Fausto Petrella
Spazio artistico e umorismo in musica.
Il comico musicale e i suoi rapporti con il Witz

Goya "l'uomo che ride"

 

I. Introduzione. Umorismo, comicità e riso nella musica.

 

Anche nella musica ci s'imbatte nell'umorismo, nella comicità e nel riso, che fanno parte della nostra comune esperienza. Una ricerca sul rapporto tra il riso e la musica dovrebbe partire da quest'evidenza.

E tuttavia si presentano parecchie difficoltà, nel momento in cui si tenta di definire questo rapporto, con l'intento di fornirgli una veste concettuale e interpretativa convincente. Non deve essere un caso se il riso e il sorriso hanno alimentato una ricchissima letteratura filosofica, antropologica, psicologica, psicoanalitica ecc., mentre i comportamenti equivalenti in musica non hanno suscitato sinora altrettanto interesse.

Colpisce che agli inizi del Novecento si documenti una concentrazione di studi famosi, tra loro indipendenti, sul comico, sul riso e sull'umorismo. Lo scritto freudiano Il motto di spirito (Der Witz) e la sua relazione con l'inconscio è del 1905, e conoscerà una sua ripresa e aggiornamento nel 1927 («L'umorismo»); Il Riso, saggio sul significato del comico di Bergson è del 1900 (l'anno della Traumdeutung), mentre il notevole saggio di Pirandello L'umorismo fu scritto tra il 1906 e il 1908. Tutti questi scritti, e anche molti altri che li precedono o li seguono di poco, contengono indicazioni fondamentali sulla fenomenologia e l'interpretazione del riso, colto dalle più varie prospettive. Questa valorizzazione del comico a cavallo del secolo, si può forse considerare sia come effetto della crisi del positivismo del secolo precedente, di cui l'inquieta umoralità romantica è una sorta di ombra irriducibile e ribelle, sia come espressione delle pretese della scienza e dello spirito critico di rendere ragione del riso, un fenomeno antitetico e in opposizione alle istanze serie della razionalità scientifica dominante. [1]

Il saggio pirandelliano, per esempio, è ben consapevole della funzione anti-razionalistica dell'humour, e invita alla cautela nell'identificare troppo facilmente, sino a confonderli, l'alto umorismo dell'arte con la comicità. E Freud distingue con accuratezza Witz, comicità e umorismo, a ciascuno dei quali fa corrispondere tecniche e modi espressivi molto diversi tra loro.

Nessuna delle ricerche citate - e quella freudiana per insistita affermazione di Freud stesso - esaurisce la comprensione del riso, ma ognuna suggerisce, dalla propria angolatura, elementi conoscitivi importanti, mostrando che la comicità «è un tema senza fondo, un'area inesauribile di idee e discorsi» (Civita, 1984). Tutte invece trascurano il comico musicale.

I motivi di questa relativa negligenza nei confronti della musica possono essere diversi.

Ci troviamo intanto con la musica di fronte a una gamma sconfinata di possibilità espressive. Uno spettro variegatissimo di estrinsecazioni cangianti nel tempo sfida ogni sforzo di semplificazione e ogni tentativo di stabilire una morfologia e una tipologia adeguata.

L'umorismo in musica è poi un aspetto particolare del più vasto problema del rapporto tra musica e affetti. Un problema antico, di cui sappiamo che è difficile venire a capo in modo soddisfacente (Fubini, 2002)

E' inoltre piuttosto innaturale e difficile trasporre in ambito musicale ciò che sappiamo sul riso, la festa, il Witz e la battuta spiritosa, stabilendo equivalenze ed esercitando su tutto questo una riflessione critica e ordinatrice.

Due aforismi di Lichtemberg tendono a scoraggiare un simile tentativo, e invitano a stabilire una distanza ironica da tutto il problema. Dice il primo aforisma:

E' tanto piacevole la musica all'orecchio che l'ascolta quanto gli spiace di sentir parlare di musica (p. 163).

E il secondo:

Con il Witz è come con la musica; più se ne sente e più si diventa esigenti in finezza. (p. 151)

Musica e Witz sono qui messi sullo stesso piano, mentre l'ascolto della musica è contrapposto al discorso sulla musica. Il discorso critico si allontana dalle proprietà musicali della parola, impegnandosi nell'esclusivo lavoro descrittivo, razionale e speculativo. Lichtemberg tenta di dissuadere, forse saggiamente, non dalla riflessione, ma dai suoi eccessi. Al riso e alla festa si deve innanzi tutto partecipare, al canto ci si deve unire.

Un atteggiamento troppo riflessivo fa sparire l'effetto comico-umoristico; ugualmente sparisce il riso inestinguibile degli dei, l'greco omerico, e gli dei stessi si nascondono all'arrivo dell'antropologo e di personaggi affini.

Gli studi sul motto di spirito fanno svaporare l'effetto umoristico delle esemplificazioni che producono. Così accade, per altra via, anche con le antologie del comico. Per quanto ben fatta sia la raccolta, troppe spiritosaggini insieme saturano velocemente il palato. Si deve concludere che una collezione scritta di barzellette o uno studio sul comico sono luoghi sociali inadatti allo sviluppo del comico. Proprio gran parte degli studiosi del comico si rammarica consapevolmente di questo.

L'arco di fenomeni che va dal sorriso al riso, sia sul piano del comportamento (Ceccarelli 1988, p. 7 e sg.), sia su quello del vissuto, varia lungo un gradiente continuo d'intensità. Nell'umorismo abbiamo a che fare col sorriso e col riso moderato, con lampi e innalzamenti d'umore istantanei e sempre fugaci. Con la comicità possiamo trovare «la risata generosa, nata dal cuore» (Freud, 1928, p. 508), ma si può anche ridere smodatamente.

Osserviamo che anche con il comico musicale si può ridere parecchio, ma certo, almeno ai nostri giorni, non «si muore dal ridere». Pare invece che di fronte alla comicità del melodramma, il pubblico del passato arrivasse a smascellarsi dalle risa durante lo spettacolo. Le testimonianze di Stendhal (1824) circa gli effetti della comicità rossiniana sugli spettatori sono molto dimostrative. Mentre il pubblico d'oggi ha abitudini differenti e l'effetto comico, un tempo dirompente, di certe opere di Rossini sembra sbiadito. Il pubblico odierno «è piuttosto incline a predisposizioni di ordine culturale ed estetico che ad un effettivo abbandono alla gioia fisica del ritmo e del suono. Noi ridiamo ugualmente, anche se il nostro riso è 'intellettuale' od è addirittura un sorriso alienato di fronte a una forma di fruizione 'collettiva' ormai congelata» (Rognoni, 1968, p. 47 e sg.).

L'espressione «morire dal ridere» è assai significativa. Diciamo anche sbellicarsi sganasciarsi scompisciarsi dalle risa, ridere a crepapelle e simili: tutti usi linguistici che rilevano con forza la corporalità del riso, il suo carattere d'impulso irrefrenabile soverchiante, non contenibile.

L'umore piacevole, a cui il riso appartiene di diritto, non ponendo ostacoli dolorosi al nostro sentire, non richiama su di sé la medesima esigenza riflessiva e l'elaborazione richiesta da un sentimento greve e doloroso. E' soprattutto l'esperienza dolorosa a imporre, a volte con urgenza, il superamento, la liquidazione e l'analgesia di una riflessione distanziante. A questa funzione oltrepassante concorre in molti casi la musica e il canto, a vario titolo. Non solo nel senso generale del vecchio adagio esortativo «Canta che ti passa», ma anche attraverso quelle forme istituzionalizzate e rituali del canto, con le quale molte culture fronteggiano il grande dolore psichico.

Otteniamo, attraverso la musica, una sorta di musicalizzazione del lamento. Il dolore morale e fisico che si esprime nel lamento solitario, il grido doloroso di un'angoscia senza interlocuzione e senza risposta - «irrelativa», diceva Ernesto De Martino - acquista, con la sua trasformazione musicale, un ordine formale arginante. Diventa possibile la ripetizione volontaria del pianto, a comando, e, per questa via, un'abreazione socialmente controllata e, infine, una socializzazione del dolore morale attraverso la partecipazione della collettività. Questi tre aspetti, oggi non altrettanto documentabili come in passato, hanno accompagnato lo sviluppo della cultura europea e mediterranea sin dalle sue origini, come ha dimostrato ottimamente De Martino (1958), col soccorso etnomusicologico di Diego Carpitella.

Conosciamo il lamento nell'arte musicale, l'ay! reiterato e variato del melisma virtuosistico che introduce la siguirya e altri canti gitano-andalusi (Dumas 1973); il gemito indimenticabile dell'Innocente mussorgskiano; la «doina» vocale o strumentale rumena, struggente melopea ornata che ha il medesimo carattere del pianto, «autentica come un gemito, un grido» (Breazul, 1941). Qui la musica imita il pianto e lo eleva a canto.

Un riso che si presentasse o «scappasse» là dove ci si aspetterebbe il pianto o la compunzione, sarebbe invece «fuori posto», sorprendente, e tale da interessare in certi casi la psicopatologia. Le connessioni esistenti tra la melanconia più cupa e l'euforia estrema nella quale può trasformarsi anche repentinamente, la prossimità del dolore morale al suo culmine con l'esplodere del riso dionisiaco sono fenomeni ben documentati nell'esperienza psicopatologica.

Lo psicoanalista non può fare a meno, dovendo parlare di riso, di connettere il riso al pianto, come due aspetti di un unico problema, anche se non si dovrebbe abusare di questa connessione. Il riso non è soltanto una difesa dalla depressione, a meno di considerare depressiva l'esperienza corrente, caratterizzata da un mal de vivre usuale, da una «infelicità comune», come Freud riteneva.

La musica è collegata a queste misteriose oscillazioni dell'animo umano, in modi sui quali è difficile pronunciarsi.

Una delle più umoristiche, o addirittura comiche, composizioni musicali esistenti, Ein musikalischer spass, Uno scherzo musicale K. 522, sulla quale dovrò tornare, fu la prima opera scritta da Mozart subito dopo la morte del padre Leopold. La sua composizione è preceduta di poco da una poesia scherzosamente patetica, scritta da Mozart in morte del suo passero (Hildesheimer, 1977). La connessione tra la morte del padre e la produzione di questa composizione comica è palese. [2] Il suo significato resta tuttavia del tutto incerto, né mi sembra utile sbizzarrirsi in congetture interpretative al riguardo.

Il sorgere del riso e della comicità è faccenda davvero complicata, e lo è ancora di più in riferimento alla musica.

Tutti conosciamo canzoni patetiche, che raggiungono un gran successo, anche se tristi, e che in certi casi possono addirittura far piangere. Esistono canzoni «strappacuore» e lacrimogene, apparentemente «al di là del principio di piacere», come Capinera. Una mia paziente da piccola se la faceva cantare ripetutamente dalla nonna proprio per piangerci sopra. Questa canzone narrativa, a causa del testo musicato, sembrava dare voce al malinconico romanzo familiare al centro della nevrosi infantile della paziente. Ci volle un lungo lavoro perché questa tristissima musichetta mostrasse il suo aspetto ridicolo e fosse liquidato il suo potere deprimente per la paziente. [3]La ricezione di questa canzone si è in ogni caso modificata nel corso del secolo. Dopo essere caduta nell'oblio, «Capinera» poteva essere presentata, circa settant'anni dopo (dai «Gufi») come un cimelio ridicolo, degno di un'esecuzione buffa, da cabaret.

In certi casi una canzone appare spiritosa perché fa il verso, nella musica e anche nelle parole, a canzoni pesantemente patetiche del genere «Capinera», smascherandone la melensa insulsaggine e rincarandone il patetismo.

Il ritornello di una canzonetta, proposta da Renzo Arbore anni fa, diceva:

Ricordati papà,
ricordati papà,
la mamma è morta già sull'autostrà...

In questo caso un certo effetto comico di parole e musica è assicurato.

Troviamo musiche allegre sin dall'antichità: le canzoni destinate al ballo, al corteggiamento, all'enunciazione euforica e scherzosa dell'amore, dove il patire si trasforma in un divertimento che arriva allo stordimento; canzoni vivaci e spiritose, adatte alla festa, alla tavola e al vino. Moltissima musica colta e popolare ha avuto (e forse continuerà in parte ad avere, ma qui si dovrebbe aprire un lungo discorso) chiare finalità nella direzione dell'intrattenimento piacevole, della satira, del motteggio, eccetera: che si tratti di musica strumentale o per voce e strumenti. I testi musicati non lasciano dubbi sulle intenzioni sicuramente ludiche, d'alleggerimento e di spasso, di queste musiche.

