Pubblicato
da Guida nella collana Parole chiave della filosofia, Musica di
Elio Matassi è un testo che tocca, in forma sintetica, tutti gli snodi
concettuali che sostengono la riflessione che lega il pensiero all’esperienza
della ricezione estetica del musicale. Rallegra profondamente che una collana
dedicata ai concetti cardine del pensiero filosofico dedichi un volume
alla musica, perché tale scelta porta al centro del dibattito
culturale temi spesso racchiusi in nicchie specialistiche: a fine testo, articolato
in sei sezioni, un utile glossario permette di richiamare le nozioni affrontate
dal libro, dando un ulteriore contributo di chiarezza, ad un settore che sembra
incontrare sempre di più gli interessi di una comunità di lettori motivata
alla comprensione del fenomeno musicale, scavalcando inutili tecnicismi.
Alle stesse esigenze di trasparenza corrisponde l’aggiunta di una discografia,
gradito indice di una vicenda del gusto all’interno di un percorso
appassionato, che nasce da una passione per la musica, profondamente esperita.
Il volume, di piccola mole, è agile e ben scritto, ma
si muove sul terreno di una profonda densità concettuale: nel testo si dipana
una trama che entra in contatto con tutti i temi che hanno caratterizzato
la speculazione filosofica sul musicale, dall’aspetto ontologico, legato alla
struttura temporale del suono, sino alle specificità estetiche, e recettive,
messe in gioco dalla dimensione dell’ascolto.
Il
libro si trova nella scomoda posizione di dover offrire articolazione a snodi
complessi, ricostruendo con grande sensibilità le tracce di un percorso,
che proponiamo seguendo il filo della discussione che Matassi costruisce con
passione.
1 Il rapporto fra musica e filosofia: due possibili interpretazioni.
All’origine, la
musica sembra risolversi tutta nella filosofia, come modello
dell’attività della relazione fra organizzazione armonica dei suoni (dall'acuto
al grave, sino all’intonazione del modello scalare) la relazione dialettica
fra concetti. In questo senso, il filosofo è già
musicista, come narra Platone nel Fedone: nel sogno Socrate
viene invitato a comporre musica, ma il sogno sollecita Socrate, come accade
al corridore che già sta correndo. Facendo filosofia, Socrate
fa già musica altissima. Nel Sofista la filosofia
è musica, perché, come accade per il linguaggio, essa sa esibire le modalità
secondo cui si accordano le relazioni [1],
cogliendo il nesso che lega le cose e dispiegandolo compiutamente. Musica
e filosofia sono dunque, in continuità con l’interpretazione pitagorica,
paradigmi di un relazionalismo profondo, che vuol salvare il sensibile ponendosi
al di fuori delle relazioni di immanenza scosse dal divenire, per cogliere
la g enesi delle relazioni logiche.
Filosofo e musicista hanno un destino, che li porta ora all’oblio, ora verso
un’ossessiva organizzazione concettuale, adombrati nel mito delle cicale del
Fedro: gli uomini che hanno una vocazione per la musica, si dedicano
alla filosofia, a rischio, diremmo, della propria vita. Sono persi in un’oggettualità
che sfugge, che si nasconde dietro alla trama linguistica della relazione.
2. Tra linguaggio e relazionalità
Il
rapporto con il mondo, e la sua trascendenza, d’altra parte, mettono in gioco
il rapporto fra demonicità e ademonicità della musica, che nel mondo antico
decide del suo statuto politico. Quella relazione biunivoca corre immanente
alla filosofia del primo ottocento, e porta in primo piano il suo rapporto
con la poesia.
La prospettiva di Matassi tende a mettere in luce quanto le esigenze di fondo
attraverso cui i due caratteri vengono alla luce, portino in luce la loro
complementarità. In Hoffmann va schiudendosi una dialettica fra demoniaco
e ponderatezza: nella raffinatissima recensione della Quinta
Sinfonia di Beethoven (1810), attenta a cogliere i nessi di
continuità nella drammatizzazione del conflitto tematico, si accetta
l'idea della musica come struttura che si organizza abbandonando il modello
linguistico, secondo una dialettica propria che accosta la demonicità alla
capacità architettonica, alla possibilità di seguire l’accadere della forma,
senza congelarla in uno schema.
Hoffmann [2] si stupisce,
giustamente, delle continue ricadute sul binomio tonica – dominante
nella strutturazione formale beethoveniana che chiude pesantemente il finale
della Quinta: in quel topos, in cui abitualmente vediamo affermarsi con prepotenza
il concetto di tonalità, e l’inchiodarsi della musica nell’alveo di una caduta
che si ripete verso una cadenza, Hoffmann coglie l'allusione ad un movimento
che tende a risollevarsi dopo la caduta, ad un ripartire della dialettica,
mentre paradossalmente il processo si chiude.
