Marcello La Matina
I Linguaggi e il Tempo. Considerazioni filosofiche sulla storicità della musica


Un recente articolo di Enrico Fubini1 si interroga sul problema della storicità della musica. “Storicità” da intendersi non tanto (e non solo) nel senso di una Gattungsgeschichte o di una Epochengeschichte, quanto piuttosto nel senso di un “rapporto della disciplina stessa con la sua storia e con la storia in generale”. Il tema è invitante e di certo darà luogo ad un dibattito polifonico tra musicologi, critici, estetologi, uomini di cultura. Si tratta di una di quelle questioni che sono bensì tecniche, ma che hanno portata enciclopedica perché, in fin dei conti, tutti abbiamo a che fare con la musica. Anche il filosofo dei linguaggi può trovarvi spunto e motivo per riflettere sul posto che la musica occupa fra le forme simboliche e su certe peculiarità del fenomeno musicale. Così vorrei anch’io offrire il mio piccolo obolo alla discussione, formulando delle considerazioni a margine del contributo di Fubini e mettendoci anche del mio. In linea generale mi trovo d’accordo con le cose da lui dette: se la musica ha una sua specificità—che è causa peraltro di un certo “isolamento”—forse anche la sua storicità ha da rivelare dei tratti specifici, che andranno elucidati e riconosciuti. Senza di che, è difficile dire quale relazione la musica (il tempo musicale nelle sue declinazioni formali e strutturali) intrattenga con il tempo storico e quest’ultimo con l’inse-gnamento musicale. Ciò è certo condivisibile. Ma vorrei provare a mostrare come le stesse questioni appaiano meglio indagabili, se riformulate nei loro punti essenziali con l’aiuto di alcuni concetti della filosofia analitica.

1. Senso della musica e senso della storia

L’articolo di Fubini formula il problema con le parole: «qual è il rapporto della disciplina stessa [sc. la musica] con la sua storia e con la storia in generale, problema non puramente astratto o accademico, ma che ha un’evidente ricaduta nel campo pedagogico e didattico»? [p. 117] Leggendo attentamente il contributo si vede che la domanda ne contiene in realtà altre: cos’è lo specifico musicale? cosa avvicina un’opera visuale ad una musicale? cos’è una storia della letteratura musicale? perché i nostri studenti hanno conoscenze storiche anche minime sui generi della letteratura, sulle arti pittoriche e plastiche, perfino sulle vicende dell’architettura, mentre non ne hanno nessuna (o quasi) sul passato della musica che ascoltano ogni giorno e che rappresenta una parte importante del tempo della loro vita? L’articolo assomiglia pertanto ad un cahier de doléance che investe non solo il sapere scientifico e accademico, ma addirittura tutto il sistema educativo occidentale, con argomenti che presuppongono un approccio globale ai fenomeni musicali.

Proprio in considerazione di ciò, la cornice storiografica, scelta da Fubini per argomentare, ci pare, da sola, incapace di fornire risposte adeguate a domande così diverse. La faccenda cruciale è poi un’altra. Tutte le domande di Fubini presuppongono che vi sia un accordo, anche tacito, fra gli studiosi su almeno tre punti. Il primo riguarda il “contenitore”: (1) che cos’è una storia letteraria? che tipo di discorso è? Da cui discende il secondo, relativo questa volta al “contenuto”: (2) quali sono i modi di esistenza della musica che una storia letteraria potrebbe / dovrebbe prendere in considerazione? Il terzo punto comprende, insieme, “contenitore” e “contenuto”, perché riguarda (3) la relazione tra discorso sulla musica e il discorso della musica; in questo caso, fra il tempo della storia e il tempo della musica. Ora, un accordo sui tre punti non mi pare si dia, al momento.2 Ne è segno, fra l’altro, proprio il malessere di Fubini, il quale osserva preoccupato la condizione di isolamento in cui si trova la musica nel mondo contemporaneo e riflette sul ruolo ancillare in cui è relegata dai modelli epistemologici dominanti.

Potremmo dire della musica quel che Agostino disse del tempo: “finché nessuno me lo chiede so cos’è, ma appena qualcuno me lo domanda non lo so più”.3 Ad ogni modo, dei tre punti il principale a noi pare l’ultimo: come si lega un discorso sulla musica—che è spesso un discorso senza musica—al discorso della musica, che è invece spesso un discorso senza parole? La domanda ha il gusto amaro della constatazione di un limite, esprime un disagio. In fondo, l’idea della musica “come arte separata” o come “arte la cui storia non esiste” non nasce forse dalla impossibilità di pensare a una cornice nella quale il suono modulato e il suono articolato si riconcilino?

Portare la musica fuori dall’isolamento teoretico in cui si trova può voler dire anzitutto provare a rendere esplicite le sue caratteristiche di linguaggio, la sua peculiare languagehood.4 Che è diversa, ad esempio, da quella dei cosiddetti linguaggi storico-naturali come l’italiano o il greco, ma anche da quella dei linguaggi visuali come la pittura, il fumetto, l’architettura. Siamo di solito in grado di dire perché ognuna di queste pratiche simboliche sia un linguaggio, dato che sappiamo in cosa consiste l’aver senso o l’aver significato per una descrizione a parole o per una rappresentazione figurativa. Ma con la musica è diverso, perché, sebbene essa (una parte di essa) abbia per molti di noi un “senso”, non vediamo quale “significato” attribuire alle parti di una sinfonia o di una intavolatura per liuto.5

Qualunque cosa può avere o non avere senso, ma solo all’interno di un linguaggio si dà il significato. Questa significatività sembra però darsi in modi che differiscono da un linguaggio all’altro. Ad esempio, nel linguaggio pittorico lo schizzo di una faccia ha un significato, anche se le sue parti non sono significative separatamente; per contro, nei linguaggi naturali, la descrizione verbale di una faccia ha un significato anche nelle singole parti che la costituiscono. Inoltre, alcuni linguaggi— come le lingue storico-naturali—sono articolati, mentre altri, come la pittura, non lo sono, e perciò sono detti densi.6 Rispetto a questi due termini di comparazione, la musica è davvero un caso a sé, perché la sua sintassi è articolata, segmentabile, come quella di un linguaggio naturale, ma il suo significato, o il suo senso, sono spesso densi, inarticolabili, come se essa fosse pittura con altri mezzi.

Si può essere un linguaggio in modi diversi: la languagehood non è una proprietà monolitica, ma un tratto duttile; e volerlo attribuire per abitudine ai modi significandi del solo linguaggio verbale può essere altrettanto sbagliato quanto il negarlo, sempre per abitudine, ai modi significandi della musica. Casomai, l’esistenza della musica e di altri linguaggi non verbali dovrebbe stimolare una domanda generale.

Perché ci sono dati più linguaggi anziché un solo monolitico codice? perché il nostro destino non è Babele? Prendere sul serio questa esistenza plurale del linguaggio è già un primo passo per riconciliare la musica con altre pratiche simboliche.

Una volta entrati in questa ottica, non sarà difficile accettare l’idea che etichette come “senso” o “significato” sono solo nozioni teoriche che introduciamo nel nostro discorso per comodità.7 Ciò che abbiamo di fronte sono sempre comportamenti e risorse espressive: persone che toccano oggetti risonanti e persone che interrompono il flusso d’aria nei polmoni per certi fini; suoni che fuoriescono da corpi animati e da corpi inanimati. C’è insomma un livello etologico, nel quale le pratiche simboliche appaiono provviste di senso semplicemente perché sono connesse con certe Lebensformen; cui si sovrappone un livello antropologico, nel quale il senso riguarda anche le cose (p. es., la materia di uno strumento, il tronco cavo di un albero), o anche la divinità, il cosmo, quando li scegliamo consapevolmente come interlocutori. Molti aspetti della vita simbolica nelle culture tribali si sviluppano proprio nella forma di una “liturgia” che offre cose alla divinità, perché avvenga una certa trasformazione ritenuta portatrice di senso. Si potrebbe dire che il livello etologico si sviluppa in senso antropologico quando viene individuato un valore “liturgico” (i.e., di offerta, di anaphorà) nelle pratiche simboliche, ossia quando esse da scambio reciprocante divengono scambio imperfetto e, perciò, linguaggio.