La musica non potrebbe realizzare alcuna comicità, se non riuscisse anche a dare espressione ai grandi dolori, alla passione amorosa non corrisposta, all'odio e alle sofferenze più diverse. Troviamo tutto questo nella musica e nel canto colto, ma anche in quello popolare, e talvolta in forme elevate o elevatissime, come nel canto dei gitani spagnoli. Il flamenco distingue un cante grande, profondo e viscerale, da un cante cico, che include generi più leggeri, dedicati alla danza d'insieme e di tono allegro e spiritoso. Si ammette tuttavia che anche un canto piccolo possa innalzarsi a grandi altezze, se trattato con specifico impegno esecutivo da parte dell'interprete. Dal punto di vista emotivo-espressivo i confini fra generi musicali, come quelli fra tristezza e gioia, possono dunque essere sfumati. Del resto, dal punto di vista del fruitore, «una musica triste può benissimo essere oggetto di godimento», come ha osservato Walter Cerf (1956) nel suo studio sull'umore e le emozioni nell'arte.

Lacrime di tristezza mescolate a sorrisi mostrano che gli stati emotivi «misti» sono quasi la regola nel nostro paesaggio emotivo, osservato a tutto campo. Nel paesaggio musicale può accadere lo stesso. Si provi a definire i colori emotivi cangianti di una Mazurca di Chopin o di un allegro di un Quartetto di Mozart. Il variabile trascolorare dell'umore qui riscontrabile è una delle possibili definizioni dell'umorismo, vicino all'origine ippocratica di questa parola dalle troppe implicazioni, che collega l'anima al corpo attraverso i suoi variabili «umori».

Tuttavia legittimamente dobbiamo distinguere i generi «bassi» della musica di consumo dalla musica colta, detta anche «seria». La serietà riguarda l'impegno formale dell'opera, la sua destinazione a un pubblico competente, in luoghi a ciò deputati, il suo riferirsi a una tradizione compositiva ed esecutiva, eccetera. Ciò che è «serio» sembrerebbe escludere il divertimento, il comico, l'umoristico. Ma sappiamo che non è così. Benché seria, la musica «classica» si è sempre confrontata con l'umorismo, il comico, lo scherzoso, il beffardo, ecc.

Ciò è attestato anche dal linguaggio con cui la musica parla di se stessa, dal suo lessico (Dalmonte, 1955). Allegro è il primo movimento di una Sinfonia e talvolta anche l'ultimo, come anche nella forma Sonata. Ma conosciamo lo scherzo, certi rondò, il capriccio, la fantasia, le danze veloci, talvolta inserite ad arte in contesti più seriosi per alleggerire l'ascolto, fino a quell'humoresque che per sua natura è vivace e capricciosa, cangiante d'umore.

 

II. Comicità e umorismo in Freud.

 

Gli scritti freudiani sul comico sono il punto di partenza della mia circoscritta analisi del problema. Le considerazioni che farò non si ispirano soltanto a lui, ma considereranno anche gli sviluppi post-freudiani in tema di musica. L'intera riflessione trova nella psicoanalisi, anche se non soltanto in essa, i suoi riferimenti concettuali principali. Saranno chiari nel corso del discorso, i motivi di questa scelta di campo. Purtroppo né in Freud né negli altri due autori citati troviamo alcun accenno al comico musicale, quasi che esso sia inesistente. Le esemplificazioni sulle quali Freud costruisce le sue analisi e le sue ipotesi metapsicologiche sul Witz, il comico e il riso consistono in un campionario tratto soprattutto dalla letteratura tedesca, da un esteso repertorio di barzellette, ebraiche e non, o dal racconto di circostanze umoristiche appartenenti alla propria esperienza di vita.

L'indagine freudiana sul Witz si presta male ad essere esposta sinteticamente. Per di più nella psicoanalisi odierna si è perduta la ricchezza delle considerazioni e argomentazioni sviluppate in quell'opera. Essa è invece, a parere mio e di altri studiosi, di straordinaria acutezza, ma anche di gran complessità. [4] Il suo interesse metodologico consiste nel procedimento con cui Freud cerca di gettare qualche luce su processi psichici riconosciuti come complicati. Come già aveva fatto nella Traumdeutung, Freud mobilita una puntigliosa ed estesa analisi che, prendendo le mosse dalla morfologia del Witz, mira a illuminare qualche aspetto del processo che conduce all'effetto umoristico e al riso.

Della sua analisi, quattro sono i punti principali che desidero sottolineare in funzione del nostro problema.

1. Il riso (o il sorriso) che scatta con il comico, mostra in atto un fenomeno energetico, i cui aspetti quantitativi sono in primo piano ed evidenti per tutti. Per Freud nel riso si scarica una tensione ed è spesa un'energia che nella serietà corrente della vita deve essere altrimenti impegnata. E' questa dissipazione improvvisa, che il Witz riesce a promuovere, ad essere piacevole.

Freud è quasi ossessionato in quest'opera da una sorta di contabilità psichica che il Witz, il comico e l'umorismo attivano e presuppongono. La moneta di questa contabilità è fatta di quantità energetiche che sono risparmiate rispetto al loro «investimento anteriore» e abituale. Gli investimenti già altrimenti impegnati, grazie a questo storno, possono così essere scaricati, «spesi», generando il piacere della comicità e la «dissipazione» del riso. Freud manifesta una straordinaria finezza linguistica e retorica nell'analisi dei motti, ma resta costante anche la sua attenzione al gioco degli investimenti e disinvestimenti emotivi richiesti nelle varie circostanze linguistiche e insieme situazionali. Tutto questo sullo sfondo di un'idea centrale e ricorrente: quella dell'impegno inevitabile e necessario di energie, d'abitudine sottratte al piacere, e che le strategie dell'umorismo e del comico permettono di risparmiare, destinandole appunto al piacere. La vita, la dura realtà, richiede e assorbe una grande impegno di investimenti per l'autosostentamento, per l'adattamento a innumerevoli richieste e esigenze, per il fronteggiamento e l'evitamento del dolore e dello spiacevole d'ogni tipo.

 

Il motto di spirito riesce a «stornare» investimenti impegnati comunemente
    • nel lavoro logico
    • nei processi di astrazione
    • nell'impiego richiesto dall'aderenza al reale, dal rapporto con la realtà - nelle limitazioni e inibizioni imposte dalla censura, cosciente o inconscia.

Insomma, come dirà Koestler (1964, p. 19), la funzione del riso consiste in parte nell' «alleggerire momentaneamente le pressioni utilitarie». Ma la concezione freudiana sembra estendere notevolmente l'area rispetto alla quale il riso rappresenta un disimpegno.

Qualsiasi cosa si voglia pensare oggi di quest'impostazione economica ed «energetica», si manifesta in essa l'esigenza di non disgiungere la componente psicofisiologica e edonica del riso dagli altri importanti fattori (morfologici, linguistici, circostanziali) che caratterizzano il Witz, ma di cogliere la necessaria connessione tra le strategie psicosociali, linguistiche, retoriche del comico e il fenomeno di dissipazione piacevole che si scarica nel riso attraverso il corpo, la motilità e la voce. La metapsicologia del Witz e del comico cercano di rendere pensabile questa connessione, l'articolazione tra le forze in gioco e il senso specifico che qui si manifesta. Incluso il senso del nonsenso, che conduce al riso.

In questa prospettiva Freud stesso sintetizza conclusivamente la sua analisi così:

 

Il piacere dell'arguzia (Witz) c'è parso derivare dal dispendio inibitorio risparmiato, il piacere della comicità dal dispendio rappresentativo (o d'investimento) risparmiato e il piacere dell'umorismo dal dispendio emotivo risparmiato (1905, p. 211).

 

2. Un secondo punto è il riferimento al sogno. Nella formulazione del motto di spirito e della comicità Freud trova gli stessi meccanismi operanti nel sogno: la condensazione, come quella, divenuta celebre, di «familionari», il gioco di parole che creato da Heine; le sostituzioni, i travestimenti, le trasposizioni, lo smascheramento, la caricatura, la contraffazione, eccetera.

Ma sarebbe sbagliato identificare semplicisticamente comicità e sogno, perché sono assai diversi sia i regimi di coscienza implicati (nel sogno si dorme, nel motto di spirito si è ben svegli); sia la funzione comunicativa, che il sogno non possiede altrettanto esplicitamente rispetto al Witz; e infine il carattere pluripersonale del motto di spirito, che comporta come minimo il coinvolgimento di due o tre persone.

Una volta compiuta doverosamente la distinzione tra sogno e motto di spirito, la si deve subito attenuare, perché anche il motto è senz'altro una via di accesso all'inconscio, nel quale si tuffa istantaneamente per subito riemergere. Lampo onirico nella veglia o istantanea regressione affettiva con veloce emersione, in ogni caso l'affinità col sogno è evidente.

Freud, spesso accusato di aver costruito una «one person psychology», rivela, qui più che altrove, un'attitudine transazionale, per il ruolo complementare che egli assegna alla seconda e alla terza persona nel compimento del motto in azione.

E' tuttavia innegabile che il motto «viene», zampilla involontariamente nella mente di chi lo crea, che ne può ridere anche fra sé e sé - . Esso si genera nel gioco tra preconscio e inconscio di chi lo produce, con un automatismo che può essere talvolta socialmente imbarazzante e trascurare le convenienze o le alleanze con una parte, se non con tutto l'uditorio, che pure è implicato nella sua produzione.

Ciò che è comico per qualcuno, può non esserlo per tutti, e per le più varie ragioni. Talvolta il comico si sviluppa a spese e a danno di qualcuno. Lo sviluppo del motto e del comico richiedono «concordanza» psichica o almeno una disponibilità per tale concordanza. Il Witz produce affratellamento tra gli uomini, ratificando un «patto di complicità tra emittente e destinatario» del Witz, che riguarda il non detto, il non dicibile in quanto appartenente all'inconscio linguistico (Segre, 1982); ma al tempo stesso presuppone in grande misura l'intesa che rinforza.

Il pubblico dei concerti utilizza un luogo molto specifico, destinato ritualmente a un ascolto che esclude i rumori del mondo, imponendo una specifica disciplina del silenzio e dell'immobilità; ma non tutti apprezzano o gradiscono, sempre e concordemente l'opera o la sua esecuzione. La musica è per chi l'ama un luogo di conflitti passionali e per qualcuno un oggetto d'odio e insofferenza (Rosolato, 1982).

Del resto non tutti i sogni producono piacere, senza per questo smentire il principio di piacere che governa la produzione onirica e certamente il comico. Analogamente, tutta la musica ha a che fare col sogno e la sua attività immaginativa, ma non è propriamente sogno, e non tutta produce comicità. Occorre non fare d'ogni erba un fascio, e distinguere accuratamente i fenomeni e i processi in gioco. Freud fornisce una buona lezione riguardo alla necessità di fare delle distinzioni, e insieme mostrare somiglianze e punti di connessione.

Una somiglianza va subito detta: come il sogno mette in immagini pensieri, affetti, resti diurni ecc., di cui il racconto del sogno fornirà un prima interpretazione, così la musica può mettere in forma sonora l'esperienza nella sua complessità. Come il sogno traduce il pensiero in un linguaggio visuo-rapresentativo, alle cui 'regole' deve assoggettarsi, così la musica si serve di una trascrizione sonora, impiegando immagini musicali e assoggettandosi a regole di composizione con i suoni.

 

Arnold Schönberg scrisse il suo Trio per archi op. 45 durante una convalescenza. L'Autore affermò di avervi descritto la sua malattia (un infarto del miocardio), i trattamenti medici ricevuti, le iniezioni cardiache, l'infermiere e tutto il resto. [5] Chi ascolta il Trio non può sapere nulla di questa trasformazione, né può supporla. La trasformazione avvenuta è irreversibile e non si può risalire alla sua fonte esperienziale senza adeguate testimonianze, né sarebbe di qualche utilità compiere il processo trasformativo a ritroso.

 

3. Un terzo punto riguarda l'implicazione regressiva e infantile del motto di spirito e del riso. Il riso si ricollega all'età nella quale «non conoscevamo il comico, non eravamo capaci di motteggiare e non avevamo bisogno dell'umorismo per sentirci felici di vivere». E' all'infanzia beata che ci si deve rivolgere per comprendere il riso. E in un duplice senso.

