testata Uomo
                      Nero 11-12



Materiali per una storia delle arti della modernità


anno XII, n. 11-12    maggio 2015










Lina Bo Bardi

Arti applicate



L’Uomo Nero faber
Editoriale


di Paolo Rusconi














fotogramma da Tati, Mon Oncle
Il diritto a ben sedersi e a vivere meglio: così, in un concetto, si può sintetizzare la pagina progettata da Marcel Breuer per “Bauhaus” del luglio 1926 e pubblicata nella quarta di copertina di questo numero di “L’uomo nero”. È un “filmstrip” suddiviso in sei frame, dove sono documentate le sedie progettate dal designer tedesco, in una crescente astrazione del prodotto: a partire dalla Afrikanischer Stuhl, che riflette una serie di riferimenti alla tradizione etnografica, come ha ben spiegato Hans Peter Hahn (“Bauhaus” Tropen, numero monografico, giugno 2013), attraverso la Stuhl B3, conosciuta popolarmente come “Wassily-Stuhl”, per giungere al corpo della donna che si siede nell’aria, senza supporto, sospesa, come in levitazione.
Il culmine di questo processo di rarefazione dell’oggetto – dal legno al metallo e al graduale alleggerimento della struttura della sedia sino alla sua scomparsa – seguiva una visione radicale dei precetti utopici del Movimento Moderno; rientrava in questa capovolgente prospettiva l’idea di liberare il corpo dal latente potere di controllo
della sedia sulla posizione del corpo umano.
Nulla è più inebriante di quest’ansia di trasformazione della nostra vita quotidiana, anche nei suoi momenti più prosaici; ma se la modernità, da promessa di una vita migliore, diventasse una minaccia per l’incolumità stessa dell’uomo? È l’esperienza di Jacques Tati, trent’anni dopo la proposta di Breuer. A Villa Arpel, la casa protagonista del film Mon Oncle (1958), gli attori sono sistemati su bizzarre seggiole di un parodistico International Style; le loro posture sono goffe, obbligate a difficili equilibrismi e soprattutto sotto il controllo totale degli stessi oggetti della casa.
Il pittore Jacques Lagrange, disegnatore del set cinematografico di Villa Arpel – presentata in maquette nel padiglione francese alla 14a Mostra internazionale di architettura di Venezia (2014) –, raccoglieva, probabilmente, le suggestioni apparse in quegli anni sui rotocalchi e sulle riviste francesi “Paris-Match” ed “Elle”, dove gli interni pubblicati della Maison électrique e della Maison toute en plastique rendevano, in immagine, sogni e ambizioni di un miglioramento futuribile e tecnologico (E. Chauvin, P. Gencey, Utopie domestique. Intérieurs de la Reconstruction, 1945-1955, Parigi 2014). Accanto a una prima spettacolarizzazione dell’interior design, in Francia, negli anni Cinquanta, si era sviluppata una produzione di “mobili della Ricostruzione”, sobri, funzionali, ergonomici, in legno chiaro, in qualche modo eredi del pauperismo ideologico di Breuer.
Un’interpretazione non lontana da questa, vale a dire di produrre arredi umani, confortevoli e “democratici”, era diffusa nel Nord Europa, dove si univa a una grande tradizione di lavoro artigianale e di materiali caldi come il legno.
Non stupisce che un noto artista milanese, Renato Birolli, uomo colto e di sinistra, nei primi anni Cinquanta avesse inteso l’intonazione democratica di certo industrial design e possedesse nella propria casa-studio oggetti di design nordico: i prototipi della Heart Chair (1952), la sedia a tre gambe, impilabile, dall’accentuato disegno scultoreo, dal telaio color sabbia e dalla seduta di teak impiallacciato, del designer danese Hans Wegner. A casa Birolli, in via Plinio, pareva chiaro il diritto a ben sedersi e a vivere meglio. Le sedie di Wegner non erano i soli oggetti moderni dell’abitazione ma erano accompagnati, per esempio, dalle tre scaffalature in “legno dipinto all’anilina color arancio” disegnate da Franco Marescotti tra 1939 e 1940 (Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux, Renato Birolli. Biblioteca, Milano 2014) per l’ambiente di lettura, che si configurava nello stile del razionalismo italiano.
Se le case, osservava Penny Sparke, sono i luoghi dove in gran parte si forma l’identità personale, allora, date le premesse, sarebbe facile individuare nella cultura del razionalismo, del design nordico e della pittura astratta l’imprinting dello storico dell’arte Zeno Birolli, che in anni recenti ricordava con precisione il colore dell’abitazione