Il livello etologico e quello antropologico sono modi di esistenza del linguaggio che si possono considerare pur sempre “tribali”.8 In essi circola il senso, ma non ci si interroga sulla sua significatività. La domanda sul significato nasce invece ad un livello di organizzazione ancora superiore: il livello metalinguistico. Ciò accade quando le pratiche simboliche tradizionali vengono “questionate”9 da una parte (spesso minoritaria) dei membri della comunità tribale. Quando, ad es., in Aristofane i protagonisti delle Nuvole, un padre e un figlio, si scontrano sulla vecchia e la nuova musica, essi stanno “questionando” la pratica musicale tradizionale, riconoscendovi o introducendovi delle discontinuità. Quando, sempre in Aristofane, il personaggio di Euripide ne Le Rane sfotticchia il modo in cui Eschilo componeva i prologhi delle sue tragedie, la polemica mette in “questione” il linguaggio ornato del tradizionale Eschilo, facendone l’oggetto di una citazione metalinguistica divertita e dissacrante. La risorsa logica che consente di “questionare” un linguaggio è la citazione10: l’atto, cioè, mediante il quale si blocca e si mette dentro (ideali) virgolette un frammento del flusso sonoro, onde poterlo processare e sottoporre ad analisi. Per “questionare” una pratica linguistica o simbolica, occorre poter creare dei “contesti citazionali”. Il linguaggio verbale è questionato quando può essere inglobato (mediante menzione, allusione, citazione, imitazione, etc.) nel discorso di un altro. Nel caso dei linguaggi non verbali esistono numerose risorse espressive affini alla citazione, come la esemplificazione, ossia l’uso di materiali, di forme, ritmi, tempi, etc. come campioni (samples) di certe proprietà o di certe etichette (labels) non solo verbali o concettuali. Come ha dimostrato il filosofo analitico Nelson Goodman, non tutti i linguaggi “significano” alla stessa maniera: e se i linguaggi verbali sono prevalentemente denotazionali, certi altri linguaggi, tra i quali la musica, paiono essere prevalentemente esemplificazionali.11

Ma gli uni e l’altra sono e restano linguaggi, perché mettono in moto meccanismi di vicariamento e di riferimento, ora semantico e ora non semantico.

 

2. Discorso della musica e discorso sulla musica

Spiegare la “storicità” della musica non è possibile senza possedere le risorse logiche atte a “questionare” e “citare” il discorso musicale. Se avessimo queste risorse logiche per citare la musica entro un discorso non solo musicale né solo musicologico, allora potremmo tentare di spiegare la storicità della musica nei termini di qualcos’altro che non siano i concetti della musica stessa. Ritengo questo requisito importante per evitare di cadere in una autoreferenzialità, purtroppo assai frequente in ambito teoretico e storico-critico. La musica è ciò che dobbiamo spiegare. I concetti e le cose che useremo per farlo non debbono appartenere allo stesso ambito concettuale della musica, altrimenti il circolo diventa vizioso. Scriveva sant’Agostino12 che spiegare le parole con altre parole fa pensare a una mano che ne gratta un’altra per alleviarne il prurito: per un osservatore è difficile riconoscere quale sia la mano che sente il prurito; solo chi lo sente sa farlo. Parimenti accade coi linguaggi, dove le cose da spiegare, gli explicanda, sono spesso confuse con le cose che spiegano, gli explicantia appunto. Anche per tale motivo considero centrale la distinzione tra discorso sulla musica e discorso della musica. Sarà opportuno introdurre anche nello studio della musica la terminologia dei linguisti che differenziano la lingua che è oggetto di descrizione scientifica dalla lingua che è usata per descrivere la prima. Si è soliti, in proposito, parlare di Linguaggio Oggetto o (Sample Language) e di Metalinguaggio.

Vediamo con un esempio a cosa può servire questa distinzione. Prendiamo la parola “tempo”, che è così centrale nella definizione della musica e nella concezione ingenua che tutti ne abbiamo. Si tratta di capire come questa nozione compare nel discorso musicale e come nei discorsi sulla musica; poi si tratta di individuare se esista un legame non accidentale fra le due nozioni e quindi fra i due linguaggi.

Se, per ipotesi, fossimo in grado con questi strumenti di spiegare come il tempo musicale si lega al tempo storico, avremmo certamente fatto un bel passo in avanti verso la chiarificazione del problema e del gap evidenziato da Fubini. Ma questo obiettivo è ancora lontano e richiede diverse mosse preliminari. La nozione di “tempo” circola nel discorso musicale e nel metadiscorso sulla musica. Altre espressioni od indicatori temporali sono adoperati in molti sensi dai musicisti e dai musicologi. Nell’uso comune, il termine “tempo” appartiene al discorso sulla musica, dunque al metalinguaggio. Ma cosa succede quando un indicatore temporale (una parola o un gesto) viene usato da un direttore d’orchestra durante una esecuzione? Supponiamo che, in un istante t di un qualsiasi brano concertato, egli dica /tempo/ rivolgendosi ai suoi orchestrali. È fuor di dubbio che l’indicazione vada considerata parte della composizione, del discorso della musica; ma sarà per questo parte del linguaggio oggetto? E in caso affermativo, cosa esattamente farà parte del linguaggio oggetto: il proferimento dei suoni “t-e-m-p-o”? l’istante di tempo in cui viene data l’indicazione? il particolare accento con cui il direttore scandisce la pronuncia? il suono prodotto dagli orchestrali dopo l’emissione di “tempo”? o il riferimento all’indicazione di un certo “tempo” contenuta in partitura?

La scelta dell’esempio non è casuale. È infatti opinione assai diffusa che la musica sia un’arte del tempo e che in questo si differenzi dalle arti come la pittura, la scultura, l’architettura, che sarebbero arti dello spazio. Buona parte delle argomentazioni di Fubini scaturiscono da questa concezione soggiacente. Più avanti avremo modo di tornare su questa dicotomia; per il momento rimaniamo all’esempio del direttore d’orchestra. Questi fa un grande uso di espressioni metalinguistiche, tanto verbali quanto gestuali, all’interno del discorso della musica.

Non dice solo “tempo”, ma dà anche il tempo con le mani, con le arcate del gesto, con gli occhi. Esiste tutta una grammatica degli indicatori temporali: il tempo puntuale dell’attacco, quello durativo di una corona, quello aoristico di un “rubato”. Dove si collocano tutti questi indicatori? fra i fenomeni del linguaggio oggetto o fra quelli del metalinguaggio che adoperiamo per descrivere il primo? In un certo senso, il direttore che dà il “tempo” sta dentro la musica, è egli stesso un elemento del tempo musicale. In altro senso, tuttavia, egli sta sicuramente fuori dal linguaggio-oggetto musicale, poiché, col suo agire, egli prende le distanze dalla musica che è eseguita e che egli pure ascolta. Talché, il direttore viene ad essere un operatore di shifting, poiché si comporta come un esecutore vicariante, il quale analizza e incornicia il discorso altrui (= il discorso della musica) inglobandolo nel “suo” metalinguaggio verbale e gestuale (= il discorso sulla musica) senza confondervisi.

Sembra dunque che, almeno nel caso del direttore d’orchestra, uno stesso blocco di elementi (i.e., gli indicatori temporali e shifters) appartenga tanto al discorso della musica quanto al discorso sulla musica, sebbene con modi di esistenza diversi.

Per un verso, tutto il comportamento del direttore è costituito da samples, i.e. da campioni verbali e gestuali che esemplificano certi modi di esistenza del tempo. E lo fanno dall’interno di un discorso della musica. Per altro verso, gesti e parole sono etichette (prassiche o verbali) che il direttore adopera per parlare della musica: sono dunque labels appartenenti di diritto al discorso sulla musica, al suo metalinguaggio. Piuttosto sorprendentemente, in questa condizione, i due discorsi non si confondono, ma sono contigui e si rinforzano vicendevolmente. Cosa che non accade in molti altri casi nei quali un metalinguaggio parla di musica senza però preservare elementi di intrinseca contiguità col discorso schiettamente musicale.

Si potrebbe osservare una gradualità nei modi in cui un metalinguaggio si riferisce al linguaggio oggetto.13 Per esempio, un libro sul rock descrive, cioè nomina, il linguaggio rock ma non lo contiene, cioè non lo esemplifica. Un libro di storia dell’arte può invece nominare e contenere un disegno, poniamo, di Picasso.

Ancora: un ipertesto sulla poesia di Dante Alighieri può essere considerato come parte di un linguaggio multimediale capace sia di nominare sia di contenere singole parti della lingua oggetto almeno entro certi limiti; e si potrebbe continuare.

