Carlo Serra


Recensione a Musica, di Elio Matassi, Guida, Napoli, 2004



Pubblicato da Guida nella collana Parole chiave della filosofia, Musica di Elio Matassi è un  testo che tocca, in forma sintetica, tutti gli snodi concettuali che sostengono la riflessione che lega il pensiero all’esperienza della ricezione estetica del musicale. Rallegra profondamente che una collana dedicata ai concetti cardine del pensiero filosofico  dedichi un volume alla  musica, perché tale scelta  porta al centro del dibattito culturale temi spesso racchiusi in nicchie specialistiche: a fine testo, articolato in sei sezioni, un utile glossario permette di richiamare le nozioni affrontate dal libro, dando un ulteriore contributo di chiarezza, ad un settore che sembra incontrare sempre di più gli interessi di una comunità di lettori motivata alla comprensione del fenomeno musicale, scavalcando inutili tecnicismi.
Alle stesse esigenze di trasparenza corrisponde l’aggiunta di una discografia, gradito indice di una vicenda del gusto all’interno di un percorso appassionato, che nasce da una passione per la musica, profondamente esperita.
Il volume, di piccola mole,  è agile e ben scritto, ma si muove sul terreno di una profonda densità concettuale: nel testo si dipana una trama che entra in contatto con tutti i temi che hanno caratterizzato la speculazione filosofica sul musicale, dall’aspetto ontologico, legato alla struttura temporale del suono, sino alle specificità estetiche, e recettive, messe in gioco dalla dimensione dell’ascolto.
Il libro si trova nella scomoda posizione di dover offrire articolazione a snodi complessi, ricostruendo con grande sensibilità le tracce  di un percorso, che proponiamo seguendo il filo della discussione che Matassi costruisce con passione. 


Un aspetto di ulteriore interesse consta nel mettere in luce il costituirsi dei nessi che legano le categorie concettuali tradizionalmente impiegate dalla fenomenologia della musica in contesti culturali, ed estetici, assai lontani da quella prospettiva: per questo motivo, il volume disegna un paesaggio sorprendente, dove tutte le unità di senso messe in gioco dall’analisi grammaticale del suono, si schiudono come griglie interpretative per attraversare il pensiero di autori, tradizionalmente considerati lontani dal mondo della musica, come Benjamin, o che vedono generalmente schiacciata la propria ricerca, all’interno di una interpretazione esemplarista del rapporto storia, filosofia e società, come accade per Bloch.
La finezza della prospettiva scelta sta nel porre il fuoco sulla centralità della funzione dell’ascolto, e delle strutture di senso che ne sostengono le articolazioni, in un contesto dove quella dimensione viene tradizionalmente poco rilevata: la posizione del problema offre così alcune sorprese, sulle quali vorremmo trattenerci. A cominciare dalla domanda che sembra incorniciare tutto l’orientamento di questa ricerca: cosa ci accade, mentre ascoltiamo un suono? Cosa viene davvero in risonanza, fra la comunità degli ascoltatori e la musica?

1 Il rapporto fra musica e filosofia: due possibili interpretazioni.

All’origine, la musica sembra risolversi tutta nella filosofia, come modello dell’attività della relazione fra organizzazione armonica dei suoni (dall'acuto al grave, sino all’intonazione del modello scalare)  la relazione dialettica fra concetti. In questo senso,  il filosofo è già musicista, come narra Platone nel Fedone: nel sogno Socrate viene invitato a comporre musica, ma il sogno sollecita Socrate, come accade al corridore che già sta correndo. Facendo filosofia, Socrate fa già musica altissima. Nel Sofista la filosofia è musica, perché, come accade per il linguaggio, essa sa esibire le modalità secondo cui  si accordano le relazioni [1], cogliendo il nesso che lega le cose e dispiegandolo compiutamente. Musica e filosofia sono dunque, in continuità con l’interpretazione pitagorica,  paradigmi di un relazionalismo profondo, che vuol salvare il sensibile ponendosi al di fuori delle relazioni di immanenza scosse dal divenire, per cogliere la g enesi delle relazioni logiche.
Filosofo e musicista hanno un destino, che li porta ora all’oblio, ora verso un’ossessiva organizzazione concettuale, adombrati nel mito delle cicale del Fedro: gli uomini che hanno una vocazione per la musica, si dedicano alla filosofia, a rischio, diremmo, della propria vita. Sono persi in un’oggettualità che sfugge, che si nasconde dietro alla trama linguistica della relazione.


