualcosa che assomiglia al vecchio trucco dell'attore comico, in genere non di
gran livello, per favorire il riso degli spettatori: ridere egli stesso,
mostrando di divertirsi a ciò che dice.
(Es. 11, 12)
Nella notevole aria «Ah, quel diner», da La Périchole
di Offenbach, l'ebbrezza alcolica del personaggio autorizza e giustifica il
suo riso immotivato, la cui estrinsecazione tuttavia è soprattutto lasciata
all'iniziativa dell'interprete.
[18] Il pubblico è indotto a un'identica disinibizione
e alla partecipazione.
(Es. 19)
Troviamo seduzione al riso nell' «Aria della risata» («C'est l'histoire
amoureuse») della Manon Lescaut di Auber. In questo scintillante esempio
di stilizzazione musicale di un riso scoppiettante, l'éclat de rire è
preceduto e annunciato da un rallentamento controllato che prelude
all'esplosione della risata.
Se escludiamo quest'uso
del riso per produrre una comicità che a sua volta fa ridere, il riso si
manifesta nella musica in tutte le sue numerose varietà
[19]e diviene, spesso semplicemente per contrasto, un
elemento drammaturgico specifico per caratterizzare un personaggio e soprattutto
per sottolineare o esasperare l'angoscia, lo smarrimento e altri affetti
negativi simultaneamente presenti.
Ecco tre esempi, molto
diversi tra loro, di un riso che non produce comicità per chi ascolta.
1. Nel
finale dell'atto II del Ballo in maschera troviamo la risata
«sogghignante» dei congiurati in un momento culminante dell'opera. Un concertato
geniale esprime e contiene i nodi drammaturgici della trama, venuti
improvvisamente al pettine, in una varietà di posizioni che la scrittura
contrappuntistica e mobilmente alternata del concertato ha il compito di tenere
insieme, simultaneamente e distintamente.
(Es. 13)
Il coretto dei congiurati commenta:
Ve', la tragedia mutò in commedia
Piacevolissima, Ah! ah! ah! ha!
E
che baccano sul caso strano,
E
che commenti per la città!
E'
successo che ad Amelia cadesse fatalmente il velo che le nascondeva il volto e
le consentiva l'anonimato. A questo svelamento istantaneo corrisponde una
rivoluzione nella narrazione, una vera rivelazione, gravida di effetti immediati
e a meno breve termine. Il coretto dei congiurati scopre con sorpresa che la
donna velata non è altro che la moglie del Baritono ignaro, il quale scopre a
sua volta in quel momento che è sua moglie a tradirlo col suo migliore amico. Il
Baritono ha appena sostituito generosamente l'amico nel suo incontro amoroso con
la donna velata, per salvagli la vita dai congiurati che si apprestavano ad
ucciderlo.
Con la caduta del velo
l'azione muta improvvisamente: per i due, anzi i tre personaggi del triangolo,
ha inizio la tragedia, che si concluderà con l'assassinio durante il ballo in
maschera; per il coro dei congiurati la vicenda si trasforma all'istante in
commedia galante, in risibile pochade. La risata del coretto è concorde,
maligna e cortigiana. Un riso sarcastico e pettegolo ha sostituito le intenzioni
omicide del gruppo.
2.
'A risa (1895) di Berardo Cantalamessa, celebrato
compositore ed esecutore di canzoni napoletane, fu un popolare
successo della fine dell'Ottocento. Nella canzone, che conobbe
numerose versioni e rifacimenti, un tale descrive la propria
caratteristica di produrre, in ogni occasione anche triste o
dolorosa, una risata irrefrenabile, che si ripete nel
ritornello.
[20]'A risa sarebbe un buon
esempio di risata musicale seduttiva, contagiosa e corriva, che
invita esplicitamente a ridere.
