Il jazz
è nato da un lento processo di sintesi di elementi eterogenei, talvolta
contraddittori, come tradizione colta e popolare, scrittura e oralità,
cultura europea e africana, e quindi presenta una natura «composita»
che ha dato adito ad alcuni equivoci e a diverse difficoltà in sede di
analisi. Inoltre, il jazz ha tardato a diventare oggetto di una ricerca musicologica
vera e propria, favorendo il perdurare di carenze di ordine teorico che emergono
con evidenza ogniqualvolta si tenti di far valere un punto di vista più
legato agli aspetti strettamente musicali.
E' indicativo il fatto
che non esistano ancora pubblicazioni dedicate interamente al tema della forma
nel jazz, né si trovi traccia di un dibattito in corso fra gli studiosi,
quasi l'argomento non meritasse troppa attenzione, o comunque fosse secondario
rispetto ad altri. Su tale questione è possibile reperire soltanto alcuni
accenni disseminati in articoli di riviste o fra i capitoli di testi che hanno
di mira però altri intenti.
Riteniamo invece che il
tema della forma possa essere ricco di spunti interessanti per chiarire l'approccio
afroamericano alla musica, soprattutto qualora si cerchi di andare oltre la
mera classificazione delle strutture e la definizione di una loro genealogia.
La scelta di includere o di escludere un certo tipo di struttura da un linguaggio
musicale, infatti, è già di per sé un dato significativo
che merita una riflessione.
Le pagine che seguono,
quindi, rappresentano un primo approccio a quello che sembra un argomento tanto
complesso quanto trascurato, nel tentativo di portare alla luce la ricchezza
di implicazioni in esso contenute e provare a suggerire alcune possibili chiavi
di lettura.
Esaminando il tema della
forma in una musica in cui è presente una forte componente improvvisata
sorge immediatamente una domanda:
Quale
forma? Nel jazz, infatti, si potrebbe decidere di analizzare l'articolazione
dei temi musicali oppure l'insieme di esposizione- improvvisazione- ripresa
o ancora la forma determinata dalla sequenza dei brani eseguiti nel corso della
performance. Un brano può subire cambiamenti strutturali anche profondi
a seconda dell'organico, della personalità dei musicisti coinvolti e
del contesto.
Inoltre, nella musica afroamericana,
non esistono partiture in grado di rappresentare in maniera esaustiva ciò
che sarà la composizione effettivamente eseguita. Da una parte vi è
un limite della scrittura musicale occidentale che non riesce a rendere conto
appieno di ciò che si ascolterà, dall'altra sembra esserci una
sorta di resistenza da parte del compositore stesso a fissare sulla carta in
modo definitivo la sua opera. Che si tratti di brani di ampio respiro o di piccoli
cammei, questi sembrano continuamente suscettibili di variazioni. Il momento
della performance, dunque, finisce per rappresentare l'evento durante il quale
le scelte strutturali del compositore vengono esibite, vorremmo dire svelate.
L'assenza di partiture, nel senso tradizionale del termine, se da una parte
ha creato delle difficoltà, dall'altra sembra essere un invito ad affidarsi,
per una parte rilevante dell'analisi, ai fatti uditivi, tenendo conto delle
legalità fenomenologiche interne inerenti alle strutture percettive.
Insomma, al brano musicale così come risuona nelle nostre orecchie.
Ma non basta, vi è
un'altra apparente anomalia. Le composizioni jazz sembrano caratterizzate da
una sostanziale mancanza di sviluppo, così come viene comunemente inteso
dalla musicologia occidentale. Le strutture più frequentemente utilizzate
nella musica afroamericana hanno un andamento circolare o ciclico e spesso si
basano sull'alternanza o la ripetizione di moduli tematici. Tutto nella costruzione
musicale sembra orientato al movimento, allo squilibrio che cerca un riposo
e la conclusione spesso giunge inaspettatamente, irrompe cogliendo quasi di
sorpresa l'ascoltatore.
Per comprendere il senso
e l'origine di queste peculiarità è necessario fare un passo indietro
e chiarire meglio la portata di quell'affermazione, forse un po' generica, secondo
cui nel jazz coesisterebbero tratti del retaggio africano e tratti della cultura
occidentale. Innanzi tutto è bene precisare che la cultura africana a
cui si fa riferimento è principalmente quella dell'Africa centrale e
occidentale, da cui furono deportati per secoli un grande numero schiavi.