I precipitati di quella linea concettuale, che accompagna tanta strada della speculazione musicale, fino alle estremizzazioni etiche schoenberghiane, entrano però in polifonia, con un’altra linea, esemplificata dall’interpretazione che Jankélévitch elabora attorno allo stesso  sogno di Socrate: le relazioni fra musica e filosofia vanno determinate dalla poiesis, e la filosofia rivela la propria essenza, come linguaggio che dice il mondo prima della creazione: analogamente, in Schopenhauer la filosofia è musica  (la musica è il mondo che canta), e la musica si risolve tutta nella filosofia, con profonda asimmetria.
Quel modello, che vuol staccarsi da una concettualità astratta e che avrà come esito estremo, e lontano il delinearsi di una totale convergenza fra linguisticità e musicale, la modernità lo elabora e continuamente lo perde: per la sensibilità di Adorno, la situazione prende il colore di una tragicità immanente, quasi di un destino incarnatosi in Euridice che ci guarda addolorata, perché attende una risposta che non sappiamo darle.
Per farlo, la filosofia deve abbandonare ogni pretesa di superiorità rispetto alla musica, ed accettare un rapporto egualitario, abbandonando un modello che si inaridisce nel tecnicismo di una concettualità lontana dal mondo, per entrare in rapporto con quel sensibile, con quel fuggente, che ne costituisce la materia: l’esperienza del suono. Vien da dire, che Orfeo non poteva che guardare verso Euridice, perdendola, perché il silenzio di Euridice non può essere tradotto linguisticamente, è un gesto che si tende all’ascolto, facendo ammutolire la stratificazione linguistica che ci allontana dall’autenticità della dimensione espressiva del suono.
Gli aspetti più complessi di questa problematica prendono corpo nelle ultime due sezioni del libro, dedicate al rapporto fra musica, linguaggio, ed interpretazione,e soprattutto alla pratica compositiva di tre grandi filosofi come Rousseau, Nietzsche ed Adorno: nelle musiche di scena di Pygmalion,  nel Fragment an sich per pianoforte o nella produzione adorniana, viene alla luce il tentativo di passare dalla filosofia alla musica, dando corpo ad un progetto espressivo che incarna una prima risposta al silenzio di Euridice, e a quella via del compositore dialettico, di una mediazione del discorso dialettico sulla musica che parta dall’interno della musica stessa.
Quel problema, tuttavia, si riverbera anche su contesti meno avviluppati nella teoria, purtroppo: cosa penserebbe Euridice, ad esempio, di un paese dove l’educazione musicale nel corso di studi superiori viene abbandonata al proprio destino e in cui l’ambito degli studi universitari viene scisso tra Conservatori ed Università, con il risultato di spaccare quell’unità originaria di pratica, storia e teoria, che rappresenta il sale dell’esperienza del musicale?
Il problema sollevato dalla biforcazione tragica nella quale il filosofo vede scissa l’unità del musicale entra a pieno titolo nel quadro tormentato di una vicenda culturale, che pone il libro al centro di discussioni attuali, e difficili, come accade per ogni testo filosofico.