3. Thomas
Mann, che probabilmente conobbe questa canzone in uno dei suoi soggiorni
italiani, quando 'A risa era in gran voga, la utilizzò in pagine
memorabili de La morte a Venezia (Mann, 1911, pg. 92-99). Nel
racconto manniano a suonarla è un gruppetto di posteggiatori partenopei, quattro
«pezzenti virtuosi» in trasferta veneziana («mandolino, chitarra, fisarmonica e
un piagnucoloso violino»). Il chitarrista è anche il cantante, una specie di
baritono buffo, caratterista quasi senza voce, ma eccellente mimo e con una
vis comica innegabile. Un tipo «mezzo magnaccia mezzo commediante, brutale e
protervo, pericoloso e spassoso». Il canto in questione viene eseguito nel
giardino dell'Hôtel Des Bains come ringraziamento al pubblico, al termine della
questua per il concertino.
Ecco la precisa
descrizione del pezzo. «Era un salace rondò, in dialetto incomprensibile e con
un ritornello a risata». A un certo punto «cessavano parole e accompagnamento;
non rimaneva che la risata, obbediente bensì a un certo ritmo, ma trattata con
grande naturalezza specie dal solista, che sapeva infonderle evidenza
stupefacente». Eppure si trattava di una «risata cinica finta», una risata di
scherno, che finiva tuttavia, nella sua urlata teatralità, per coinvolgere
tutti: dal ricco pubblico degli ospiti sino ai camerieri. L'ilarità disperata di
questa canzone acquista nelle pagine straordinarie di Mann significati sinistri
e diabolici, con risonanze licenziose e sulfuree che ben si accordano con lo
sconvolgimento emotivo del protagonista, annunciando per contrasto l'inizio
della sua fine prossima.
Nel film che Visconti trae
dal romanzo (1971), la canzone della risata occupa un posto eminente e dà luogo
a una sequenza mirabile per fedeltà e felice ricreazione fin nei minimi dettagli
della tessitura del racconto. Il riso licenzioso e quasi osceno, con la sua
fisica corporalità prorompente, entra nel mondo ovattato della ricca società
dell'albergo. Anche qui abbiamo un contatto inquietante tra due mondi
antitetici, all'insegna di un riso catalizzatore, che tutti accomuna in un
momento carnevalesco, tranne Aschenbach, il protagonista solitario, ormai
irrimediabilmente segnato dalla morte.
4.
Berardo Cantalamessa, con la sua canzone ridanciana e popolare, non si sarebbe
certo aspettato di vedere conferire alla sua «macchietta» un significato così
sinistro. Eppure è assai verosimile considerare la versione sulfurea manniana di
'A risa come l'anticipazione di un'altra risata in musica, descritta, ancora
da Thomas Mann (1947), nel Doctor Faustus.
Si tratta di
Apocalipsis cum figuris, oratorio per coro e orchestra, la penultima
grande composizione dell'infelice compositore Adrian Leverkühn, da lui scritta
poco tempo prima di essere distrutto dalla demenza paralitica. A differenza
dalla canzone precedente, questo oratorio è una pura invenzione letteraria, alla
quale non sembra corrispondere alcun preciso modello musicale.
Qui il riso, perduto ogni
connotato gioioso, è diventato «il pandemonio della risata», il riso infernale
che costituisce il finale della prima parte dell' oratorio. Mann ce lo descrive
come «travolgente gaudio della geenna che incomincia con la risata di una voce
singola e per cinquanta battute fila rapidamente, comprendendo coro e orchestra
tra incroci e inversioni ritmiche fino a un traboccante e sardonico fortissimo
di tutte le voci e tutti gli strumenti - una scarica di sataniche risate di
scherno e di trionfo, composta orrendamente di urli, latrati, stridii, muggiti,
ululati, belati e nitriti». (p. 718 -719)
A questo riso dell'inferno
si contrappone, subito dopo, un meraviglioso coro di voci bianche, con
un'orchestra ridotta. «Un brano di musica delle sfere cosmiche, gelida, limpida,
diafana, aspramente dissonante, ma d'una dolcezza di suoni che direi
ultraterrena, inaccessibile e tale da riempire il cuore di nostalgia senza
speranza». Ma una sostanziale identità unisce il riso infernale al coro
angelico: nel quale «è cambiata la strumentazione e vi è trasformato il ritmo,
ma in quella musica struggente non vi è nemmeno una nota
che non si trovi in precisa corrispondenza anche nella risata infernale».
