testata Uomo Nero 9



Materiali per una storia delle arti della modernità


anno X, n. 10 – dicembre 2013






Anonimo Lombardo

Artisti in viaggio



L'uomo nero GTX
Editoriale


di Silvia Bignami














Pierrot fotografo
“Caro Tullio – scrive Lucio Fontana a Tullio d’Albisola da Buenos Aires il 6 febbraio 1947 – il 22 marzo mi imbarco sul vapore ‘Argentina’  di ritorno per l’Italia. Farò una fesseria però non importa. È troppo il desiderio di tornare e liberarmi per un certo tempo da questo ambiente. Fra il suicidio e il viaggio ho scelto il secondo perché spero di realizzare ancora una serie di ceramiche e sculture che mi diano la sensazione di sentirmi vivo”.
Sotto il segno di Fontana è nata, dieci anni fa, questa rivista, intitolata a una sua leggendaria scultura del primo periodo milanese: l’Uomo nero, appunto. La parte monografica del presente numero è dedicata agli artisti e alle opere in viaggio: un tema che spiega, oltre alla citazione iniziale, il GTX del titolo, combinazione di Grand Tour – o Gran Turismo – con la X di decennale.
Un’occasione giusta, in tutti i sensi, per un’ulteriore apertura internazionale, con l’ingresso nel Comitato scientifico di Ana Magalhaes, dell’Universidade de São Paulo, e di Rossella Froissart della Aix et Marseille Université che si affiancano a Jeffrey Schnapp della Harvard University, e a Zeno Birolli.
L’esperienza del viaggio, d’altra parte, si adatta particolarmente bene proprio all’Uomo nero di Fontana, del quale si sono perdute le tracce. Benché capiti, ogni tanto, che qualcuno sostenga di aver sentito dire che esiste ancora, qui o là, o addirittura di averlo avvistato. Il “viaggio” di quella scultura, infatti, diventa a un certo punto misterioso. Comincia nello studio del suo creatore, presenza scura così inquietante per la futura moglie Teresita, quando Fontana era fuori; poi l’Uomo nero, già esposto a Milano nel 1931, parte per Firenze dove viene presentato tra l’aprile e il giugno del 1933 al Parterre di San Gallo, per la Prima mostra del Sindacato nazionale fascista di belle arti. Fu, quello, un turbinante momento di viaggi e spostamenti, portatore di infezioni secondo alcuni – il 15 ottobre Ugo Ojetti scriveva sul “Corriere della sera” dei pezzi di Fontana e di altri giovani, arrivati a Firenze da Milano, Roma, Udine, come di “opere […] cerebrali e disumane […] raccolte in un padiglione separato, come in tempo d’epidemia” – in realtà determinante per l’avvio di una rete di scambi e relazioni, personali e di stile, che sarebbe stata alla base del rinnovamento artistico italiano del dopoguerra. Dopo la mostra fiorentina, sull’Uomo nero cala il mistero. Era ancora da qualche parte negli anni quaranta, dopo che il suo inventore era partito per l’Argentina? O, come lui, se n’era andato prima delle bombe, e verso quali lidi? La questione del viaggio – o dell’avventura – che così fortemente connota l’enigmatica opera di Fontana, riguarda naturalmente tutti i lavori di pittura e di scultura che, a parte l’arte pubblica, vengono creati apposta per andarsene: limitandosi, magari, a unici e brevi viaggi – dallo studio dell’artista alla casa di un collezionista, per esempio – oppure attraversando gli oceani, passando da una capitale all’altra, da un collezionista a un altro o a un pubblico museo. Oppure scomparendo.