Intanto la vita psichica del piccolo bambino richiede ancora un impegno energetico modesto, anche grazie al soccorso protettivo dell'adulto. Ciò rende il bambino disponibile a ridere, ma anche a piangere, per un nonnulla.

E poi il ricorso all'ipotesi, da Freud appena accennata, che il riso abbia come suo precursore il sorriso del lattante sazio e soddisfatto dopo la poppata al petto materno. Si tratta nel 1905 (n. di p. 131) di un'osservazione marginale, che troverà tuttavia grandi sviluppi di tutti i tipi. Nella nota che dedica a ciò, il problema posto da Freud riguarda «la spiegazione fisiologica del riso», il quesito, tipicamente darwiniano, «di sapere donde derivino o come si possano interpretare le azioni muscolari proprie del riso». Siamo ancora lontani dai successivi sviluppi di quest'idea.

4. Il saggio freudiano sull'Umorismo, del 1927, senza negare la particolare economia sottesa al riso, prospetta l'umorismo nel teatro mentale della seconda topica e nel gioco tra Io, super-Io ed Es. L'umorismo riesce ad attuare il ripudio di una realtà avversa e l'affermazione vittoriosa del principio di piacere, ottenendo in questo l'accordo del Super-io, la sua complicità o la temporanea sospensione della sua severità. In questo modo l'umorismo si inserisce «nella grande schiera dei metodi costruiti dalla psiche umana per sottrarsi alla costrizione della sofferenza, una schiera che comincia con la nevrosi, culmina nella follia, e nella quale sono compresi l'intossicazione, lo sprofondamento in se stessi, l'estasi» (1927, p. 505). Tuttavia, come l'arte, l'umorismo manifesta questo suo potere analgesico «senza uscire dal terreno della salute psichica».

Nell'umorismo Freud coglie un che di grandioso e nobilitante, un'affermazione dell'invulnerabilità dell'Io contro l'avversità e i traumi del mondo esterno: siamo sul terreno dell'illusione comica, del narcisismo trionfante e grandioso che caratterizza il gioco infantile, attuato con la protezione del super-Io. Troviamo qui anticipazioni importanti di temi che saranno altrimenti sviluppati dalla psicoanalisi post-freudiana.

 

III. Dopo Freud.

 

Non sono mancati dopo Freud riconsiderazioni delle sue tesi sul comico e un certo numero di studi psicoanalitici sulla musica. Ma è anche evidente la difficoltà a connettere le due aree.
La psicoanalisi post-freudiana che si è occupata di musica ha molto valorizzato i momenti neonatali e addirittura prenatali dell'enveloppe sonore del sé, del bagno di suoni (Anzieu, 1976), del rapporto del feto con i ritmi, i suoni e i rumori del corpo materno (Mancia, 1998). Alla ricerca della primordiale e misconosciuta origine delle singolari e illimitate valorizzazioni immaginative che il suono mostra di saper assumere su di sé, la psicoanalisi si rivolge al bambino. Il valore affettivo del suono per l'uomo va cercato nel suo rapporto con la materia sonora primigenia, da cui derivare le origini dei suoi poteri incantatori e i suoi profondi legami con la vita emotiva. Il suono si presta a essere considerato come il prototipo di un'esperienza anteriore a ogni compromissione con l'oggetto materiale e con la pesantezza e corposità del reale e dei nostri bisogni. La materia sonora è percepita «prima della parola» (Di Benedetto, 2000), e, sembra, già prima della nascita. Dall'articolarsi del suono con l'esperienza materna agli inizi della vita si formerà la parola e il linguaggio.

Insomma, alla ricerca dell'origine della musica, la psicoanalisi si è appoggiata alle Madri, a una mitologia plausibile del materno originario, che fece scrivere con bella enfasi a Fornari (1984): «All'inizio era il suono, il Suono era presso la Madre. La Madre era il suono».

In realtà, occorre considerare che la protoesperienza sonora, d'origine materna, si accompagna al misconoscimento dell'origine materna dell'esperienza da parte del feto o del neonato. La realtà materna è ancora tutta da venire, tutta da costruire. Semmai questa protoesperienza preverbale e preoggettuale sta a fondamento (o va nella medesima direzione) di alcune caratteristiche fenomenologiche del suono. Ricordiamo la possibilità del suono di essere percepito in assenza dell'oggetto sonoro, a distanza (a differenza del colore, che in assenza della cosa colorata può solo essere pensato, ma non percepito); e ancora la strutturale «evanescenza e fantomaticità» del suono, la sua relativa indipendenza dallo stato delle cose, la sua assolutezza e il suo «prestarsi a sopravvalutazioni metafisiche». Ci si imbatte per questa via nel pensiero che «il suono potrebbe esserci anche se il mondo non ci fosse», nell'idea ricorrente di un' «essenza extramondana del suono» (Piana, 1991, 73 e seg.). L'immaterialità apparente del suono, soprattutto la «spiritualità» di certi suoni prodotti ad arte, sembra alludere a un mondo disincarnato e assottigliato, che si allontana da ogni materialità, inclusa quella materna.

Si può tuttavia anche dire, all'opposto, che il suono partecipa e anticipa la realtà traumatica «senza nome» alla quale l'esperienza infantile è sottoposta da stimolazioni soverchianti, caricandosi così di valenze negative. E' la violenza del rumore, l'asprezza dei suoni, il minaccioso 'fortissimo' lacerante, che può farsi avanti in tutto il suo spaventoso stridore, come «il rauco suon della tartarea tromba», evocato dal Tasso [6] . E in ogni caso il suono ha anche a che fare fortemente col mondo e i suoi molti segnali, certamente solo materni alle origini, o più o meno filtrati dalla rêverie e dalla risposta materna, secondo Bion (1962). Ma poi anche non - materni, non familiari, e tuttavia sempre entro il quadro delle opposizioni di principio, rese possibili proprio dal riferimento materno originario e misconosciuto dall'infante.

Il materno è insomma dappertutto, è l'origine ignorata e la fonte, la «materia prima», il terminus ad quem, nostalgicamente ricercato nel ciclo incessante delle sostituzioni simboliche e nei movimenti progressivi e regressivi della vita. E nello stesso tempo la madre è un'amministratrice dei movimenti negativi e ostili che si animano nelle relazioni oggettuali e nel sé infantile, una calmieratrice della distruttività nascente, ma anche un'attizzatrice e una convogliatrice del dolore e della rabbia infantile.

Se il sorriso del bambino soddisfatto è un modello possibile della sorgente del riso, difficilmente potremmo comprendere su questa sola base la grande varietà delle forme del riso (ma non solo del riso: qui sono le variopinte qualità estesiche del mondo a essere in gioco), che pure hanno nella relazione infantile materna le loro premesse. Qui troviamo il pianto e il riso, e le specifiche risposte che ottengono, tra le quali la voce pacificante e il sorriso della madre.

Lo psicoanalista deve tuttavia riconoscere che il suono non è solo la Madre. E che infine la dimensione acustica non è molto più implicata col materno di quanto lo sia tutta la sensorialità - visiva, tattile, olfattiva, cenestesica - nel piacere e nel dolore, nel soddisfacimento e nella privazione spiacevole.

Il comico musicale invita insomma a guardare (e ad ascoltare) anche in altre direzioni.

 

IV. Comicità della musica «pura» e rapporto con la parola.

 

Un'indagine sul comico in musica farebbe bene a rinunciare, nella misura del possibile, al riferimento alla parola o anche all'azione scenica, e quindi al comico musicale che si realizza appoggiandosi a testi, tipicamente dell'Opera comica, nella farsa musicale, nell'opera buffa e simili.

Dovrebbe invece mettersi alla ricerca di una comicità soltanto sonora, di un umorismo legato alla musica come tale, cioè alla «pura» musica.

Un problema analogo se lo poneva già Theodor Reik (1953). A proposito della capacità d'ironia della musica., si proponeva nel suo studio, senza riuscirci, di escludere ogni riferimento a musiche compromesse col linguaggio della parola. Reik pensò allora di rinunciare alle uscite ironiche «dei cortigiani del Rigoletto, di Iago nell'Otello, del monologo di Falstaff sull'onore, dell'aria di Beckmesser dei Maestri Cantori, ecc.» A esempi come questi non si dovrebbe ricorrere. Evitare riferimenti extramusicali è quasi impossibile, evidentemente, se l'esempio più pertinente di Reik è il poema sinfonico Till Eulenspigel. La musica di Strauss, con grande sapienza mimetica, allude continuamente ai tiri burloni del personaggio evocato, di una forte valenza narrativa e ad una consolidata e prorompente caratterizzazione. Ascoltiamo ammirati, ma non ridiamo, pur essendo in grado di cogliere la geniale trascrizione musicale dello spirito burlesco, dell'ironia e del sarcasmo in gioco.
Gli altri esempi di Reik ci allontanano ancora di più dal problema propriamente musicale, perché l'autore cita «le sue associazioni musicali, in genere in riferimento a un testo, ma talvolta anche da sole» (p. 101) Si tratta di improvvise e involontarie reminiscenze musicali, piegate, spesso inconsapevolmente, a un uso ironico in certe circostanze della sua vita. La musica che a tratti gli viene in mente riceve un significato ironico collegandosi a intenzioni preconsce che stanno essenzialmente in lui, nelle sue intenzioni più o meno consapevoli, e non necessariamente nella musica come tale.

Citerò qui il ricordo di una mia personale esperienza. Si tratta dell'osservazione di un anziano signore, appassionato cultore di musica, al momento della sortita da una malattia cardiaca che aveva minacciato gravemente la sua vita. Il moribondo, uscito dal suo stato soporoso, come primo atto espressivo si mise improvvisamente a canticchiare a bassa voce, tra lo stupore dei presenti, una frase orchestrale… del Gianni Schicchi. I suoi parenti l'avevano dato per morto, e anche lui stesso aveva pensato di essere alla fine del viaggio, ma invece era ancora ben vivo!
Per chi conosce Gianni Schicchi, il significato sarcastico (e insieme vitale) di quella citazione musicale è lampante, molto meglio rappresentato da questa citazione musicale, che mediante un lungo discorso. Il fatto di canticchiare era di per sé una manifestazione di vitalità e risorgente buon umore. Ma la specifica evocazione musicale, e la sua connessione a una precisa vicenda operistica (è inscenato l'inganno, per cui un vero morto è sostituito da un finto moribondo) nascondeva e mitigava, in forma comicamente e sinteticamente mascherata, molti dolorosi pensieri sulla sua fine prossima.
Sarebbe stato assai diverso se lo stesso anziano signore avesse canticchiato nella medesima circostanza qualche tema, a lui ben noto, dei Quattro ultimi lieder di Richard Strauss, magari in qualche passo riecheggiante Morte e trasfigurazione. Un'evocazione di questa musica amatissima in quel momento critico avrebbe significato soltanto una forma di autocommiserazione, l'accenno a un sublime epicedio dedicato alla fine della propria vita.

 

Un diverso esempio di burlesco tragico-patibolare è la Marche et réminiscences pour mon dernier voyage, per pianoforte, una delle ultime composizioni di Rossini. L'autore, che immagina i propri funerali, si produce, tra le altre cose, in citazioni musicali da arie di proprie opere...l'ultima delle quali è dal Barbiere: Buona sera, miei signori! [7]

Se una musica preesistente può servire a una rappresentazione indiretta di affetti e fantasie che stanno nella persona a cui viene in mente, sembra ovvio che anche un'invenzione musicale ex novo possa servire allo stesso scopo.

Ma proviamo ora, davvero e radicalmente, a togliere alla musica i riferimenti a testi, come nel Lied; a situazioni predefinite da narrazioni drammaturgiche, come nell'Opera comica; o a illustrazioni programmatiche, come nel Poema sinfonico.

La musica si presenta allora nella sua purezza, come insieme di suoni, ritmi, intensità, timbri, organizzazione prosodica temporale e spaziale dei flussi sonori e delle combinazioni dei suoni tra loro, in decorsi localizzati e individuabili.

Possiamo ora chiederci: può nascere il comico o l'umoristico da tutto questo? Possiamo applicare alla musica «pura» i criteri che Freud sviluppa e applica al Witz?

La risposta è, a mio avviso, affermativa in entrambi i casi, ma con alcune precisazioni e limitazioni.

La musica - si dice - gioca con i suoni e il musicista è libero di metterli insieme a piacimento. Anche con le parole si può giocare, combinandole a proprio arbitrio, ma non senza che sia compromesso, anche gravemente, il senso convenzionale del discorso.

