In ambito musicale il concetto di
ornamento si identifica in prima istanza con quello di "abbellimento" che ha
finito col diventare un termine "tecnico". Non intendo qui affrontare
l'intricato nodo della genesi storica degli "abbellimenti" né l'altra vexata
quaestio della loro interpretazione musicale, mi limito quindi a richiamarne
i termini per sommi capi.
Occorre innanzitutto sottolineare il ruolo assolutamente
centrale svolto in questo contesto dalla voce: in primo luogo come strumento che
si offre naturalmente come mezzo principale per l'"ex-praessio",
teoricamente senza i limiti degli strumenti veri e propri, condizionati da
problemi di tecnica costruttiva. In secondo luogo come modello per
un'espressività che nel corso della storia musicale, non cesserà di avere nella
vocalità il proprio referente privilegiato (la cosiddetta cantabilità).
All'origine vi è quindi verosimilmente un'espressività vocale che si traduceva
in inflessioni vocalizzi e accenti che nessuno avrebbe mai pensato di fissare
sulla carta, perchè si trattava di improvvisazioni relativamente libere, tanto
sfuggenti quanto necessarie.
[1]
Presero poi il nome di "affetti" (la ribattuta di
gola, il groppo, la cascata, ecc.) piccole inflessioni melodiche con
funzione espressiva introdotte e teorizzate all'inizio del '600 a Firenze dalla
Camerata dei Bardi sulla base di un'ideale corrispondenza tra i sentimenti e
determinate figure musicali. In epoca barocca si tenta sistematicamente il
passaggio di questi affetti dalla musica vocale a quella strumentale ma i
tentativi si portano dietro, assieme al carico di espressività, anche il
problematico fardello di un'espressione segnica sempre molto al di sotto della
soglia di definizione denotativa normalmente attribuita alle cosiddette "note
reali".
Per la verità il ritrovamento del "Codex Faenza" ha
retrodatato questi tentativi all'inizio del XV sec.: si tratta di una
straodinaria raccolta di pagine, originariamente vocali, di autori italiani e
francesi, rielaborate per tastiera. Il confronto tra l'originale vocale e la
parafrasi strumentale mette a nudo il problema, la sfida ermeneutica,
raccolta da interpreti-filologi come Marcel Pérès che, a questo proposito,
afferma «non esiste che ciò che è scritto ma noi sappiamo che il modello scritto
non è sempre fedelmente riprodotto in esecuzione. Così la realtà acustica di
un'opera vocale si situa in qualche luogo a metà tra la testimonianza scritta e
le versioni parafrasate (glossées) del Codex Faenza... L'architettura
astratta di un'opera scritta diventa una realtà udibile in quanto sintesi del
pensiero creativo del compositore e del savoir-faire dell'interprete» ed ecco il
nucleo del problema: «Sembra che non ci fosse modo di mettere per iscritto
questo savoir-faire perché, verosimilmente, per acquistare tutta la sua
pertinenza, esso doveva sorgere dall'istante e catturare l'uditorio per il suo
carattere di cosa effimera e dunque eminentemente umana».
Se proviamo a gettare un rapidissimo sguardo sugli albori
del problema della notazione troveremo che esso è strettamente congiunto con
l'espressione ornata. Risalendo al canto liturgico dei primi secoli, ad esempio,
incontriamo il pneuma che è un passaggio melismatico di ampie proporzioni
dal quale è poi derivato lo jubilus nell'Alleluja. Seguendo la
tradizione neumatica del IX secolo, in ambito gregoriano, troviamo neumi, detti
strophici, concepiti proprio per indirizzare la fioritura melodica, come il
quilisma
(che ricorda la nota di passaggio) e l'oriscus (che ricorda il vibrato
o il tremolo). Nella seconda metà del XI secolo compare il tetragramma che
"diatonizza" il gregoriano operando una semplificazione che, se da un lato
rendeva finalmente trasmissibile il repertorio, dall'altro però "congelava"
nello schema scalare anche melodie, come quelle della tradizione di canto
orientale, che originariamente si basavano su intervalli microtonali [2]
. E' a partire da questi inizi che cogliamo l'origine di un rapporto, quello tra
musica scritta e musica eseguita, che non potrà non essere conflittuale.
