Finale

A questo punto, e dopo il proclama adorniano, possiamo domandarci che spazio ha avuto ed ha l'ornamento nella musica del XX secolo. La risposta si può articolare seguendo l'articolazione del concetto stesso di ornamento.

L'uso dei cosiddetti abbellimenti in senso stretto (trillo, tremolo, mordente, acciaccatura) si è diffuso e radicalizzato al punto tale che non sarebbe difficile trovare esempi di pezzi che appaiono quasi interamente costruiti su figure di questo tipo: da Boulez a Sciarrino a Holliger a Ligeti. Pochi compositori hanno resistito al fascino di prendere una di queste figure iterate e costruirvi un pezzo attraverso varianti più o meno evidenti (lo abbiamo visto con Reich a proposito dell'idea di arabesco). In realtà l'uso di queste figure basate sulla rapidità e sulla ripetizione, ha assunto, come era logico aspettarsi, una valenza tipicamente strutturale, e solo la grafia conserva traccia del loro status effimero perseverando nell'uso delle "notine" per le acciaccature o delle serpentine per i trilli (con tutte le nuove variazioni su tema sortite dai grafismi dei compositori, disegnatori via via sempre più abili e compiaciuti). Molte partiture contemporanee sono così introdotte da pagine esplicative dell'autore (come i Pièces de Clavecin di Couperin), le "note all'interprete": attraverso di esse l'autore richiama l'attenzione sul suo universo di segni e simboli, marca il proprio territorio, sottraendosi in parte (non senza un certo orgoglio ma soffrendone anche i costi) alla koiné di un linguaggio universalizzato.

Per quanto riguarda l'approfondimento della ricerca nel campo delle "determinazioni secondarie" la musica dal secondo dopoguerra in avanti ha conosciuto una stagione di straordinaria, quasi febbrile sperimentazione delle possibilità timbrico-articolative che gli strumenti tradizionali potevano ancora offrire. Sotto lo sbrigativo termine di "effetti" hanno trovato posto suoni multipli negli strumenti a fiato, armonici su posizioni impensabili negli archi, "fruscii", "grattati", ed altri frutti alchemici, ed è stata tutta una appassionante - e a volte velleitaria- declinazione dei limiti da superare, per allargare uno spazio sonoro reso più ampio (così come l'orecchio più sensibile) anche in virtù della contemporanea ricerca in campo elettroacustico.

Ho usato il termine "effetto" tra vigolette poichè è una parola da trattare con cautela: ha infatti finito col condividere tutta l'ambiguità dei termini "ornamento" e "decorazione": i detrattori di questo tipo di ricerca -riconoscibili tra gli stessi compositori- hanno alzato spesso il sopracciglio con scettica sufficenza, quando non hanno scrollato del tutto il capo, dinanzi alla possibilità di strutturare un simile evanescente materiale. Mentre già nel '57, Boulez, uno dei compositori più "strutturalisti", poteva affermare: «abbiamo visto infine intensità e timbro non accontentarsi più delle loro virtù decorative o patetiche per aquistare, oltre la conservazione di questi privilegi, un'importanza funzionale che rafforza i loro poteri e le loro dimensioni» [65] .

D'altra parte l'"assunzione di responsabilità" di queste componenti della musica, il loro "riscatto", potremmo dire, era scritto nella storia dell'evolversi dei linguaggi musicali del '900. Dal punto di vista di una fenomenologia dell'ascolto possiamo senz'altro dire che già nelle opere di Webern l'ascoltatore viene nettamente "orientato" da componenti di ordine sonoriale che finiscono per costituire quella mappa di punti di riferimento, utili al reperimento di "identità", che l'ambito intervallare, ormai ridottissimo, non è più in grado di garantire. Siamo alle soglie di un rovesciamento di ruoli tra elementi primari e secondari, che la musica del secondo dopoguerra radicalizzerà: le altezze contano, naturalmente, ma la loro organizzazione - dalla dodecafonia alle tecniche stocastiche- determinerà una progressiva omogenizzazione della superficie fruibile che finirà in molti casi, dal punto di vista dell'informazione riconoscibile, nella più completa entropia. Contro questo sfondo di grigio diastematico si staglieranno invece estremi contrasti dinamici, nuovi impasti timbrici, la ricerca di texture raffinate e sorprendenti, assieme ad aspetti come la densità, la spazialità, il suono-massa, che in molti casi andranno a costituire, già nella mente del compositore, un nuovo orizzonte progettuale.

 

Un discorso a parte va fatto per glissati e "microtoni": si tratta infatti di interventi sulle altezze che potrebbero ben considerarsi come "abbellimenti" della nuova musica: essi deformano i suoni usuali come riflettendoli in uno specchio distorcente. A patto però che siano inseriti all'interno di una tecnica compositiva ancorata alla tastiera del pianoforte, che non contempli, quindi, l'universo dei suoni come un continuo. Altrimenti - ed è il caso dei microtoni per Grisey o Ferneyhough e dei glissati per Xenakis - ci troviamo ancora una volta di fronte ad un uso strutturato che dietro lascia intravedere il calcolo matematico. A ben vedere, comunque, questi due pronipoti della "nota di pasaggio cromatica" pur mutandone la funzione non ne hanno cancellato l'origine profonda che - da Gesualdo a Wagner- va cercata in quella creazione di una tensione d'ascolto che renda percepibile il divenire del continuum sonoro, sullo sfondo di un conflitto sempre aperto con il "discreto" dello spazio scalare.