Il tema delle opere in viaggio accomuna, in questo volume, i contributi di Luca Bocchicchio, Viviana Pozzoli e Chiara Fabi. Il primo riguarda la diffusione della scultura
italiana in America tra Ottocento e Novecento, cercando di delinearne adeguate metodologie di studio. Una questione non molto indagata, sinora, nonostante la generalmente dimenticata consistenza del fenomeno, nel periodo di massima fioritura dell’esportazione oltreoceano della nostra scultura, e della sua rilevanza dal punto di vista di quanto oggi si potrebbe anche leggere in termini di brand e Italian style. La piccola scultura della rinomata scuola italiana viaggiava e poteva essere riprodotta, come nel caso esemplare del Forced Prayer di Pietro Guarnerio, replicato in centinaia di esemplari dopo essere stato esposto nel 1876, a Filadelfia, nella Centennial International Exhibition, mentre quella monumentale veniva realizzata in loco, implicando non di rado lo spostamento dei suoi autori; la maniera italiana faceva d’altra parte scuola per gli scultori nordamericani e sudamericani che fin dall’ultimo Settecento avevano cominciato ad arrivare nel bel paese. Una forte sensibilità per tale fenomeno si sarebbe avvertita almeno sino a tutto il periodo tra le due guerre, quando l’ancora diffusa pratica della progettazione e realizzazione di monumenti oltreoceano, in un clima di nazionalismo ulteriormente acceso dal fascismo, veniva sistematicamente documentata in chiave trionfalistica dai giornali illustrati, ben più che nelle pubblicazioni specializzate: titoli come I trionfi dell’arte italiana. Il più grande monumento del mondo, oppure Una vittoria dell’arte italiana nel Brasile, per esempio, introducono alle riproduzioni fotografiche di spettacolari monumenti di Arnaldo Zocchi, Luigi Brizzolara ed Ettore Ximenes nei periodici “La Domenica del Corriere” e “L’Illustrazione Italiana”, fonti visive essenziali per una fondata ricostruzione di questa storia. In direzione opposta avevano viaggiato le opere – questa volta di pittura – mandate a Mosca a costituire, alla fine degli anni venti, il primo nucleo di una sezione italiana nel Museo della nuova arte occidentale. A prepararlo erano stati altri viaggi, dalla Russia all’Italia, del direttore del Museo Boris Ternovec, che muovendosi tra Venezia (1924), Monza e Milano (1927), aveva stabilito una proficua collaborazione con Giovanni Scheiwiller, allora acuto interprete e promotore di quanto di nuovo e di aperto all’Europa si andava facendo in Italia. La ricostruzione di questa vicenda – cui si devono i nuclei di opere italiane attualmente divise tra il Museo Puškin di Mosca, l’Ermitage di San Pietroburgo e il Museo Nazionale Georgiano – è di Viviana Pozzoli, mentre Chiara Fabi si è concentrata su quella mostra di scultura italiana contemporanea che nella Vienna del 1935 faceva rivivere i fasti e il successo della sala della scultura italiana allestita, sempre a Vienna, oltre mezzo secolo prima, all’Esposizione universale del 1873 (figg. 5, 6).
Va da sé, naturalmente, che di geografia dell’arte ci si sia sempre occupati sin dagli albori della storia dell’arte come disciplina storico-filologica: studiando le vicende
delle opere attraverso i luoghi della loro produzione e irradiazione o, più di recente, secondo le categorie di “centro” e “periferia” nelle loro reciproche interferenze.
Negli ultimi anni, una più specifica attenzione a tale aspetto degli studi è testimoniata sia da pubblicazioni di carattere didattico – come il manuale di storia dell’arte programmaticamente intitolato I luoghi dell’arte, destinato a licei e corsi universitari propedeutici – sia da più accademiche ricerche che allargano la questione: dalla semplice esperienza del viaggio con le sue molteplici motivazioni (ed esiti), per esempio nella sezione Artisti in viaggio della mostra Anni ’30. Arti in Italia oltre il fascismo (Firenze, Palazzo Strozzi, 2012-2013) o nella più recente De Pisis en voyage. Roma Parigi Londra Milano Venezia (Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca, 2013), all’apertura a tematiche turistico-geografiche da parte di istituzioni specificamente artistiche (Andata e ricordo. Souvenir de voyage, Rovereto, Mart, 2013); dagli intrecci tra arte e territorio, indagati anche attraverso artisti che hanno lavorato a partire da mappe, percorsi, carte geografiche, nel libro di Francesco Tedeschi Il mondo ridisegnato. Arte e geografia nella contemporaneità (Milano 2011), al cambiamento del panorama espositivo internazionale dovuto agli incontri di culture diverse, così intensi negli ultimi decenni, descritto da Roberto Pinto nelle sue Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione (Postmediabooks, 2012).