La natura ritmica di quel finale, che si sopisce in modo tanto insistito,
mette in gioco una tendenza al riaprirsi del gioco, ad un nuovo inizio che
urge, dietro al finale, e che scuote l’ascoltatore fino all’ansia, nell’avvertire
un processo sotterraneo che si è chiuso, ma che è pronto a riaprirsi. Esatto
contrario di un'analisi tradizionale, naturalmente, in cui sublime e malinconico,
demoniaco e ademonico si tendono la mano, non entrano in dialettica
oppositiva, ma si rimandano l’un l’altro. Secondo un'altra via, Wackenroder
[3] avverte che la capacità della musica
di portare a rappresentazione i sentimenti umani in maniera soprannaturale,
trova il proprio fondamento nell'irriducibile differenza che separa il linguaggio
umano da quello musicale.
Il linguaggio umano isola, separa ciò che il linguaggio musicale tiene unito,
la parola partecipa della separazione, laddove la musica può scandire direttamente
il flusso del tempo, articolarne le forme, senza romperne l'unità attraverso
la concettualizzazione astratta: essendo contro e nel tempo, la musica abbraccia
ogni opposizione dialettica, anche la relazione demoniaco -ademoniaco, ed
i suoi oggetti non si lasciano corrodere dal disperdersi del flusso, ma lo
abitano, lo portano a presenza nell'istante. Il suono ha una sovrabbondanza
sensibile, che non si lascia imbrigliare negli aspetti matematico-relazionali,
rivolgendosi direttamente al cuore dell'ascoltatore. Ma come articolare la
funzione del suo riconoscimento?
3 Il luogo utopico della musica come destino della forma
Nel
terzo capitolo, dedicato a Bloch, Matassi coglie una traccia nella relazione
interna che lega la funzione del riconoscimento a quella della speranza. Il
concetto di riconoscimento messo in gioco dalla speculazione blochiana è quello
definito dalla a)nagw/risij, una qualità del riconoscimento
di un elemento che accade, ad esempio, nelle trame delle opere teatrali e quindi rivelazioni dei nessi che illuminano dall'interno il
senso di un racconto. Il significato nascosto del musicale va rintracciato
nella traccia di un principio - speranza, che offre la possibilità
di uscire dall'indigenza del proprio destino, come accade nel suono della
syrinx, con cui Pan rievoca la presenza perduta di Siringa [4], o nell'adempimento utopico del Fidelio
beethoveniano, per entrare in una nuova configurazione del significato del
proprio rapporto con il mondo.
Il problema del riconoscimento di questa possibilità del trattenere si trasforma
immediatamente nella speranza di una redenzione, che musica e suono
proiettano persino sul limite della morte, come accade per la musica dei Requiem,
ove la celebrazione del canto redime il senso della fine, spostandosi dal
piano fattuale a quello metafisico.
La musica è ora nel mondo, senza farne parte, e l'arte acquista il proprio
valore rispetto al destino, proiettandosi sul piano della meta - arte. Il
fiorire di queste immagini, su cui si è spesso poggiata l’esegesi blochiana,
trova in questo testo inattese risonanze, che rimettono in moto l’apparato
categoriale legato all’esperienza dell’ascolto, all’interno delle relazioni
di senso, che collegano l’evento al suo significato.
Si tratta ora di dare un senso a ciò che ascoltiamo, rispetto ai portati emotivi
che la musica mette in gioco, nella triade sentimento- commozione e mistero
e di chiarire che relazioni prendono forma all’interno del passaggio che porta
l’ascoltatore dalla passività della ricezione all’attribuzione di una semantica
agli eventi sonori.
Bloch va ponendo sul tavolo uno dei grandi temi della filosofia idealistica,
ovvero il significato del suono, rispetto alla sensibilità: se nella filosofia
hegeliana [5],
l’idea di una natura processuale, e sublimata, degli aspetti ondulatori del
sonoro, prepara all’avvento del suo coagularsi nel terreno di una semantica
espressiva del concetto, in Bloch quell’evanescenza misteriosa si rispecchia
immediatamente sul piano della sensibilità.