Il riso in musica sembra
trovare un suo limite estremo in questa invenzione extramusicale sulla musica e
le sue possibilità espressive e trasformative. Un doloroso sadismo erode e nega
la possibilità del riso di elevare e soddisfare gli animi. Si genera invece un
sublime riso negativo. Si afferma al tempo stesso che la musica delle sfere
celesti è sostanzialmente identica all'urlo dell'inferno. Lo spirito dell'odio
guasta il buon riso e lo precipita, come riso infernale, nell'area del sangue
cattivo, del dolore e della malattia, della megalomania distruttiva e della
morte psichica. La chiara partizione tra inferno e paradiso ha perduto quasi
totalmente ogni tratto distintivo sostanziale: rivelandosi una pura differenza
illusoria, di orchestrazione e di forma. La costruttiva scissione tra bene e
male è fallita gli opposti coincidono. Si potrebbe qui parlare, in analogia col
«- K» di Bion, di un «- R» (dove K sta per Conoscenza e R per Riso). Un riso col
segno negativo non significa pianto, ma urlo infernale, risata che ha perduto
ogni connotato gioioso e positivo all'insegna del trionfo della distruttività e
dell'odio, espressione della parte psicotica della personalità e
dell'idealizzazione del negativo.
|
VIII. La
follia comica in musica.
Non è il caso di
concludere foscamente uno scritto sul comico musicale, lasciando l'ultima parola
all'Apocalisse di Mann. Qui la musica è soprattutto un'invenzione letteraria e
un simbolo artistico estremo della rovinosa malattia storica della Germania e
del Novecento.
Meglio allora, tornando all'opera musicale, rivolgersi alla comicità gioiosa
di qualche finale d'atto di Rossini, considerando qualcuno dei suoi concertati
estatici e palpitanti di umorismo. Per contrastare il riso infernale
dell'Apocalisse, voglio ricordare tre di questi concertati rossiniani, con
l'intento che facciano da farmaci euforizzanti (o da droghe evasive?) rispetto
alla piega satanica presa dal discorso.
Nei tre esempi seguenti, è essenziale, per istituire la comicità, il gioco
convergente tra le parole del libretto, la musica e la storia narrata. Il lieto
fine si accompagna nei tre casi allo scorno e alla sconfitta di qualche
personaggio negativo, che con la sua autorità e col suo potere ostacola il
raggiungimento della felicità da parte dell'eroina oppressa. In tutti e tre i
casi una benefica, transitoria e calcolatissima follia evasiva interviene nel
momento culminante, in cui il racconto rischia una svolta negativa o tragica,.
Qui si concentra, allo stato puro, quella «follia organizzata e completa»che
Stendhal (1824) ravvisava come una caratteristica forte dell'Opera comica
rossiniana.
L'opera seria ci confronta con la follia tragica e luttuosa, col delirio
distruttivo prodotto da passioni insane - innanzi tutto amorose e ad esito
rovinoso. L'opera comica ci mostra invece il lato ridanciano del delirio, una
versione ridicola e sorridente di una pazzia condivisa, transitoria e collettiva
1. Consideriamo per primo Il Barbiere di Siviglia e la
macchina irresistibile del quintetto che si scatena, dopo il sospeso «quadro di
stupore» unanime, sui versi (Es. 14)
Fredda ed immobile - come una statua, - fiato non restami - da respirar.
Mentre Figaro, ridendo,
esclama:
Guarda
Don Bartolo! - Sembra una statua!- Ah ah! dal ridere - sto per crepar!
(Es.
15)
Per arrivare infine al sestetto e alla «stretta», dove si
realizza quella bergsoniana meccanizzazione ritmica della vita,
che è una componente della follia e insieme della comicità.
(Es.16)
Mi par d'esser con la testa - in un'orrida fucina, - dove cresce e mai non
resta - delle incudini sonore - l'importuno strepitar. - Alternando questo e
quello - pesantissimo martello - fa con barbara armonia - muri e volte
rimbombar. E il cervello, poverello, - gia stordito, sbalordito, - non ragiona
si confonde, - si riduce ad impazzar.
Nei
versi del libretto, la pazzia è barbaro rumore, strepito rimbombante,
orrida fucina (tutti aspetti allusivi a una sonorità traumatica e
caotica, agli antipodi di ogni musica). Tuttavia è l'ordine della musica a
trasformare la pazzia rumorosa in umorismo musicale indiavolato.