In campo musicale come
in ambito religioso, i neri deportati assimilarono la realtà che li circondava
alla luce della propria cultura di origine, attribuendo alle forme occidentali
delle valenze simboliche nuove.
Quando i padroni bianchi
iniziarono a convertire gli schiavi, sembra che questi non opposero alcuna resistenza,
perché gli africani avevano sempre nutrito un serio rispetto per gli
dèi dei conquistatori e poi perché abbracciare la religione dei
bianchi significava, in qualche modo,
imitarli.
Inoltre l'afroamericano
proveniva da una cultura in cui il rapporto con la religione era quotidiano
e permeava di sé tutte le attività, perciò, quando ancora
le conversioni erano scoraggiate, gli schiavi avevano l'abitudine di riunirsi
clandestinamente per praticare i loro riti.
Quando, in seguito, iniziarono
le conversioni, molti neri scelsero la chiesa battista, motivati in parte dalle
analogie con alcuni rituali africani. Il metodo di conversione, infatti, consisteva
nell'immersione completa dell'adepto nell'acqua e, in molte regioni dell'Africa
occidentale, i sacerdoti dei culti fluviali sono considerati i più potenti.
Amiri Baraka, un importante intellettuale afroamericano, scrive a questo proposito:
«Il
cristianesimo era una forma occidentale, ma la sua effettiva pratica da parte
del nero americano fu totalmente estranea all'Occidente. La musica religiosa
neroamericana si sviluppò quasi similmente dai modelli europei e americani,
mutuandone degli aspetti superficiali (e in molti casi la strumentazione), ma
l'imitazione finì qui.» [1].
Fra i segni del permanere
di una cultura africana all'interno delle chiese vi erano, ad esempio, i
ring
shout e gli shuffle
shout, forme rituali durante le quali si cantava e ci si muoveva
in cerchio strisciando i piedi per terra, così da aggirare il divieto
della danza imposto nelle zone protestanti; inoltre, vi è la sopravvivenza
di canti africani a cui venivano semplicemente cambiate le parole per «cristianizzarli».
L'esperienza della chiesa
è stata fondamentale per gli afroamericani proprio perché per
lungo tempo ha rappresentato l'unico luogo di socializzazione possibile e l'unico
momento di «libertà di espressione» in senso ampio. Moltissimi
musicisti di jazz saranno segnati sensibilmente dalla frequentazione della chiesa
e dai fenomeni musicali ad essa legati.
Ben Sidran, musicista e
studioso di jazz, in un saggio di carattere sociologico, ipotizza che l'isolamento
culturale in cui sono stati tenuti gli afroamericani ha fatto sì che
essi potessero mantenere alcune caratteristiche fondamentali della cultura orale
da cui provenivano.
Secondo tale prospettiva
esisterebbe ancora oggi in America una «sub-cultura» o «contro-cultura»
con delle strutture peculiari e gli attributi percettivi (perceptual
attributes) necessari per sostenerle [2]
. Al di là dell'impostazione teorica e degli obiettivi del testo di Sidran,
che, è bene precisarlo, si muovono in un ambito diverso dal nostro, è
possibile individuare alcune affermazioni che possono aiutarci a comprendere
l'approccio afroamericano alla forma.
Parlando del linguaggio,
viene rilevato come agli schiavi neri non venisse insegnata la grammatica inglese,
ma soltanto le parole e le nozioni strettamente necessarie per comunicare ad
un livello elementare con i padroni. Questo fece sì che gli afroamericani
avessero la tendenza a comporre i termini inglesi secondo i modelli africani.
Le manifestazioni più evidenti si possono trovare ad esempio nell'abitudine
a usare circonlocuzioni per esprimere dei concetti invece di arrivare direttamente
al punto, un modo di comunicare quest'ultimo considerato troppo crudo e povero
di immaginazione nella cultura africana; e poi nel valore attribuito all'intonazione
delle parole. L'uso di melismi, come l'introduzione nel canto di grida, pianti
e mugolii sono mezzi espressivi capaci di comunicare informazioni, anche se
a un livello che non si esaurisce nel verbale.
Studi fatti in diversi
ambiti, quindi, sembrano dimostrare che esista una sopravvivenza della cultura
orale di origine fra le pieghe di un'apparente «occidentalità».
C'è però
un altro aspetto della cultura orale africana che ci interessa prendere in considerazione
ed è la concezione del tempo.