2. Tra linguaggio e relazionalità

Il rapporto con il mondo, e la sua trascendenza, d’altra parte, mettono in gioco il rapporto fra demonicità e ademonicità della musica, che nel mondo antico decide del suo statuto politico. Quella relazione biunivoca corre immanente alla filosofia del primo ottocento, e porta in primo piano il suo rapporto con la poesia.
La prospettiva di Matassi tende a mettere in luce quanto le esigenze di fondo attraverso cui i due caratteri vengono alla luce, portino in luce la loro complementarità. In Hoffmann va schiudendosi una dialettica fra demoniaco e ponderatezza: nella raffinatissima recensione della Quinta Sinfonia di Beethoven (1810), attenta a cogliere i nessi di continuità  nella drammatizzazione del conflitto tematico, si accetta l'idea della musica come struttura che si organizza abbandonando il modello linguistico, secondo una dialettica propria che accosta la demonicità alla capacità architettonica, alla possibilità di seguire l’accadere della forma, senza congelarla in uno schema.
Hoffmann [2] si stupisce, giustamente, delle continue ricadute sul binomio tonica – dominante nella strutturazione formale beethoveniana che chiude pesantemente il finale della Quinta: in quel topos, in cui abitualmente vediamo affermarsi con prepotenza il concetto di tonalità, e l’inchiodarsi della musica nell’alveo di una caduta che si ripete verso una cadenza, Hoffmann coglie l'allusione ad un movimento che tende a risollevarsi dopo la caduta, ad un ripartire della dialettica, mentre paradossalmente il processo si chiude.
La natura ritmica di quel finale, che si sopisce in modo tanto insistito, mette in gioco una tendenza al riaprirsi del gioco, ad un nuovo inizio che urge, dietro al finale, e che scuote l’ascoltatore fino all’ansia, nell’avvertire un processo sotterraneo che si è chiuso, ma che è pronto a riaprirsi. Esatto contrario di un'analisi tradizionale, naturalmente, in cui sublime e malinconico, demoniaco e ademonico si tendono la mano, non entrano in  dialettica oppositiva, ma si rimandano l’un l’altro. Secondo un'altra via, Wackenroder [3] avverte che la capacità della musica di portare a rappresentazione i sentimenti umani in maniera soprannaturale, trova il proprio fondamento nell'irriducibile differenza che separa il linguaggio umano da quello musicale.
Il linguaggio umano isola, separa ciò che il linguaggio musicale tiene unito, la parola partecipa della separazione, laddove la musica può scandire direttamente il flusso del tempo, articolarne le forme, senza romperne l'unità attraverso la concettualizzazione astratta: essendo contro e nel tempo, la musica abbraccia ogni opposizione dialettica, anche la relazione demoniaco -ademoniaco, ed i suoi oggetti non si lasciano corrodere dal disperdersi del flusso, ma lo abitano, lo portano a presenza nell'istante. Il suono ha una sovrabbondanza sensibile, che non si lascia imbrigliare negli aspetti matematico-relazionali, rivolgendosi direttamente al cuore dell'ascoltatore. Ma come articolare la funzione del suo riconoscimento?

3 Il luogo utopico della musica come destino della forma

Nel terzo capitolo, dedicato a Bloch, Matassi coglie una traccia nella relazione interna che lega la funzione del riconoscimento a quella della speranza. Il concetto di riconoscimento messo in gioco dalla speculazione blochiana è quello definito dalla a)nagw/risij, una qualità del riconoscimento di un elemento che accade, ad esempio, nelle trame delle opere teatrali e quindi rivelazioni dei nessi che illuminano dall'interno il senso di un racconto. Il significato nascosto del musicale va rintracciato nella traccia di un principio - speranza, che offre la possibilità di uscire dall'indigenza del proprio destino, come accade nel suono della syrinx, con cui Pan rievoca la presenza perduta di Siringa [4], o nell'adempimento utopico del Fidelio beethoveniano, per entrare in una nuova configurazione del significato del proprio rapporto con il mondo.
Il problema del riconoscimento di questa possibilità del trattenere si trasforma  immediatamente nella speranza di una redenzione,  che musica e suono proiettano persino sul limite della morte, come accade per la musica dei Requiem, ove la celebrazione del canto redime il senso della fine, spostandosi dal piano fattuale a quello metafisico.
La musica è ora nel mondo, senza farne parte, e l'arte acquista il proprio valore rispetto al destino, proiettandosi sul piano della meta - arte. Il  fiorire di queste immagini, su cui si è spesso poggiata l’esegesi blochiana, trova in questo testo inattese risonanze, che rimettono in moto l’apparato categoriale legato all’esperienza dell’ascolto, all’interno delle relazioni di senso, che collegano l’evento al suo significato.
Si tratta ora di dare un senso a ciò che ascoltiamo, rispetto ai portati emotivi che la musica mette in gioco, nella triade sentimento- commozione e mistero e di chiarire che relazioni prendono forma all’interno del passaggio che porta l’ascoltatore dalla passività della ricezione all’attribuzione di una semantica agli eventi sonori.
Bloch va ponendo sul tavolo uno dei grandi temi della filosofia idealistica, ovvero il significato del suono, rispetto alla sensibilità: se nella filosofia hegeliana [5], l’idea di una natura processuale, e sublimata, degli aspetti ondulatori del sonoro, prepara all’avvento del suo coagularsi nel terreno di una semantica espressiva del concetto, in Bloch quell’evanescenza misteriosa si rispecchia immediatamente sul piano della sensibilità.
Il suono ci tocca in modo misterioso, e Matassi illumina bene gli aspetti che, su questo piano, rompono il binomio suono – segno. In Bloch il rumore del  bronzo non è un attributo corporeo del bronzo, non si colloca immediatamente sul piano di una referenza immediata alla cosa, come accade, ad esempio, per il colore, ma si arricchisce immediatamente di uno statuto spirituale, ed espressivo: esso si rivolge alla nostra ricettività sentimentale, ha uno spessore opaco che rimette l’uomo in contato con sé stesso, con i propri vissuti emozionali: il suono si riempie subito di latenze espressive che permettono al soggetto di ascoltarsi, di scoprirsi, di incontrare se stesso, attraverso le emozioni che il suono suggerisce.
Se le cose stanno così, l’esperienza dell’ascolto non è mai neutrale, è esperienza partecipata che rimanda al mondo, e contemporaneamente a noi stessi, scossi dall’emozione nell’ascolto di qualcosa che non rimanda semplicemente all’orizzonte delle cosa, ma a quello dei vissuti. Si tratta di un esito che oggi può far storcere il naso a molti, e che viene messo in discussione, per altro, nell’opace e brillante, À lécoute di Jean Luc Nancy, che vede in questo carattere dell’evento sonoro lo sbarrarsi di ogni trasparenza: tuttavia, prima di chiudere i conti con gli aspetti metafisici che adombrano questa posizione, conviene tentare di ascoltare la ricchezza degli argomenti che Bloch sta per mettere in gioco.