Epperò, nel caso della musica, è difficile immaginare un metalinguaggio capace di descrivere e insieme esemplificare il linguaggio oggetto. O, meglio: si può immaginare una lingua—per esempio, multimediale—capace di fare ciò. Ma quel che non si può immaginare ancora è un metalinguaggio che colleghi in modo non arbitrario la nozione di “tempo” interna al discorso della musica ad altre nozioni di “tempo” esterne ad essa. Salvo—come s’è detto e come si tornerà a dire—nel singolare caso del direttore d’orchestra e dei casi che ad esso saranno, eventualmente, ritenuti analoghi.

C’è sempre un qualche iato fra la lingua di cui parliamo e la lingua in cui parliamo; ma va detto che nel caso della musica questo gap è assai più evidente che in altri linguaggi artistici. Ed è certo questo uno dei motivi per cui—come osserva giustamente Fubini—occorre «essere almeno coscienti che la storia della musica rispetto all’arte figurativa o alla letteratura pone problemi di ordine storico, sociologico e non ultimi estetico e filosofico di natura estrememente complessi e del tutto specifici» [p. 118]. Talvolta accade che la musica venga “parlata” da discorsi che mirano soltanto a tradurre certi aspetti musicali in «pura astrazione, calcolo rispondente alle più segrete armonie cosmiche, filosofia prima, suono come essenza stessa del mondo. Ma la musica in questa accezione—obietta Fubini—non è la musica dei musicisti ma quella puramente pensata» [p. 122]. Una musica senza la musica, insomma. Altre volte, al contrario, accade che si generino approcci intrinsecamente contigui al discorso musicale (mimica, azione teatrale, recitazione, danza), ma incapaci di parlare realmente della musica, i.e., della «vita effimera della musica, sempre legata all’esecuzione, all’interpretazione e quindi all’attimo» [p. 121]. Nel primo caso è il metalinguaggio che nomina, senza però contenerlo, un tratto specifico del linguaggio oggetto, mentre nel secondo caso è la lingua oggetto che contiene senza nominare, finendo con l’impedire ogni presa di distanza metalinguistica rispetto alla condizione evenemenziale del suono.

Ed ecco il nocciolo della questione. La storicità della musica viene colta genuinamente quando la natura intrinseca del tempo musicale può essere spiegata in un metalinguaggio che la inglobi senza fondersi con essa, ma che la nomini senza dover rinunciare a contenerla. Il direttore d’orchestra soddisfa col suo metalinguaggio gestuale entrambi i requisiti: egli ingloba il tempo musicale nel suo gesto, ne esemplifica tutti i tratti specifici; ma non si fusiona con esso, anzi ne prende costantemente le distanze. I due discorsi sono così intrinsecamente legati sebbene analiticamente distinti. L’ideale sarebbe immaginare una storia della musica che funzionasse allo stesso modo della lingua del direttore d’orchestra: essa dovrebbe essere “scritta” in un linguaggio che nomina e contiene la musica senza fondersi con essa. Ma quale formato potrebbe avere un tale metadiscorso? Nel caso del direttore d’orchestra ciò è possibile perché il piano dell’enunciato musicale (i.e., quello di volta in volta eseguito in base allo spartito) rimane distinguibile dal piano della enunciazione (i.e., l’esecuzione vicariante del direttore) anche se non è separato da esso. Ma per applicare questa condizione al discorso “storicizzante” sulla musica, ci serve una teoria capace di elaborare strumenti “logici” che colleghino il discorso della musica al discorso sulla musica. E ciò deve avvenire senza divisioni e senza confusioni tra: (i) il piano dell’enunciato musicale e (ij) il piano della enunciazione (non importa se gestuale e/o discorsiva). Se così fosse, sarebbe la teoria stessa ad indicarci che cosa vada messo in relazione con che cosa, ossia quali aspetti interni alla musica siano collegati biunivocamente con quali evidenze esterne alla musica.

Di più. Una teoria di tal sorta dovrebbe poter funzionare come un tipo di notazione anche in senso logico. Si tratta infatti di irreggimentare gli aspetti strutturali dei fatti sonori (ad es. la temporalità del suono) entro una cornice discorsiva che permetta di riferirsi ad essi senza confondervisi.14 Ma una “storia della musica” concepita su queste basi non potrebbe più essere un opus maxime oratorium, ossia un testo solo verbale, un disegno fatto di parole con qualche illustrazione e qualche spartito. Il problema non è pedagogico o editoriale, ma ontologico. Non serve alla storicità della musica un insieme di descrizioni monografiche che affastelli, in successione cronologica, generi autori canoni. E neppure una sobria teoria di eventi musicali ottenuta indicizzando frammenti disparati di esecuzioni musicali da far ascoltare (a chi poi?) nella speranza che l’ascoltatore costruisca da sé una serie temporale coerente e motivata. Tutte queste cose, se non vane affatto, sarebbero incapaci di dar senso all’idea della storicità della musica. Si ridurrebbero alla stregua di collezioni da antiquariato, o di album coi ritratti di famiglia. La storicità della musica non va intesa come l’esistenza contingente di forme musicali che sarebbero però eterne come le Idee platoniche. Al contrario, penso che essa debba intendersi come la dimostrazione della esistenza di un legame intrinseco tra il tempo che si genera dentro la musica e il tempo nel quale esistiamo anche fuori dalla musica. Cedere ad una visione platonistica del rapporto tra esistenza nel tempo e Forme senza tempo può solo persuaderci che la musica è materia per una estetica o per un’etica, ma senza alcuna presa sulla ontologia. Raccogliere, invece, la sfida della Storia può significare che la musica è importante anche perché il suo “tempo” entra in rapporto con il “tempo” della vita e del mondo, facendosi strumento di conoscenza e non solo di diletto, jouissance inconsapevole e impersonale.

Un’ultima annotazione. L’idea che la storia della musica sia importante per la Storia potrà affermarsi solo se avremo abbandonato, da una parte, l’idea nicciana— e forse stravinskiana—che la musica sia l’eterno ritorno o l’eterno presente dell’uomo, e, dall’altra, l’idea che storicizzare la musica non sia che una delle tante espressioni di quel collezionismo, aggettante o solo annalistico, che spinge gli intellettuali blasés a considerare storiche solo le “colonne sonore” che hanno accompagnato certi periodi della loro vita psichica. Nella nostra prospettiva, è bene dirlo chiaramente, se la musica può avanzare pretese di storicità è perché la storia non siamo noi.

3. Notazioni exosomatiche e codifica endosomatica

Finora abbiamo parlato di lingua oggetto e di metalingua. Ma la musica, nell’immaginario collettivo dell’ascoltatore medio colto, è collegata alla scrittura, agli spartiti, alla fissazione del testo sul pentagramma. È venuto il momento di chiarire il ruolo che la notazione ha in questo contesto. Allo stato attuale, questi aspetti “logici” non sono trattati dalla tradizionale filosofia analitica del linguaggio.

Con la sola eccezione del filosofo americano Nelson Goodman (1906-1998) e degli studiosi che a lui, più o meno esplicitamente, si ispirano. Secondo Goodman, il punto di partenza per una teoria del linguaggio musicale è rappresentato proprio dalla nozione di ‘partitura’ (score). Il discorso comune considera lo spartito musicale come un sussidio per la memoria: sorta di estensione di una immagine interiore del suono ricreabile a piacere. Per il filosofo americano, invece, lo score assolve ad una finalità teoretica ben più importante, che è quella di determinare univocamente la classe delle esecuzioni che andranno considerate come esecuzioni di una ben precisa opera musicale.15 E un’opera è precisamente individuata solo quando la si può citare, quando se ne può indicare o fornire, eventualmente a richiesta, un campione genuino, un sample. Uno score è dunque una risorsa logica capace di individuare il luogo nel quale il linguaggio musicale si ricollega alla menzione o alla citazione di espressioni “musicali”. Uno spartito non è un’opera, ma è o una trascrizione del modo in cui un’opera è stata suonata, o una descrizione del modo in cui un’opera va analizzata e suonata. Questa ambiguità è problematica, ma si trova insita in ogni linguaggio di notazione; essa è stata oggetto di riflessione, e.g., da parte di Nikolaus Harnoncourt.16 In ogni caso, lo score, la partitura, lo spartito, è l’anello di congiunzione tra tutti gli usi tribali della musica e tutti i potenziali discorsi metalinguistici sulla musica.