Il suono ci tocca in modo misterioso, e Matassi illumina bene gli aspetti
che, su questo piano, rompono il binomio suono – segno. In Bloch il
rumore del bronzo non è un attributo corporeo del bronzo, non si colloca
immediatamente sul piano di una referenza immediata alla cosa, come accade,
ad esempio, per il colore, ma si arricchisce immediatamente di uno statuto
spirituale, ed espressivo: esso si rivolge alla nostra ricettività sentimentale,
ha uno spessore opaco che rimette l’uomo in contato con sé stesso, con i propri
vissuti emozionali: il suono si riempie subito di latenze espressive che permettono
al soggetto di ascoltarsi, di scoprirsi, di incontrare se stesso, attraverso
le emozioni che il suono suggerisce.
Se le cose stanno così, l’esperienza dell’ascolto non è mai neutrale, è esperienza
partecipata che rimanda al mondo, e contemporaneamente a noi stessi, scossi
dall’emozione nell’ascolto di qualcosa che non rimanda semplicemente all’orizzonte
delle cosa, ma a quello dei vissuti. Si tratta di un esito che oggi può far
storcere il naso a molti, e che viene messo in discussione, per altro, nell’opace
e brillante, À l’écoute di
Jean Luc Nancy, che vede in questo carattere dell’evento sonoro lo sbarrarsi
di ogni trasparenza: tuttavia, prima di chiudere i conti con gli aspetti metafisici
che adombrano questa posizione, conviene tentare di ascoltare la ricchezza
degli argomenti che Bloch sta per mettere in gioco.
4 Il musicale come campo di forze
Il
suono non si fa solo contemplare, ma accende, ed agita, allude ad una dimensione
utopica che ne colora la stessa sostanza e tutta la storia della musica ne
racconta il destino, facendone emergere gli aspetti teurgici, e quella
forza espressiva che proietta il suono aldilà della parola, della puntualità
semantica del riferimento. La musica è espressione che allude ad un gorgo
oscuro, ma è anche forma faticosamente conquistata, il che equivale a dire
che l’articolazione formale del linguaggio musicale va pensata contemporaneamente
alla costituzione temporale dell’oggetto sonoro.
Il dispiegarsi della forma nel tempo, congiunge le categorie dell’ora a quelle
del qui, mettendo capo ad un campo di forze che mette in gioco le valenze
interiori di una soggettività che, attraverso il suono, riscopre il significato
del mondo e la possibilità di giocarci dentro: all’interno di quest’esperienza,
il valore corporeo dell’esperienza ritmica, come capacità di salvaguardare
la forma rispetto alla semplice datità del flusso temporale, diventa per Bloch
la via d’accesso alla natura più nascosta dell’esperienza musicale, a quello
strato espressivo che sostiene la forma. Da questa scelta, che trova il proprio
modello musicale nel sinfonismo bruckneriano, deriva un corollario essenziale,
particolarmente sapido in un’epoca che eredita i cascami del conflitto fra
musica pura e dramma musicale: non si può più sostenere un dualismo fra musica
assoluta e musica rappresentativa, ma la musica è parola, possibilità di linguaggio.
D’altra parte, Matassi insiste correttamente nel mettere in luce come per
Bloch l’idea di ritmo vada ad investire anche le componenti spaziali,
armoniche, dell’evoluzione del linguaggio musicale e che questa tensione trasformi
la struttura stessa del pensiero musicale in un conflitto di forze; per parte
sua, nel nostro testo si osserva, in modo prezioso, che l’attenzione
a queste tendenze dinamiche del musicale avvicinano molti aspetti della filosofia
di Bloch alla riflessione teorica di Kurth, e in questa angolazione torna,
come un filo rosso, sotterraneo ma pervicace, l’immagine hoffmanniana del
ritmo come infrastruttura armonica che già scuoteva l’ascoltatore nella Quinta.
Il tempo musicale, come il tempo storico, vuol ricominciare, vuol diventare
principio di speranza. In altre parole, la temporalità che redime, scandisce,
ma quella scansione è un modo di scolpire espressivamente la forma.
Il processo va riconosciuto, la struttura musicale ha una trasparenza spaziale,
che permette di essere appresa e di riportare l’uomo verso un’interiorità
che è apertura del rapporto con il mondo, e con il Sé.
Il tempo della musica, come quello della storia, è sostanzialmente attività,
continuità della forma, che si conserva provvidenzialmente, mentre il tempo
si fa fecondo nel “ perdurare del prima nell’ora , quindi è risparmio,
durata, costruzione, eredità, preparazione e raccolta”, come Matassi cita
da Geist der Utopie, ricostruendo pazientemente i molti fraintendimenti
che il fecondo incrociarsi di temporalità storica e temporalità musicale nella
filosofia di Bloch
[6] ha prodotto nella musicologia coeva al filosofo tedesco.
