Marco Camerini
La matrice inestinguibile: archetipo e forma musicale nell'approccio afroamericano


Il jazz è nato da un lento processo di sintesi di elementi eterogenei, talvolta contraddittori, come tradizione colta e popolare, scrittura e oralità, cultura europea e africana, e quindi presenta una natura «composita» che ha dato adito ad alcuni equivoci e a diverse difficoltà in sede di analisi. Inoltre, il jazz ha tardato a diventare oggetto di una ricerca musicologica vera e propria, favorendo il perdurare di carenze di ordine teorico che emergono con evidenza ogniqualvolta si tenti di far valere un punto di vista più legato agli aspetti strettamente musicali.

E' indicativo il fatto che non esistano ancora pubblicazioni dedicate interamente al tema della forma nel jazz, né si trovi traccia di un dibattito in corso fra gli studiosi, quasi l'argomento non meritasse troppa attenzione, o comunque fosse secondario rispetto ad altri. Su tale questione è possibile reperire soltanto alcuni accenni disseminati in articoli di riviste o fra i capitoli di testi che hanno di mira però altri intenti.

Riteniamo invece che il tema della forma possa essere ricco di spunti interessanti per chiarire l'approccio afroamericano alla musica, soprattutto qualora si cerchi di andare oltre la mera classificazione delle strutture e la definizione di una loro genealogia. La scelta di includere o di escludere un certo tipo di struttura da un linguaggio musicale, infatti, è già di per sé un dato significativo che merita una riflessione.

Le pagine che seguono, quindi, rappresentano un primo approccio a quello che sembra un argomento tanto complesso quanto trascurato, nel tentativo di portare alla luce la ricchezza di implicazioni in esso contenute e provare a suggerire alcune possibili chiavi di lettura.

Il disegno africano

Esaminando il tema della forma in una musica in cui è presente una forte componente improvvisata sorge immediatamente una domanda: Quale forma? Nel jazz, infatti, si potrebbe decidere di analizzare l'articolazione dei temi musicali oppure l'insieme di esposizione- improvvisazione- ripresa o ancora la forma determinata dalla sequenza dei brani eseguiti nel corso della performance. Un brano può subire cambiamenti strutturali anche profondi a seconda dell'organico, della personalità dei musicisti coinvolti e del contesto.

Inoltre, nella musica afroamericana, non esistono partiture in grado di rappresentare in maniera esaustiva ciò che sarà la composizione effettivamente eseguita. Da una parte vi è un limite della scrittura musicale occidentale che non riesce a rendere conto appieno di ciò che si ascolterà, dall'altra sembra esserci una sorta di resistenza da parte del compositore stesso a fissare sulla carta in modo definitivo la sua opera. Che si tratti di brani di ampio respiro o di piccoli cammei, questi sembrano continuamente suscettibili di variazioni. Il momento della performance, dunque, finisce per rappresentare l'evento durante il quale le scelte strutturali del compositore vengono esibite, vorremmo dire svelate. L'assenza di partiture, nel senso tradizionale del termine, se da una parte ha creato delle difficoltà, dall'altra sembra essere un invito ad affidarsi, per una parte rilevante dell'analisi, ai fatti uditivi, tenendo conto delle legalità fenomenologiche interne inerenti alle strutture percettive. Insomma, al brano musicale così come risuona nelle nostre orecchie.

Ma non basta, vi è un'altra apparente anomalia. Le composizioni jazz sembrano caratterizzate da una sostanziale mancanza di sviluppo, così come viene comunemente inteso dalla musicologia occidentale. Le strutture più frequentemente utilizzate nella musica afroamericana hanno un andamento circolare o ciclico e spesso si basano sull'alternanza o la ripetizione di moduli tematici. Tutto nella costruzione musicale sembra orientato al movimento, allo squilibrio che cerca un riposo e la conclusione spesso giunge inaspettatamente, irrompe cogliendo quasi di sorpresa l'ascoltatore.

Per comprendere il senso e l'origine di queste peculiarità è necessario fare un passo indietro e chiarire meglio la portata di quell'affermazione, forse un po' generica, secondo cui nel jazz coesisterebbero tratti del retaggio africano e tratti della cultura occidentale. Innanzi tutto è bene precisare che la cultura africana a cui si fa riferimento è principalmente quella dell'Africa centrale e occidentale, da cui furono deportati per secoli un grande numero schiavi.