Secondo chi scrive, lo score assolve anche ad un’altra funzione teoretica, quella di rendere visibile la differenza fra due diversi (e spesso contrapposti) modi di costruzione della identità testuale. Da un lato uno score è un carattere composto da altri caratteri appartenenti alla sintassi di una qualche notazione. In base al criterio sintattico l’identità di un’opera musicale è essenzialmente identità nella compitazione.

Se pensiamo al linguaggio verbale, ci rendiamo conto che tale identità è di tipo astratto, poiché riguarda dei types piuttosto che dei tokens. Occorre quindi chiedersi quali limiti comporti per il discorso musicale l’essere assoggettato a criteri così rigorosi e così estrinseci. Un’altra forma di identità, ritrovabile nei contesti delle culture tribali e nelle zone non alfabetizzate del mondo contemporaneo, è quella che chiameremo identità amnestica.17 In base al principio amnestico, potranno essere considerate identiche due o più manifestazioni di un’opera che soddisfino, indipendentemente l’una dall’altra, il criterio del così detto equilibrio omeostatico tra attore e partecipanti ratificati alla performance. Due esecuzioni di uno standard sono, nel jazz, identiche in senso amnestico, mentre due esecuzioni della Pastorale di Beethoven sono identificate in base alla compitazione (dell’autore, o dell’interprete). Un aspetto sovente trascurato nello studio delle notazioni è il tipo di codifica che ciascun sistema comporta. Le notazioni di tipo compitazionale sono derivate da convenzioni exosomatiche: il soggetto conoscente viene espunto dalla rappresentazione notazionale della conoscenza. Al contrario ogni notazione amnestica presuppone un intrisically coded act mediante il quale il performer diviene esso stesso spartito e, in una con i partecipanti ratificati, opera musicale in senso proprio.18

Gli spartiti che resultano da codificazione exosomatica sono quelli che Nelson Goodman chiama scores. Quando invece la musica viene codificata in modo intrinseco o endosomatico, il tipo di spartito che può essere generato non appartiene più ad un sistema notazionale costituito da soli marcatori visivi. Una pagina di musica è uno spartito exosomatico costituito da tokens o marks che segnalano all’apparato visivo certe proprietà rilevanti del discorso musicale. Nel momento in cui, però, questa pagina viene codificata in un sistema di marcatori muscolari reattivabili dal performer in presenza di altre creature, ogni riferimento ai marcatori visivi viene riformulato in termini empatici.19 La musica si trascrive allora nel corpo stesso del perfomer, che diviene così egli stesso una Ich-Partitur. Qualcosa di simile voleva forse dire il filosofo Ludwig Wittgenstein, quando ha definito una sonata per pianoforte «una danza per dita umane». Codificata endosomaticamente, la musica si presenta nelle forme di una organizzazione tribale che privilegia l’evento sulla struttura, la relazione della enunciazione rispetto alla grammaticalità dell’enunciato, la codifica audio-tattile20 rispetto a quella visiva. Perché questi aspetti siano leggibili, è essenziale che la distinzione tra exo- ed endocodifica avvenga di conserva con la distinzione logica fra menzione (o contesto citazionale) ed uso (o contesto tribale) di espressioni musicali.

Secondo il tipo di teoria che si richiede per la musica, queste distinzioni possono giocare un ruolo più o meno importante. Ma in una discussione sulla storicità della musica esse ci sono parse addirittura irrinunciabili. Diversa cosa è infatti postulare un metalinguaggio analitico che nomina e contiene la musica stessa in una qualche manifestazione non meramente concettuale, ovvero un metaliguaggio che nomini, senza contenerlo, il linguaggio oggetto. Come si è detto anche altrove e con argomenti più minuziosi, la natura della notazione e della codifica non sono ininfluenti sulla determinazione degli impegni ontologici di un liguaggio musicale.

Prima di chiudere questa parte, riassumiamo brevemente le argomentazioni con l’aiuto della FIGURA 1.

Siamo partiti dalla domanda di Fubini: (punto 1.) “come deve essere immaginata una storia della musica anche in vista del suo insegnamento?”. E abbiamo visto che essa ne implica almeno altre due: una relativa ai modi di esistenza del fenomeno musicale: (2.) “di che cosa è storia una storia della musica?”; e l’altra relativa al discorso sulla musica: (3.) “quale metalinguaggio è idoneo a catturare lo specifico della temporalità intrinseca nella musica?”. Alcuni concetti della filosofia analitica ci hanno consentito di riformulare i tre punti in modo da distinguere le basi logiche ed extra-logiche del discorso (vedi lato destro della figura); i numeri 1., 2. e 3. vanno letti come espressioni di livelli a complessità crescente, come fossero una anticlimax. In sostanza, il discorso di Fubini si svolge al livello delle basi extra-logiche della teoria, mentre le domande che egli non formula esplicitamente sono quelle che vanno tenute in considerazione per prime, perché rilevano della organizzazione logica della teoria stessa. Se una certa teoria della storicità in musica possegga o no i requisiti di correttezza formale e di adeguatezza empirica può dircelo solo l’esame incrociato delle basi logiche con le basi extra- logiche. Ciò che pensiamo possa resultare da quanto detto non è soltanto la utilità conseguente alla introduzione dei concetti della filosofia analitica (come uso e menzione o lingua-oggetto e metalinguaggio), ma soprattutto la necessità di rendere esplicita la base logica su cui va fondata la pretesa di storicità del discorso sulla musica. Ma c’è un altro aspetto—semplicemente riportato come communis opinio da Fubini—che merita di essere esaminato, anche perché collegato ad una assunzione assai diffusa nel discorso ingenuo sui linguaggi.

4. Arti del tempo e arti dello spazio ?

Fubini non lamenta soltanto l’inadeguatezza di tradizionali approcci storici, ma anche la superficialità della pedagogia musicale, incapace di tradurre le conoscenze storiche e teoriche così da adeguarle agli orizzonti di attesa degli ascoltatori più giovani, studenti della scuola superiore o delle università.21 Questo fatto, come abbiam detto, dipenderebbe da una imprecisa formulazione della nozione di storicità del fenomeno musicale. La quale, a sua volta, appare collegata, nel pensiero di molti psicologi e pedagogisti, alla ben nota differenziazione fra “arti del tempo” e “arti dello spazio”. Questa dicotomia è assai diffusa e spesso viene divulgata nelle università come una di quelle nozioni che non debbono più essere sottoposte ad esame. Si tratta perciò di una nozione vulgata, che però può vantare fra i suoi ancestrali persino filosofi del calibro di Immanuel Kant. Fubini considera insufficiente il ricorso a questa dicotomia ma sembra accettarla:

Il fatto che l’architettura è arte dello spazio e la musica arte del tempo non basta a spiegare perché una cattedrale romanica o gotica siano oggi sotto gli occhi di tutti, fruibili e visibili pur nella distanza temporale che le separa[no] da noi, mentre un brano di canto gregoriano o una canzone trovadorica risultino così lontane psicologicamente da noi, così difficilmente eseguibili e fruibili. (...) Una spiegazione un po’ banale e scontata, seppur /120 parzialmente vera, è che a scuola ci hanno insegnato un po’ di storia dell’arte, ci hanno letto le poesie del Petrarca e di tanti altri poeti sin dalla più tenera infanzia (...) mentre nessuno ci ha mai parlato e tanto meno ci ha fatto ascoltare con le dovute spiegazioni una Messa di Obrecht o un mottetto di Josquin. [pp.119-20; cors. mio]

In questo passaggio si mescolano più aspetti della dicotomizzazione tra i linguaggi dell’arte. Fubini fa riferimento indistintamente a differenze che riguardano, da una parte, il modo di esistenza dei linguaggi oggetto (qui, l’architettura e la musica) e, dall’altra, i metalinguaggi possibili per ciascuna. In questo modo, sembra che le arti dello spazio siano più “fortunate” rispetto alla musica sia perché dotate di una esistenza indipendente dalla durata della loro “esecuzione”, sia perché inglobate in metadiscorsi capaci di discorsivizzarle. Certo, quasi ciascuno di noi è andato almeno una volta a vedere una cattedrale gotica o romanica, mentre pochi sono quelli che sanno come e dove ascoltare (con o senza le “dovute spiegazioni”) le sonorità di Orlando di Lasso. E quasi ognuno di noi saprebbe imbastire un discorso su una cattedrale più facilmente di quanto non sappia farlo con un brano di musica trovadorica. Le cose non cambierebbero, però, neanche se al posto di Josquin mettessimo Arvo Pärt o un altro compositore contemporaneo. Non è un fatto di distanza temporale, né di distanza psicologica, come invece pensa Fubini.