Tutti questi aspetti rimettono gioco, in filigrana, quella grande stagione
del sinfonismo tedesco in cui la tradizione retorica si fa gesto sonoro, che
veicola la produzione di compositori come Bruckner o Brahms: in quelle
due vie, spesso contrapposte dagli stessi protagonisti di una grande battaglia
culturale, vediamo fiorire la radice della posizione blochiana: il gesto espressivo
del musicale si sostiene da solo, porta dentro di sé le istanze drammatiche
della parola, sublimandola: i gesti teatrali della scrittura di Bruckner,
le cesellate allusioni liederistiche della musica di Brahms, sono testimoni
di quella grande rielaborazione teorica, ed estetica, con cui le correnti
formalistiche stringono un tormentato, e sotterraneo, rapporto.
Su questi aspetti, che hanno sviluppo incisivo nel quinto capitolo del testo,
ma che si fanno avvertire durante tutta la lettura del libro, e che vengono
messe in gioco dalla figura musicale del recitativo, prende
corpo il tema del rapporto fra musica ed interpretazione, in un intreccio
magistrale che stringe le posizioni di Hanslick e Dalhaus da una parte,
Gadamer e Geogiades dall’altra, sulla (im)possibilità di un approccio letterario
che non sappia dar ragione della specificità dell’oggetto musicale, della
sua natura temporale, non condizionabile sul piano linguistico. La rivendicazione
della centralità del musicale non si appoggia solo sulla via tecnica dell’indagine
musicologica.
Esiste un altro modo di imbastire la discussione, in cui la centralità dell’ascolto,
in contrapposizione alla dimensione del visivo, prende forza in un settore
ancora trascurato della riflessione musicale del novecento, un’area che riporta
al centro della filosofia della musica la figura di Walter Benjamin. Vorrei
trattenermi su questo aspetto, che forse è il più sorprendente del libro,
e che apre una prospettiva su una possibile filosofia dell’espressione, tutta
da attraversare.
5 L’udire come categoria della rivelazione: Walter Benjamin
Vi
è uno strato profondo del linguaggio, che giace tutto all’interno del suono
della parola: quel residuo, che per noi rappresenta l’intonativo, è nella
speculazione benjaminiana un lato interno, nascosto, dove giace la possibilità
della rivelazione, e della redenzione del linguaggio stesso. La dimensione
concreta dell’acustico è dunque un tesoro nascosto dentro al significato,
che ne illumina dall'interno le fibre più nascoste, secondo una prospettiva
di tipo messianico. Nella terza sezione di Metafisica della Gioventù
(1913) Benjamin pone in questione la dimensione del futuro, raccolta
dallo sguardo delle fanciulle, che alludono ad una redenzione del passato
nella proiezione di un futuro che deve ancora compiersi, e che forse è la
via d’accesso ad una dimensione finalmente feconda della speranza. Si tratta
di sogni, che hanno la consistenza della musica o della danza: nella danza
notturna retta dalla musica le fanciulle scelgono i loro compagni,
funamboli che la danza, ed il ritmo, sospende fra notte e mondo, unendo utopisticamente
le loro solitudini in un progetto che la musica protegge dal lutto, che va
lambendo il mondo che circonda quel rituale. Alla luce di quest’immagine,
Matassi va interrogando il concetto di Trauerspiel: la musica
si colloca al centro del sentimento, del lamento, e ne innerva l’articolazione
temporale, portando la dimensione della bellezza al di fuori dell’ambito della
pura visibilità e costituendo un terreno dove lamento e redenzione trovano
il proprio fondamento nella dimensione acustica del musicale, di una bellezza
che vola lontano dall’idea di apparenza.
Tale prospettiva prende ancora più forza nel saggio su le Affinità elettive
di Goethe, dove la dimensione dell’ascolto, del musicale, non è
solo quella di una catarsi, che passi attraverso il sentimentale, ma
una redenzione che passi attraverso la categoria del privo d’espressione,
figura che ha, paradossalmente, molti tratti in comune con l’idea di un sublime,
ma che illumina l’orizzonte di un mondo che trova la propria radice nella
colpa originaria, di cui ci parla il mitico.
L’apertura di questo terreno d’indagine tiene lontano Benjamin dalla dimensione
del dramma musicale, ed indirizza la sua attenzione verso il pensiero romantico,
verso quei Frammenti di Ritter, che tanto peso avranno
per un interprete come Furtw³ngler, dove si sviluppa una assiologia metafisica
del linguaggio, che vede al proprio vertice la dimensione della delibazione
del suono, ed alla base lo scindersi fra suono e linguaggio: il suono puro
è comunicazione piena, vita del corpo risonante, forma organica di che
fonde oscillazione a figura (dove incontriamo ancora un’immagine del dispiegarsi
della forma nel tempo).
