AMALIA COLLISANI, La musica di Jean-Jacques Rousseau, Palermo: l’Epos, 2007 (Harmonia mundi, 2), 354 pp., € 34,80, ISBN 978-88-8302-246-3.

Recensione a cura di
Federico Lazzaro



Amalia Collisani, affezionata frequentatrice di Rousseau, gli (e ci) regala una biografia intellettuale piacevolissima. Un libro che ha un punto di forza nella pluralità dei livelli di lettura possibili: lo si inizia a leggere con la scorrevolezza di un romanzo, e si può continuare a farlo per buona parte dei capitoli. Ma si può anche leggerlo in modo documentato, allungando l’occhio sul testo originale in francese delle numerose (ma ben calibrate) citazioni e consultando gli studi di volta in volta citati, commentati, discussi. E lo si può leggere integralmente o antologicamente: i concetti fondamentali vengono spesso ribaditi e i rimandi in nota permettono di recuperare agilmente i passaggi necessari alla comprensione o alla contestualizzazione di una tappa del pensiero o della vita del filosofo. Vita e pensiero che sono strettamente collegati dal trait d’union della musica: questa potrebbe essere la sintesi del progetto della Collisani. D’altronde, il tipo di biografia “vita e opere” è già stato superato da un pezzo: anche se ogni tanto, specie per i compositori, si ritiene che per parlare della loro ‘opera’ sia necessario un linguaggio tecnico inadatto a mescolarsi con le vicende terrene (si ribadisce così il carattere ‘geniale’ dell’attività compositiva, non senza un certo imbarazzo per il lettore più aggiornato). Ma, si diceva, non è questo il nostro caso: «mi schiero infatti con coloro che ritengono che il pensiero di Rousseau non possa essere separato dalla sua esperienza» chiarisce da subito la Collisani (p. 23; purtroppo non ci dice di più sull’identità di coloro con cui è d’accordo: ma aveva premesso che «decisamente insufficienti sono le citazioni della letteratura esegetica per l’impossibilità, data la sua vastità, di dar conto del dibattito scientifico, senza trasformare profondamente la struttura e l’obiettivo del lavoro», p. 15).

Il I capitolo, Jean-Jacques e Rousseau, mostra proprio come l’esigenza di unire pensiero (filosofico e musicale) e vita fosse già ben presente in Rousseau, e tratteggia alcuni punti chiave di forte simbiosi tra le due dimensioni: punti chiave che sono le «rotture» («catastrophes») che scandiscono la vita del filosofo. E la rottura è uno dei principali Leitmotiv della biografia rousseauviana: una dialettica costante tra i suoi diversi modi di essere (da una parte intrattabile, depravato, misantropo, plagiario, dall’altra riflessivo, mite, sensibile, onesto) tra i quali neanche lui sapeva determinare quale fosse il ‘vero’ Rousseau; una dialettica tra la sua filosofia della musica e la sua tecnica compositiva (che spesso si contraddicono), e generalizzando tra intenzioni e risultati (emblematica la sua attività di copista che dava risultati spesso imbarazzanti nonostante la cura che egli confessava per questo lavoro che sentiva un’investitura privilegiata).

Il carattere romanzesco del libro (che ci ha appena regalato un protagonista dalla personalità multipla e dalla vita tumultuosa) prosegue nel II capitolo, in cui le Prime esperienze musicali che gli danno il titolo sono con felice sorpresa accostate alla «sfera di rapporti col femminile, odiosamati» (p. 40).