Qui, nel suo contributo sui Viaggi virtuali di Alighiero Boetti alle origini delle Mappe, Maria Grazia Messina si appella a un “sentimento geografico” di dechirichiana memoria, certo più concettuale che esperienziale, come chiave di lettura di uno snodo importante della ricerca artistica italiana a cavallo del 1970. Nel quadro di un’arte di “idea”, in un serrato incrocio di confronti tra Paolini, Fabro e Boetti, senza dimenticare l’antecedente di Manzoni, il parallelo con la geografia e le sue formalizzazioni (le mappe come codici visivi), l’immaginazione di viaggi virtuali e poi anche l’esperienza reale del viaggio in luoghi lontani, si risolve esteticamente nel ‘tempo’ “dello sguardo dell’osservatore che ripercorre, viaggia per l’opera”. I viaggi di artisti sono spesso solitari, come quelli di Boetti. Ma non bisogna dimenticare come un passaggio decisivo per l’idea di modernità, e per la sua propagazione, sia stato un viaggio collettivo, svoltosi in un anno di eccezionale significato simbolico per la storia senza aggettivi e per la storia dell’arte: quel 1933 che, con la presa di potere nazista in Germania, segnò la fine della “cultura di Weimar” e l’inizio di una migrazione di artisti la cui tragicità sarebbe stata, in piccola parte, compensata dalla diffusione internazionale – allora soprattutto nella direzione degli Stati Uniti – delle idee, dei modelli e dei linguaggi artistici radicalmente innovativi sperimentati nella Germania del primo dopoguerra, dove avevano trovato un ideale terreno di coltura. Anche l’esperienza newyorkese, cominciata nel 1939, di Corrado Cagli – del quale Davide Colombo indaga in questo fascicolo i rapporti con il poeta americano Charles Olson in relazione ai Drawings in the 4th Dimension – nasce in tale drammatico contesto. Il suo viaggio americano è infatti una fuga dall’Italia fascista e razzista, cominciata con un primo trasferimento a Parigi, dopo che i pannelli esposti due anni prima nel Padiglione Italiano all’Exposition Internationale des Arts et des Techniques nella stessa Parigi, con una serie di personaggi (da Romolo a Mussolini) e luoghi della storia italiana, erano stati giudicati troppo espressionisti e irrispettosi della “romanità”, suscitando le ire di Galeazzo Ciano, nostro Ministro degli esteri, che ne ordinò – per fortuna senza esito – la distruzione. Con il paradossale fenomeno, si potrebbe aggiungere, della fuga verso l’Italia, negli stessi anni, di non pochi intellettuali e artisti tedeschi perseguitati in patria1.
Ma ritorniamo al viaggio collettivo di cui si diceva, quello coincidente con il IV Congresso internazionale di architettura moderna (CIAM), svoltosi a bordo di un piroscafo in rotta da Marsiglia ad Atene. La ville fonctionnelle ne era il tema. Al Congresso, ottantacinque architetti e artisti rappresentavano quindici paesi: c’erano Le Corbusier, lo storico dell’arte e dell’architettura svizzero Siegfried Giedion, gli architetti e urbanisti Cornelis Van Eesteren, olandese, del gruppo di De Stijl, e Josep
Lluis Sert, catalano, e il finlandese Alvaar Aalto, il maestro del Bauhaus László Moholy-Nagy, ungherese, il vecchio cubista francese Fernand Léger e tanti altri. Delegati italiani erano gli architetti Piero Bottoni e Gino Pollini, insieme a protagonisti della nostra vita artistica del tempo come Giuseppe Terragni e Pietro Maria Bardi.
Un efficace e vivace resoconto del viaggio collettivo in Grecia è dovuto a Giedion. Lo storico svizzero ricorda come toccò a lui di informare i colleghi interessati, convenuti nello studio parigino di Le Corbusier nell’aprile del 1933, che “il paese che ci aveva invitato a tenere il nostro quarto congresso dentro i suoi confini aveva improvvisamente ritirato l’invito”2. A quel punto si trattava di trovare presto una soluzione, dopo che diversi gruppi di architetti e urbanisti avevano già analizzato trentadue città sulla base di comuni criteri di indagine.