2.
Affianchiamo al Barbiere di Siviglia un altro concertato, quello della
scena VIII di Cenerentola. Il sestetto esprime lo stupore per la
rivelazione dell'identità del vero Principe. La sua rinuncia al travestimento
coincide con lo scorno di Don Magnifico e delle due sorelle e prelude allo snodo
del finale lieto. Un canone delle varie voci, subentranti all'ottava o alla
quinta, «rappresenta» musicalmente quell'intreccio aggrovigliato di cui parla il
sestetto.
(Es. 17)
Questo è un nodo
avviluppato- Questo è un gruppo rintrecciato, - Chi sviluppa più inviluppa;- Chi
più sgroppa più raggruppa; ed intanto la mia testa - Vola, vola e poi s'arresta,
- vo tenton per l'aria oscura, - E comincio a delirar.
Percepiamo la consistenza fonica del groviglio, con tutti quei gr, tr, pp...
Ma al tempo stesso il concertato, col suo contrappunto, ci parla con la massima
lucidità anche del groviglio della trama dell'opera, con i suoi affetti
contraddittori e i suoi imbrogli, generatori di confusione e abbagli, che si
scioglieranno infine con l'apoteosi di Cenerentola.
3.
Per concludere, consideriamo la stretta del Finale del I atto dell'Italiana
in Algeri, «dove, forzando il senso onomatopeico di parole e immagini,
Rossini costruisce una geniale pagina contrappuntistica e coloristica» (Rognoni,
1968).
(Es. 18)
Va sossopra il
mio cervello - sbalordito in tanti imbrogli;- Qual vascel fra l'onde e i scogli
- Io son presso a naufragar. - Nella testa ho un campanello - Che suonando fa
dindin. - Come scoppio di cannone - la mia testa fa bumbum. - Sono come una
cornacchia - che spennata fa crà crà.- Nella testa un gran martello - mi
percuote e fa tac tac.
Nella
testa ho un campanello sviluppa l'onomatopea dei din-din, bum-bum, cra-cra e
tac-tac: siamo presi da un ciclone «in cui la buffoneria si è fatta suono» (Roncaglia,
1946). La circostanza scatenante è rappresentata dal fatto che il Turco
prepotente è stato mandato in una rischiosa e temibile confusione («Costei mi fa
impazzir») dal rifiuto sprezzante di Isabella, l'Italiana di cui si è invaghito.
Nei tre concertati,
troviamo molti ingredienti della comicità più tipica, associata alla comicità in
musica.
Intanto la sconfitta del
prepotente (rispettivamente Bartolo, don Magnifico e Mustafà), avviene
definitivamente quando questi è gabbato e messo fuori uso da un' astuzia di
superiore efficacia, che ottiene il nostro divertimento e adesione, pur non
trattandosi di procedimenti molto onesti e spesso a loro volta prepotenti: veri
e propri imbrogli.
La musica è complice del
procedimento e concorre in modo determinante all'evasione euforica del gruppo.
Assistiamo alla comparsa di una follia comica caratterizzata con precisione.
La follia comica è
riflessiva, sapiente, generalizzata, e soprattutto ridanciana; dove la
regressione poetica del testo del libretto e quella emotiva dei personaggi,
finalmente riuniti in un gruppo, sono controllate da una superiore
organizzazione ritmica e contrappuntistica, che trasforma alcune temibili
deviazioni psicopatologiche in meraviglioso e spassoso gioco. Infine lo
«stupore», la «confusione», il «delirio», il «naufragio» mostrano di poter
diventare motivi di divertimento e di riso, ristabilendo, per una via musicale,
l'ordine e la felicità.