4 Il musicale come campo di forze

Il suono non si fa solo contemplare, ma accende, ed agita, allude ad una dimensione utopica che ne colora la stessa sostanza e tutta la storia della musica ne racconta il destino, facendone emergere gli aspetti teurgici,  e quella forza espressiva che proietta il suono aldilà della parola, della puntualità semantica del riferimento. La musica è espressione che allude ad un gorgo oscuro, ma è anche forma faticosamente conquistata, il che equivale a dire  che l’articolazione formale del linguaggio musicale va pensata contemporaneamente alla costituzione temporale dell’oggetto sonoro.
Il dispiegarsi della forma nel tempo, congiunge le categorie dell’ora a quelle del qui, mettendo capo ad un campo di forze che mette in gioco le valenze interiori di una soggettività che, attraverso il suono, riscopre il significato del mondo e la possibilità di giocarci dentro: all’interno di quest’esperienza, il valore corporeo dell’esperienza ritmica, come capacità di salvaguardare la forma rispetto alla semplice datità del flusso temporale, diventa per Bloch la via d’accesso alla natura più nascosta dell’esperienza musicale, a quello strato espressivo che sostiene la forma. Da questa scelta, che trova il proprio modello musicale nel sinfonismo bruckneriano, deriva un corollario essenziale, particolarmente sapido in un’epoca che eredita i cascami del conflitto fra musica pura e dramma musicale: non si può più sostenere un dualismo fra musica assoluta e musica rappresentativa, ma la musica è parola, possibilità di linguaggio.
D’altra parte, Matassi insiste correttamente nel mettere in luce come per Bloch  l’idea di ritmo vada ad investire anche le componenti spaziali, armoniche, dell’evoluzione del linguaggio musicale e che questa tensione trasformi la struttura stessa del pensiero musicale in un conflitto di forze; per parte sua,  nel nostro testo si osserva, in modo prezioso, che l’attenzione a queste tendenze dinamiche del musicale avvicinano molti aspetti della filosofia di Bloch alla riflessione teorica di Kurth, e in questa angolazione torna, come un filo rosso, sotterraneo ma pervicace, l’immagine hoffmanniana del ritmo come infrastruttura armonica che già scuoteva l’ascoltatore nella Quinta.
Il tempo musicale, come il tempo storico, vuol ricominciare, vuol diventare principio di speranza. In altre parole, la temporalità che redime, scandisce, ma quella scansione è un modo di scolpire espressivamente la forma.
Il processo va riconosciuto, la struttura musicale ha una trasparenza spaziale, che permette di essere appresa e di riportare l’uomo verso un’interiorità che è apertura del rapporto con il mondo, e con il Sé.
Il tempo della musica, come quello della storia, è sostanzialmente attività, continuità della forma, che si conserva provvidenzialmente, mentre il tempo si  fa fecondo nel “ perdurare del prima nell’ora , quindi è risparmio, durata, costruzione, eredità, preparazione e raccolta”, come Matassi cita da Geist der Utopie, ricostruendo pazientemente i molti fraintendimenti che il fecondo incrociarsi di temporalità storica e temporalità musicale nella filosofia di Bloch [6] ha prodotto nella musicologia coeva al filosofo tedesco.
Tutti questi aspetti rimettono gioco, in filigrana, quella grande stagione del sinfonismo tedesco in cui la tradizione retorica si fa gesto sonoro, che veicola la produzione di  compositori come Bruckner o Brahms: in quelle due vie, spesso contrapposte dagli stessi protagonisti di una grande battaglia culturale, vediamo fiorire la radice della posizione blochiana: il gesto espressivo del musicale si sostiene da solo, porta dentro di sé le istanze drammatiche della parola, sublimandola: i gesti teatrali della scrittura di Bruckner, le cesellate allusioni liederistiche della musica di Brahms, sono testimoni di quella grande rielaborazione teorica, ed estetica, con cui le correnti formalistiche stringono un tormentato, e sotterraneo, rapporto.
Su questi aspetti, che hanno sviluppo incisivo nel quinto capitolo del testo, ma che si fanno avvertire durante tutta la lettura del libro, e che vengono messe in gioco dalla figura musicale del recitativo, prende corpo il tema del rapporto fra musica ed interpretazione, in un intreccio magistrale che stringe le posizioni di  Hanslick e Dalhaus da una parte, Gadamer e Geogiades dall’altra, sulla (im)possibilità di un approccio letterario che non sappia dar ragione della specificità dell’oggetto musicale, della sua natura temporale, non condizionabile sul piano linguistico. La rivendicazione della centralità del musicale non si appoggia solo sulla via tecnica dell’indagine musicologica.
Esiste un altro modo di imbastire la discussione, in cui la centralità dell’ascolto, in contrapposizione alla dimensione del visivo, prende forza in un settore ancora trascurato della riflessione musicale del novecento, un’area che riporta al centro della filosofia della musica la figura di Walter Benjamin. Vorrei trattenermi su questo aspetto, che forse è il più sorprendente del libro, e che apre una prospettiva su una possibile filosofia dell’espressione, tutta da attraversare.