Ci s'imbatte subito nella tipica questione della capacità della musica di significare e delle sue capacità (o incapacità) denotative e semantiche.

Senza entrare in questa complicata questione, occorre notare che le analogie tra le tecniche del motto e quanto accade nella musica sono parecchie. «Le parole sono un materiale plastico con il quale si può fare di tutto», scrive Freud (1905, p. 30); «Come punto nodale di molteplici rappresentazioni, la parola è per così dire un polisenso predestinato e le nevrosi (rappresentazioni ossessive, fobie) si servono, non meno arditamente del sogno, dei vantaggi che la parola offre in questo modo per la condensazione e il travestimento» (Freud, 1899, p. 313). [8]

Da un lato è proprio la componente musicale dell'intonazione del materiale fonico della parola e della frase a limitare le proprietà polisemiche della parola, a togliere le ambiguità e le indeterminatezze del discorso, concorrendo in modo rilevante a precisarne il significato. Insomma, è «il tono che fa la musica», contribuendo a definire il vero senso di un discorso, andando sempre oltre le parole impiegate.

Dall'altro, una parola ridotta al suo contenuto fonico, scomposta nelle sue sottounità fonetiche, perde la sua referenzialità e la sua capacità denotativa.

 

Quando le parole si associano tra loro per assonanza, per analogia fonetica o per ecolalia, quando nella frase la sequenza di parole segue prevalentemente le vie associative delle immagini sonore delle parole, con invadenza dell'allitterazione, si assiste a un impoverimento delle capacità comunicative del discorso. Un vasto numero di ricerche ha da tempo dimostrato che nei celebri esperimenti di associazione verbale a liste di parole, quando sono presenti in eccesso risposte «inferiori» o «primitive» (le Klangsreaktionen di Jung, le associazioni per rima, le risposte iterative, perseveranti, o incoerenti con la parola-stimolo), ci troviamo di fronte a una degradazione delle connessioni semantiche del linguaggio. In condizioni normali le risposte associative maggiormente frequenti hanno comunemente stretti legami logico - linguistici o semantici con la parola-stimolo. Un eccesso di risposte «inferiori» testimonia di uno scadimento patologico, a volte anche solo funzionale, del linguaggio e delle funzioni nervose superiori implicate.
In certe condizioni di compromissione cognitiva o di disturbo delle funzioni simboliche è compito del terzo cogliere i processi di significazione affettiva in gioco, valorizzando gli aspetti comunicativi non formalmente dominati e che si sottraggono a una piena intenzionalità discorsiva. Questo accade fisiologicamente col pianto e il riso infantile e in genere nella comunicazione con bambini molto piccoli. Anche la comunicazione quando esiste un'alterazione psicotica del linguaggio pone i medesimi problemi.
[9]

 

Se il significato delle parole cede il posto agli elementi fonetici costitutivi, si accentua una dimensione fonica, ritmica, fàtica ed emotiva del discorso. Ciò accade a spese del senso del discorso, come nel nonsense in rima, nelle filastrocche e simili.

Il gioco verbale presente in molti motti di spirito comporta la conservazione del significato delle parole e al tempo stesso l'accentuazione di molti aspetti musicali - rime, risonanze interne, rimandi fonici - come accade, tipicamente, nel testo poetico e in certi motti di spirito particolarmente felici. Questa condizione può essere presente nel teatro in musica, e il Maestro di cappella di Cimarosa (con i suoi «bio, bio», «blaberle bla», ecc.) ce ne fornisce un tipico esempio, ma non può appartenere alla musica pura.

Per stabilire un'analogia del Witz con la musica pura, occorre necessariamente limitarsi a considerare solo alcune delle varie tecniche del motto indicate da Freud.

Dobbiamo allora riferirci soprattutto al Klangwitz, al «Motto fonico», che gioca appunto su rime e assonanze. Perché in musica non sono possibili effetti verbali del genere «Rousseau - roux et sot» (Freud, 1905, p. 26 e 37), ottenuti tipicamente mediante suoni omofoni, ma anche sfruttando i diversi significati dei vocaboli corrispondenti ai suoni. Invece la condensazione (timbrica o armonica), la sovrapposizione (di suoni diversi, con effetti che vanno dalla fusione al contrasto più aspro), o certe piccole variazioni del medesimo materiale sonoro appartengono tutte alla musica e possono trovare nel Witz qualche riscontro. Così, per esempio, possono generare effetti umoristici note dapprima appoggiate e che successivamente diventano staccate; o, al ripresentarsi di una melodia, lievi modificazioni prodotte da un'alterazione o da una stonatura inattesa, o da un cambiamento modale o timbrico repentino.

Se una cellula melodica, nella sua ripresa variata, è ripresentata spezzata e intercisa da pause, si possono creare effetti veramente nuovi di vario tipo, dall'affanno a una movimentazione, se non obbligatoriamente umoristica, certamente affine ad un moto umoristico. Se l'umorismo deve essere qui evocato, è soprattutto nell'ampio senso del suo collegamento alla variabilità dell'umore, che la musica può esasperare espressivamente in molti modi.

Una parola, depotenziata delle sue articolazioni fonetiche e dai vincoli della referenzialità, è ridotta ai suoni che la costituiscono. Un suono che possiamo comporre con altri suoni, a piacimento, realizza radicalmente la possibilità di «impiego molteplice». E' questo senz'altro il caso della musica, ma anche del Witz.

 

Se nel Flauto magico le Tre Damigelle mettono il lucchetto alle labbra di Papageno, lo sentiremo fare comicamente un «hm hm hm hm» perfettamente intonato, all' unisono col fagotto, finché, tolta questa limitazione, la parola articolata riacquisterà la possibilità di esprimersi pienamente nel canto. E tuttavia il mugolio di Papageno è del tutto musicale, intonato e ritmico, e a suo modo in dialogo con altri personaggi.

 

Nella conversazione ordinaria non si otterrebbe alcun vantaggio comunicativo da una parola ridotta a suoni inarticolati. Nella musica le cose vanno diversamente. Il suono della pura musica, pur privato della parola e depotenziato dalle possibilità dischiuse dal significato del discorso verbale, si arricchisce di autonome possibilità espressive, che alla parola ordinaria sono precluse.

Il suono musicale acquista l'intensità, la purezza, la maneggevolezza, la molteplicità timbrica delle voci e dei colori degli strumenti musicali. Gli strumenti musicali sono invenzioni straordinarie, della cui esistenza ci si dovrebbe sempre stupire. Ciascuno strumento con la sua estensione, sonorità e personalità timbrica!

Es. 1Esempio musicale Il nonno di Pierino e il lupo avrebbe potuto avere la voce del flauto, anziché quella del fagotto? Ovviamente si, e in questo caso sarebbe stato un nonno dalla voce flautata e senza quell'aria di severità bonaria che può competere a un nonno-fagotto.

Certi registri rochi dell'organo si prestano a rappresentare «i grugniti della bestia dell'Apocalisse» e altri le voci angeliche (spiegava Messiaen in una intervista televisiva sull'organo). Ma una volta indicate le potenzialità semantiche tendenziali dei suoni e dei timbri strumentali, con le relative aspettative espressive, ci disponiamo anche ad accogliere e a goderci le continue trasgressioni e variazioni rispetto a tutto questo. Le voci angeliche potrebbero mettersi a cantare delle canzonacce da osteria. Ma anche senza immaginare questo, la trasgressione è una componente essenziale della musica, come ha fatto notare puntualmente Leonard Meyer (1956). Ogni forma di trasgressione è d'altra parte possibile, perché tutti questi colori sono composti secondo regole, combinando i suoni artificiali e prodotti ad arte, tra loro e in successione, con ogni tipo di gradualità fonica.

I suoni possono salire e scendere, rotolarsi e saltellare, amalgamarsi tra loro e disgiungersi. Una melodia o un ritmo possono essere palleggiati da sezioni strumentali differenti, darsi addosso l'una con l'altro, integrarsi, contrastarsi, litigare e amoreggiare.

Dicendo «colori», ho abbandonato il terreno narrativo, che costantemente si ripresenta, per spostare l'attenzione su una più astratta analogia del suono con i colori e la loro composizione. Tuttavia si deve notare che anche nelle formulazioni più astratte il momento narrativo si presenta con particolare vigore.

Kandinsky ha tentato di creare una tavola dei colori, radicando le loro differenti qualità affettive in una mistica dell'interiorità. Interiorità e immaginazione dettano ai diversi colori la loro necessità espressiva e stabiliscono una specifica semantica affettiva. Kandinsky ha creato in tal modo una sorta di grammatica dei colori e ha stabilito i criteri di una combinatoria possibile, una sintassi potenziale e infine un vero teatro astratto di affetti puri, combinabili tra loro. Sino a vedere in ciascun colore una persona vivente, la personificazione di un affetto. «I tubetti (dei colori) - scriveva Kandinski [10] - sono come esseri umani, di grande ricchezza interiore, ma dall'aspetto dimesso, che improvvisamente, in caso di necessità, rivelano e attivano le loro forze segrete».

Gli affetti sono sempre alla ricerca di forme e contenuti rappresentativi, in un incessante gioco di sostituzioni, elisioni, ma anche di parole qualificative per poterli dire e nominare. Si possono ottenere effetti artistici eliminando ogni riferimento oggettuale, nel tentativo di raggiungere un suono o un colore puri, prossimi a un mondo preumano o preverbale, dove la più pura espressione si coniuga alla pura astrazione, come nell'Urschrei, il grido originario dell'Espressionismo.

La macchina composita e magnifica della grande orchestra moderna rappresenta un simbolo ideale, ma anche molto concreto, di una creatività individuale che riesce a integrarsi in una collettività armonica; e al tempo stesso l' orchestra può essere considerata una proiezione prismatica del soggetto in una plurivocità ordinata e, soprattutto, programmaticamente perseguita e voluta. Un insieme preordinato e prescritto contrasta e padroneggia l'emergenza critica individuale e collettiva, quale si presenta in realtà costantemente nella vita. In musica l'emergenza è il non dominato, il non integrato, sino al caos imprevedibile. Un rischio «artistico», programmaticamente attuato, si sostituisce ai grandi rischi sempre presenti nell'esistenza umana, nella natura e nella società.

 

(Es. 2Esempio musicale) Il maestro di cappella di Domenico Cimarosa, breve intermezzo giocoso di indubbia comicità, è un esempio di teatro nel teatro, o meglio di un teatro in musica che parla della musica nel momento del suo farsi. Ascoltiamo un maestro di cappella alle prese con la concertazione di due arie strumentali di diverso carattere. Assistiamo all'indisciplina degli strumentisti, e della musica stessa, che tende a scappare da tutte le parti, alle esortazioni euforiche e agli innervosimenti del maestro sull'orlo della disperazione, e alla sua necessità di condurre comunque il suo piccolo gregge strumentale a buon fine, dai bordi della catastrofe appena sfiorata e della confusione, sino alla realizzazione dell' «armonico fracasso», «dell'assieme che tiene ciascheduno facendo la sua parte»: cioè la realizzazione dell'opera che stiamo ascoltando.

 

Nella musica l'alternarsi di confusione e ordine, e il loro contrasto, diventa un vero e proprio gioco: l'ordine formale di un tema si dissolve nella sua variazione, si perde nel silenzio o in uno sviluppo che lo rende irriconoscibile, ma prima o poi ritorna, si ripropone e addirittura si può riproporre con insistenza comica. Il tuffo nell'indistinto della beata confusione, che gode del disordine e di un gioco illimitato, richiede che si riemerga in qualche luogo noto e riconoscibile. I processi di scissione e di ricomposizione che regolano il nostro rapporto con la realtà e con noi stessi, e che Bion (1963) ha caratterizzato come continua oscillazione PS↔D, sono comunque regolati a loro volta, scritti e prescritti nella musica. Non si deve scambiare la simulazione artistica dell'esperienza di confusione con l'esperienza confusionale che si può dare spontaneamente, nel nostro rapporto col mondo e con gli altri, e che rappresenta una matrice fondamentale dell'angoscia catastrofica. Il caos non prevale mai in musica, e, quando prevale, siamo comunque noi a produrlo, o qualcuno per noi, cioè la musica e i musicisti. Il nonsenso prodotto ad arte diverte sullo sfondo del senso che viene abbandonato per un po' e per gioco, in forme non cogenti e reversibili. Il pensiero musicale simula l'espandersi temporaneo di elementi beta, in un gioco sempre finito, improvviso e sorprendente, e comunque voluto, ricercato. [11]

 

V. Teatro dell'ascolto e spazio artistico.

 

La musica, per potersi manifestare, richiede che i suoni e le loro combinazioni operino entro uno spazio-tempo riservato, in un setting dedicato all'ascolto e che permetta di realizzare l'evento musicale: vale a dire l'esecuzione e la creazione di uno spazio artistico specifico, che si anima nell'ascolto. Un vero teatro dell'ascolto, dove possono succedere le più diverse estrinsecazioni sonore (Petrella 1996).