In campo musicale come in ambito religioso, i neri deportati assimilarono la realtà che li circondava alla luce della propria cultura di origine, attribuendo alle forme occidentali delle valenze simboliche nuove.

Quando i padroni bianchi iniziarono a convertire gli schiavi, sembra che questi non opposero alcuna resistenza, perché gli africani avevano sempre nutrito un serio rispetto per gli dèi dei conquistatori e poi perché abbracciare la religione dei bianchi significava, in qualche modo, imitarli.

Inoltre l'afroamericano proveniva da una cultura in cui il rapporto con la religione era quotidiano e permeava di sé tutte le attività, perciò, quando ancora le conversioni erano scoraggiate, gli schiavi avevano l'abitudine di riunirsi clandestinamente per praticare i loro riti.

Quando, in seguito, iniziarono le conversioni, molti neri scelsero la chiesa battista, motivati in parte dalle analogie con alcuni rituali africani. Il metodo di conversione, infatti, consisteva nell'immersione completa dell'adepto nell'acqua e, in molte regioni dell'Africa occidentale, i sacerdoti dei culti fluviali sono considerati i più potenti. Amiri Baraka, un importante intellettuale afroamericano, scrive a questo proposito:

«Il cristianesimo era una forma occidentale, ma la sua effettiva pratica da parte del nero americano fu totalmente estranea all'Occidente. La musica religiosa neroamericana si sviluppò quasi similmente dai modelli europei e americani, mutuandone degli aspetti superficiali (e in molti casi la strumentazione), ma l'imitazione finì qui.» [1].

Fra i segni del permanere di una cultura africana all'interno delle chiese vi erano, ad esempio, i ring shout e gli shuffle shout, forme rituali durante le quali si cantava e ci si muoveva in cerchio strisciando i piedi per terra, così da aggirare il divieto della danza imposto nelle zone protestanti; inoltre, vi è la sopravvivenza di canti africani a cui venivano semplicemente cambiate le parole per «cristianizzarli».

L'esperienza della chiesa è stata fondamentale per gli afroamericani proprio perché per lungo tempo ha rappresentato l'unico luogo di socializzazione possibile e l'unico momento di «libertà di espressione» in senso ampio. Moltissimi musicisti di jazz saranno segnati sensibilmente dalla frequentazione della chiesa e dai fenomeni musicali ad essa legati.

Ben Sidran, musicista e studioso di jazz, in un saggio di carattere sociologico, ipotizza che l'isolamento culturale in cui sono stati tenuti gli afroamericani ha fatto sì che essi potessero mantenere alcune caratteristiche fondamentali della cultura orale da cui provenivano.

Secondo tale prospettiva esisterebbe ancora oggi in America una «sub-cultura» o «contro-cultura» con delle strutture peculiari e gli attributi percettivi (perceptual attributes) necessari per sostenerle [2] . Al di là dell'impostazione teorica e degli obiettivi del testo di Sidran, che, è bene precisarlo, si muovono in un ambito diverso dal nostro, è possibile individuare alcune affermazioni che possono aiutarci a comprendere l'approccio afroamericano alla forma.

Parlando del linguaggio, viene rilevato come agli schiavi neri non venisse insegnata la grammatica inglese, ma soltanto le parole e le nozioni strettamente necessarie per comunicare ad un livello elementare con i padroni. Questo fece sì che gli afroamericani avessero la tendenza a comporre i termini inglesi secondo i modelli africani. Le manifestazioni più evidenti si possono trovare ad esempio nell'abitudine a usare circonlocuzioni per esprimere dei concetti invece di arrivare direttamente al punto, un modo di comunicare quest'ultimo considerato troppo crudo e povero di immaginazione nella cultura africana; e poi nel valore attribuito all'intonazione delle parole. L'uso di melismi, come l'introduzione nel canto di grida, pianti e mugolii sono mezzi espressivi capaci di comunicare informazioni, anche se a un livello che non si esaurisce nel verbale.

Studi fatti in diversi ambiti, quindi, sembrano dimostrare che esista una sopravvivenza della cultura orale di origine fra le pieghe di un'apparente «occidentalità».

C'è però un altro aspetto della cultura orale africana che ci interessa prendere in considerazione ed è la concezione del tempo.