Mircea Eliade, nel saggio
Il mito dell'eterno
ritorno [3], sottolinea come le culture arcaiche
siano caratterizzate da una forte resistenza al tempo lineare e dunque alla
storia. I miti, gli archetipi e i riti che li accompagnano servono all'uomo
delle culture tradizionali per annullare il peso della storia, svalutando la
durata concreta. Il tempo deve essere periodicamente rigenerato attraverso la
ripetizione della creazione. Si tratta di una concezione che presuppone l'aspetto
lineare del tempo, e, consapevolmente, la mette da parte:
«L'uomo
arcaico rifiuta di accettarsi come essere storico, rifiuta di accordare un valore
alla 'memoria' e di conseguenza agli avvenimenti inconsueti (cioè senza
modello archetipico) che costituiscono infatti la durata concreta...Come il
mistico, come l'uomo religioso in generale, il primitivo vive in un continuo
presente...(egli ripete i gesti di qualcun altro e attraverso questa ripetizione
vive ininterrottamente in un presente atemporale)» [4] .
Tale approccio rivelerebbe,
secondo Eliade, la sete di Essere di queste culture che non vogliono perdere
il contatto con il divino. In questa prospettiva, infatti, il Sacro è
il reale per eccellenza, «è in modo assoluto,
agisce efficacemente e fa durare le cose» [5]
.
La sfera del profano invece
non fa parte dell'essere perché il profano non è stato fondato
ontologicamente con il mito, non ha un modello esemplare.
Vi sarebbero, dunque, un
Tempo profano- la normale durata temporale- e un Tempo sacro, circolare, indefinitamente
recuperabile, che non si esaurisce mai.
Nel Nuovo Mondo, gli africani
si sono trovati ad essere ridotti in schiavitù, spogliati delle loro
tradizioni e lentamente sono stati introdotti ad una religione a loro estranea,
quella che Eliade definisce la religione dell'uomo storico. La sofferenza doveva
essere motivata e il tempo storico doveva essere in qualche maniera trasceso,
anche per questo i neri erano tanto ansiosi di abbracciare una religione dei
bianchi.
Il
cristianesimo era in grado di giustificare la schiavitù, come le altre
sofferenze, attribuendo loro un potere salvifico e legandole ad una volontà
trascendente. Le prospettive escatologiche cristiane, però, non erano
sufficienti per consolare l'uomo proveniente dalla cultura degli archetipi e
delle ripetizioni. La fede in una salvezza futura a volte non riusciva a soddisfare
la sua sete di essere.
Così, sotto un'apparenza cristiana crearono nuovi miti, nuovi
archetipi in grado di annullare il peso del tempo. L'oppressione e la schiavitù
non costituivano più un evento storico, ma la ripetizione di un percorso
archetipico che aveva come riferimento mitico la vicenda del popolo ebraico
in Egitto, che aveva, per la cultura afroamericana una strettissima analogia
con la propria vicenda storica:
«Maria
non piangere, Maria non lamentarti/...l'esercito del faraone è annegato/...io
prego ogni giorno di salire/salire sulla montagna di Mosè»
[6].
I testi degli spiritual
sono ricchi di riferimenti tesi a inquadrare la vicenda afroamericana in un
processo di ripetizione storica che ha nei santi e nei personaggi biblici i
suoi eroi:
«Và,
Mosè,/ là in terra d'Egitto,/ dì al vecchio faraone di
lasciare andare il mio popolo!/ Non faticheremo più come bestie in schiavitù,/
lascia andare il mio popolo/ finiamola dunque con lo sfruttamento d'Egitto...»
[ 7].
Resta ancora da chiarire
quale ruolo abbia la musica e in che modo le sue strutture possano venire influenzate
da questo tipo di cultura. Per capirlo è necessario soffermarsi brevemente
sul ruolo e la concezione della musica nell'Africa occidentale e centrale.
In Africa, il termine «arte»
non esiste, essa viene considerata al pari delle tecniche artigianali. La musica,
in particolare, è funzionale ed ha un ruolo sociale. E' funzionale in
quanto non ha un valore autonomo, ma viene sempre collegata a delle funzioni
precise, come le attività lavorative o i riti religiosi.
La pratica musicale è
concepita come un'attività motoria e quindi è strettamente legata
alla danza che rappresenta una sorta di raffigurazione concreta della musica.
Questa è poi inscindibile dal canto, anche perché le lingue africane
sono lingue tono e quindi il parlato ha bisogno delle altezze per significare.
La musica ha un ruolo sociale
in quanto fenomeno collettivo cui tutti, in qualche modo, partecipano. Nella
cultura africana da cui provenivano gli schiavi non si andava ad ascoltare la
musica, ma la si faceva insieme.