Il problema della scrittura spingerà comunque i
compositori a scendere nel campo della teoria prescrittiva, ciascuno pro domo
sua, nel tentativo di arginare l'inevitabile arbitrio, ma le soluzioni
intraprese, comunque motivate da e vincolate a stili personali -oltre ai
problemi intrinseci al rapporto pensiero/segno/esecuzione- non riusciranno mai
ad essere risolutive[3] .
Consideriamo ora il seguente esempio tratto da Bach,
Aria "Erbarme dich" dalla Passione secondo Matteo, parte del violino solista:
es.1
si potrebbe pensare che l'abbellimento del punto 'b' sia
in "note reali" per specificarne l'esecuzione "in levare" rispetto al punto 'a'
dove sarebbe "in battere", eppure, poche battute dopo, proseguendo la linea del
violino nel suo proliferare arricciandosi, troviamo a b.5
es.2
dunque la doppia scrittura non è affatto giustificata da
una denotazione ritmica in qualche modo ovvia e convenzionale, ma piuttosto da
una contingente preoccupazione di non essere "mal interpretato" attraverso uno
spostamento di accento che - nella scrittura di Bach - porta il peso di un
tratto strutturale. [4]
Questa incoerenza nella scrittura è il segno tipico e
assai diffuso di quella situazione ibrida che vede, nei confronti
dell'esecutore, un movimento di continua offerta e sottrazione di libertà.
Precisi o "aleatori" che fossero gli abbellimenti, la loro necessità è
ribadita dal figlio di Bach, Carl Philip Emanuel, nel suo celebre trattato (cfr.
nota 2) il quale nella prima pagina del capitolo dedicato agli abbellimenti
sostiene che: «La loro necessità è provata dalla loro grande
diffusione....(essi) collegano le note; le ravvivano; danno loro dove necessario
un peso ed un'enfasi speciale; le rendono gradevoli e suscitano di conseguenza
una speciale attenzione; aiutano a rendere chiaro il contenuto sia esso triste o
gioioso,...La loro presenza può migliorare una melodia mediocre, mentre la loro
assenza può rendere scarna e vuota una bella melodia.» [5]
Qui cogliamo subito una prima difficoltà nella
definizione dello status dell'abbellimento musicale: come si concilia
infatti questa necessità, più volte ribadita, con il suo carattere effimero e
variabile, al limite dell'arbitrario? Potremmo forse leggere l'incoerenza nelle
scelte di scrittura come un sintomo, ricollegabile in qualche modo a questa
difficoltà.
Nella retorica classica lo "stile ornato" del discorso
viene definito in relazione allo scopo principale dell'orazione che è quello di
persuadere. Cicerone nel De Oratore
parlando del "modo di ornare" il discorso, dice che esso ha «come effetto di
rendere l"orazione gradevole al massimo grado, capace di far breccia nei
sentimenti dell'uditorio...» (III, 91) [6]Costante è negli
autori il richiamo ad un uso appropriato dell'ornamentazione: «...perchè
l'orazione sia disseminata dei fiori delle parole e dei pensieri, non ne
dobbiamo spargere in modo uniforme in tutto il discorso; dovremo invece
distribuirli come fregi e luci in una decorazione.... è necessario scegliere uno
stile che non solo diletti, ma diletti senza saziare» (op. cit. III, 96) [7].
Questi d'altronde i difetti elencati da G. Muffat,
compositore della scuola di Lully, in uno scritto del 1695 citato nel testo di
Geoffroy-Dechaume «...si manca facilmente, ed in quattro modi intorno a questa
principal parte della Melodia... Dall'omissione restano la melodia e l'armonia
nude. Dall'improprietà viene il suonar crudo e barbaro; confuso e ridicolo
dall'eccederne a farne; e dall'inabilità goffo e sforzato» [8]
. E questi quelli elencati da Quintiliano nell'Istitutio Oratoria, «...i
difetti dell'orazione consistono nell'improprietà, nella ridondanza,
nell'oscurità..., contrari all'ornato sono anche ciò che è "mal disposto", ciò
che è "mal figurato", ciò che è "mal collocato"» (VIII, 57, 59) [9],
mentre Cicerone, trova proprio nella musica l'immagine che gli serve ad
articolare questo concetto: «Quanto più delicati e voluttuosi sono, nel canto, i
trilli (flexiones) e le voci in falsetto rispetto alle note esatte e gravi e
tuttavia, se essi sono ripetuti con eccessiva frequenza, protestano non solo le
persone dai gusti sobri, ma anche il grande pubblico.» (III, 98, p.641).