Mircea Eliade, nel saggio Il mito dell'eterno ritorno [3], sottolinea come le culture arcaiche siano caratterizzate da una forte resistenza al tempo lineare e dunque alla storia. I miti, gli archetipi e i riti che li accompagnano servono all'uomo delle culture tradizionali per annullare il peso della storia, svalutando la durata concreta. Il tempo deve essere periodicamente rigenerato attraverso la ripetizione della creazione. Si tratta di una concezione che presuppone l'aspetto lineare del tempo, e, consapevolmente, la mette da parte:

«L'uomo arcaico rifiuta di accettarsi come essere storico, rifiuta di accordare un valore alla 'memoria' e di conseguenza agli avvenimenti inconsueti (cioè senza modello archetipico) che costituiscono infatti la durata concreta...Come il mistico, come l'uomo religioso in generale, il primitivo vive in un continuo presente...(egli ripete i gesti di qualcun altro e attraverso questa ripetizione vive ininterrottamente in un presente atemporale)» [4] .

Tale approccio rivelerebbe, secondo Eliade, la sete di Essere di queste culture che non vogliono perdere il contatto con il divino. In questa prospettiva, infatti, il Sacro è il reale per eccellenza, «è in modo assoluto, agisce efficacemente e fa durare le cose» [5] .

La sfera del profano invece non fa parte dell'essere perché il profano non è stato fondato ontologicamente con il mito, non ha un modello esemplare.

Vi sarebbero, dunque, un Tempo profano- la normale durata temporale- e un Tempo sacro, circolare, indefinitamente recuperabile, che non si esaurisce mai.

Nel Nuovo Mondo, gli africani si sono trovati ad essere ridotti in schiavitù, spogliati delle loro tradizioni e lentamente sono stati introdotti ad una religione a loro estranea, quella che Eliade definisce la religione dell'uomo storico. La sofferenza doveva essere motivata e il tempo storico doveva essere in qualche maniera trasceso, anche per questo i neri erano tanto ansiosi di abbracciare una religione dei bianchi.

Il disegno africanoIl cristianesimo era in grado di giustificare la schiavitù, come le altre sofferenze, attribuendo loro un potere salvifico e legandole ad una volontà trascendente. Le prospettive escatologiche cristiane, però, non erano sufficienti per consolare l'uomo proveniente dalla cultura degli archetipi e delle ripetizioni. La fede in una salvezza futura a volte non riusciva a soddisfare la sua sete di essere. Così, sotto un'apparenza cristiana crearono nuovi miti, nuovi archetipi in grado di annullare il peso del tempo. L'oppressione e la schiavitù non costituivano più un evento storico, ma la ripetizione di un percorso archetipico che aveva come riferimento mitico la vicenda del popolo ebraico in Egitto, che aveva, per la cultura afroamericana una strettissima analogia con la propria vicenda storica:

«Maria non piangere, Maria non lamentarti/...l'esercito del faraone è annegato/...io prego ogni giorno di salire/salire sulla montagna di Mosè» [6].

I testi degli spiritual sono ricchi di riferimenti tesi a inquadrare la vicenda afroamericana in un processo di ripetizione storica che ha nei santi e nei personaggi biblici i suoi eroi:

«Và, Mosè,/ là in terra d'Egitto,/ dì al vecchio faraone di lasciare andare il mio popolo!/ Non faticheremo più come bestie in schiavitù,/ lascia andare il mio popolo/ finiamola dunque con lo sfruttamento d'Egitto...» [ 7].

Resta ancora da chiarire quale ruolo abbia la musica e in che modo le sue strutture possano venire influenzate da questo tipo di cultura. Per capirlo è necessario soffermarsi brevemente sul ruolo e la concezione della musica nell'Africa occidentale e centrale.

In Africa, il termine «arte» non esiste, essa viene considerata al pari delle tecniche artigianali. La musica, in particolare, è funzionale ed ha un ruolo sociale. E' funzionale in quanto non ha un valore autonomo, ma viene sempre collegata a delle funzioni precise, come le attività lavorative o i riti religiosi.

La pratica musicale è concepita come un'attività motoria e quindi è strettamente legata alla danza che rappresenta una sorta di raffigurazione concreta della musica. Questa è poi inscindibile dal canto, anche perché le lingue africane sono lingue tono e quindi il parlato ha bisogno delle altezze per significare.