Per illustrare la nozione di spazio artistico vorrei riferirmi a un notevole passo dell'autobiografia di Richard Wagner (1911), che implicitamente rende sensibili con acutezza le peculiarità dello spazio artistico e le dinamiche immaginative che lo possono attraversare. Al centro del discorso troviamo il rapporto di tensione tra la dimensione musicale e la nuda parola comunicante.

Wagner, ascoltatore d'eccezione del Fidelio di Beethoven, cerca di render conto del cambiamento radicale che interviene nel passaggio dal canto alla parola parlata in una scena cruciale dell'opera, nell'interpretazione dalla grande cantante Schröder Darvient nella parte di Eleonora.

 

Di quale effetto fosse capace una parola decisiva emessa, nel soverchio degli effetti, con un'approssimazione al puro accento parlato, ella (la Darvient) aveva già dato prova nel Fidelio, trascinando il pubblico al più alto entusiasmo con la frase: «Un passo avanti, e sei morto!», dove ella diceva, più che non cantasse, la parola «morto». Quest'effetto smisurato l'avevo subìto anch'io, e derivava dal meraviglioso terrore che s'impadroniva di me, nel sentirmi piombare improvvisamente, come per un colpo di scure del carnefice, dalla sfera ideale, in cui la musica solleva anche le più raccapriccianti situazioni, sul nudo suolo della più terribile realtà. Le sommità del sublime si manifestavano qui in immediata rivelazione; ed io me la spiego, appoggiandomi al ricordo di questa impressione, come il baleno fulmineo che illumina in tal modo due mondi affatto diversi, nel punto in cui si toccano eppure si separano completamente, che noi proprio in quell'istante gettiamo effettivamente lo sguardo in entrambi i mondi ad un tempo. Ma quale eccezionale condizione rappresenti questo sacro momento, che non si può sfruttare per nessun fine egoisticamente personale, me lo apprese quel giorno il completo insuccesso della grande artista nel suo proposito. La nuda parola, espressa con rauco suono, fu come una doccia fredda: non vi vedemmo null'altro che un effetto teatrale mancato. (p. 208-209)

 

Nell'improvviso passaggio dal canto al parlato, l'ascolto wagneriano rende percepibile lo spazio immaginario nel quale si giocano, in quel momento culminante del Fidelio, grandi effetti e tensioni formidabili. E' compito dell'arte dell'interprete rendere questi moti sensibili, visibili e infine percepibili con chiarezza, sia pure nel baleno di un istante. Parola e canto, che convivono, uniti o separati, senza disturbarsi - in altri momenti e in contesti ben distinti del medesimo Singspiel - in quell'istante appaiono appartenere a due mondi radicalmente contrapposti e contrastanti. Avvertiamo come «sublime» il contrasto tra la sfera dell'alto raccapriccio e la caduta al suolo della realtà più cruda. Ma basta poco perché quest'effetto di grandiosa animazione del contrasto venga meno. L'effetto comico è alle soglie e tutto il resoconto di Wagner finisce per avere un che di umoristico.

Penso sia importante interrogarsi su questo racconto wagneriano. Esso rivela in modo molto diretto qualcosa che è sempre presente nell'arte e anche nella musica, ma che è difficile da rendere esplicito con tanta sensibile chiarezza riflessiva: è il dispositivo che rende possibile l'esperienza artistica, lo sviluppo dell'esperienza sublime, ma anche la comicità, il riso e l'umorismo.

Si tratta di un apparato idealizzante e illusionistico che si accompagna alla creazione degli oggetti immaginari ideali, che nella musica prendono vita e corpo attraverso l'esecuzione. Questa creazione di oggetti immaginari ideali è il risultato di una Spaltung, di una scissione (Split), che isola l'esperienza artistica dalla realtà e crea, nel suo spazio e per chi ascolta, una nuova realtà, provvista di caratteristiche e potenzialità proprie.

Entro lo spazio dell'opera musicale troviamo l'elevato e l'abissale, una sfera sublime e una sfera terrena in contrasto, e, in generale, un paesaggio sonoro che viene percorso dallo spettatore immobile, prodotto da un esecutore che lo sviluppa a beneficio dell'ascoltatore. Ma ciò accade sullo sfondo e nel cavo di una tensione tra questa interiorità e ciò che l'opera tiene al suo esterno - innanzi tutto il rumore e il caotico, ma anche il casuale, e in generale il polo mondano dell'esperienza, assimilato a una pura negatività da annullare e zittire. La musica si espande e lavora entro questo spazio-tempo silenzioso ed esclusivo. Ciò che è stato escluso non può indifferentemente esservi immesso. Dentro la musica deve dominare in modo assoluto il suono organizzato, offrendosi all'ascolto in tutta la sua purezza, e quindi non come accompagnamento o complemento dell'azione drammaturgica, né come puro accessorio di una musica di scena. La musica stessa crea la propria scena, riempiendola a piacere e organizzandola. Benché nascano dal corpo e dal cimento del corpo degli esecutori con gli strumenti, i suoni della musica, una volta prodotti, sembrano vivere di vita propria e sviluppare le loro aeree vicissitudini combinatorie.

L'umorismo e il comico in musica nascono ed operano entro il teatro dell'ascolto così generato. [12] L'esistenza di questo spazio artificiale, che tiene il disordine e l'imprevisto al di fuori, concentrando e limitando tutte le possibilità del gioco della rappresentazione entro il suo dominio artificioso, è la condizione preliminare della pura comicità musicale.

Pirandello (nel cap. V de L'umorismo), affermava, senza alcun riferimento alla musica, che l'arte convenzionale, come tutte le costruzioni ideali e illusorie, tende a fissare la vita: «la fissa in un momento o in vari momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile», astraendo, concentrando e rappresentando «l'idealità essenziale e caratteristica» delle cose e degli individui.

L'umorismo ha il compito di contrastare questa idealizzazione. Anche la musica riesce a fissare «quel che è mobile, mutabile, fluido», ma al tempo stesso è capace di simularne la mobilità, con i suoi contrasti, contraddizioni e digressioni, con quello che di slegato, scomposto e capriccioso caratterizza la vita, in contrasto con le sintesi idealizzatici dell'arte. Le parole impiegate da Pirandello per qualificare l'umorismo sono quelle sottolineate, e si attagliano perfettamente alla musica in generale.

Inoltre, sempre la trascrizione sonora dell'esperienza e l'invenzione musicale allontanano dalla gravità del reale, anche quando la musica finge la massima gravità. Se «improvvisazione, variazione, effetti d'eco o rispecchiamenti, consonanze e dissonanze, accelerare o ritardare, moto parallelo o contrario, introdurre un tema nuovo, sono tutte attività comuni a musica, sviluppo del bambino, gioco e lavoro analitico» (Schön, 2001), si deve allora cogliere anche la presenza immanente dell'umorismo nella musica, in ogni.musica? Si potrebbe cioè affermare che ogni musica possiede una valenza umoristica intrinseca?
Probabilmente sì, in un senso molto generale. La musica presenterebbe, per le sue caratteristiche strutturali, intrinseche proprietà umoristiche, che le appartengono di diritto e che la differenziano specificamente da altre arti.
Infine, proprio perché è mobilmente espressiva, la musica può anche non esserlo, esattamente come una persona vivace, che all'occorrenza può essere atona, impassibile o fare l'indifferente. Anche il gioco tra inarticolato e articolato richiede di essere dominato. Ciò non significa che non vi possano essere aspetti inconsci presenti nell'opera e tali da produrre effetti di vario genere, che diventano consapevoli allo sguardo o all'orecchio di qualche fruitore, per restare in altri casi impercepiti o agire subliminarmente[13].

 

VI. La musica che fa ridere.

 

Perché il sorriso dello spettatore diventi riso generoso e spasso, occorre che si attuino certe ulteriori condizioni.

Ci troviamo di fronte, a «tecniche del comico» in musica che possono coesistere, senza escludersi reciprocamente. Consideriamo i seguenti esempi.

a. L'opera musicale può neutralizzare e totalmente dimenticarsi della corporeità: del corpo materiale dell'esecutore e dell'ascoltatore, della corporalità del suono e del mondo. I suoni generano una pura forma disincarnata e spirituale, un'aerea stilizzazione vocale e strumentale. Ma in essa ad un tratto il corpo si fa presente in vari modi, irrompendo sulla scena, senza necessariamente incrinare o spezzare il sogno, come accade invece nell'episodio narrato da Wagner.

La smorfia di un pizzicato, la piroetta di un glissando improvviso, la sguaiataggine di un ottone intrusivo possono far ridere. La sublime purezza, l'elevazione virtuosistica celestiale è a un tratto deliberatamente contaminata, macchiata.

 

E' interessante rammentare qui la testimonianza autobiografica di Igor Strawinskij su una delle sue prime impressioni sonore infantili. Racconta Strawinskij: durante le vacanze estive passate in campagna da bambino, un vecchio contadino muto, rosso di pelo e seminudo, era oggetto della curiosità dei ragazzini, che gli si avvicinavano con timore. All'avvicinarsi dei ragazzi impauriti, il muto si metteva a cantare un canto costituito da due sillabe, le uniche che riuscisse a pronunciare, «prive di qualsiasi senso, ma che alternava con un'incredibile destrezza in un movimento assai vivo. Accompagnava questo chiocciare nel seguente modo: applicava la palma della mano destra sotto l'ascella sinistra, poi, con un gesto rapido, faceva muovere il braccio sinistro appoggiandolo sulla mano destra. Faceva così uscire da sotto la camicia una serie di suoni abbastanza sospetti, ma ben ritmati e che per eufemismo si potevano definire baci di nutrice. La cosa - continua Strawinskij - mi divertiva pazzamente e, a casa, mi sforzavo con molto zelo di imitare questa musica. Tanto e così bene che mi proibirono di servirmi di un accompagnamento così indecente. Non mi restavano così che le due tristi sillabe, che per me perdevano così ogni attrattiva».

Le Croniques de ma vie (1935) si aprono con questo vivido ricordo (di copertura), dove la corporalità del suono musicale si manifesta per la prima volta al bambino in forma prorompente e in molte sue componenti fondamentali, tutte simultaneamente presenti: l'artificio, la comunicazione, gli affetti, la relazione, il divieto, la bassa corporalità, l'impaccio della parola articolata...

 

Molte gag musicali dei clown si basano sul contrasto tra la leggerezza del suono e la resistenza e carnalità della materia e del corpo. Una forma di comicità si manifesta quando il virtuosismo trascendentale, da pura espressione ed espansione lirica o acrobatica, mostra a un certo punto la corda, si impappina e cala le brache. Il lavoro e lo sforzo esecutivo prima occultati si manifestano d'un tratto. Ma poi il puro gioco riprende e ricrea l'illusione che aveva spezzato, come un prestigiatore fa mostra di spiegare il suo trucco, che in realtà si rivelerà invece essere una magia ancora più abile.

I Capricci di Paganini sono un buon esempio di umorismo lirico-acrobatico, veramente funambolico. Essi non hanno tuttavia nulla di comico, ma ci fanno stare col fiato sospeso, anche noi a camminare sulla corda, piroettando sul vuoto. Perché compaia il comico, bisogna rappresentare ulteriori ostacoli e difficoltà, per uscirne egualmente vittoriosi, come nel Circo di Chaplin, quando il funambolo improvvisato, assalito da un branco di scimmie, potrebbe cadere da un momento all'altro, ma riesce tuttavia a compiere gloriosamente il suo percorso.

b. La musica può farsi beffe di se stessa, mettendo in caricatura la musica stessa e chi la produce.

Oggetto di riso può essere il divismo dei grandi cantanti del passato, con i loro tic vocali da mettere alla berlina, sottolineando caricaturalmente le smancerie del patetico sublime o i manierismi della coquetterie canora. I grandi effetti comici realizzati dalle gag esilaranti di Michael Aspinall sono ottenuti imitatando e sbeffeggiando la vocalità e la gestualità delle cantanti d'opera. Le sue parodie della «prima donna» mostrano con garbo impietoso gli artifici nascosti sotto lo smalto della pura idealità vocale.