 

Che dire poi di quell'aspetto discrezionale, se non addirittura improvvisativo, sostanzialmente e rischiosamente affidato alla sensibilità dell'interprete grazie ad una notazione più o meno volutamente "aperta"? Esso esiste eccome ed ha mostrato di essere quanto mai fertile, è lo spazio dell'alea. L'alea come forma colta nasce con gli atti dissacratori di Cage per solidificarsi gradualmente in pratiche compositive assai calibrate fino ad inserirsi tranquillamente all'interno di poetiche assolutamente deterministiche, in spazi ben recintati sia dal punto di vista segnico, sia semantico: è l'alea "controllata". A proposito di quest'ultima, citiamo ancora Boulez in un saggio di grande lucidità del 1957 del titolo "Alea": «La notazione diverrà a sufficienza - ma con sottigliezza - imprecisa per lasciar passare fra le sue grate - diagramma d'ipotesi - la scelta istantanea e mutevole, cangiante, dell'interprete. Si potrà allungare questa pausa, si potrà sospendere questo suono, si potrà accelerare, si potrà.....ad ogni istante...; per tagliar corto, si è ormai scelta una meticolosità nell'imprecisione» [66] . Leggendo un passo successivo facciamo fatica a credere che l'autore avesse in mente la musica degli anni '50 e non invece quella di Chopin, in particolare dei Notturni che abbiamo commentato nell'es.11: «Se per esempio in una certa successione di suoni inserisco un numero variabile di note ornamentali fra essi, il tempo di questi suoni evidentemente sarà di continuo reso mobile dall'intrusione delle note ornamentali che provocano ogni volta un'interruzione, più esattamente una rottura di tensione diversa. Esse possono concorrere a dare un'impressione di tempo non omogeneo» (p. 46).

Con questo "aggiornamento" siamo, naturalmente, consapevoli di aver barato. Nessun compositore contemporaneo sarebbe disposto a usare il termine di ornamento in relazione all'uso di quei segni, di quelle tecniche di produzione del suono, di quegli aspetti del comporre che, pure, abbiamo visto condividere non poco con la problematica dell'ornamentazione. E' come se i segni avessero una loro storia, in parte autonoma dalla penna che li scrive: così, nell'uso perseverante delle "notine" per le acciaccature, ad esempio, ci piace vedere la persistenza di un legame forte tra suono e segno che incatena il minimalismo grafico alla rapidità di esecuzione e ad una certa approssimazione nella percezione.

La relazione problematica interprete/compositore può forse trovare nella dicotomia soggetto/oggetto una sua articolazione chiarificante. Anche qui siamo di fronte a una maschera - ma senza la sfumatura eticamente negativa dell'inganno, pensiamo piuttosto al teatro: la soggettività del compositore, subisce un travestimento, diventa, con la scrittura, oggettività del testo. Dentro questa cornice la "stenografica" indicazione di un "abbellimento" apre certamente uno spazio di espressione relativamente arbitrario offerto alla soggettività dell'interprete ma il punto è che, alle prese con l'ornamento, l'interprete porta in realtà all'estremo l'atto stesso dell'interpretazione.

La partitura offre all'interprete un insieme di intenzioni e desideri riguardo ai suoni, che la scrittura lascia trasparire solo in parte. Fissata in modo abbastanza preciso la loro durata e altezza, dinamica e timbro, l'atto interpretativo, nel suo senso più pieno e profondo, contempla poi una miriade di decisioni che possono richiedere ore, mesi o anni di riflessione, come pure possono realizzarsi nell'incandescenza dell'istante che coincide con l'esecuzione. Il punto è che la quantità e qualità di queste decisioni, non dipendono in modo sostanziale dalla quantità e qualità dei segni che il compositore usa, in totale quanto inconsapevole adesione alle risorse grafico espressive della propria epoca. L'interprete della musica d'oggi ha dunque il problema di restituire queste sfumature espressive (tanto più caricate ora di valenze strutturali) mentre l'interprete della musica del passato ha il problema di decidere dove eventualmente collocare simili sfumature la cui assenza dal testo, abbiamo visto, non autorizza minimamente una lettura "piatta". Tuttavia non credo si possa affermare che, di fronte ad una pagina di musica contemporanea (anche la più deterministica e lontana dall'alea, anche la più sovraccarica di indicazioni), l'interprete oggi abbia meno decisioni da prendere che affrontando una pagina di Beethoven o Bach, poichè la partitura -qualunque partitura- in ogni caso non può rendere inequivocabile ed esaustivamente esplicita l'intenzione espressiva che pure l'ha motivata. Quell'intenzione non può essere espressa dal testo scritto che in una forma allusiva e costituzionalmente aperta che cela nello stesso istante in cui rivela, con un movimento di continua offerta e sottrazione di certezza. E' una questione, questa, che investe direttamente il conflitto tra segno e pensiero che la problematica dell'ornamento ha il merito di portare alla luce spietatamente, in tutta la sua drammatica vitalità.

 

L'esempio 28 è tratto da una pagina di Dérive (1984) di P. Boulez, la sua superficie mostra quasi esclusivamente "acciaccature", trilli e tremoli: la struttura portante è occultata. L'esempio 29 è invece tratto da un pezzo per flauto di B. Ferneyhough Unity Capsule (1975): estrema tensione è richiesta all'interprete da una scrittura "ai limiti" di tutto ma la complessità-complicazione attende solo di essere fusa nell'incandescenza del gesto interpretativo. Nel riquadro in chiaro si legge un'indicazione per l'interprete nunc et semper destinata a chiarire la relazione tra note "principali" (main notes) che vivono un tempo anche segnicamente definito, e note "accessorie-ma-ineliminabili" (secondary figures) che invece consumano un tempo liminale, infra-note.

es. 28

Boulez

 

 

es.29

 

Ferneyhough

 

Sergio Lanza 1997-2002

Note

[65] Pierre Boulez, op. cit., p.50

[66] Pierre Boulez, op. cit., p.43

 

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