5 L’udire come categoria della rivelazione: Walter Benjamin

Vi è uno strato profondo del linguaggio, che giace tutto all’interno del suono della parola: quel residuo, che per noi rappresenta l’intonativo, è nella speculazione benjaminiana un lato interno, nascosto, dove giace la possibilità della rivelazione, e della redenzione del linguaggio stesso. La dimensione concreta dell’acustico è dunque un tesoro nascosto dentro al significato, che ne illumina dall'interno le fibre più nascoste, secondo una prospettiva di tipo messianico. Nella terza sezione di Metafisica della Gioventù (1913) Benjamin pone in questione la dimensione del  futuro, raccolta dallo sguardo delle fanciulle, che alludono ad una redenzione del passato nella proiezione di un futuro che deve ancora compiersi, e che forse è la via d’accesso ad una dimensione finalmente feconda della speranza. Si tratta di sogni, che hanno la consistenza della musica o della danza: nella danza notturna retta dalla musica le fanciulle scelgono i loro compagni,  funamboli che la danza, ed il ritmo, sospende fra notte e mondo, unendo utopisticamente le loro solitudini in un progetto che la musica protegge dal lutto, che va lambendo il mondo che  circonda quel rituale. Alla luce di quest’immagine, Matassi va interrogando il concetto di Trauerspiel: la musica si colloca al centro del sentimento, del lamento, e ne innerva l’articolazione temporale, portando la dimensione della bellezza al di fuori dell’ambito della pura visibilità e costituendo un terreno dove lamento e redenzione trovano il proprio fondamento nella dimensione acustica del musicale, di una bellezza che vola lontano dall’idea di apparenza.
Tale prospettiva prende ancora più forza nel saggio su le Affinità elettive di Goethe, dove la dimensione dell’ascolto, del musicale, non è solo quella di una catarsi, che passi attraverso il sentimentale, ma  una redenzione che passi attraverso la categoria del privo d’espressione, figura che ha, paradossalmente, molti tratti in comune con l’idea di un sublime, ma che illumina l’orizzonte di un mondo che trova la propria radice nella colpa originaria, di cui ci parla il mitico.
L’apertura di questo terreno d’indagine tiene lontano Benjamin dalla dimensione del dramma musicale, ed indirizza la sua attenzione verso il pensiero romantico, verso quei  Frammenti di Ritter, che tanto peso avranno per un interprete come Furtw³ngler, dove si sviluppa una assiologia metafisica del linguaggio, che vede al proprio vertice la dimensione della delibazione del suono, ed alla base lo scindersi fra suono e linguaggio: il suono puro è comunicazione piena,  vita del corpo risonante, forma organica di che fonde oscillazione a figura (dove incontriamo ancora un’immagine del dispiegarsi della forma nel tempo).
La dimensione del suono puro, o , diremmo, della pura espressività, viene immediatamente problematizzata da Benjamin, che vede nella musica, nel portato espressivo, redento dalla dimensione del patetico del linguaggio drammaturgico, una via che va percorsa, per salvare la comunità dalla dispersione del linguaggio e dallo psicologismo. Una direzione metafisica al problema del suono, ove le radici ebraiche del pensiero benjaminiano [7], trapassano in una speculazione teorica sul portato espressivo dell’intonazione pura, creando un legame suggestivo con gli aspetti più tormentati del pensiero illuminista, quelle riflessioni sul portato espressivo del suono, che sostengono le intenzioni significanti nello stato di natura. Si apre una direzione che percorre una via simile a quella delle lectures saussuriane che affrontano il tema del fonologico, e delle componenti sonore nella struttura del linguaggio [8], raccolte nei Manoscritti di Harvard, che mostrano, tra l’altro,  un vivo interesse per il mondo indiano, come luogo della dimensione dell’acustico, che il linguista contrappone alla radice visiva del logos occidentale.
Il Trauerspiel conquista così la propria identità strutturale, la propria costellazione concettuale,  adombrando l’idea del musicale da una prospettiva assai diversa da quella della retorica musicale tradizionale.
Il gesto espressivo ora basta a se stesso, nella pienezza della propria concrezione sonora. Si tratta di un esito che entra in sintonia con le ricerche sulla voce che sono state sviluppate in questi anni da un promettente indirizzo di antropologia musicale, che trova testimonianza nel bellissimo studio che  Kawada Junzo ha dedicato al tema della voce, oggi reperibile nella traduzione francese di Sylvie Jeanne, con prefazione di Marc Augé:  La Voix. Étude d’ethno-linguistique comparative, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1998.
Auspichiamo così che Matassi voglia proseguire la propria indagine su questa via, sviluppando in modo pieno tutta la ricchezza che il piccolo volume porta con sé. Le premesse per un confronto con la tradizione fenomenologica, per un ripensamento comune delle categorie del musicale, ci sono tutte. Ed è una strada che va, al più presto, percorsa, nella serena consapevolezza delle proprie differenze.