Con questi concertati
siamo certamente all'interno di una formula comica provvista di una propria
coerenza. Un articolato stilema, narrativo e musicale, si ripete: si passa dallo
stupore per una situazione e una verità rischiosa a una follia riflessiva
attraverso la quale si raggiunge un'unanimità integrata nel canto. In tutti e
tre i casi siamo all'apice di una sfida al potere e all'autorità da parte della
potenza dell'amore. In quel punto, nella musica, se non nella narrazione,
nell'insieme del gruppo se non nel singolo personaggio, si armonizza e si placa
ogni conflitto. Siamo di fronte a uno svincolo narrativo fondamentale, dove il
bene deve essere chiaramente distinto dal male e trionfare su di esso, ma senza
morti e feriti, e anche senza eccessive mortificazioni per qualcuno. Ciò è
richiesto dal genere comico, che rifugge da ogni dénouement
tragico, imboccando senza esitazioni la via dell'euforia, con un minimo di
negazione e un massimo di verità. Sta all'arte un'elaborazione della formula in
modo sufficientemente vario e inventivo per non trasformarla in qualcosa di
stanco e stereotipo, in un luogo comune, artisticamente inefficace e incapace di
suscitare il riso.
|
IX. Per concludere.
Compete ora anche a questo scritto una
«stretta» conclusiva e ricapitolante.
Dopo aver discusso gli aspetti più
generali dell'umorismo, della comicità e del riso nella musica, ho messo a
confronto e fatto interagire l'umorismo musicale con le tesi freudiane e
post-freudiane sul motto di spirito e i processi psichici implicati nella
musica. Ho considerato quindi alcuni aspetti del comico musicale nella musica
strumentale e vocale, con e senza riferimento a testi, ponendo in relazione il
comico musicale alle caratteristiche funzionali (e finzionali) dello spazio
artistico. Spero di aver mostrato l'utilità delle analisi e dei confronti
proposti e l'esistenza di importanti affinità tra umorismo e musica.
Ho infine esaminato tre aspetti fondamentali della comicità musicale: la
musica che promuove il riso, impiegando varie «tecniche» del comico; la musica
che imita il riso, ma che non necessariamente produce effetti di comicità
nell'ascoltatore; la «follia ridicola» nel teatro in musica di Rossini, che
fornisce una forma comica al rischio della disgregazione psichica.
Anche nella musica il comico e il riso si manifestano con qualità che variano
dal buon riso generoso al riso della negatività più nera: da +R a -R. Alla
conoscenza il riso si affianca, in una posizione non necessariamente antitetica
o negativa, maniacale ed evasiva. Nell'arte piccola o grande la mobilitazione
aggressiva richiesta è sempre temperata in varia misura dall'organizzazione
formale che ha funzioni integrative, da una funzione contenitrice che rende
possibile la rappresentazione comica e ne condiziona l'efficacia.
Il buon riso della musica, quando si realizza, sembra
infine presentarsi non come una droga euforizzante, né soltanto come un sistema
di negazione maniacale del dolore, ma come uno dei migliori antidoti al veleno
dell'odio, dell'ira, della superbia, della rinuncia dolorosa e della vendetta.
Un potere fragile e un rimedio salutare, che merita di essere riconosciuto come
tale, coltivato e conquistato, nella musica e nella vita.
Fausto Petrella
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Elenco delle citazioni musicali
1. Prokoviev: da Pierino e il lupo
2. Cimarosa: da Il maestro di cappella
3. Mozart: da Uni scherzo musicale (K 522)
4. T. Werner, da Haydn's Saitensprünge
5. J. Strauss- trascrizione di A. Weinmann
6. Mozart: Caro mio Druck und Schluck
7. Mozart: Bandl-Terzett (K. 441)
8. Mozart: Difficile lectu mihi Mars et jonicu difficile (K 559)
9. Banchieri: da La pazzia senile
10. Loyko: da Moldova (dall'antologia Russian Gypsy Soul).
11. Offenbach: da La Périchole, «Ah, quel diner» (vers. Berganza).
12. Offenbach: da La Périchole, «Ah, quel diner» (vers. Barberian).
13. Verdi: da Il ballo in maschera, finale atto II°.
14. Rossini: da Il Barbiere di Siviglia: «Fredda ed immobile»
15. Rossini: da Il Barbiere di Siviglia, seguito
16. Rossini: da Il Barbiere di Siviglia, «Mi par d'esser con la testa»
17. Rossini: da La Cenerentola, «Questo è un nodo avviluppato»
18. Rossini: da L'italiana in Algeri, «Va sossopra il mio cervello»
19. Aubert: da Manon Lescaut, «C'est l'histoire amoureuse»
(«Aria della risata»)
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Note
[1]
Oltre ai tre studi menzionati, ve ne sono parecchi altri, alcuni dei quali,
a cominciare dall'opera di Th. Lipps, servirono a Freud come punto di
partenza. Vedi, per uno studio delle fonti dello scritto freudiano, R.