Anche la musica pura può assumere tratti parodistici. Si adopera allora a contraffare, per eccesso o per difetto, il suo apparato formale, a sottolineare i suoi manierismi procedurali e i suoi errori costruttivi. La composizione può risultare volutamente scomposta, formalmente sgangherata, a beneficio del divertimento dell'ascoltatore. I difetti costruttivi o esecutivi dell'opera sono allora evidenziati, accentuati caricaturalmente ed esibiti, prodotti da un'estrema maestria e non da un'insipienza da musici del villaggio.

(Es. 3Esempio musicale) L'esempio più caratteristico di queste parodie è Uno scherzo musicale K 522 di Mozart. Il discorso contrappuntistico è volutamente debole e incespicante; alla pretenziosità delle intenzioni del compositore messo alla berlina segue una «rozza bastonatura»; i suoi slanci lirici si rivelano di una melensaggine convenzionale maldestra. Abert (2000) analizza accuratamente questi tratti della composizione, dove Mozart finge con somma maestria l'incompetenza presuntuosa di un compositore da strapazzo. La musica è volutamente bistrattata. Ma si attiva un gioco sottile tra costruzione del discorso e attacco al discorso musicale e a chi lo produce. Con gli accordi finali si realizza il crollo armonico e formale dell'opera. L'aggressione alla lingua nasconde ovviamente un'aggressione personale. Verso chi? Verso il padre appena morto? Un'area congetturale si apre alle nostre fantasie, senza che se ne possano definire i termini effettivi.

c. Esistono generi musicali, che devono stare ben separati tra loro e non possono convivere tranquillamente. La loro coesistenza, una musica nella musica, genera vari effetti di contrasto, di mise en abyme e di caratterizzazione spesso umoristica (rivolta a una situazione, a un ambiente). Tipiche di queste commistioni le citazioni musicali suonate dall'orchestrina sulla scena nel Don Giovanni; la parodia dell'aria italiana cantata dal tenore italiano nel Cavaliere della rosa; l'aria francese da salotto nell' Eugenio Onieghin. Qui tuttavia non c'è comicità, ma solo un umorismo riflessivo prodotto dall'imitazione.

(Es. 4Esempio musicale) Ma se un nobile, elegante e spedito Quartetto di Haydn si trasforma senza discontinuità in una canzone dozzinale che tutti riconoscono, per poi tornare ad essere se stesso, l'effetto comico è assicurato. [14] E' come se un elegante, distinto e ben vestito signore si mettesse improvvisamente a tenere un comportamento volgare e inammissibile, facendo finta di niente. La situazione si degrada improvvisamente, perché si mescolano generi e «modi» che devono stare rigorosamente separati per motivi di etichetta o di sicurezza. Assistiamo al fenomeno di una degradazione improvvisa e alla simulazione di un disimpegno formale che, direbbe Freud, si scarica nel riso. Siamo coinvolti da uno smascheramento del sublime e dal suo scadimento, cioè dal fenomeno dell'abbassamento, della Herabsetzung, generatrice di comicità (snizenie, dirà Bachtin (1965, p. 25) sulle orme di Freud).

d. Le possibilità sono innumerevoli. (Es. 5Esempio musicale) Ecco allora un esempio opposto al precedente. Le ottime trascrizioni di Alexander Weinmann comprimono elegantemente in un quartetto d'archi con contrabbasso i ricchi colori e le espansioni orchestrali dei Walzer di Lenner e degli Strauss. La trascrizione consente la loro importazione nell'ambito della musica da camera, con effetti vari: qui non abbiamo comicità, ma all'opposto una valorizzazione di aspetti intimi e colloquiali, un assottigliamento dello slancio orchestrale variopinto in sottolineature conversative umoristiche. Nelle trascrizioni di Weinmann queste composizioni acquistano inediti toni cameristici, salottieri nel senso migliore della parola. Si crea un effetto nuovo e un cambiamento notevole d'ambiente, che sorprende e spiazza le attese di chi identifica il suono e il linguaggio del quintetto d'archi con le forme e le atmosfere di Haydn, Mozart e Beethoven.

e. Mozart ha scritto parecchie composizioni con intenti dichiaratamente comici, finalizzate allo spasso degli esecutori. Il gioco umoristico investe anche il testo musicato, con contrasti divertenti: troviamo così imitazioni di uno stile operistico mediante un insieme vocale con strumenti, ma su parole stravaganti e neologismi che vanno a costituire un dialogo assurdo e spesso pepato.

(Es. 6) Il quartetto Caro mio Druck und Schluck o (Es. 7) il Bandl-Terzett K. 441 sono un buon esempio di questo tipo di comicità, che si burla dei modi operistici.

(Es. 8) Alcuni canoni mozartiani a più voci inscrivono nello stile severo del canone a cappella varie trovate e scherzetti testuali, talvolta osceni, come il famoso Difficile lectu mihi Mars et jonicu difficile (K 559). Per Paumgartner (1940) questi canoni mozartiani «sono l'equivalente musicale delle lettere alla cuginetta».

f. La musica può imitare la natura, le persone, le loro voci, i versi degli animali e la musica stessa, traendo da tutto ciò effetti comici diversi, a patto che si realizzi una qualche degradazione, una desublimazione o una caricatura di qualche aspetto.

(Es. 9Esempio musicale) Due ecclesiastici tardorinascimentali, musicisti e buontemponi d'ingegno, Orazio Vecchi, con l'Anfiparnaso,e Adriano Banchieri col suo Festino nella sera del Giovedì grasso o con la Pazzia senile, e altro ancora, ci hanno lasciato madrigali drammatici parodistici irresistibili, dove le voci di un quintetto vocale fanno il verso a vecchi rimbambiti, imitano i versi di animali di vario genere, il suono di strumenti musicali a plettro, o le grida e i discorsi in plurimi dialetti degli abitanti sulle rive del Brenta. Il nobile sound madrigalistico, senza abbandonare l'impegno esecutivo e con la massima serietà, si impegna anche in queste mirabili e spassose «sciocchezze».

g. Si può confrontare l'imitazione caricaturale madrigalistica con un esempio strumentale simile, ma assai lontano, per epoca e per area culturale. (Es. 10Esempio musicale) Un tremolo indiavolato di due straordinari violinisti tzigani russi degenera improvvisamente in un battibecco tra due uccelli, o, se si preferisce, tra due persone litigiose o, più semplicemente, tra due violini che cercano di parlarsi imitando la prosodia di un discorso, per poi beccarsi scompostamente, con una verve irresistibile e quasi scurrile, che strappa il riso [15] .

h. In altri casi, la comicità scaturisce da un gioco, che mette in contrasto ridanciano musica e testo, sovvertendo i loro rapporti canonici, custoditi da una salda e potente tradizione. In età medioevale, e semel in anno, le«feste asinarie», la festa dei folli e altre consimili, si burlavano pesantemente della musica liturgica. Avveniva che il basso clero imitasse, satireggiandole, le forme e i modi del gregoriano, stravolgendo le parole del rito religioso. Questa parodia blasfema del sacro istituito si scatenava annualmente e carnevalescamente in coincidenza col Capodanno. La profanazione musicale non era che un momento di una pratica di licenza che metteva sottosopra l'ordine canonico dei riti e dei divieti della Chiesa. René Clemencic (1979) ha tentato una godibile ricostruzione, sulla base di manoscritti, di queste pratiche carnevalesche. [16]Clemencic ricorda che tali pratiche resistettero alla repressione ecclesiastica sino al XVI° secolo. Esse sono da considerare una parte non trascurabile di quella carnevalizzazione che culminerà nell'opera di Rabelais e che Bachtin (1965) ha analizzato nel suo famoso saggio.

Questo piccolo campionario mostra, senza alcuna pretesa esaustiva, la varietà dell'umorismo e la capacità della musica, spesso della pura musica, di indurre il riso utilizzando un certo numero di tecniche del comico.

 

VII. Quando la musica imita il riso.

 

Vorrei ora esaminare un differente aspetto del riso nella musica. Non come la musica suscita il riso, ma come la musica assume il riso nel proprio linguaggio e come lo trasmette agli ascoltatori. Se esiste la musicalizzazione del pianto e del lamento, abbiamo anche quella del riso. La musica vocale e strumentale, per importare il riso dentro il suo dispositivo, deve imitarlo, stilizzarlo, con lo scopo di piegarlo infine alle proprie esigenze.

 

Nel compiere questa operazione mimetica, la musica dispone di maggiori strumenti espressivi rispetto alla mimesi del riso nella scrittura, oltre ad avvalersi dell'iniziativa e del contributo dell'interprete..

Sugli Ha-ah, he-he, hi-hi, hu-hu, ho-ho del riso si è sviluppata nel 1600 e sino all'Illuminismo un tentativo di codificazione delle varie forme di risata, basata sull'ipotesi di una stretta connessione tra le diverse vocali e gli umori corrispondenti ai vari temperamenti. [17]

 

La musica può sedurre l'ascoltatore a identificarsi col riso della musica. L'ascolto silenzioso e l'inibizione della propria voce nell'ascolto sono allora abbandonati e l'ascoltatore si associa con un vero riso al riso della musica.

Questa seduzione è smaccata solo nella musica che aspira alla comicità. Si verifica in tale caso qualcosa che assomiglia al vecchio trucco dell'attore comico, in genere non di gran livello, per favorire il riso degli spettatori: ridere egli stesso, mostrando di divertirsi a ciò che dice.

(Es. 11, 12Esempio musicale) Nella notevole aria «Ah, quel diner», da La Périchole di Offenbach, l'ebbrezza alcolica del personaggio autorizza e giustifica il suo riso immotivato, la cui estrinsecazione tuttavia è soprattutto lasciata all'iniziativa dell'interprete. [18] Il pubblico è indotto a un'identica disinibizione e alla partecipazione.

(Es. 19) Troviamo seduzione al riso nell' «Aria della risata» («C'est l'histoire amoureuse») della Manon Lescaut di Auber. In questo scintillante esempio di stilizzazione musicale di un riso scoppiettante, l'éclat de rire è preceduto e annunciato da un rallentamento controllato che prelude all'esplosione della risata.

Se escludiamo quest'uso del riso per produrre una comicità che a sua volta fa ridere, il riso si manifesta nella musica in tutte le sue numerose varietà [19]e diviene, spesso semplicemente per contrasto, un elemento drammaturgico specifico per caratterizzare un personaggio e soprattutto per sottolineare o esasperare l'angoscia, lo smarrimento e altri affetti negativi simultaneamente presenti.

Ecco tre esempi, molto diversi tra loro, di un riso che non produce comicità per chi ascolta.

1. Nel finale dell'atto II del Ballo in maschera troviamo la risata «sogghignante» dei congiurati in un momento culminante dell'opera. Un concertato geniale esprime e contiene i nodi drammaturgici della trama, venuti improvvisamente al pettine, in una varietà di posizioni che la scrittura contrappuntistica e mobilmente alternata del concertato ha il compito di tenere insieme, simultaneamente e distintamente.

(Es. 13) Il coretto dei congiurati commenta:

Ve', la tragedia mutò in commedia

Piacevolissima, Ah! ah! ah! ha!

E che baccano sul caso strano,

E che commenti per la città!

E' successo che ad Amelia cadesse fatalmente il velo che le nascondeva il volto e le consentiva l'anonimato. A questo svelamento istantaneo corrisponde una rivoluzione nella narrazione, una vera rivelazione, gravida di effetti immediati e a meno breve termine. Il coretto dei congiurati scopre con sorpresa che la donna velata non è altro che la moglie del Baritono ignaro, il quale scopre a sua volta in quel momento che è sua moglie a tradirlo col suo migliore amico. Il Baritono ha appena sostituito generosamente l'amico nel suo incontro amoroso con la donna velata, per salvagli la vita dai congiurati che si apprestavano ad ucciderlo.

Con la caduta del velo l'azione muta improvvisamente: per i due, anzi i tre personaggi del triangolo, ha inizio la tragedia, che si concluderà con l'assassinio durante il ballo in maschera; per il coro dei congiurati la vicenda si trasforma all'istante in commedia galante, in risibile pochade. La risata del coretto è concorde, maligna e cortigiana. Un riso sarcastico e pettegolo ha sostituito le intenzioni omicide del gruppo.