Ecco che la musica, questo fil rouge solidissimo e sfaccettato che attraversa la vita del filosofo, inizia a presentarsi nelle diverse forme che l’hanno impegnato: copista, compositore, insegnante, teorico, filosofo della musica. Per la stretta interdipendenza e compresenza di queste attività intorno alla musica nella vita di Rousseau, Amalia Collisani sceglie di non trattarle separatamente: avrebbe potuto organizzare il libro con capitoli del tipo “Rousseau copista”, “Rousseau compositore”, ecc. Privilegia piuttosto un criterio cronologico che tematizza di volta in volta un concetto che emerge dal principale lavoro di Rousseau in un determinato periodo e lo mette in relazione con gli altri scritti, o con le modalità in cui tale concetto viene sviluppato sul versante compositivo, in modo da delineare l’evoluzione del pensiero rousseauviano. La materia pur abbondante è evidentemente conosciuta in profondità dall’autrice che non si limita a parafrasare e commentare le singole opere una dopo l’altra, ma le integra, le compara, sa ripescare in ognuna il passo che si riferisce al particolare concetto che sta tematizzando. Così il III capitolo, Un lavoro straordinario, è incentrato sugli articoli musicali che Rousseau scrisse nel 1749 per l’Encyclopédie; in particolare viene tematizzato il rapporto di Rousseau con la teoria armonica di Rameau: a partire dagli articoli per l’Encyclopédie, confrontandoli con le revisioni di d’Alembert, con le corrispondenti voci del Dictionnaire de musique (proprio per questo virtuosismo rapsodico nella trattazione delle fonti non sarebbe dispiaciuta una cronologia degli scritti di Rousseau citati). È evidente che un simile modo di procedere non fornisce una trattazione esaustiva di ogni singolo concetto esposto nella vastissima produzione teoricofilosofico- musicale di Rousseau: la Collisani dichiara apertamente nell’Introduzione che ha scelto di anteporre «la chiarezza alla completezza» (p. 15); il pregio di un simile metodo è che si evidenziano davvero delle costanti che attraversano la riflessione di Rousseau sulla musica, emergono dalla copiosità degli argomenti trattati alcuni ‘chiodi fissi’ che costituiscono i fulcri del suo studio: l’opposizione alla presunta naturalezza dell’armonia sostenuta da Rameau, il carattere di ‘discorso’ – e quindi l’importanza della componente significativa – della musica, il principio dell’unité de mélodie, le differenze tra musica francese e italiana (e superiorità di quest’ultima), «la relazione tra natura e arte, verità e finzione, espressione e rappresentazione » (p. 235).

Il IV capitolo ha come fulcro non un concetto ma un’opera: Le Devin du village. Il che porge il destro alla disamina della posizione di Rousseau all’interno della querelle des bouffons; si indaga la maturazione della sua posizione antifrancese fino alla definitiva Lettre sur la musique françoise (1753). È qui che la Collisani dimostra la prima parte della sua tesi secondo cui «Rousseau, pur mancando l’incontro con lo stile classico della scuola viennese, ne [ha] individuato le qualità che avrebbero fatto della musica l’oggetto della metafisica romantica e, ancora oltre, il linguaggio dell’interiorità soggettiva liberato dalle imposizioni delle convenzioni e del materiale» (p. 14): infatti il principio della musica italiana, l’unité de mélodie, non è altro che la rivendicazione di una capacità del materiale musicale di autostrutturarsi in un «discorso» che non dipende dal testo verbale né si basa sulla semplice applicazione delle regole armoniche (come rimproverato a Rameau), ma che deve la sua autonomia al legame tra le sue componenti ritmiche e armoniche; la musicalità della lingua (che viene categoricamente negata al francese) «non è utile, come forse ci aspetteremmo, a dettare gli accenti e i modi del canto, ma in quanto permette al compositore, grazie alla sua flessibilità, la più ampia possibilità di strutturare melodie adatte alle diverse situazioni drammatiche» (p. 101). In breve: «separazione concettuale e formale dei luoghi del senso da quelli del suono, realismo dei primi, coerenza strutturale dei secondi» (p. 115). Come questo principio venga (o non venga) applicato nella composizione del Devin du village è oggetto dell’ultima parte del capitolo e del successivo Fai musica francese!.