La musica ha un ruolo sociale in quanto fenomeno collettivo cui tutti, in qualche modo, partecipano. Nella cultura africana da cui provenivano gli schiavi non si andava ad ascoltare la musica, ma la si faceva insieme.

La composizione, dunque, è un fatto collettivo a cui ognuno porta il proprio contributo. Tutti i partecipanti sono coinvolti in un rituale che tende a sottrarli dal «tempo storico» per proiettarli in una sorta di eterno presente, in un tempo Sacro.

I brani musicali sono caratterizzati da strutture cicliche che dividono il tempo in unità periodiche di eguale durata con una precisa organizzazione interna. La ripetizione di questo schema permette la creazione di variazioni improvvisate che sfruttano al massimo il materiale di base. Ripetizione e variazione sono i principi fondamentali della musica africana che raggiunge livelli di alta complessità attraverso la somma di elementi semplici.

Le strutture antifonali, l'iterazione e la somma di figure ritmiche differenti, unite alla ciclicità degli isoperiodi, sono capaci di provocare una sorta di disorientamento temporale nell'ascoltatore attraverso la moltiplicazione dei riferimenti temporali e la frantumazione della linearità del tempo.

Il ritmo, lo si dice spesso, è un parametro fondamentale nella musica africana. Vi è però una diversa considerazione di questo elemento rispetto alla tradizione occidentale. Il musicista occidentale è abituato a seguire il ritmo, mentre in Africa è qualcosa a cui si risponde [8].

I ritmi, perciò, sono sempre almeno due e dalla loro dialettica emerge il discorso musicale. E dal momento che ogni spettatore è anche un «esecutore» o comunque partecipa alla composizione della musica, è implicata anche una diversa modalità di ascolto, tesa a individuare gli spazi lasciati vuoti dagli altri ritmi. Il brano viene considerato come una combinazione di spazi vuoti a cui è sempre possibile aggiungere un altro ritmo.

La complessa costruzione ritmica è sorretta da una pulsazione isocrona, un beat di riferimento che solitamente non viene esplicitato. Secondo il resoconto di Chernoff, tale pulsazione sottostante viene considerata, presso alcune popolazioni, come suonata dal tamburo dell'Essere Supremo e soltanto l'incrocio di più ritmi può renderlo percepibile, o meglio, evocarlo. Essa rappresenta il punto di equilibrio dei diversi ritmi e quindi la musica riproduce una sorta di teofania.

Presso i pigmei, ad esempio, il cantore dispone di modelli semplici e formule di variazione che conosce alla perfezione e che gli permettono di orientarsi melodicamente:

«...come nel parlare una lingua, nei diversi punti di enunciazione della frase il locutore può scegliere fra più sinonimi o più termini di senso consimile, così ogni cantore pigmeo sceglie intuitivamente al momento appropriato quale formula melodica egli sente di dover inserire in quel preciso stadio del cursus polifonico» [9].

In questo discorso assume una certa importanza il riferimento al modello.

«In una cultura di tradizione orale...la persistenza della musica non può essere garantita...che dalla presenza di un riferimento mentale, vale a dire di un modello. Tale modello è una rappresentazione sonora nel contempo sia globale che semplificata, di un'entità musicale;...il modello equivale alla forma di realizzazione più semplice di un brano musicale; la più semplice ancora riconoscibile...un supporto mnemonico...La scrittura conferisce all'opera un carattere finito, concluso, tale che nulla di essenziale può essere aggiunto; del pari il modello si identifica come uno schema fisso da cui nulla può essere tolto [10] ...il testo musicale scritto è un riferimento massimale, mentre il modello è nella pratica musicale di tradizione orale un riferimento minimale.» [11] .

Il disegno africano

Alla luce di questi elementi, le affermazioni iniziali circa la peculiarità della forma nel jazz acquisiscono un nuovo significato.

Il complesso patrimonio musicale africano, così ricco di valenze simboliche si è dovuto adattare, in qualche modo, al nuovo contesto. La tradizione colta europea ha sviluppato, infatti, un approccio completamente diverso alla musica e alla composizione rispetto all'Africa.

Dati questi presupposti, è plausibile ipotizzare che gli schiavi abbiano assimilato inizialmente le strutture musicali più simili a quelle della loro Terra d'origine, come danze e canti popolari, anche perché erano le forme con la maggiore diffusione. Anche in seguito, quando finalmente gli afroamericani ebbero la possibilità di studiare la musica eurocolta, rimase manifesta la tendenza a conservare degli elementi di oralità anche nelle partiture più articolate, nonché ad inserirvi delle «strane» peculiarità ritmiche, melodiche o armoniche, sconosciute alla musica occidentale.