[1] Il tema è affrontato in modo esaustivo nel saggio di Giovanni Piana Lintervallo, reperibile in formato digitale nel sito digitale Spazio Filosofico, http://users.unimi.it/%7Egpiana/dm8/piana/coperti.htm.

[2] E.T.A. Hoffmann, Schriften zur Musik. Nachlese. Winkler Verlag, München, 1963.

[3] Wilhelm Heinrich Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica,  Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

[4] Si veda, ad esempio, Ovidio, Metamorfosi, Libro I,  vv. vv. 705 – 710.

[5] Sul tema, vedi Silvia Vizzardelli, L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel. Bulzoni Editore, Roma, 2000.

[6] Ernst Bloch, Geist der Utopie, Erste Fassung (1918) [Munich, Duncker & Humblot, 1918] in Gesamtausgabe, 16, Frankfurt, 1977. Traduzione italiana:  Spirito dell'utopia. Firenze: La Nuova Italia 1980.

[7] Walter Benjamin, “Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel und Tragödie”, in Gesammelte Schriften II/1, Frankfurt am Main, 1974. Traduzione italiana: Walter Benjamin, “Il significato del linguaggio nel "Trauespiel" e nella tragedia”, in Metafisica della Gioventù, Scritti 1910 - 1918, Einaudi, Torino, 1982.

[8] Vorrei citare almeno tre testi che presentano le tematiche suassuriane, e quelle della linguistica, in questa prospettiva: a cominciare dall'ottima traduzione del testo di  Fernand de Saussure, Manoscritti di Harvard, a cura di Herman Parret, trad. di Raffaella Petrilli, Roma Bari, Laterza, 1994, a cui andrebbero affiancati: Ferdinand de Saussure, Saggio sul vocalismo indoeuropeo, introduzione, traduzione e note di Giuseppe Carlo Vincenzi, CLUEB, Bologna, 1978 e Ferdinand de Saussure, Phonétique: il manoscritto di Harvard Houghton Library bMS Fr 266 (8), a cura di Maria Pia Marchese, Unipress, Padova, 1995.