“Marcel Breuer, che era presente alla riunione da Le Corbusier, suggerì di tenere il quarto congresso non sulla terraferma, ma su una nave. Le Corbusier telefonò a Christian Zervos, editore del ‘Cahier d’Art’, e nel giro di poche ore ottenemmo l’assicurazione dalla compagnia greca di navigazione Neptos che il SS Patria II sarebbe stato a nostra disposizione. Il congresso si sarebbe svolto tra il 29 luglio e il 13 agosto 1933 mentre solcavamo il Mediterraneo da Marsiglia ad Atene e ritorno.
Moholy ci incontrò a Zurigo per attraversare la Francia in macchina con me, mia moglie e una segretaria. Il percorso attraverso le Alpi e la Provenza fu il piacevolissimo inizio della nostra avventura. Moholy aveva accettato di fare un film sul congresso. Inoltre faceva parte della commissione che avrebbe pubblicato le conclusioni del congresso assieme a Le Corbusier, Jean Bardovici, editore di ‘Architecture Vivante’, Otto Neurath, il creatore delle statistiche visive, e l’architetto svizzero Steiger. […] L’intensità creativa dei contatti personali, basata sulla diversità dei caratteri e sull’unità degli intenti, non ha mai prodotto risultati migliori di quelli del quarto congresso. Tutte le cabine del SS Patria II si trasformarono in sale di riunioni. Quando il tempo lo permetteva le riunioni si tenevano in coperta e i plastici delle città erano montati all’aria aperta. La riorganizzazione delle trentadue città venne discussa da molti diversi punti di vista. Dal momento che erano stati usati indicazioni, colori e scale identici, il progetto di Londra poteva essere discusso negli stessi termini di quelli di Como, Detroit o Stoccolma. Quando scendemmo sulla terraferma avevamo raggiunto conclusioni universalmente valide che furono formulate nella Carta d’Atene, 1933. Essa forniva direttive per i piani regolatori dell’epoca che, nel frattempo, sono state largamente accettate. A molti sembrava incomprensibile che noi, gli elementi più rappresentativi dell’architettura moderna, avessimo scelto la Grecia per il nostro congresso. Ciò fu interpretato come un tentativo di fuga. ‘Scegliendo la Grecia quale destinazione del nostro viaggio’, spiegai nel mio discorso d’apertura, ‘non cerchiamo di fuggire dal caos che minaccia l’Europa. Miriamo piuttosto a combinare l’opportunità di decisioni non condizionate con un momento di concentrazione e di contemplazione per poter affrontare i problemi decisivi che hanno cominciato a cristallizzarsi nel nostro subconscio.’ Questi problemi del subconscio si chiarirono pienamente solo dopo che il congresso fu finito. Erano lo sviluppo di tendenze architettoniche puramente funzionali verso una larga inclusione di altri elementi: estetici, sociali, biologici. E sono stati il passato e il contatto con il patrimonio culturale della Grecia a contribuire in grande misura alla nostra piena valutazione di questa piattaforma nuova e indipendente.
‘Non avevo mai capito’, disse Moholy quando fummo sul colle dell’Acropoli, ‘in quale misura siamo ancora influenzati dal mondo greco, benché in modo completamente diverso, non così superficiale, rispetto al diciannovesimo secolo.’ Mi venne in mente una frase che aveva scritto dieci anni prima sulla rivista tedesca ‘Der Sturm’: ‘Dobbiamo sostituire l’interpretazione statica dell’arte classica con l’interpretazione dinamica dell’universalità classica.’
Questo concetto era ancora pienamente valido. I frammenti delle colonne, tutto attorno a noi, davano l’impressione che quel marmo fosse andato in pezzi il giorno prima. In silenzio, Moholy e io percepimmo la totalità di quell’area sacra, la disposizione degli edifici non rigida, quasi accidentale, eppure acutamente calcolata negli spazi e nel particolare: una fusione perfetta di precisione matematica e di libertà organica. Ma non c’era pericolo che le forme dei capitelli e delle colonne potessero spingerci all’imitazione. Quel che ci colpiva profondamente era l’immediatezza espressiva che prendeva forma, il contrasto evidente tra la pianificazione precisa della soluzione architettonica e la struttura costitutiva di quella roccia primordiale. […]
Queste furono esperienze di cui si parlò poco. Però crearono una certa atmosfera all’interno del nostro gruppo che raggiunse il culmine durante una crociera alle isole dell’arcipelago greco che alcuni di noi avevano intrapreso in quei pochi giorni liberi da impegni di lavoro collettivo. Lo yacht messo a nostra disposizione era una chiatta da carbone inglese trasformata. Gli uomini dormivano su materassi in coperta dal momento che l’unica cabina era stata riservata alle donne della comitiva. Era un gruppo molto assortito, una ventina di persone in tutto. Léger, Moholy, Kurt Seligmann, Le Corbusier e suo fratello, il musicista Jeanneret, Christian Zervos del ‘Cahier d’Art’, van Eesteren, l’urbanista olandese, degli architetti svizzeri, un famoso chirurgo francese, poeti, scrittori.