Nel jazz l'opera non rappresenta un'entità conclusa, definita una volta per sempre, ma sembra piuttosto un archetipo da ripetere e quindi ricreare ogni volta. La composizione viene assunta di preferenza come modello a cui è sempre possibile aggiungere qualche cosa.

La tendenza alla chiusura della forma musicale, il suo «slancio» sembra non risolversi mai, o almeno mai in maniera definitiva. Si potrebbe parlare di una tendenza alla chiusura «irrisolta». Il materiale viene disposto in modo da creare delle attese percettive continuamente rinnovate e mai soddisfatte.

In un brano costruito su una data tonalità, per esempio, non viene fatto figurare per molte battute l'accordo di tonica, e quando finalmente compare viene modificato radicalmente il contesto, in modo da non presentare la tonica come una chiusura, ma come un cambio di direzione verso una nuova meta.

Soprattutto nei brani bi o multitematici, a volte sembra del tutto «arbitrario» (almeno dal punto di vista percettivo) il fatto che la conclusione cada proprio in quel punto e non una sezione prima o una sezione dopo, anzi, ciò contribuisce in taluni casi a far sì che l'ascoltatore sia preso alla sprovvista e la composizione si chiuda nel momento in cui la tensione è al culmine.

Tale affermazione non toglie nulla alla compiutezza del brano, ma esprime un atteggiamento compositivo che non ricerca la chiusura definitiva. Vi è uno schema di base, una serie di pannelli o delle figure, ma il modo di comporli è suscettibile di essere variato. Se l'opera avesse una sistemazione definitiva, per la mentalità afroamericana, erede di una cultura orale, significherebbe affidarla alla storia e quindi all'usura del tempo.

La continua elaborazione di un modello, invece, ricorda i riti di rigenerazione del tempo delle popolazioni «arcaiche», significa contrastare il tempo storico, la durata. La forma viene davvero colta nel suo divenire, senza che il processo creativo possa mai pietrificarsi.

Il discorso richiama alla mente il modo di procedere dei cantori pigmei, a cui si accennava sopra, e l'importanza del modello. Anche il musicista afroamericano si esprime per formule. Spesso gli assolo sono costituiti dalla somma di figure ritmico melodiche che possono poi venire ripetute o variate.

Il disegno africano

A livello macrostrutturale vediamo agire, sostanzialmente, lo stesso principio. Viene stabilito un periodo, un segmento e, ripetizione dopo ripetizione, si assiste alla riarticolazione delle sue parti interne. Si tratta di un metodo compositivo che potremmo definire modulare. La tensione formale che abbiamo descritto manifesta una tendenza che agisce anche all'interno dell'ossatura formale.

Nelle composizioni jazz, infatti, la dinamica tensione/ distensione è presente a vari livelli. Sul piano ritmico, timbrico, armonico la costruzione verticale mette in risalto lo «squilibrio», la tendenza al movimento.

L'insistenza sul movimento, sullo slancio e sulla ciclicità sono da attribuire in parte al legame con la danza (un aspetto non sempre considerato dalla trattatistica) e in parte al senso rituale del fare musica. Non dimentichiamo che la musica in Africa non accompagna il rito, ne è una componente essenziale.

In molte tradizioni musicali la condotta responsoriale e la ripetizione sono tecniche largamente utilizzate per innescare una spirale di crescente tensione che può portare anche alla trance. Tale spirale appartiene alla struttura stessa anche se eventuali rimandi immaginativi possono accentuarne gli effetti.

Il nucleo formale più diffuso nel jazz è quello delle forme chorus. Si tratta di strutture a ritornello in cui il compositore disegna un percorso (armonico, ritmico, tematico) più o meno lungo, che viene ripreso da capo e ripercorso interamente per un certo numero di volte.

Es.

AAB oppure AABA (da ripetere da capo n volte)

Il termine Chorus deriva, secondo alcuni studiosi, dalla dicitura riportata negli spartiti delle canzoni dell'800 in corrispondenza del ritornello, che era affidato al coro.

Nella maggior parte dei casi, si comincia con l'esposizione del tema, talvolta preceduta da una breve introduzione, e successivamente vi è la costruzione delle improvvisazioni sul «giro armonico».