La composizione, dunque,
è un fatto collettivo a cui ognuno porta il proprio contributo. Tutti
i partecipanti sono coinvolti in un rituale che tende a sottrarli dal «tempo
storico» per proiettarli in una sorta di eterno presente, in un tempo Sacro.
I brani musicali sono caratterizzati
da strutture cicliche che dividono il tempo in unità periodiche di eguale
durata con una precisa organizzazione interna. La ripetizione di questo schema
permette la creazione di variazioni improvvisate che sfruttano al massimo il
materiale di base. Ripetizione e variazione sono i principi fondamentali della
musica africana che raggiunge livelli di alta complessità attraverso
la somma di elementi semplici.
Le strutture antifonali,
l'iterazione e la somma di figure ritmiche differenti, unite alla ciclicità
degli isoperiodi, sono capaci di provocare una sorta di disorientamento temporale
nell'ascoltatore attraverso la moltiplicazione dei riferimenti temporali e la
frantumazione della linearità del tempo.
Il ritmo, lo si dice spesso,
è un parametro fondamentale nella musica africana. Vi è però
una diversa considerazione di questo elemento rispetto alla tradizione occidentale.
Il musicista occidentale è abituato a
seguire
il ritmo, mentre in Africa è qualcosa a cui
si risponde [8].
I ritmi, perciò,
sono sempre almeno due e dalla loro dialettica
emerge il discorso musicale. E dal momento che ogni spettatore è anche
un «esecutore» o comunque partecipa alla composizione della musica,
è implicata anche una diversa modalità di ascolto, tesa a individuare
gli spazi lasciati vuoti dagli altri ritmi. Il brano viene considerato come
una combinazione di spazi vuoti a cui è sempre possibile aggiungere un
altro ritmo.
La complessa costruzione
ritmica è sorretta da una pulsazione isocrona, un beat di riferimento
che solitamente non viene esplicitato. Secondo il resoconto di Chernoff, tale
pulsazione sottostante viene considerata, presso alcune popolazioni, come suonata
dal tamburo dell'Essere Supremo e soltanto l'incrocio di più ritmi può
renderlo percepibile, o meglio, evocarlo.
Essa rappresenta il punto di
equilibrio dei diversi ritmi e quindi la musica riproduce una sorta di teofania.
Presso i pigmei, ad esempio,
il cantore dispone di modelli semplici e formule di variazione che conosce alla
perfezione e che gli permettono di orientarsi melodicamente:
«...come
nel parlare una lingua, nei diversi punti di enunciazione della frase il locutore
può scegliere fra più sinonimi o più termini di senso consimile,
così ogni cantore pigmeo sceglie intuitivamente al momento appropriato
quale formula melodica egli sente di dover inserire in quel preciso stadio del
cursus polifonico» [9].
In questo discorso assume
una certa importanza il riferimento al modello.
«In
una cultura di tradizione orale...la persistenza della musica non può
essere garantita...che dalla presenza di un riferimento mentale, vale a dire
di un modello. Tale modello è una rappresentazione sonora nel contempo
sia globale che semplificata, di un'entità musicale;...il modello equivale
alla forma di realizzazione più semplice di un brano musicale; la più
semplice ancora riconoscibile...un supporto mnemonico...La
scrittura conferisce all'opera un carattere finito, concluso, tale che nulla
di essenziale può essere aggiunto; del pari il modello si identifica
come uno schema fisso da cui nulla può essere tolto [10]
...il testo musicale scritto è un riferimento
massimale, mentre il modello è nella pratica musicale di tradizione orale
un riferimento minimale.» [11]
.
Alla luce di questi elementi,
le affermazioni iniziali circa la peculiarità della forma nel jazz acquisiscono
un nuovo significato.
Il complesso patrimonio
musicale africano, così ricco di valenze simboliche si è dovuto
adattare, in qualche modo, al nuovo contesto.
La tradizione colta europea ha sviluppato, infatti, un approccio completamente
diverso alla musica e alla composizione rispetto all'Africa.
Dati questi presupposti,
è plausibile ipotizzare che gli schiavi abbiano assimilato inizialmente
le strutture musicali più simili a quelle della loro Terra d'origine,
come danze e canti popolari, anche perché erano le forme con la maggiore
diffusione. Anche in seguito, quando finalmente gli afroamericani ebbero la
possibilità di studiare la musica eurocolta, rimase manifesta la tendenza
a conservare degli elementi di oralità anche nelle partiture più
articolate, nonché ad inserirvi delle «strane» peculiarità
ritmiche, melodiche o armoniche, sconosciute alla musica occidentale.