del padre pittore: quel gusto del cromatismo bianco delle pareti a contrasto con il grigio del linoleum e con l’arancione dei mobili.
Attinente al racconto di oggetti e interni del razionalismo italiano, senza tuttavia essere devoto ai ricordi familiari, è il saggio dello stesso Birolli che apre il numero 11-12 di “L’uomo nero”. Si tratta della ripubblicazione di Ambienti per design un suono udito una cosa vista (EXIT): un testo quasi sconosciuto nella produzione dell’autore, ma geniale e insolito nel panorama letterario dei primissimi anni Ottanta.
Birolli è stato un amico e un vivace componente del Comitato scientifico di “L’uomo nero”, nonché uno storico dell’arte originale e anticonformista; in questa ottica, la scelta di un suo lavoro da pubblicare si è orientata su questo saggio, peraltro legato al tema monografico del numero dedicato alle Arti applicate, dalla seconda metà del XVIII secolo ai giorni nostri, anche in relazione a nuove forme di progettazione, produzione e comunicazione visiva ed espositiva”.
Lo scritto è anticipato da una breve memoria di Antonello Negri che ripercorre la vicenda umana e professionale di Birolli, ed è seguito da una nota di lettura che prova a individuare il complesso territorio culturale su cui è maturato.
All’idea di una riforma radicale della vita quotidiana promossa dalle scuole moderniste si connette anche il percorso di Bertha Schaefer, tra le più celebri decorators del suo tempo, promotrice di un’innovativa estetica degli interni in direzione di un superamento della divisione dei ruoli tra arte, design e decorazione. Nel saggio di Giulia De Falco si ricompone invece la vicenda di un brano della fortuna del design nordico in Italia.
Contributi diversi, poiché l’area del tema monografico si distende in un campo molto vasto, anche cronologicamente, sono quelli di Ilaria De Palma, rivolto alla produzione e alla diffusione della terraglia in Lombardia tra Sette e Ottocento, e di Giuditta Lojacono sui progetti del maestro ferronnier Alessandro Mazzucotelli.
Dalla ceramica e al ferro battuto si passa alla grafica delle pagine pubblicitarie dello Studio Boggeri per la Richard-Ginori, nell’articolo di Giacinta Cavagna di Gualdana.
Non mancano a questo ampio panorama le riflessioni su questioni relative alle arti applicate nelle esposizioni: Eleonora Di Iulio ha indagato la storia della collezione di oggetti d’arte orientale di Enrico Cernuschi nella mostra tenutasi tra il 1873 e il 1874 al Palais de l’Industrie, mentre Sergio Cortesini ha preso in considerazione un aspetto della fortuna del gusto italiano nel profondo Sud degli Stati Uniti, intrecciandolo alle vicende politiche, sociali e istituzionali di quei luoghi.
Il numero si chiude con un’analisi di Sara Catenacci del lavoro di Riccardo Dalisi, impegnato a portare progetti e design nei programmi di riforma educativa in Italia nello scorcio degli anni Sessanta, e con la grafica editoriale di John Alcorn per Rizzoli, indagata da Marta Sironi.
La seconda parte di “L’uomo nero” – Fuori tema – presenta la consueta sezione dell’Arte pubblica con un approfondimento di Daniela Sbaraglia sulla scultura monumentale del padre di Lucio Fontana, Luigi, laddove l’articolo di Giuliana Altea esplora la posizione di Costantino Nivola in relazione al problema del monumento e del rapporto tra scultura e architettura. Nella sezione Fortune sono presentate le ricerche di Renata Rocco e Jacopo Galimberti. La prima racconta la vicenda della ricezione di Gino Severini, pittore e teorico, nel Brasile degli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo. Il secondo testo propone un contributo nuovo alla lettura del discusso dialogo tra Yves Klein e Piero Manzoni. Per Mostrare l’arte, Alessandra Nappo ha studiato la galleria e la collezione
fotografica di Ann e Jürgen Wilde mentre, tra le Rarità, riemergono le lettere inedite di Carola Giedion-Welcker dedicate all’Italia, rintracciate e trascritte da Nicol Mocchi.
Infine, secondo una linea di ricerca pienamente sostenuta dalla rivista, quella della satira politica, “L’uomo nero” ospita con piacere i due articoli di Giovanna Ginex e Vanessa Righettoni su argomenti diametralmente
opposti: le caricature dell’antifascista Scalarini e le vignette antisemite della “Gazzetta del Popolo”.

indice








privacy