Steiner (1982).
[2]
Leopold Mozart muore a Salisburgo il 28 maggio 1787. A Vienna Wolfgang scrive la
citata elegia in morte del suo passero il 4 giugno. Uno scherzo musicale K 522 è
del 14 giugno 1787.
[3]
Capinera, parole e musica di Amerigo Giuliani, fu resa celebre
all'inizio del Novecento dalla cantante napoletana Elvira Donnarumma. Il testo
della canzone, smaccatamente strappalacrime, al punto da poter essere
involontariamente umoristica, recita così: 1. La chiamavan «Capinera» - pei suoi
ricci neri e belli, - stava sempre fra i monelli - per la strada tutto il dì. -
Scalza, lacera, una sera - m'apprestavo a rincasar, - col visino suo di cera -
me la vidi avvicinar. - «Dammi un soldo, ho tanta fame!», - «Hai la mamma?»,
«Non ce l'ho!». - «E il tuo babbo, la tua casa?». E lei triste «Non lo so!». -
Provai una stretta al cuore e quella sera - la mia casetta accolse Capinera. - E
lei cantava, cantava giuliva - di trilli e grida la casa m'empiva - ed un bel
sogno nel cuor carezzavo, - la contemplavo, forse l'amavo. - 2. Tredic'anni lei
compiva - s'era fatta pensierosa: - «Pensi forse a qualche cosa? - che ti
manca?». «Non lo so!». - Primavera, sole e fiori, Capinera è sempre là. - Sta
affacciata e guarda fuori, - «Cosa vuoi?», «La libertà!». - «Non hai casa, non
hai mamma, dove andrai?». Rispose: «Andrò». - Con la mano piccolina l'orizzonte
mi insegnò. - Provai una stretta al cuor, finché una sera - più non trovai a
casa Capinera. - Di trilli e grida la casa m'empiva, - la contemplavo... forse
l'amavo. - 3. Fu in un'alba di gennaio, - dopo l'orgia rincasavo. - Nevicava e
m'apprestavo - ad aprire il mio porton. - A distanza molto breve - vidi un certo
non so che; - affiorava fra la neve, - dissi allor «Vediam cos'è». - Eran cenci,
io li rimossi, - diedi un grido, due piedini, - due piedini scalzi e rossi, -
poi le mani, poi un visin. - Un urlo mi sfuggì vedendo ch'era - la morticina, la
mia Capinera. - Forse pentita al suo nido tornava, - forse quaggiù che le
aprissi invocava... - mentre la neve saliva, saliva... - e lei moriva... e lei
moriva...».
[4]
Vedi, per esempio, il giudizio di Orlando (1987), che ritiene, giustamente, che
il saggio sul Motto di spirito contenga «pagine fra le più mirabili»
che Freud abbia mai scritto (p. 206). Bisogna tuttavia riconoscere che questo
saggio freudiano è spesso sottovalutato: se ne disapprova soprattutto
l'insistito energetismo, che è in realtà soltanto una componente, sia pure
rilevante, del discorso complessivo.
[5]
E' Th. Mann che ne riferisce in Il romanzo di un romanzo. Vedi G. Manzoni (1975,
p. 168).
[6]
Vedi La Gerusalemme liberata, C. IV, st. 3. Non solo il verso citato, ma
l'intera «stanza» risuona di questa tromba infernale.
[7]
Vedi la descrizione di questo Péché de vieillesse in Rognoni (1968), p. 246 e
sg.
[8]
Benché Freud non faccia alcun riferimento alla musica nelle osservazioni citate,
le sue considerazioni si approssimano alla musica della parola e al suo valore
fonico. Non è un caso che la frase citata sia subito seguita da un raro esempio
di sogno 'musicale' (1899, p. 314): «Una signora mia amica sogna: Si trova
all'Opera. E' una rappresentazione wagneriana, che è durata sino alle sette e
tre quarti del mattino»(!) Nel sogno fa la sua allusiva comparsa Ugo Wolf,
rappresentato su un alta torre, che si aggira come un lupo in gabbia, con i
tratti del direttore d'orchestra wagneriano Hans Richter, eccetera.