Il giro armonico può essere definito come una sequenza di accordi che si ripete in maniera ciclica. La sua origine è da ricercarsi probabilmente nella danza o comunque nella musica popolare di matrice europea. Nel jazz, il giro armonico contribuisce a definire il percorso del ritornello. La progressione armonica può essere originale o provenire da un materiale preesistente, come, ad esempio, una canzone celebre.

Esempio di giro armonico, sezione A:

 

Sezione B:

Infine, vi è la ripresa del motivo iniziale che conduce alla conclusione del brano.

Quindi nella forma chorus vi è una struttura che si ripete in maniera ciclica dall'inizio alla fine. Viene disegnato un sentiero sapendo che dovrà essere percorso più volte. E' una forma in cui l'inizio sospinge verso una fine, e la fine rimanda all'inizio.

E' interessante rilevare che gli «eventi» musicali, nella forma chorus, non si svolgono in un tempo qualunque, ma su una temporalità schematizzata dalla stessa struttura che si ripete ciclicamente.

Il modulo, presentato nel corso dell'esposizione, si ripete potenzialmente all'infinito. La sua struttura, però, non è neutra, possiede un'articolazione che lo orienta verso la ripetizione. Si tratta di una forma- che- si- chiude e che lo fa in modo teso.

In molte situazioni, comunque, il jazzista sa che se il primo chorus non gli è stato sufficiente per esprimere compiutamente il suo pensiero musicale, potrà averne a disposizione un secondo, un terzo e così via.

Infine, è necessario dare rilievo ad un elemento prima soltanto accennato. Dopo varie ripetizioni del chorus, la composizione termina con la ripresa del tema, talvolta solo parziale, ma comunque riconoscibile.

L'intera opera, quindi ha una lunghezza variabile, ma è inquadrata entro due eventi notevoli: il tema all'inizio e alla fine.

L'articolazione triadica potrebbe far pensare a una derivazione dal modello sonatistico, che è costituito, in linea generale, da esposizione- sviluppo- ripresa. Volendo approfondire il parallelismo, però, ci si rende conto che le analogie finiscono qui.

Innanzi tutto la ripresa, nella sonata classica, non è identica all'esposizione, né dal punto di vista armonico, né da quello melodico. Come sottolinea Charles Rosen:

«il termine tradizionale per questa sezione è improprio...continuando a usare il termine 'ripresa' non bisogna supporre che il compositore settecentesco dovesse ricominciare con il primo tema [12] ».

Inoltre, nella ripresa sonatistica il nucleo tematico è soggetto a una serie di possibili sviluppi armonici e melodici che definiscono sottili connessioni con il resto dell'opera.

Nelle forme chorus, invece, la ripresa del tema viene spesso posta in risalto come ritorno, come qualcosa che irrompe nello sviluppo improvvisatorio, segnandone la fine. Potremmo dire che il motivo ricompare alla conclusione del percorso.

Alla luce di queste considerazioni sembra possibile individuare nella struttura chorus dei richiami simbolici ai rituali per «l'anno nuovo» delle culture tradizionali, durante i quali veniva rappresentata la ripetizione della cosmogonia e quindi la distruzione del vecchio cosmo e la creazione di un nuovo inizio. In molte concezioni cicliche si trova un richiamo esplicito all'andamento delle fasi lunari: apparizione, crescita, decrescita, scomparsa e riapparizione.

Il Cristianesimo, in quanto religione dell'uomo «storico», ha posto la fede quale unica via per superare il terrore della storia. L'incontro delle due culture sembra aver condotto al mantenimento di una prospettiva ciclica, rafforzata dalla fede cristiana in un «uomo creatore», capace cioè di creare il «nuovo inizio».

Il disegno africanoIl percorso tracciato dalle strutture chorus sembra avere il carattere dei rituali per la rigenerazione del tempo. Si comincia, infatti, ponendo una figura che viene poi distrutta e ricomposta durante l'improvvisazione, seguendo un cammino scandito da un andamento ciclico preciso. Dopo una serie di «passi» viene ricreato il tema iniziale. Vi è dunque uno stato iniziale, un percorso intermedio e un nuovo inizio. L'opera, così, non è più soggetta alla durata, che caratterizza il tempo storico, ma viene inserita in una ciclicità eterna.

 

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