Nel jazz l'opera non rappresenta
un'entità conclusa, definita una volta per sempre, ma sembra piuttosto
un archetipo da ripetere e quindi ricreare ogni volta. La composizione viene
assunta di preferenza come modello a cui è sempre possibile aggiungere
qualche cosa.
La tendenza alla chiusura
della forma musicale, il suo «slancio» sembra non risolversi mai,
o almeno mai in maniera definitiva. Si potrebbe parlare di una tendenza alla
chiusura «irrisolta». Il materiale viene disposto in modo da creare
delle attese percettive continuamente rinnovate e mai soddisfatte.
In un brano costruito su
una data tonalità, per esempio, non viene fatto figurare per molte battute
l'accordo di tonica, e quando finalmente compare viene modificato radicalmente
il contesto, in modo da non presentare la tonica come una chiusura, ma come
un cambio di direzione verso una nuova meta.
Soprattutto nei brani bi
o multitematici, a volte sembra del tutto «arbitrario» (almeno dal
punto di vista percettivo) il fatto che la conclusione cada proprio in quel
punto e non una sezione prima o una sezione dopo, anzi, ciò contribuisce
in taluni casi a far sì che l'ascoltatore sia preso alla sprovvista e
la composizione si chiuda nel momento in cui la tensione è al culmine.
Tale affermazione non toglie
nulla alla compiutezza del brano, ma esprime un atteggiamento compositivo che
non ricerca la chiusura definitiva. Vi è uno schema di base, una serie
di pannelli o delle figure, ma il modo di comporli è suscettibile di
essere variato. Se l'opera avesse una sistemazione definitiva, per la mentalità
afroamericana, erede di una cultura orale, significherebbe affidarla alla storia
e quindi all'usura del tempo.
La continua elaborazione
di un modello, invece, ricorda i riti di rigenerazione del tempo delle popolazioni
«arcaiche», significa contrastare il tempo storico, la durata. La
forma viene davvero colta nel suo divenire, senza che il processo creativo possa
mai pietrificarsi.
Il discorso richiama alla
mente il modo di procedere dei cantori pigmei, a cui si accennava sopra, e l'importanza
del modello. Anche il musicista afroamericano si esprime per formule. Spesso
gli assolo sono costituiti dalla somma di figure ritmico melodiche che possono
poi venire ripetute o variate.
A livello macrostrutturale
vediamo agire, sostanzialmente, lo stesso
principio. Viene stabilito un periodo, un segmento e, ripetizione dopo ripetizione,
si assiste alla riarticolazione delle sue parti interne. Si tratta di un metodo
compositivo che potremmo definire modulare. La tensione formale che abbiamo
descritto manifesta una tendenza che agisce anche all'interno dell'ossatura
formale.
Nelle composizioni jazz,
infatti, la dinamica tensione/ distensione è presente a vari livelli.
Sul piano ritmico, timbrico, armonico la costruzione verticale mette in risalto
lo «squilibrio», la tendenza al movimento.
L'insistenza sul movimento,
sullo slancio e sulla ciclicità sono da attribuire in parte al legame
con la danza (un aspetto non sempre considerato dalla trattatistica) e in parte
al senso rituale del fare musica. Non dimentichiamo che la musica in Africa
non accompagna il rito, ne è una componente essenziale.
In molte tradizioni musicali
la condotta responsoriale e la ripetizione sono tecniche largamente utilizzate
per innescare una spirale di crescente tensione che può portare anche
alla trance. Tale spirale appartiene alla struttura stessa anche se eventuali
rimandi immaginativi possono accentuarne gli effetti.
Il nucleo formale più
diffuso nel jazz è quello delle forme
chorus.
Si tratta di strutture a ritornello in cui il compositore disegna un percorso
(armonico, ritmico, tematico) più o meno lungo, che viene ripreso da
capo e ripercorso interamente per un certo numero di volte.
Es.
AAB
oppure AABA (da ripetere da capo n volte)
Il termine Chorus
deriva, secondo alcuni studiosi, dalla dicitura riportata negli spartiti delle
canzoni dell'800 in corrispondenza del ritornello, che era affidato al coro.
Nella maggior parte dei
casi, si comincia con l'esposizione del tema, talvolta preceduta da una breve
introduzione, e successivamente vi è la costruzione delle improvvisazioni
sul «giro armonico».