I due capitoli che seguono argomentano la seconda parte della tesi che ho citato prima, cioè che Rousseau abbia «individuato le qualità che avrebbero fatto della musica […] il linguaggio dell’interiorità soggettiva liberato dalle imposizioni delle convenzioni e del materiale». Si richiama in causa quella valenza erotica della musica che era ben viva nella biografia musicale di Rousseau già dalle prime esperienze che, come si è visto, erano collegate al gentil sesso; il compositore scriveva preso da «improvvisa e irrefrenabile ispirazione» (p. 53), specie notturna, quasi da sogno erotico; il filosofo ritiene l’eros, «desiderio di condividere gli affetti», responsabile d’aver «strappato alla gola i primi suoni sensibili»: «fu il sentimento, non la ragione ad articolare i primi suoni con cui l’uomo disse se stesso» (p. 149); inoltre il principio del piacere e il principio dell’espressione, il linguaggio delle origini e le convenzioni culturali che permettono la comunicazione intersoggettiva «si confondono nell’amore come nella musica», e «le inflessioni melodiose che questa eredita dal primo linguaggio ne conservano la carica erotica e la sincerità» (p. 157). Queste riflessioni sono sviluppate da Rousseau soprattutto nel
Discours sur l’origine et les fondemens de l’intégrité parmi les hommes e nell’Essai sur l’origine des langues (entrambi del 1755), saggi fulcro del VI capitolo, L’origine. Nel capitolo successivo, Un’altra origine, continua l’esplorazione del pensiero sulla musica legato all’origine degli uomini, e in particolare si sposta lo zoom dall’idea generale di «uomo naturale» a quel ‘primitivo’ specifico che è l’antica Grecia. «Il modo di parlare dei Greci antichi, che fa scivolare la voce tra le altezze con diverse durate sillabiche, è per lui l’immagine storica più somigliante alla sua idea di linguaggio arcaico […] mosso melodicamente da inflessioni significanti» (p. 164); ma l’uomo moderno non può più godere della musica greca: è una posizione di ‘relativismo culturale’ piuttosto forte: «in ogni musica, come in ogni lingua, decifrare e leggere sono due cose molto diverse» (p. 172), e ancora «la verità, sebbene una, cambia forma secondo i tempi e i luoghi» (p. 175). Tali affermazioni, tratte qua e là dagli scritti del filosofo in un fecondo lavoro di sintesi, dimostrano il corollario che la Collisani aveva affiancato a quella tesi iniziale bipartita: «questo sguardo lungo che riconosco a Rousseau sta sul versante opposto del nostalgico rimpianto del passato che gli viene spesso attribuito» (p. 14). Anzi, accanto alla consapevolezza dell’impossibile recupero fruitivo di un prodotto culturale nella mutate condizioni storiche ed estetiche, Rousseau ha uno slancio ottimistico: così come l’uomo greco seppe ricrearsi una condizione felice pur dopo la rottura dell’altrettanto felice condizione dell’uomo naturale, così anche oggi è possibile «un’altra origine», «riparare i guasti inferti alla natura dalla cultura, utilizzando appropriatamente [e molto illuministicamente] gli strumenti che la cultura ci offre: la conoscenza e la virtù» (p. 175); compito che (romanticamente) spetta al «genio». Che Rousseau si sentisse tra questi eletti non è certo un colpo di scena nel nostro romanzo. E la sua opera ‘rivoluzionaria’ con cui vuole dare una «nuova origine» al teatro musicale è Pygmalion, il melologo cui è dedicato il X capitolo. Ancora una volta l’analisi dell’opera, lungi dall’essere fine a se stessa, si fonde brillantemente con l’indagine sul pensiero filosofico-musicale di Rousseau: il mito di Pigmalione è incentrato su quel tema chiave del pensiero di Rousseau che è il rapporto tra natura e cultura, verità e finzione; se Ovidio mette l’accento sulla componente erotica della vicenda dell’artefice la cui statua prende vita, Rousseau sottolinea che l’arte non deve mentire spacciandosi per natura (come voleva Rameau). E la concezione ‘classica’ della musica riappare nella constatazione che il sacrificio del canto a favore della semplice recitazione accompagnata dalla musica è sintomo della «maturata fiducia nelle potenzialità espressive della musica strumentale » (p. 132) capace di costruirsi come discorso autonomo (cosa che però, commenta la Collisani, non si realizza in pratica nella scadente composizione di Coignet per il testo rousseauviano).