Steinberg

 2. 'A risa (1895) di Berardo Cantalamessa, celebrato compositore ed esecutore di canzoni napoletane, fu un popolare successo della fine dell'Ottocento. Nella canzone, che conobbe numerose versioni e rifacimenti, un tale descrive la propria caratteristica di produrre, in ogni occasione anche triste o dolorosa, una risata irrefrenabile, che si ripete nel ritornello. [20]'A risa sarebbe un buon esempio di risata musicale seduttiva, contagiosa e corriva, che invita esplicitamente a ridere.

 

3. Thomas Mann, che probabilmente conobbe questa canzone in uno dei suoi soggiorni italiani, quando 'A risa era in gran voga, la utilizzò in pagine memorabili de La morte a Venezia (Mann, 1911, pg. 92-99). Nel racconto manniano a suonarla è un gruppetto di posteggiatori partenopei, quattro «pezzenti virtuosi» in trasferta veneziana («mandolino, chitarra, fisarmonica e un piagnucoloso violino»). Il chitarrista è anche il cantante, una specie di baritono buffo, caratterista quasi senza voce, ma eccellente mimo e con una vis comica innegabile. Un tipo «mezzo magnaccia mezzo commediante, brutale e protervo, pericoloso e spassoso». Il canto in questione viene eseguito nel giardino dell'Hôtel Des Bains come ringraziamento al pubblico, al termine della questua per il concertino.

Ecco la precisa descrizione del pezzo. «Era un salace rondò, in dialetto incomprensibile e con un ritornello a risata». A un certo punto «cessavano parole e accompagnamento; non rimaneva che la risata, obbediente bensì a un certo ritmo, ma trattata con grande naturalezza specie dal solista, che sapeva infonderle evidenza stupefacente». Eppure si trattava di una «risata cinica finta», una risata di scherno, che finiva tuttavia, nella sua urlata teatralità, per coinvolgere tutti: dal ricco pubblico degli ospiti sino ai camerieri. L'ilarità disperata di questa canzone acquista nelle pagine straordinarie di Mann significati sinistri e diabolici, con risonanze licenziose e sulfuree che ben si accordano con lo sconvolgimento emotivo del protagonista, annunciando per contrasto l'inizio della sua fine prossima.

Nel film che Visconti trae dal romanzo (1971), la canzone della risata occupa un posto eminente e dà luogo a una sequenza mirabile per fedeltà e felice ricreazione fin nei minimi dettagli della tessitura del racconto. Il riso licenzioso e quasi osceno, con la sua fisica corporalità prorompente, entra nel mondo ovattato della ricca società dell'albergo. Anche qui abbiamo un contatto inquietante tra due mondi antitetici, all'insegna di un riso catalizzatore, che tutti accomuna in un momento carnevalesco, tranne Aschenbach, il protagonista solitario, ormai irrimediabilmente segnato dalla morte.

4. Berardo Cantalamessa, con la sua canzone ridanciana e popolare, non si sarebbe certo aspettato di vedere conferire alla sua «macchietta» un significato così sinistro. Eppure è assai verosimile considerare la versione sulfurea manniana di 'A risa come l'anticipazione di un'altra risata in musica, descritta, ancora da Thomas Mann (1947), nel Doctor Faustus.

Si tratta di Apocalipsis cum figuris, oratorio per coro e orchestra, la penultima grande composizione dell'infelice compositore Adrian Leverkühn, da lui scritta poco tempo prima di essere distrutto dalla demenza paralitica. A differenza dalla canzone precedente, questo oratorio è una pura invenzione letteraria, alla quale non sembra corrispondere alcun preciso modello musicale.

Qui il riso, perduto ogni connotato gioioso, è diventato «il pandemonio della risata», il riso infernale che costituisce il finale della prima parte dell' oratorio. Mann ce lo descrive come «travolgente gaudio della geenna che incomincia con la risata di una voce singola e per cinquanta battute fila rapidamente, comprendendo coro e orchestra tra incroci e inversioni ritmiche fino a un traboccante e sardonico fortissimo di tutte le voci e tutti gli strumenti - una scarica di sataniche risate di scherno e di trionfo, composta orrendamente di urli, latrati, stridii, muggiti, ululati, belati e nitriti». (p. 718 -719)

A questo riso dell'inferno si contrappone, subito dopo, un meraviglioso coro di voci bianche, con un'orchestra ridotta. «Un brano di musica delle sfere cosmiche, gelida, limpida, diafana, aspramente dissonante, ma d'una dolcezza di suoni che direi ultraterrena, inaccessibile e tale da riempire il cuore di nostalgia senza speranza». Ma una sostanziale identità unisce il riso infernale al coro angelico: nel quale «è cambiata la strumentazione e vi è trasformato il ritmo, ma in quella musica struggente non vi è nemmeno una nota che non si trovi in precisa corrispondenza anche nella risata infernale».

Il riso in musica sembra trovare un suo limite estremo in questa invenzione extramusicale sulla musica e le sue possibilità espressive e trasformative. Un doloroso sadismo erode e nega la possibilità del riso di elevare e soddisfare gli animi. Si genera invece un sublime riso negativo. Si afferma al tempo stesso che la musica delle sfere celesti è sostanzialmente identica all'urlo dell'inferno. Lo spirito dell'odio guasta il buon riso e lo precipita, come riso infernale, nell'area del sangue cattivo, del dolore e della malattia, della megalomania distruttiva e della morte psichica. La chiara partizione tra inferno e paradiso ha perduto quasi totalmente ogni tratto distintivo sostanziale: rivelandosi una pura differenza illusoria, di orchestrazione e di forma. La costruttiva scissione tra bene e male è fallita gli opposti coincidono. Si potrebbe qui parlare, in analogia col «- K» di Bion, di un «- R» (dove K sta per Conoscenza e R per Riso). Un riso col segno negativo non significa pianto, ma urlo infernale, risata che ha perduto ogni connotato gioioso e positivo all'insegna del trionfo della distruttività e dell'odio, espressione della parte psicotica della personalità e dell'idealizzazione del negativo.

VIII. La follia comica in musica.

 

Non è il caso di concludere foscamente uno scritto sul comico musicale, lasciando l'ultima parola all'Apocalisse di Mann. Qui la musica è soprattutto un'invenzione letteraria e un simbolo artistico estremo della rovinosa malattia storica della Germania e del Novecento.
Meglio allora, tornando all'opera musicale, rivolgersi alla comicità gioiosa di qualche finale d'atto di Rossini, considerando qualcuno dei suoi concertati estatici e palpitanti di umorismo. Per contrastare il riso infernale dell'Apocalisse, voglio ricordare tre di questi concertati rossiniani, con l'intento che facciano da farmaci euforizzanti (o da droghe evasive?) rispetto alla piega satanica presa dal discorso.
Nei tre esempi seguenti, è essenziale, per istituire la comicità, il gioco convergente tra le parole del libretto, la musica e la storia narrata. Il lieto fine si accompagna nei tre casi allo scorno e alla sconfitta di qualche personaggio negativo, che con la sua autorità e col suo potere ostacola il raggiungimento della felicità da parte dell'eroina oppressa. In tutti e tre i casi una benefica, transitoria e calcolatissima follia evasiva interviene nel momento culminante, in cui il racconto rischia una svolta negativa o tragica,. Qui si concentra, allo stato puro, quella «follia organizzata e completa»che Stendhal (1824) ravvisava come una caratteristica forte dell'Opera comica rossiniana.
L'opera seria ci confronta con la follia tragica e luttuosa, col delirio distruttivo prodotto da passioni insane - innanzi tutto amorose e ad esito rovinoso. L'opera comica ci mostra invece il lato ridanciano del delirio, una versione ridicola e sorridente di una pazzia condivisa, transitoria e collettiva


1. Consideriamo per primo Il Barbiere di Siviglia e la macchina irresistibile del quintetto che si scatena, dopo il sospeso «quadro di stupore» unanime, sui versi (Es. 14)

Fredda ed immobile - come una statua, - fiato non restami - da respirar.


Almaviva e Don Basilio.

Mentre Figaro, ridendo, esclama:

Guarda Don Bartolo! - Sembra una statua!- Ah ah! dal ridere - sto per crepar!

 

(Es. 15) Per arrivare infine al sestetto e alla «stretta», dove si realizza quella bergsoniana meccanizzazione ritmica della vita, che è una componente della follia e insieme della comicità.

(Es.16) Mi par d'esser con la testa - in un'orrida fucina, - dove cresce e mai non resta - delle incudini sonore - l'importuno strepitar. - Alternando questo e quello - pesantissimo martello - fa con barbara armonia - muri e volte rimbombar. E il cervello, poverello, - gia stordito, sbalordito, - non ragiona si confonde, - si riduce ad impazzar.

 

Nei versi del libretto, la pazzia è barbaro rumore, strepito rimbombante, orrida fucina (tutti aspetti allusivi a una sonorità traumatica e caotica, agli antipodi di ogni musica). Tuttavia è l'ordine della musica a trasformare la pazzia rumorosa in umorismo musicale indiavolato.

2. Affianchiamo al Barbiere di Siviglia un altro concertato, quello della scena VIII di Cenerentola. Il sestetto esprime lo stupore per la rivelazione dell'identità del vero Principe. La sua rinuncia al travestimento coincide con lo scorno di Don Magnifico e delle due sorelle e prelude allo snodo del finale lieto. Un canone delle varie voci, subentranti all'ottava o alla quinta, «rappresenta» musicalmente quell'intreccio aggrovigliato di cui parla il sestetto.

(Es. 17) Questo è un nodo avviluppato- Questo è un gruppo rintrecciato, - Chi sviluppa più inviluppa;- Chi più sgroppa più raggruppa; ed intanto la mia testa - Vola, vola e poi s'arresta, - vo tenton per l'aria oscura, - E comincio a delirar.

Percepiamo la consistenza fonica del groviglio, con tutti quei gr, tr, pp... Ma al tempo stesso il concertato, col suo contrappunto, ci parla con la massima lucidità anche del groviglio della trama dell'opera, con i suoi affetti contraddittori e i suoi imbrogli, generatori di confusione e abbagli, che si scioglieranno infine con l'apoteosi di Cenerentola.

Rossini3. Per concludere, consideriamo la stretta del Finale del I atto dell'Italiana in Algeri, «dove, forzando il senso onomatopeico di parole e immagini, Rossini costruisce una geniale pagina contrappuntistica e coloristica» (Rognoni, 1968).

 

(Es. 18) Va sossopra il mio cervello - sbalordito in tanti imbrogli;- Qual vascel fra l'onde e i scogli - Io son presso a naufragar. - Nella testa ho un campanello - Che suonando fa dindin. - Come scoppio di cannone - la mia testa fa bumbum. - Sono come una cornacchia - che spennata fa crà crà.- Nella testa un gran martello - mi percuote e fa tac tac.

 

Nella testa ho un campanello sviluppa l'onomatopea dei din-din, bum-bum, cra-cra e tac-tac: siamo presi da un ciclone «in cui la buffoneria si è fatta suono» (Roncaglia, 1946). La circostanza scatenante è rappresentata dal fatto che il Turco prepotente è stato mandato in una rischiosa e temibile confusione («Costei mi fa impazzir») dal rifiuto sprezzante di Isabella, l'Italiana di cui si è invaghito.

Nei tre concertati, troviamo molti ingredienti della comicità più tipica, associata alla comicità in musica.

Intanto la sconfitta del prepotente (rispettivamente Bartolo, don Magnifico e Mustafà), avviene definitivamente quando questi è gabbato e messo fuori uso da un' astuzia di superiore efficacia, che ottiene il nostro divertimento e adesione, pur non trattandosi di procedimenti molto onesti e spesso a loro volta prepotenti: veri e propri imbrogli.

La musica è complice del procedimento e concorre in modo determinante all'evasione euforica del gruppo. Assistiamo alla comparsa di una follia comica caratterizzata con precisione.

La follia comica è riflessiva, sapiente, generalizzata, e soprattutto ridanciana; dove la regressione poetica del testo del libretto e quella emotiva dei personaggi, finalmente riuniti in un gruppo, sono controllate da una superiore organizzazione ritmica e contrappuntistica, che trasforma alcune temibili deviazioni psicopatologiche in meraviglioso e spassoso gioco. Infine lo «stupore», la «confusione», il «delirio», il «naufragio» mostrano di poter diventare motivi di divertimento e di riso, ristabilendo, per una via musicale, l'ordine e la felicità.