La concepibilità psicologica di un oggetto simbolico è altra cosa rispetto alla sua accettabilità grammaticale o alla sua significatività in quanto oggetto simbolico.

Frasi sconnesse e malapropismi resultano spesso completamente comprensibili a prima vista, al contrario di frasi perfettamente corrette ma generate da un algoritmo.

Una lingua antica come il greco può apparire più vicina dell’inglese contemporaneo ad uno studente di buone letture. Allo stesso modo, oggetti psicologicamente improbabili come i frattali o gli infundiboli cronosinclastici sono perfettamente accessibili alla logica dei lettori di Mandelbrot o di Asimov. Neppure si può imputare l’ignoranza in musica ad un mancato imprinting nel corso dell’insegnamento scolastico—che, in molti casi, ottiene l’effetto di rendere incomprensibile e odioso anche un prodotto artistico-letterario di facile testura. Se proprio dobbiamo indicare un colpevole, io guarderei al panpedagogismo e al panpsicologismo di questi ultimi decenni. Il primo spesso didascalizza, banalizzando, il discorso dell’arte, mentre il secondo pretende di ridurre la comunicazione e la vita simbolica a fenomeni meramente mentali o funzionali. I linguaggi dell’arte—occorre ribadirlo—sono modi di vedere e costruire il mondo: ways of worldmaking, come li ha chiamati Nelson Goodman. Essi costruiscono universi a volte semplicemente possibili, altre volte in aperta contraddizione con le regole costruttive in atto nel mondo reale. Scambiare queste operazioni di simbolizzazione con delle abilità mentali o con il loro sviluppo ordinato significa non aver letto, o non aver capito a fondo, né la lezione di Gottlob Frege né quella di Edmund Husserl.22

Ma è la nozione di arti del tempo e arti dello spazio che crea confusione sia tra i filosofi sia negli educatori. E che può dare l’impressione che una storia dell’architettura sia meglio, e più spesso, conosciuta dagli studenti che non una storia della musica. Su cosa si basa questa convinzione? Sulla constatazione che un’opera pittorica sia data nella sua interezza in un momento t, mentre un’opera musicale o teatrale od orchestica siano date come intere solo in un periodo di tempo <t0, ..., ..., tn>. Etienne Souriau, in un articolo giustamente celebre sul tempo nelle arti plastiche,23 ha dimostrato che questa persuasione è falsa. Ciò che conferisce lo statuto di simbolo ad un dipinto è il fatto che qualcuno lo guardi (anche Etienne Gilson si era interrogato sul modo di esistenza delle opere pittoriche).

Questo guardare richiede un tempo di contemplazione, costituito dalla successione dei movimenti balistici dell’occhio compiuti per un periodo prolungato. Lo stesso accade quando osserviamo, p. es., una statua. La dimensione tridimensionale del manufatto obbliga lo spettatore ad una “circumnavigazione”, nella quale i vari aspetti di luce, ombra, ornato e perfino certe proprietà della materia si rivelano in successione temporale, in un modo che ricorda la costruzione di una melodia. Ma dove questo time of contemplation è maggiormente rivelatore è nella lettura di opere architettoniche. Desidero riportare il passaggio chiave della argomentazione di Souriau:

It is the same for a cathedral as for a monument. It is only by a dangerous abstraction, favored by certain habits of teaching or of technical thought, against which we must react (consideration of diagrams, of plans, and of working drawings) that one can conceive of a work of art as a totality seen in a single flash. In so far as it is offered to the sight, to the aesthetic appreciation, to the emotion or to the contemplation, the cathedral is successive: it delivers itself little by little in different spectacles which are never simultaneous. [p. 295]

Il tempo di contemplazione viene considerato da Souriau alla stregua di una esecuzione plastica, vicina, per le modalità con cui si compie, alla esecuzione di un brano musicale; con differenze solo relative alla linearizzazione—che non è fissata nella esecuzione plastica. Una cattedrale, ma anche un parco o un giardino non sono ciascuna espressione di un’“arte dello spazio”, bensì oggetti simbolici sequenziali. Qui Souriau preconizza una poetica del paesaggio che si affermerà solo qualche decennio più avanti. Come nella musica, così anche nelle plastic arts esistono diversi ordinamenti sequenziali e melodici, e dunque diversi modi di darsi del tempo nell’opera. Questo tempo, però, non va inteso come «a simple psychological time of contemplation, but of an artistic time /297 inherent in the texture itself of a picture or a statue, in their composition, in their aesthetic arrangement »24. Si tratta, in sostanza, di un tempo legato a quella che Petöfi chiamerebbe l’organizzazione testurale e composizionale dell’opera: non un tempo fisico e neppure un tempo psicologico, ma un tempo intrinseco alla costituzione di un oggetto o di un evento in quanto oggetto / evento appartenente ad un sistema simbolico.

Souriau fa poi una considerazione che ritengo assai utile alla economia del discorso presente. Il tempo intrinseco espresso dall’opera plastica non è puntuale, come quello di una cosa che è quel che è e che è sempre dove l’hai collocata. Il tempo artistico è stellar and diffluent. È, cioè, un tempo aspettualmente diverso, nel quale la “cosa” (la statua, la cattedrale) manifesta una irriducibilità alla sua materia e alla sua stessa posizione di fissità nello spazio fisico. Prendiamo una scultura dell’arte greca, poniamo la Nike o Vittoria di Samotracia. Essa, dice Souriau, è dotata di una intrinseca vita ritmica: «is surrounded by the sea, by the wind, by the waves cut rhythmically by the course of the ship». Con parole certo imprecise, diremmo che essa fuoriesce dai confini della materia per suggerire una dinamica che può essere colta dall’osservatore solo se questi ingloba se stesso nel movimento ritmico dell’oggetto della sua contemplazione:

And the genius of the sculptor is that he has given to his block of marble, to his statue, the power of arousing necessarily, immediately, powerfully all that surrounds it by means of which the absolute success is evident, but which cannot be judiciously analyzed without taking account of the relation of the block with the implicit environment that it suggests, and which gives so much breadth to the created universe (...) And one of the aesthetic secrets of this masterpiece is the choice of a prerogative moment that is still capable of keeping its relation with a long unfolding of continuous action, so that the psychological time of contemplation is enclosed within the time of the work and participates in it without effort and almost without limit. [p. 299].

L’esecuzione plastica realizza perciò un rapporto motivato tra il tempo dell’osservatore e il tempo dell’oggetto simbolico. In modo simile a quello che riconoscemmo, qualche pagina fa, nell’esempio del “tempo” del direttore d’orchestra. Salvo che, a differenza di quel caso, qui è il tempo dell’osservatore ad essere contenuto nel tempo dell’opera. In termini più tecnici si dirà che è il tempo della enunciazione ad essere inglobato nella declinazione temporale dell’enunciato plastico. Se, in sostanza, il direttore d’orchestra faceva suo il tempo dell’opera soprattutto nel momento in cui—correggendolo gestualmente—ne prendeva le distanze, l’osservatore della Nike partecipa del tempo dell’opera soprattutto quando prende le distanze dal suo tempo psicologico per aderire al tempo e allo spazio dell’enunciato plastico. Dovremo allora concluderne che il direttore d’orchestra e lo spettatore attivo di un’opera plastica realizzano in modo inverso la relazione tra linguaggio oggetto dell’opera e metalinguaggio gestuale? Penso che solo superficialmente appaia così. Di fatto, ciò che l’uno e l’altro fanno dinanzi ad un’opera, musicale o plastica, è reagire distaccandosi dai rispettivi vissuti psichici: il direttore prende le distanze dal mero contenuto dei suoi atti uditivi emendandoli con il gesto; e lo spettatore della Nike fa lo stesso coi propri Erlebnisse visivi, per lasciare la parola alle cose stesse. Tutta l’arte plastica tende, come rileva Souriau, a “suggerire un tipo di equivalente del ritmo mediante la permanenza di un campione genuino che accenna questo ritmo ma non lo esibisce nella sua interezza” [cfr. p. 304]. Seguendo Goodman, direi che tutta l’arte—e non solo quella plastica—ha un carattere esemplificazionale, poiché mette in gioco meccanismi di riferimento basati sulla relazione tra certi samples o campioni e certi labels o etichette. Ed è certamente un fatto esemplificazionale il ritmo solo accennato dal panneggio della Nike o dalla bacchetta del direttore d’orchestra.