Il giro armonico può
essere definito come una sequenza di accordi che si ripete in maniera ciclica.
La sua origine è da ricercarsi probabilmente nella danza o comunque nella
musica popolare di matrice europea. Nel jazz, il giro armonico contribuisce
a definire il percorso del ritornello. La progressione armonica può essere
originale o provenire da un materiale preesistente, come, ad esempio, una canzone
celebre.
Esempio di giro armonico,
sezione A:
Sezione B:
Infine, vi è la
ripresa del motivo iniziale che conduce alla conclusione del brano.
Quindi nella forma chorus
vi è una struttura che si ripete in maniera ciclica dall'inizio alla
fine. Viene disegnato un sentiero sapendo che dovrà essere percorso più
volte. E' una forma in cui l'inizio sospinge verso una fine, e la fine rimanda
all'inizio.
E' interessante rilevare
che gli «eventi» musicali, nella forma chorus,
non si svolgono in un tempo qualunque, ma su una temporalità schematizzata
dalla stessa struttura che si ripete ciclicamente.
Il modulo, presentato nel
corso dell'esposizione, si ripete potenzialmente all'infinito. La sua struttura,
però, non è neutra, possiede un'articolazione che lo orienta verso
la ripetizione. Si tratta di una forma- che- si- chiude e che lo fa in modo
teso.
In molte situazioni, comunque,
il jazzista sa che se il primo chorus non
gli è stato sufficiente per esprimere compiutamente il suo pensiero musicale,
potrà averne a disposizione un secondo, un terzo e così via.
Infine, è necessario
dare rilievo ad un elemento prima soltanto accennato. Dopo varie ripetizioni
del chorus, la composizione termina con
la ripresa del tema, talvolta solo parziale, ma comunque riconoscibile.
L'intera opera, quindi
ha una lunghezza variabile, ma è inquadrata entro due eventi notevoli:
il tema all'inizio e alla fine.
L'articolazione triadica
potrebbe far pensare a una derivazione dal modello sonatistico, che è
costituito, in linea generale, da esposizione- sviluppo- ripresa. Volendo approfondire
il parallelismo, però, ci si rende conto che le analogie finiscono qui.
Innanzi tutto la ripresa,
nella sonata classica, non è identica all'esposizione, né dal
punto di vista armonico, né da quello melodico. Come sottolinea Charles
Rosen:
«il
termine tradizionale per questa sezione è improprio...continuando a usare
il termine 'ripresa' non bisogna supporre che il compositore settecentesco dovesse
ricominciare con il primo tema [12] ».
Inoltre, nella ripresa
sonatistica il nucleo tematico è soggetto a una serie di possibili sviluppi
armonici e melodici che definiscono sottili connessioni con il resto dell'opera.
Nelle forme chorus,
invece, la ripresa del tema viene spesso posta in risalto come ritorno, come
qualcosa che irrompe nello sviluppo improvvisatorio, segnandone la fine. Potremmo
dire che il motivo ricompare alla conclusione del percorso.
Alla luce di queste considerazioni
sembra possibile individuare nella struttura chorus
dei richiami simbolici ai rituali per «l'anno nuovo» delle culture tradizionali, durante i quali veniva rappresentata la ripetizione della cosmogonia
e quindi la distruzione del vecchio cosmo e la creazione di un nuovo inizio.
In molte concezioni cicliche si trova un richiamo esplicito all'andamento delle
fasi lunari: apparizione, crescita, decrescita, scomparsa e riapparizione.
Il Cristianesimo, in quanto
religione dell'uomo «storico», ha posto la fede quale unica via per
superare il terrore della storia. L'incontro delle due culture sembra aver condotto
al mantenimento di una prospettiva ciclica, rafforzata dalla fede cristiana
in un «uomo creatore», capace cioè di creare il «nuovo
inizio».
Il
percorso tracciato dalle strutture
chorus
sembra avere il carattere dei rituali per la rigenerazione del tempo. Si comincia,
infatti, ponendo una figura che viene poi distrutta e ricomposta durante l'improvvisazione,
seguendo un cammino scandito da un andamento ciclico preciso. Dopo una serie
di «passi» viene ricreato il tema iniziale. Vi è dunque uno
stato iniziale, un percorso intermedio e un nuovo inizio. L'opera, così,
non è più soggetta alla durata, che caratterizza il tempo storico,
ma viene inserita in una ciclicità eterna.