Con questi concertati siamo certamente all'interno di una formula comica provvista di una propria coerenza. Un articolato stilema, narrativo e musicale, si ripete: si passa dallo stupore per una situazione e una verità rischiosa a una follia riflessiva attraverso la quale si raggiunge un'unanimità integrata nel canto. In tutti e tre i casi siamo all'apice di una sfida al potere e all'autorità da parte della potenza dell'amore. In quel punto, nella musica, se non nella narrazione, nell'insieme del gruppo se non nel singolo personaggio, si armonizza e si placa ogni conflitto. Siamo di fronte a uno svincolo narrativo fondamentale, dove il bene deve essere chiaramente distinto dal male e trionfare su di esso, ma senza morti e feriti, e anche senza eccessive mortificazioni per qualcuno. Ciò è richiesto dal genere comico, che rifugge da ogni dénouement tragico, imboccando senza esitazioni la via dell'euforia, con un minimo di negazione e un massimo di verità. Sta all'arte un'elaborazione della formula in modo sufficientemente vario e inventivo per non trasformarla in qualcosa di stanco e stereotipo, in un luogo comune, artisticamente inefficace e incapace di suscitare il riso.

 

IX. Per concludere.

 

Compete ora anche a questo scritto una «stretta» conclusiva e ricapitolante.

Dopo aver discusso gli aspetti più generali dell'umorismo, della comicità e del riso nella musica, ho messo a confronto e fatto interagire l'umorismo musicale con le tesi freudiane e post-freudiane sul motto di spirito e i processi psichici implicati nella musica. Ho considerato quindi alcuni aspetti del comico musicale nella musica strumentale e vocale, con e senza riferimento a testi, ponendo in relazione il comico musicale alle caratteristiche funzionali (e finzionali) dello spazio artistico. Spero di aver mostrato l'utilità delle analisi e dei confronti proposti e l'esistenza di importanti affinità tra umorismo e musica.
Ho infine esaminato tre aspetti fondamentali della comicità musicale: la musica che promuove il riso, impiegando varie «tecniche» del comico; la musica che imita il riso, ma che non necessariamente produce effetti di comicità nell'ascoltatore; la «follia ridicola» nel teatro in musica di Rossini, che fornisce una forma comica al rischio della disgregazione psichica.
Anche nella musica il comico e il riso si manifestano con qualità che variano dal buon riso generoso al riso della negatività più nera: da +R a -R. Alla conoscenza il riso si affianca, in una posizione non necessariamente antitetica o negativa, maniacale ed evasiva. Nell'arte piccola o grande la mobilitazione aggressiva richiesta è sempre temperata in varia misura dall'organizzazione formale che ha funzioni integrative, da una funzione contenitrice che rende possibile la rappresentazione comica e ne condiziona l'efficacia.

Il buon riso della musica, quando si realizza, sembra infine presentarsi non come una droga euforizzante, né soltanto come un sistema di negazione maniacale del dolore, ma come uno dei migliori antidoti al veleno dell'odio, dell'ira, della superbia, della rinuncia dolorosa e della vendetta. Un potere fragile e un rimedio salutare, che merita di essere riconosciuto come tale, coltivato e conquistato, nella musica e nella vita.

 

Fausto Petrella

 


Elenco delle citazioni musicali
1. Prokoviev: da Pierino e il lupo
2. Cimarosa: da Il maestro di cappella
3. Mozart: da Uni scherzo musicale (K 522)
4. T. Werner, da Haydn's Saitensprünge
5. J. Strauss- trascrizione di A. Weinmann
6. Mozart: Caro mio Druck und Schluck
7. Mozart: Bandl-Terzett (K. 441)
8. Mozart: Difficile lectu mihi Mars et jonicu difficile (K 559)
9. Banchieri: da La pazzia senile
10. Loyko: da Moldova (dall'antologia Russian Gypsy Soul).
11. Offenbach: da La Périchole, «Ah, quel diner» (vers. Berganza).
12. Offenbach: da La Périchole, «Ah, quel diner» (vers. Barberian).
13. Verdi: da Il ballo in maschera, finale atto II°.
14. Rossini: da Il Barbiere di Siviglia: «Fredda ed immobile»
15. Rossini: da Il Barbiere di Siviglia, seguito
16. Rossini: da Il Barbiere di Siviglia, «Mi par d'esser con la testa»
17. Rossini: da La Cenerentola, «Questo è un nodo avviluppato»
18. Rossini: da L'italiana in Algeri, «Va sossopra il mio cervello»
19. Aubert: da Manon Lescaut, «C'est l'histoire amoureuse»
(«Aria della risata»)

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Note

[1] Oltre ai tre studi menzionati, ve ne sono parecchi altri, alcuni dei quali, a cominciare dall'opera di Th. Lipps, servirono a Freud come punto di partenza. Vedi, per uno studio delle fonti dello scritto freudiano, R. Steiner (1982).

[2] Leopold Mozart muore a Salisburgo il 28 maggio 1787. A Vienna Wolfgang scrive la citata elegia in morte del suo passero il 4 giugno. Uno scherzo musicale K 522 è del 14 giugno 1787.

[3] Capinera, parole e musica di Amerigo Giuliani, fu resa celebre all'inizio del Novecento dalla cantante napoletana Elvira Donnarumma. Il testo della canzone, smaccatamente strappalacrime, al punto da poter essere involontariamente umoristica, recita così: 1. La chiamavan «Capinera» - pei suoi ricci neri e belli, - stava sempre fra i monelli - per la strada tutto il dì. - Scalza, lacera, una sera - m'apprestavo a rincasar, - col visino suo di cera - me la vidi avvicinar. - «Dammi un soldo, ho tanta fame!», - «Hai la mamma?», «Non ce l'ho!». - «E il tuo babbo, la tua casa?». E lei triste «Non lo so!». - Provai una stretta al cuore e quella sera - la mia casetta accolse Capinera. - E lei cantava, cantava giuliva - di trilli e grida la casa m'empiva - ed un bel sogno nel cuor carezzavo, - la contemplavo, forse l'amavo. - 2. Tredic'anni lei compiva - s'era fatta pensierosa: - «Pensi forse a qualche cosa? - che ti manca?». «Non lo so!». - Primavera, sole e fiori, Capinera è sempre là. - Sta affacciata e guarda fuori, - «Cosa vuoi?», «La libertà!». - «Non hai casa, non hai mamma, dove andrai?». Rispose: «Andrò». - Con la mano piccolina l'orizzonte mi insegnò. - Provai una stretta al cuor, finché una sera - più non trovai a casa Capinera. - Di trilli e grida la casa m'empiva, - la contemplavo... forse l'amavo. - 3. Fu in un'alba di gennaio, - dopo l'orgia rincasavo. - Nevicava e m'apprestavo - ad aprire il mio porton. - A distanza molto breve - vidi un certo non so che; - affiorava fra la neve, - dissi allor «Vediam cos'è». - Eran cenci, io li rimossi, - diedi un grido, due piedini, - due piedini scalzi e rossi, - poi le mani, poi un visin. - Un urlo mi sfuggì vedendo ch'era - la morticina, la mia Capinera. - Forse pentita al suo nido tornava, - forse quaggiù che le aprissi invocava... - mentre la neve saliva, saliva... - e lei moriva... e lei moriva...».

[4] Vedi, per esempio, il giudizio di Orlando (1987), che ritiene, giustamente, che il saggio sul Motto di spirito contenga «pagine fra le più mirabili» che Freud abbia mai scritto (p. 206). Bisogna tuttavia riconoscere che questo saggio freudiano è spesso sottovalutato: se ne disapprova soprattutto l'insistito energetismo, che è in realtà soltanto una componente, sia pure rilevante, del discorso complessivo.

[5] E' Th. Mann che ne riferisce in Il romanzo di un romanzo. Vedi G. Manzoni (1975, p. 168).

[6] Vedi La Gerusalemme liberata, C. IV, st. 3. Non solo il verso citato, ma l'intera «stanza» risuona di questa tromba infernale.

[7] Vedi la descrizione di questo Péché de vieillesse in Rognoni (1968), p. 246 e sg.

[8] Benché Freud non faccia alcun riferimento alla musica nelle osservazioni citate, le sue considerazioni si approssimano alla musica della parola e al suo valore fonico. Non è un caso che la frase citata sia subito seguita da un raro esempio di sogno 'musicale' (1899, p. 314): «Una signora mia amica sogna: Si trova all'Opera. E' una rappresentazione wagneriana, che è durata sino alle sette e tre quarti del mattino»(!) Nel sogno fa la sua allusiva comparsa Ugo Wolf, rappresentato su un alta torre, che si aggira come un lupo in gabbia, con i tratti del direttore d'orchestra wagneriano Hans Richter, eccetera.

[9] Sui problemi qui accennati vedi Jodelet (1965). Confronta anche Petrella e P. Sommaruga: Il linguaggio come II° sistema di segnalazione, Il lavoro neuropsichiatrico, 43, 22, 3, p. 1 - 50, 1968. Accenni a questa prospettiva e in relazione all'umorismo si trovano anche in Koestler (1964), p. 304 - 306.

[10] Cit. da E. Pontiggia, Postfazione a Lo spirituale nell'arte, cit. Vedi W. Kandinsky, Tutti gli scritti, Feltrinelli, Milano 1984, vol II, pp. 153 - 182.

[11] I riferimenti sono a Bion (1963) e ai processi di formazione del pensiero. Sulla confusione rinvio a Petrella (1978) e, in riferimento all'umorismo, all'importante studio di R. Steiner (1982).

[12] Sul rapporto teatro - mente e sul teatro dell'ascolto in musica e nella psicoanalisi rimando a Petrella (1985 e 1996).

[13] Per un'importante e sin troppo complessa discussione sugli aspetti inarticolati del motto di spirito e della musica, messi a confronto con i suoi aspetti formali, anche in una prospettiva storica, oltre che percettologica e psicoanalitica, vedi Ehrenzweig (1965).

[14] Il riferimento è a Haydn's Saitensprünge di Werner Thomas.

[15] Si tratta del notevole brano Moldova, eseguito dal gruppo tzigano russo «Loyko» al Festival europeo di musica tzigana a Monaco di Baviera nel 1994. Lo si può ascoltare nell'antologia Russian Gypsy Soul, a cura di C. Scholze e S. Erdenko, Network Medien, Frankfurt - Main, 2000.

[16] Le menzionate ricostruzioni si trovano in un CD «Harmonia mundi», 1998.

[17] Per una brillante sintesi di questi aspetti, vedi V. Stoichita e A. Coderch (1999), pg. 287 e s.

[18] Ho sotto mano due diverse interpretazioni su CD di quest'aria. La prima (Teresa Berganza), soltanto umoristica, presenta lo stato di ubriachezza con grande eleganza e, se così si può dire, sobrietà stilistica; Nella seconda (eseguita da Katy Bareberian) , la cantante si produce in una serie di irresistibili e musicalissime risate. Solo questo riso di coloritura è capace di indurre il riso nel pubblico.

[19] Per un elenco e una tipologia delle varie forme del sorriso e del riso e una discussione su questa varietà, vedi Ceccarelli (1988, pag. 122 e seg.).

[20] Le strofe di una versione di 'A risa dicono: «Io tengo, 'a che so' nato, - nu vizio gruosso assaje... - nun ll'aggio perzo maje... - va' trova' lu ppecché! - Mm'è sempe piaciuto - di stare in allegria - io, la malinconia, - nun saccio che rrobb'è! - De tutto rido...e che nce pòzzo fá!? - Ah - ah - ah - ah..... - Nun mme ne 'mporta si stóngo a sbagliá... - Ah - ah - ah - ah.. - -I o rido si uno chiagne, - si stóngo disperato, - si nun aggio magnato, - rido senza penzá...- Mme pare che redenno, - ogne turmiento passa... - nce se recréa e spassa... - cchiù allero se pò stá... - Sarrá difetto gruosso chistuccá.. - Ah - ah - ah - ah... - Ma 'o tengo e nun mm' 'o pòzzo cchiù levá... - Ah - ah - ah - Lu nonno mio diceva - ca tutte li ffacenne - faceva isso redenno... - E accussí i' voglio fá... - Chist'è 'o difetto mio, - vuje giá mo lu ssapite... - 'nzieme cu me redite - ca bene ve farrá! - Redite e ghiammo ja': - Ah - ah - ah - ah - Ca bene ve farrá - Ah - ah - ah - ah - Ah - ah - - ah.»

 

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