Non ci sono dunque arti del tempo come la musica e arti dello spazio come la scultura o l’architettura. Il tempo, sia pure diversamente declinato, è parte di ogni sistema simbolico e non è prerogativa di nessuno di essi in particolare. Piuttosto, va fatta un’altra considerazione. Ogni arte mette in gioco un discorso dell’opera e un discorso sull’opera, un piano della oggettività e uno della soggettività, ma diverso è il modo di esistenza che può ogni volta manifestarli come inerenti l’uno all’altro senza fusionarli. Tutto accade come se la materia stessa fosse dotata di una soggettività allo stato di latenza; una soggettività che costituisce il lógos stesso delle cose. Essa, però, non può essere rivelata se non quando viene presa in carico da un’altra soggettività, quella dell’uomo. Che si esegua un’opera musicale o un’opera plastica, la performance altro non è che il punto di incontro fra il lógos delle cose—il discorso della materia—e il discorso sulla materia che uno o più soggetti umani performers producono in presenza di altri soggetti (umani, ma non solo) coi quali si trovano in relazione responsionale.

5. Tempo sequenziale e tempo logaritmico: un criterio di storicità?

Tutte le arti sono linguaggio e tutte sono—quale più quale meno—“arti del tempo”; ma ciò non vuol dire che tutte vadano o possano essere storicizzate alla stessa maniera. Fare la storia di un linguaggio dell’arte significa molto spesso creare una cornice metalinguistica adeguata al linguaggio oggetto che si intende studiare. E, come abbiamo cercato di mostrare, ci sono cornici che possono solo circoscrivere un quadro e ce ne sono altre che hanno il potere di magnificare proprio gli aspetti del quadro che uno vorrebbe mettere in evidenza. Quando non è un pezzo di legno scelto a caso, la cornice è un meccanismo del riferimento esemplificazionale.

Ora, l’idea che lo studente universitario sappia descrivere un’opera figurativa meglio di una musicale può contenere una qualche verità, ma non quella cui si pensa di solito. Per lo più la scuola diffonde la persuasione che costruire cornici sia faccenda che riguarda i corniciai ma non i quadri. Si tratta di una antica persuasione, nata nelle scuole di retorica di epoca ellenistica, dove si educavano gli studenti a parlare di qualsiasi argomento applicando indifferentemente a qualsiasi tema un certo numero di risorse sofistiche. La scuola occidentale ha importato questo ricorso alle “topiche” e ne ha fatto la sua ideologia pedagogica dominante. Per secoli essere colti ha voluto dire saper fare delle cornici: storiche, critiche, filosofiche, morali. Il sapere stesso veniva misurato in base alla estensione più che in ragione della profondità. Il punto di massima espansione di questa sofistica pedagogica si è toccato nel secolo passato, quando la semiotica e l’antropologia strutturale han creato la persuasione che una stessa cornice teorica potesse descrivere tutti i testi e tutti i discorsi del mondo, riducendoli ad una semplice combinatoria di pochi elementi.

Di per sé, il principio di ricondurre la varietà fenomenica del reale a un discorso sistematico non è sbagliato. Quel che conta è però stare a sentire se le cose di cui parliamo non abbiano esse pure da dirci qualcosa. Ed è proprio questo che il corniciaio moderno vuole ostinarsi a negare. Emblematico in tal senso il percorso dello storico Michel Foucault, scomparso nel 1984. Egli ha indagato la presenza nella Storia di una volontà di sapere che controlla le pratiche discorsive nelle varie “società del discorso”.25 Secondo Foucault, un sapere è un collante capace di legare fra loro certi membri di una società, presentandoli come differenti rispetto a tutti gli altri sulla base dei discorsi che essi accettano come veri e respingono come falsi. Gli individui sono così messi in relazione a delle pratiche discorsive e a certi modi della enunciazione. La loro soggettività si costruisce e si declina come soggezione, assoggettamento (secondo uno di quei giochini di assonanze tanto cari ai sémiologues). Da che cosa dipende la verità di un discorso? Secondo Foucault, non da come sono le cose. Queste non hanno nulla da dirci, non mostrano mai—come, invece, teorizzava Alfred Whitehead—un lesbares Gesicht che permetta all’uomo di convocarle come suoi partenari nella conoscenza e nella pratica del mondo.26 Anticipando molti argomenti dell’attuale relativismo culturale, sostiene lo storico francese che «occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una pratica che imponiamo loro».27

Se non c’è alcun lógos che le cose abbiano da comunicarci, se non c’è alcuna latenza della materia che esse possano rivelarci, allora il discorso sulle cose non esiste più, ma tutto diventa discorso sul discorso sulle cose. Il piano metalinguistico finisce col negare l’esistenza stessa (o la possibilità logica) di una lingua oggetto, di un discorso sulle cose cui partecipino le cose stesse. Secondo questa ideologia, la musica, le arti, sarebbero cornici discorsive che circoscrivono il vuoto e, dunque, si offrono di arrangiarlo come più conviene alla società del discorso. Una cornice non vale perché conserva una verità intima delle cose, ma solo perché più ricca di altre cornici quanto a risorse metalinguistiche. Sembra di riascoltare gli argomenti con cui il filosofo scettico greco, Sesto Empirico, cercava di dimostrare che la musica, il suono, il tempo non esistono, ma sono frutto di una stipulazione semantica (cfr. Adv. mus. vi).

Il tempo va pian piano facendo giustizia di queste mode e dei loro sofismi. E noi possiamo sperare che la ragione torni a cancellare i mostri che il suo sonno aveva generato. Proprio perciò ritengo che Fubini sia (a torto) ottimista quando [a p. 117] si illude che i nostri studenti sappiano parlare delle arti plastiche. Essi—sto generalizzando—hanno imparato o forse solo assorbito questa pedagogia relativista, che insegna a incorniciare le cose senza mai interrogarle o starle a sentire. E riescono a farlo meglio con un dipinto o con una cattedrale piuttosto che con un brano di musica. Ma ciò accade perché la musica offre al metadiscorso una resistenza che gli altri linguaggi, da più tempo assoggettati a pratiche discorsive “violente”, non possono più opporre. Ma, d’altro canto, ritengo che Fubini abbia torto ad essere pessimista, quando lamenta una presunta “debolezza” della musica rispetto alle altre arti. Al contrario, la musica è la più forte tra le arti, dal momento che non si lascia incorniciare così facilmente. In primo luogo, perché—come riconosce lo stesso Fubini—per secoli «la musica è stata un’arte priva della coscienza della propria storicità, coscienza che acquistò solo in tempi molto recenti» [p. 120]. Poi, perché il rapporto che la materia musicale istituisce con i suoi possibili metalinguaggi conserva alcuni aspetti rilevanti del nostro passato tribale. In particolare, si sono finora conservati nella musica i tratti della codifica endosomatica che prima appartenevano a tutte le arti, poiché tutte le arti erano in origine intrinsically coded. Il presunto “isolamento” della musica non è un fatto originario, ma l’effetto della persistenza di un carattere, che tutti i sistemi simbolici avevano, e che molti di essi hanno poi perduto. In parole semplici: non è la musica che si è fatta da parte; sono gli altri linguaggi che si sono detribalizzati.

Il fatto che uno studente sappia reagire discorsivamente dinanzi alla fotografia di un manufatto pittorico o plastico dimostra soltanto che la storia dell’alfabetizzazione è andata in modo da specializzare il senso della vista depotenziando gli altri, in particolare l’udito. Con le parole di Marshall McLuhan: «civilization gives the barbarian or tribal man an eye for an ear»28. Partendo da questa condizione di squilibrio sensoriale l’uomo alfabetizzato ha costruito una gerarchia tra i linguaggi. E ha potuto farlo grazie a quella pedagogia retorizzante di cui parlavo prima, e che ha trovato il suo strumento di diffusione nella scuola, verbocentrica e grammaticalista. Essa ci ha educati alla persuasione che conoscere qualcosa equivalga al saperne parlare ad altri. L’idea, cara agli Antichi, che il discorso debba essere adeguato alla materia è stata per secoli considerata un precetto stilistico: la cosiddetta Ruota Vergiliana degli stili ne è un esempio. Di fatto, questa “adeguatezza” (in greco, tò harmòtton) andrebbe considerata anche nel pensiero degli Antichi un requisito di correttezza formale che spinge a non travalicare le risorse espressive di un linguaggio oggetto da parte di un metalinguaggio. La scuola ha indotto anche la persuasione che la conoscenza di un sistema di notazione (un alfabeto, un linguaggio semiografico, etc.) potesse sostituirsi alla conoscenza delle cose stesse. Essa ha privilegiato una pedagogia orientata alla produzione e alla interpretazione di scores exosomatici.