Ma abbiamo lasciato indietro VIII e IX capitolo. Se quest’ultimo, Il teatro, è il dovuto prodromo alla riforma proposta col Pygmalion (e al suo rapporto negativo con quella gluckiana), il precedente ha un titolo che trae in inganno: L’arte del musicista. Ci si aspetterebbe una parentesi dedicata all’attività compositiva o didattica o eventualmente esecutiva di Rousseau, e invece è tra le parti più concettualmente dense del libro. Si esplorano concetti della filosofia della musica quali l’emozione (che in musica, per Rousseau come due secoli dopo per Meyer, è determinata dai meccanismi di attesa, dalle «aspettative» che la strutturano in quanto arte del tempo) e l’imitazione (non degli oggetti fisici ma dei moti interiori: la musica – capace di «descrivere le cose che non si possono dire, mentre è impossibile al pittore poter rappresentare quelle che non si possono vedere» [p. 200] – ricrea le condizioni che ci suscitano le passioni), l’identità suono-rumore e la ripresa del concetto di unité de mélodie; interessantissima è poi la distinzione tra «musica naturale» e «musica imitativa», entrambe determinate culturalmente (checché ne dica Rameau), ma la prima priva di tensione discorsiva (come la musica da ballo, la chanson, gli inni sacri), la seconda espressiva di tutte le passioni e propria del teatro. Quanto all’estetica, si era già trattata nel capitolo VI la distinzione tra bello universale (derivante dalla natura fisica del suono), artificioso (basato sulle convenzioni armoniche) e morale (che aggiunge al piacere sensibile la comunicazione intersoggettiva); la semplice piacevolezza che regala la musica naturale diviene «volupté», allorquando si comprende il discorso musicale e la sua «verità»: «solo la verità si può dire imitando direttamente i movimenti psichici, e solo la verità può trovare ornamenti che non siano soltanto un gradevole accessorio» (p. 212); e, per passare dalla teoria alla pratica, dal filosofo al compositore, «se la verità è la ragione filosofica della musica, l’unité de mélodie è la coerenza che la garantisce» (p. 212). Davanti a tante questioni la Collisani aiuta il lettore con utili sintesi, collegamenti concettuali che aiutano a riportare sul piano generale del pensiero di Rousseau ogni singolo approfondimento; riporto una di queste sintesi a beneficio anche del mio lettore e per chiarire l’introduzione del parametro «verità»: «nelle coppie di termini dialettici in cui si articola il pensiero di Rousseau, il primo – natura, melodia, espressione – occupa una posizione ontologicamente preminente, il secondo – cultura, armonia e bellezza – mutando le condizioni storiche sociali, di volta in volta viene riscattato […]. Il problema [è il] limite al di qua del quale le convenzioni si trasformano in artificio e l’artificio in menzogna» (p. 211).

Il protagonista del nostro romanzo muore all’inizio dell’XI capitolo. Il titolo Consolazioni richiama sagacemente tale infausto evento, ma soprattutto si riferisce alla raccolta di composizioni musicali inedite compilata postuma nel 1781 sotto il titolo Les consolations des misères de ma vie ou Recueil d’airs, romances et duos.