La dimensione del suono puro, o , diremmo, della pura espressività, viene
immediatamente problematizzata da Benjamin, che vede nella musica, nel portato
espressivo, redento dalla dimensione del patetico del linguaggio drammaturgico,
una via che va percorsa, per salvare la comunità dalla dispersione del linguaggio
e dallo psicologismo. Una direzione metafisica al problema del suono, ove
le radici ebraiche del pensiero benjaminiano [7], trapassano in una speculazione teorica
sul portato espressivo dell’intonazione pura, creando un legame suggestivo
con gli aspetti più tormentati del pensiero illuminista, quelle riflessioni
sul portato espressivo del suono, che sostengono le intenzioni significanti
nello stato di natura. Si apre una direzione che percorre una via simile a
quella delle lectures saussuriane che affrontano il tema del
fonologico, e delle componenti sonore nella struttura del linguaggio
[8], raccolte nei Manoscritti di Harvard, che mostrano,
tra l’altro, un vivo interesse per il mondo indiano, come luogo della
dimensione dell’acustico, che il linguista contrappone alla radice visiva
del logos occidentale.
Il Trauerspiel conquista così la propria identità strutturale,
la propria costellazione concettuale, adombrando l’idea del musicale
da una prospettiva assai diversa da quella della retorica musicale tradizionale.
Il gesto espressivo ora basta a se stesso, nella pienezza della propria concrezione
sonora. Si tratta di un esito che entra in sintonia con le ricerche sulla
voce che sono state sviluppate in questi anni da un promettente indirizzo
di antropologia musicale, che trova testimonianza nel bellissimo studio che
Kawada Junzo ha dedicato al tema della voce, oggi reperibile nella traduzione
francese di Sylvie Jeanne, con prefazione di Marc Augé: La Voix.
Étude d’ethno-linguistique comparative, Éditions de l’École des
Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1998.
Auspichiamo così che Matassi voglia proseguire la propria indagine su questa
via, sviluppando in modo pieno tutta la ricchezza che il piccolo volume porta
con sé. Le premesse per un confronto con la tradizione fenomenologica, per
un ripensamento comune delle categorie del musicale, ci sono tutte. Ed è una
strada che va, al più presto, percorsa, nella serena consapevolezza delle
proprie differenze.
[1] Il tema è affrontato in modo esaustivo nel saggio di Giovanni Piana L’intervallo, reperibile in formato digitale nel sito digitale Spazio Filosofico, http://users.unimi.it/%7Egpiana/dm8/piana/coperti.htm.
[2] E.T.A. Hoffmann, Schriften zur Musik. Nachlese. Winkler Verlag, München, 1963.
[3] Wilhelm Heinrich Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
[4] Si veda, ad esempio, Ovidio, Metamorfosi, Libro I, vv. vv. 705 – 710.
[5] Sul tema, vedi Silvia Vizzardelli, L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel. Bulzoni Editore, Roma, 2000.
[6] Ernst Bloch, Geist der Utopie, Erste Fassung (1918) [Munich, Duncker & Humblot, 1918] in Gesamtausgabe, 16, Frankfurt, 1977. Traduzione italiana: Spirito dell'utopia. Firenze: La Nuova Italia 1980.
[7] Walter Benjamin, “Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel und Tragödie”, in Gesammelte Schriften II/1, Frankfurt am Main, 1974. Traduzione italiana: Walter Benjamin, “Il significato del linguaggio nel "Trauespiel" e nella tragedia”, in Metafisica della Gioventù, Scritti 1910 - 1918, Einaudi, Torino, 1982.
[8] Vorrei citare almeno tre testi che presentano le tematiche suassuriane, e quelle della linguistica, in questa prospettiva: a cominciare dall'ottima traduzione del testo di Fernand de Saussure, Manoscritti di Harvard, a cura di Herman Parret, trad. di Raffaella Petrilli, Roma Bari, Laterza, 1994, a cui andrebbero affiancati: Ferdinand de Saussure, Saggio sul vocalismo indoeuropeo, introduzione, traduzione e note di Giuseppe Carlo Vincenzi, CLUEB, Bologna, 1978 e Ferdinand de Saussure, Phonétique: il manoscritto di Harvard Houghton Library bMS Fr 266 (8), a cura di Maria Pia Marchese, Unipress, Padova, 1995.