Ora, è proprio questa logica exosomatica della cultura che la musica in tempi recenti tende a rigettare, poiché la musica è—lo ripeto—custode di una ratio concernente sia il discorso della materia sia il discorso sulla materia. Un rapporto che si tende oggi a ripensare, come effetto della ritribalizzazione di certe forme della cultura: il rock giovanile, la musica popular, le contaminationes etniche dovute alle migrazioni di popoli. Questa ratio potremmo chiamarla euritmìa. Essa è stata teorizzata, per la prima volta come fatto linguistico, dal filosofo greco Plutarco di Cheronea nel testo di una sua conferenza dedicata all’arte dell’ascolto. Anticipando tutte le estetiche della ricezione e le teorie interpretative reader-oriented, Plutarco assimila la corretta disposizione all’ascolto alla euritmia che si genera nel movimento dei giocatori di sfera: «Nel giocare a palla lanciata il movimento di chi riceve deve avvenire in modo euritmico (eurhýthmos) con quello di chi lancia; così pure nei discorsi vi è una qualche euritmìa nel parlante e nell’ascoltatore, se l’uno e l’altro custodiscono il ruolo che a ciascuno compete» (De audiendo, 45e5). È grazie alla euritmia che il direttore d’orchestra può inglobare il discorso sonoro ma anche distanziarsene; è grazie alla euritmia che lo spettatore della Nike di Samotracia può uscire dal suo presente psichico per partecipare del movimento che l’artista ha impresso alla scultura. L’euritmia è la partecipazione del discorso sull’arte al discorso dell’arte, un andare a tempo del linguaggio oggetto e del metalinguaggio nell’utilizzo delle risorse espressive “adeguate”.

Non tutti i saperi pensano la propria storicità alla stessa maniera. La storia della medicina non aiuta il chirurgo a ricucire meglio un aneurisma; né la conoscenza dell’astrologia giova a un astronauta che affronti un volo nello spazio. Ma la conoscenza della storia della filosofia antica è generalmente utile al professore universitario che studia i contemporanei Davidson o Heidegger, e, senza il canto gregoriano, non avremmo compositori come l’estone Arvo Pärt. In ogni caso, è difficile tracciare una linea divisoria fra ciò che è storico solo perché appartiene al passato di una disciplina artistica e ciò che è storico perché sempre imprescindibilmente attuale. Le teorie di Platone hanno grande interesse per uno storico della filosofia ed offrono argomenti ancora oggi validi per ripensare le questioni filosofiche. Lo stesso potrebbe dirsi del diritto romano e della sua storicità. Mentre le teorie numeriche di Pitagora appartengono più alla storia della matematica che a quella della musica, e, di solito, non influenzano la musica, così come essa può essere concepita ed eseguita attualmente.

Ritengo che lo sviluppo di un discorso storico sulla musica debba passare attraverso una ricognizione delle risorse logiche contenute in altri linguaggi, ma specialmente nel linguaggio gestuale. Di esso sappiamo ancora poco: sappiamo che è antico, che è presente in ogni civiltà umana, che esiste nel mondo animale, che è adoperato a fini rituali, agonistici, mimetici o estetici; e che è ritenuto talmente importante da essere inibito, o proibito affatto, in certi contesti culturali. Sappiamo che una buona parte della significatività di altri sistemi simbolici dipende dalla presenza di espressioni prassiche e gestuali. Cosa ha di tanto interessante il linguaggio gestuale per la storicità della musica?29 Il fatto che sia coinvolto sia nel discorso della musica sia nei discorsi sulla musica ne fa un ottimo tertium comparationis quando si vogliano mettere a confronto le risorse espressive del discorso musicale con dati e risorse di contesti non musicali. Non esiste praticamente attività umana che non comporti una forma di codifica gestica (questo termine è di Charles Morris).

Ma, soprattutto, le espressioni gestuali contengono il tempo: un tempo diversamente declinato e diversamente scandito. Torna utile a questo proposito la riflessione del logico polacco L. Bielawski, il quale ha esaminato a fondo due accezioni della nozione di “tempo” che sono coinvolte in modo specifico nelle pratiche musicali.30 La prima nozione interessante è quella di tempo come “periodo”: noi definiamo in tal modo una qualunque successione di istanti contigui idealmente disposti su una linea che collega il passato al futuro. Questa nozione la troviamo in ogni forma di vita umana. In termini più tecnici, un periodo costituisce un asse di relazioni sintagmatiche tra gli elementi che ne fanno parte. La seconda nozione è quella di “durata”, nel senso in cui diciamo che più “periodi” possono avere una durata uguale o differente. Questa nozione introduce nel discorso sul tempo una qualità differente: se il periodo è il tempo sintagmatico della successione, la durata è il tempo logaritmico caratterizzato dalla frequenza e non dalla linearità. La durata è astraibile dal periodo e, diversamente da questo, è computabile in modo intrinseco. I valori musicali delle note e delle pause sono valori di durata, la cui scala logaritmica può essere applicata ad eventi di “periodo”, cioè di estensione fisica o psichica o simbolica differente.

FIGURA 2 [da Bielawski, p. 177]

La classificazione di Bielawski (che vediamo nella FIGURA 2) trae spunto da una analisi del logico polacco K. Ajdukiewicz. Essa suggerisce che ogni evento della vita naturale o simbolica abbia una doppia declinazione: come tempo sintagmatico e come serie logaritmica. E, poiché la durata è la dimensione del tempo che più si avvicina al tempo musicale, si può affermare che, anche fuori della musica stricto sensu, si dà musica, perché si dà tempo in senso musicale. Bielawski individua poi nella vita umana ben sette zone di tempo che vanno dal quantum minimo (pari a 10-24 secondi di durata e 1024 Hz di frequenza) al quantum massimo di tempo immaginabile: una durata di 1018, convenzionalmente pari alla dimensione temporale del cosmo. Di queste sette zone che caratterizzano la vita e l’esistenza umana tre sono particolarmente importanti per la musica. Quella in alto è la zona del tempo in cui è percepibile l’altezza dei suoni: da quelli più acuti (0,16 microsecondi) a quelli più gravi (41, 2 microsecondi). La zona centrale configura il tempo della apprensione consapevole del suono come evento o vissuto psichico. Esso comprende come soglia inferiore l’istante più breve nel quale è consapevolmente sentito il suono (82, 4 microsecondi) come soglia superiore la durata della più lunga unità musicale “memorizzabile” (10, 5 secondi). La terza zona è quella del tempo di una performance, ossia quella che misura e scandisce periodi e durata delle composizioni musicali, dalla musica popolare alle canzoni e dalla danza fino alle opere liriche—grosso modo, da un tempo di pochi secondi fino a uno di circa tre ore.

Cosa può dirci questa organizzazione del tempo? La figura ha valore universale, perché le tre zone prese in esame da Bielawski sono presenti in ogni attività ed espressione del linguaggio musicale umano. La zona del suono udibile caratterizza il suono come evento fisico o come oggetto indistinto; la zona del presente psichico rappresenta la musica come Erleben (o Nacherleben nel caso della appercezione empatica). Infine, la zona delle performances ricorda che il tempo della musica ha una dimensione sociale. Ciascuna zona è doppiamente codificata. La doppia classificazione—sintagmatica e logaritmica—può consentire di mettere a confronto questi tempi “intrinseci” al discorso musicale con altri tempi presenti in attività diverse dalla musica. In questo modo, le successioni temporali di ogni attività umana potrebbero essere messe in rapporto con le forme di organizzazione del tempo frequenziale, dando vita a coppie di particelle costituite da frazioni del “tempo sintagmatico” e dalle loro traduzioni più appropriate nel linguaggio del “tempo logaritmico”. Si creerebbe così una possibile forma logica per esaminare e portare alla luce il tipo di “ritmicità” presente nelle più disparate quantità di tempo inanalizzato. La storicità della musica potrebbe allora essere immaginata come la formazione di enunciati in un qualche linguaggio logico che assegnano ad ogni frammento di tempo dato nel linguaggio sintagmatico un suo equivalente (una sua traduzione) nel linguaggio logaritmico, e viceversa. Ora, poiché il tempo sequenziale può darsi in molti modi (tempo fisico, tempo psichico, tempo antropico, tempo ecologico, etc.), anche il tempo frequenziale può tradurre ogni volta un aspetto differente in modi differenti salva veritate. La doppia codifica del tempo metterebbe in relazione la musica col suo esterno, la scala logaritmica con la successione sequenziale degli eventi mondani.