Quando fummo vicini all’isola di Egina ci tuffammo nell’acqua uno dopo l’altro, e Le Corbusier fu il primo. Ci arrampicammo fino ai templi dell’isola, rigorosi predecessori del Partenone. Erano i primi monumenti su un’isola che vedevamo, splendidamente proporzionati alle sue dimensioni; eppure nella loro semplicità dominavano sul paesaggio e sul mare aperto. Corbusier tracciò qualcosa sul suo quaderno di schizzi e van Eesteren fece dei commenti sulla ‘sapienza del paesaggio culturale’. Ma in generale eravamo immersi nel silenzio ricco di significati delle forme della materia”3.
L’ampiezza della citazione è giustificata dalla chiarezza con la quale, attraverso la diretta colloquialità del racconto di Giedion, emerge la propositività ad ampio raggio di esperienze del genere, capaci di ribaltare prospettive e aprire nuovi orizzonti.
Di un altro tipo di viaggio “mediterraneo”, quello in Italia, tradizionale esperienza di formazione artistica, si propongono qui – nell’articolo di Gabriella Bologna – angolazioni inedite, sulla scorta della rivisitazione di luoghi comuni dell’iconografia pittorica di Venezia attraverso loro repliche fotografiche intrecciate a un rinnovamento dell’immagine della città e della sua lettura visiva da parte di pittori americani in trasferta, tra 1880 e 1910. A Venezia, mezzo secolo più tardi, il pittore franco-russo Serge Poliakoff sarebbe stato fra i decoratori dei menù del ristorante La Colomba, nel secondo dopoguerra tipico luogo d’incontro di artisti, letterati e uomini di teatro. Al di là della spigolatura aneddotica, dai suoi soggiorni italiani – descritti da Luca Pietro Nicoletti con una puntualità che lascia intravvedere lo spaccato di una situazione artistica, tra Venezia, Milano, Roma e Torino, degna di essere riletta e riscritta – emerge la complessa dialettica tra la fascinazione esercitata sull’ambiente artistico italiano dai rigori di un astrattista “severo e meditato”, lontano dai radicalismi dell’informel e della pittura autre, e, viceversa, il richiamo su di lui esercitato dell’astrazione dei nostri “primitivi”.
Parigi e New York, infine – e intenzionalmente qui con argomenti in successione temporale, a rimarcare uno spostamento di “centro”, nel corso del XX secolo, dalla Francia agli Stati Uniti – sono i principali luoghi d’attrazione per gli italiani in cerca sia di novità, sia di affermazione internazionale. Omar Cucciniello e Chiara Di Stefano ragionano, rispettivamente, su Federico Faruffini e sul futurista Fillia: il primo a Parigi tra 1865 e 1867, anno di un’importante Esposizione Universale cui partecipa con nove lavori, ottenendo una medaglia di terza classe per la pittura senza in ogni caso contribuire a insinuare alcun dubbio, nella critica parigina, quanto alla superiorità della scuola francese rispetto all’italiana; il secondo nel 1929-30, immergendosi in un “bagno culturale” ai cui ingredienti – Cercle et Carré, il “macchinismo” di Léger, il purismo di Baumeister e Ozenfant… – dovrà pur qualcosa, proprio a partire dal 1930, la sua maniera aeropittorica. Del viaggio americano di de Chirico e dei suoi tuttora controversi esiti scrive Silvia Somaschini, avvalendosi di nuovi documenti, mentre Francesca Viganò restituisce ammirazioni, stupori e resistenze – di fronte alle disinvolture del sistema artistico americano
tra espressionismi astratti, new dada e pop art – di artisti quali Baruchello, Consagra, Tano Festa e Dorazio, intorno al 1960 corrispondenti dall’America di Plinio De Martiis, alla ricerca di rapporti e scambi, da Roma, con l’ambiente artistico newyorkese.