[9]
Sui problemi qui accennati vedi Jodelet (1965). Confronta anche Petrella e P.
Sommaruga: Il linguaggio come II° sistema di segnalazione, Il lavoro
neuropsichiatrico, 43, 22, 3, p. 1 - 50, 1968. Accenni a questa prospettiva e in
relazione all'umorismo si trovano anche in Koestler (1964), p. 304 - 306.
[10]
Cit. da E. Pontiggia, Postfazione a Lo spirituale nell'arte, cit. Vedi
W. Kandinsky, Tutti gli scritti, Feltrinelli, Milano 1984, vol II, pp. 153 -
182.
[11]
I riferimenti sono a Bion (1963) e ai processi di formazione del pensiero. Sulla
confusione rinvio a Petrella (1978) e, in riferimento all'umorismo,
all'importante studio di R. Steiner (1982).
[12]
Sul rapporto teatro - mente e sul teatro dell'ascolto in musica e nella
psicoanalisi rimando a Petrella (1985 e 1996).
[13]
Per un'importante e sin troppo complessa discussione sugli aspetti inarticolati
del motto di spirito e della musica, messi a confronto con i suoi aspetti
formali, anche in una prospettiva storica, oltre che percettologica e
psicoanalitica, vedi Ehrenzweig (1965).
[14]
Il riferimento è a Haydn's Saitensprünge di Werner Thomas.
[15]
Si tratta del notevole brano Moldova, eseguito dal gruppo tzigano russo «Loyko»
al Festival europeo di musica tzigana a Monaco di Baviera nel 1994. Lo si può
ascoltare nell'antologia Russian Gypsy Soul, a cura di C. Scholze e S.
Erdenko, Network Medien, Frankfurt - Main, 2000.
[16]
Le menzionate ricostruzioni si trovano in un CD «Harmonia mundi», 1998.
[17]
Per una brillante sintesi di questi aspetti, vedi V. Stoichita e A. Coderch
(1999), pg. 287 e s.
[18]
Ho sotto mano due diverse interpretazioni su CD di quest'aria. La prima (Teresa
Berganza), soltanto umoristica, presenta lo stato di ubriachezza con grande
eleganza e, se così si può dire, sobrietà stilistica; Nella seconda (eseguita da
Katy Bareberian) , la cantante si produce in una serie di irresistibili e
musicalissime risate. Solo questo riso di coloritura è capace di indurre il riso
nel pubblico.
[19]
Per un elenco e una tipologia delle varie forme del sorriso e del riso e una
discussione su questa varietà, vedi Ceccarelli (1988, pag. 122 e seg.).
[20]
Le strofe di una versione di 'A risa dicono: «Io tengo, 'a che so' nato, - nu
vizio gruosso assaje... - nun ll'aggio perzo maje... - va' trova' lu ppecché! -
Mm'è sempe piaciuto - di stare in allegria - io, la malinconia, - nun saccio che
rrobb'è! - De tutto rido...e che nce pòzzo fá!? - Ah - ah - ah - ah..... - Nun
mme ne 'mporta si stóngo a sbagliá... - Ah - ah - ah - ah.. - -I o rido si uno
chiagne, - si stóngo disperato, - si nun aggio magnato, - rido senza penzá...-
Mme pare che redenno, - ogne turmiento passa... - nce se recréa e spassa... -
cchiù allero se pò stá... - Sarrá difetto gruosso chistuccá.. - Ah - ah - ah -
ah... - Ma 'o tengo e nun mm' 'o pòzzo cchiù levá... - Ah - ah - ah - Lu nonno
mio diceva - ca tutte li ffacenne - faceva isso redenno... - E accussí i' voglio
fá... - Chist'è 'o difetto mio, - vuje giá mo lu ssapite... - 'nzieme cu me
redite - ca bene ve farrá! - Redite e ghiammo ja': - Ah - ah - ah - ah - Ca bene
ve farrá - Ah - ah - ah - ah - Ah - ah - - ah.»
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