C’è un punto in cui però vorrei distanziarmi da Bielawski. Nella sua concezione l’aspetto centrale è il presente psicologico: la sua è una concezione agostiniana del tempo. Tuttavia—come si è visto nell’esempio della Nike di Samotracia—la partecipazione dello spettatore alla temporalità espressa dall’enunciato plastico non può avvenire senza che costui rinunci ai propri vissuti psichici: solo così, le cose possono rivelare i loro lógoi e il metalinguaggio farsi carico del linguaggio dell’opera d’arte. Pertanto, ritengo che l’idea di Bielawski vada modificata, privandola della sua componente psicologistica. Introdurre nella teoria elementi mentalistici, come accade al logico polacco, è sempre pericoloso, perché non si sa mai come maneggiare un oggetto intensionale. Ma, a parte questo caveat, mi pare che il criterio della doppia codifica del tempo possa essere produttivo per dare vita a delle cellule di tempo da cui far scaturire idee sulla storicità della musica che abbiano realmente a che fare con la natura intrinseca della musica, e non siano, come spesso capita di vedere, dei banali pretesti per parlare della musica impedendo che essa parli a noi.

(Università di Macerata)


Note

1 E. Fubini, “Storia, storia della musica, pedagogia della musica”, in M. Boni (ed), Una riforma incompiuta: gli studi musicali al bivio (Atti del convegno nazionale della Società di Analisi Musicale, Reggio Emilia 7-8 ottobre 2005), Reggio Emilia 2006, pp. 105-117.
2 Una buona panoramica sullo stato dell’arte, con originali proposte teoriche si trova in A. Garbuglia, La comunicazione multimediale e la musica. Presupposti teorici e proposte analitiche, Diss. dottorale, Università di Macerata, 2005, mimeo.
3 Cfr. Conf. XI
4 Cfr. di chi scrive, “Some priorities for a semantic-free definition of languagehood”, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Macerata, XXXVII (2004), pp. 223-247.
5 Cfr. di chi scrive “Osservazioni sul significato della musica”, relazione al Convegno su “Approcci semiotico-testologici ai testi multimediali”, Università di Macerata 16-18 ottobre 2000; ora in A. Garbuglia – J- S- Petöfi – M. La Matina (eds), Quaderni di ricerca e didattica, XXVII, 6(2006), pp.27-50.
6 Cfr. N. Goodman, Languages of art, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1968, p. 136 ss.
7 Una discussione accurata dei termini ‘senso’ e ‘significato’ in musica è quella offerta da G. Piana, Filosofia della musica, Guerini & associati, Milano 1991, cap. IV.
8 Per la contrapposizione “Tribale” / “Citazionale” debbo rimandare al mio Cronosensitività. Una teoria per lo studio filosofico dei linguaggi, Carocci, Roma 2004.
9 Sul processo del “questionare” nella tecnica filologica e nella teoria dell’editor, cfr. il mio, Texts, pictures and scores. Some aspects of a philosophy of languages, Peter Lang, Frankfurt – Wien 2002 p. 249-70.
10 Cfr. il capitolo “L’enigma della citazione” nel mio, Il problema del significante. Testi greci fra semiotica e filosofia del linguaggio, Carocci, Roma 2001, pp. 191-250.
11 Cfr. N. Goodman, Ways of Worldmaking, Hackett, Indianapolis – Cambridge 1978; e di chi scrive, “Esemplificazione, Riferimento e Verità. Il contributo di Nelson Goodman ad una filosofia dei linguaggi”, in E. Franzini e M. La Matina (eds), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi. Atti del Convegno in ricordo di Franco Brioschi (Macerata, 6-8 maggio 2005), Quodlibet, Macerata, in corso di stampa.
12 Cfr. De magistro, 1, 2.
13 Per la citazione in termini di naming e containing, cfr. N. Goodman, “Some questions concerning quotation” in Id., Ways of Worldmaking, cit., pp. 41-56. Sugli aspetti prosodici ed esemplificazionali del citare si veda anche, di chi scrive, “Esemplificazione, riferimento e verità”, in E. Franzini e M. La Matina (eds), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi, cit.
14 Sugli aspetti notazionali di una concezione della musica, altre al già citato Goodman, cfr. M. de Natale, La musica come gioco. Il dentro e il fuori della teoria, Peter Lang, Frankfurt – Wien 2004, spec. pp. 101-126 e 136-52.
15 Per questa accezione di score nell’ambito di una teoria della notazione cfr. N. Goodman, Languages of art, cit., cap. 4.
16 Cfr. N. Harnoncourt, Musik als Klangrede. Wege zu einem neuen Musikverständnis. Essays und Vorträge, Residenz, Salzburg – Wien 1982.
17 Ho teorizzato la distinzione fra “identità compitazionale” e “identità amnestica” ne Il problema del significante, cit., p. 246 s.
18 Per gli intrinsically coded acts e il loro rapporto con la codifica endosomatica mi permetto di rimandare al mio Cronosensitività, cit., pp. 95-98, 138-50 e passim.
19 Cfr. il mio “What is a philosophy of languages about? Symbols Time Otherness”, in Rivista Italiana di Linguistica e Dialettologia, VI (2004), pp. 9-39.
20 Anche per una discussione sul tempo e la storicità della musica appare interessante il quadro teorico di V. Caporaletti, il quale riflette sul cosiddetto “principio audiotattile” proprio delle culture a oralità primaria e ne trae interessanti spunti per un ripensamento epistemologico. Si veda in prop. Id. La definizione dello swing. I fondamenti estetici del jazz e delle musiche audiotattili, Ideasuoni, Teramo 2000.
21 Critiche al modello teorico implicito di tale pedagogia si trovano in de Natale, La musica come gioco, cit. pp. 263 ss. e, più specificam. in Id. “La SIdAM dentro e fuori la riforma”, in M. Boni (ed), Una riforma incompiuta, cit. pp. 15 ss.; vd. anche Garbuglia, Petöfi, La Matina (a cura di), Quaderni di ricerca e di didattica, 3, cit., passim.
22 Un eccellente quadro storico del dibattito epistemologico di quel periodo, con puntuali precisazioni teoretiche è quello offerto da E. Picardi, La chimica dei concetti. Linguaggio, logica, psicologia 1879-1927, il Mulino, Bologna 1994.
23 E. Souriau, “Time in the plastic arts”, in Journal of Aesthetics and Art Criticism, 7(1949), pp.294-307.
24 M. McLuhan, The Gutenberg Galaxy. The making of typographic man, Univ. of Toronto Press, Toronto Buffalo London 1962 (rist. 2002 da cui cito), pp. 296-7.
25 M. Foucault, L’ordre du discours, Seuil, Paris 1977; trad. it., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1980.
26 Una sensata critica delle posizioni di Foucault viene condotta su questi punti dal filosofo Robert Spaemann, in Das Natürliche und das Vernünftige: Essays zur Anthropologie, Piper, München und Zürich 1987; ora in Id., Natura e ragione. Saggi di antropologia, Pontificia università della Santa Croce, Roma 2006, pp. 19-39. Per l’espressione lesbares Gesicht, vd. p. 106.
27 M. Foucault, L’ordine del discorso, cit. p. 41.
28 Cfr. The Gutenberg Galaxy, cit., p. 26.
29 Non è questa la sede per indagare sui rapporti fra suono e gesto. Il punto in discussione è se la gestualità possegga proprietà notazionali e qui ci giova menzionare lo studio di de Natale, La musica come gioco, op. cit., pp.76 ss.
30 L. Bielawski, “The zones of time in music and human activity”, in J. T. Frazer, N. Lawrence and D. Pak (eds), The study of time,. IV, Springer, New York 1981, pp. 173-79.

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