L’ultimo capitolo, Segni grafici, contraddice l’orientamento sostanzialmente cronologico della trattazione sin qui adottato: infatti vi si trattano il primo lavoro musicale di Rousseau e la sua attività di copista. Primo lavoro musicale che in realtà è il primo lavoro del filosofo tout court, il suo ingresso nella vita pubblica, a sottolineare il ruolo eccezionale che la musica ha rivestito nella vita del nostro (e a chiudere il cerchio dell’esposizione del suo pensiero con un bel ‘ritorno alle origini’).

Si tratta del Projet concernant de nouveau signes pour la musique (1742), che , ormai l’abbiamo capito, serve solo da pretesto per affrontare tutti quei passi degli scritti del filosofo in cui si tematizza il ruolo e il metodo della scrittura (non solo musicale). In quanto mediatrice culturalmente determinata, la scrittura è vista da Rousseau in termini sostanzialmente negativi in quanto inibisce, riduce entro schemi le potenzialità del pensiero: «come la ragione, la scrittura soffoca il sentimento e le sue produzioni più dirette: gli accenti e la poesia. D’altra parte, […] permette di superare le distanze tra gli uomini, di comunicare i propri pensieri, di eternizzarsi» (p. 290). Per la scrittura musicale il discorso è un po’ diverso, in quanto per Rousseau «il pensiero musicale può comunicarsi solo per mezzo della notazione» (p. 293) e «la notazione resta […] molto più collegata alla musica di quanto la scrittura non sia alla lingua» (p. 294). Tuttavia la si può migliorare (ferma restando la relatività di ogni sistema a seconda del contesto e della tecnica compositiva): è quanto propone con il suo sistema di notazione, che mira ad una maggiore sintesi rispetto a quello in uso. Tema centrale della riflessione intorno alle scritture è pertanto la chiarezza: se la traduzione scritta di un pensiero ne toglie immediatezza e profondità, ne accresce però la chiarezza, la comunicabilità; e il nuovo sistema notazionale mira ad una rappresentazione chiara e ad una chiara intelligibilità della composizione.

Chiarezza e scrittura che sono i termini chiave dell’ultima attività musicale di Rousseau trattata: quella di copista, il cui ruolo sta nel regolare tramite gli accorgimenti grafici e di impaginazione la creatività altrui. Creatività che però, per chiudere con un ultimo tratto ‘romantico’ di Rousseau, quando esce dalla fervida ed immediata immaginazione del genio non può che corrompersi: «i prodotti più straordinari dellacreatività sono quelli che non ci sono trasmessi, quelli che non vengono ridotti in forma grafica» (p. 316); «Oh! se si potesseroregistrare i sogni di un febbricitante, quali grandi opere si vedrebberouscire dal suo delirio!» (p. 317).

Libro ricco ma scorrevole, si è detto che lo si può leggere ‘come un romanzo’. Non fa eccezione l’Indice dei nomi, che sfugge all’abituale effetto ‘guida del telefono’ e che si può leggere anche come capitoletto a sé: ad ogni nome seguono poche  righe che relazionano il personaggio a Rousseau (oltre, naturalmente, a rinviare al testo). Ci si può accostare alla lettura del libro di Amalia Collisani senza sapere nulla di Rousseau o di musica: alcune note (fin troppo) divulgative spiegano ad esempio il significato di termini quali «triade» o «modo» (in compenso viene utilizzato «agogìa» al posto di «agogica», lezione che confesso di non aver trovato attestata; e, giusto per cercare il pelo nell’uovo, anzi nello spelling, il cognome di Francesco Degrada viene citato talvolta come De Grada, perdonabilissima distrazione del correttore di bozze). Non ci sono esempi musicali (peccato); e non sarebbe dispiaciuta (accanto alla cronologia delle opere citate) una discografia delle musiche di Rousseau.

La politica di alta divulgazione dell’editore ci consegna un altro testo riuscitissimo: ma perché insistere con i prezzi assolutamente antidivulgativi?

FEDERICO LAZZARO

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