Qualche osservazione conclusiva meritano le illustrazioni di copertina e quarta di copertina. In quest’ultima si può ammirare una rarità: Oceano Indiano di Scipione, dipinto nel 1930. Il pittore maceratese non ha viaggiato molto: forse la distanza maggiore che ha percorso è stata quella per raggiungere il tubercolario di Arco di Trento, dov’è prematuramente morto. Il quadro, invece, ha attraversato l’Oceano (Atlantico, però) approdando a Saő Paulo, nel cui Museo di arte contemporanea (MAC USP) è ora conservato. Era stato acquistato nel 1946 nella milanese Galleria Barbaroux per 200.000 lire, attraverso la mediazione di Livio Gaetani, entrando a far parte dell’importante raccolta d’arte italiana della prima metà del secolo di Francisco Matarazzo Sobrinho – familiarmente, “Ciccillo” – discendente di un’antica e nobile famiglia napoletana trasferitasi in Brasile nel XIX secolo. Nel quadro, un’isola dell’Oceano Indiano, sotto un cielo corrusco, è il miraggio dell’orango in primo piano, che ghermisce un frutto tropicale sullo sfondo di una gabbia. Di fronte, un pappagallo emerge da una rete marinara. Sono animali ritratti dal vero nelle frequentazioni di Scipione al Giardino Zoologico di Roma, anche se l’ispirazione esotica del dipinto ha debiti evidenti nei confronti della letteratura fantastica e – appunto – di viaggio, ancora ricca di suggestioni per tanti artisti della sua generazione. Insomma, sulla stessa lunghezza d’onda di precedenti più famosi come le giungle tropicali del Doganiere Rousseau (viste al Jardin des Plantes di Parigi), i sette mari del marinaio Fritz Müller inventato da Otto Dix oppure, ancor prima, i paesaggi primordiali e sottomarini degli illustratori di Jules Verne. Viaggi e viaggiatori, dunque, immaginari, come quelli evocati dalla fotografia di copertina dove Francis Picabia — pilota appassionato e collezionista compulsivo di automobili – appare lanciato in corsa su una macchinina giocattolo nel salotto della sua casa di Tremblay-
sur-Mauldre, a rappresentare tutta una tradizione di viaggi “in una stanza” che, partendo dalle pagine di Xavier de Maistre4, approda all’ossessivo camminare di Bruce Nauman nel video Stamping in the Studio, del 1968.
“Non voglio negare l’utilità dei viaggi – scriverà poco dopo Ugo Mulas – […] purché non si stia sempre con l’occhio incollato al mirino fotografico; perché penso che un fotografo possa correre avventure non meno interessanti e istruttive girovagando a piedi tra Porta Romana e Porta Ticinese, magari esplorando gli appartamenti degli inquilini del suo stesso stabile, dei quali spesso ignoriamo perfino il nome. Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà; dopo di che tutti gli attimi più o meno si equivalgono”5.

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1. Cfr. Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
2. Cfr. Sibyl Moholy-Nagy, Moholy-Nagy. La sperimentazione totale, Milano, Longanesi, 1975 (Moholy-Nagy: Experiment in Totality, Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 1969), p. 90.
3. Ivi, pp. 90-93. La Conferenza internazionale d’Atene, sul tema della città funzionale, non portò immediatamente a un documento finale condiviso. La discussione sarebbe continuata durante il viaggio di ritorno verso Marsiglia, ma senza ancora arrivare a un accordo, tanto che gli atti ufficiali della Conferenza, con il titolo Constatations du IV Congrès, sarebbero stati pubblicati solo nel 1935 sulla rivista di architettura “Technika Chronika/Annales Techniques”. Lo stato attuale delle città e i loro bisogni ne costituisce il nucleo fondamentale, nella forma di una meticolosa analisi delle quattro principali e prioritarie funzioni dell’urbanistica moderna: abitazione, tempo libero, lavoro, circolazione.
4. Xavier de Maistre, Voyage autour de ma chambre, 1794, in Id., Oeuvres complètes, Paris, Garnier frères, 1889, pp. 1-109.
5. Ugo Mulas, Le verifiche 1971-1972, in Id., La fotografia, a c. di Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1973, pp. 145-146.
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