Questi moniti testimoniano con grande evidenza quanto
delicato e fragile sia l'ornamento da maneggiare, e quanto precario l'equilibrio
ogni volta raggiunto nell'opera. Apparentemente sempre distinguibile
dall'oggetto ornato -sia esso un concetto espresso in parole, una melodia o un
elemento architettonico- l'ornamento deve essere usato in una maniera
quantitativamente e qualitativamente assai misurata, ma la difficoltà
prescrittiva mostra con evidenza l'imponderabilità dell'oggetto in
questione che viene a trovarsi sempre sul piano scivoloso del gusto
sul bordo del quale si intravede il baratro del grottesco, del caricaturale,
del brutto.
Poco oltre nel De Oratore vi è il richiamo all'utilità
che accompagna la bellezza rendendola quasi necessaria: «...le colonne
sostengono templi e portici, ma la loro maestà (dignitas) è pari alla loro
utilità...la stessa cosa si verifica in ogni parte del discorso: una certa
grazia e piacevolezza sono conseguenza dell'utilità e quasi della necessità»(op.
cit.,III, 180-181, p.703).
Non stupisca questa mescolanza di carte che ha lo scopo
di smussare una dicotomia oppositiva fin troppo evidente e spigolosa che fin
dall'inizio fa da sfondo al concetto di ornamento: la dicotomia utile/bello.
Essa, al contatto con l'etica classica, di cui Cicerone si fa portatore, può
sciogliersi in una superiore unità che dà un tono morale all'impiego del
giusto ornamento, un implicito elogio della sobrietà che conoscerà svariate
variazioni su tema.
Un'altra dicotomia invece, che vogliamo per il momento
considerare scevra da implicazioni morali, è quella che oppone "struttura" a
"rivestimento": al suo interno l'ornamento trova, in prima istanza, una sua
collocazione naturale come elemento costitutivamente accessorio
proprio in quanto sovrastrutturale.
Torniamo all'esempio della colonna. Come è noto, essa
conosce svariate forme di modulazione di questa dicotomia: la diversa incidenza
che il fregio può esibire nell'ornare ad esempio il capitello ha contribuito a
distinguere gli stili, non solo in Grecia. Qui mi preme coglierla nelle sue due
trasformazioni estreme e concettualmente opposte che, mi sembra, mettono questa
dicotomia in una tensione particolare.
Proviamo a considerare quindi da un lato la Cariatide
(fig.1) o il Telamone (fig.2) dove, l'azione del sorreggere, la sua funzione
strutturale è addirittura rappresentata
in forma quasi teatrale e, contemporaneamente, proprio attraverso questa
rappresentazione, essa si identifica totalmente con l'ornamento [10]
. Dall'altro il pilastrino che, ad esempio, ritma bifore e trifore del Campanile
di Giotto (fig.3) dove, paradossalmente, viene esibito un elemento ornamentale
che ha le sembianze di uno funzionale, senza evidentemente assolverne la
funzione che è diventata puramente decorativa.
Quella che cogliamo in questi esempi sembra essere
una vera tensione dialettica, vi è un'instabilità concettuale,
un'irrequietudine nella compresenza tra la funzione decorativa e quella
strutturale.
L' esempio del pilastrino è tipico di una situazione che
in architettura incontriamo spesso: elementi decorativi che, anziché provenire
dal grande serbatoio iconico del mondo naturale (dalla foglia d'acanto alla
figura umana) nascono da una ripresa allusiva di elementi strutturali.
Spesso su scala diversa: più piccola, ad esempio negli archetti aggettanti o
nelle nicchie a forma di portico sul retro dell'abside di Sant'Ambrogio (fig.4)
più grande, nell'amplificazione dei portali ad arco ottenuta attraverso una
replica concentrica di questo più volte che ne moltiplica e amplifica in
senso "retorico" l'idea di soglia [11] (fig.5)
fig.1 Loggia delle Cariatidi
all'Eretteo, Atene, V sec.a.C
fig.2
Telamone, particolare del Tempio
di Giove Olimpico, Agrigento, 480 a.C.
fig.3
Campanile di Giotto a Firenze
fig.4 Sant'Ambrogio, retro. Milano
fig.5 Duomo di Siena, particolare
del portale.
Questa autoreferenzialità
offre un prezioso spazio all'articolazione di quella tensione dialettica e,
contemporaneamente, una significativa sponda analogica per l'ambito
musicale [12] .