L’idea guida piuttosto semplice è la seguente:
quanto
più è fine una suddivisione dell’ottava che si possa chiamare
naturale, tanto più numerosi saranno i sistemi linguistici che, fondandosi
su di essa, potranno essere caratterizzati a loro volta come naturali. Così
come assumendo un’ottava divisa in dodici parti potremmo rendere conto di un
numero molto ampio di sistemi scalari possibili, molto al di là dei modi
maggiore e minore, questa possibilità di giustificazione si estenderà
a dismisura, aumentando la finezza della suddivisione. In questo modo si toglie
subito di mezzo l’equivoco che considera immediato il passaggio da una molteplicità
di sistemi musicali ad una posizione accentuata di relativismo culturale. Sullo
sfondo vi è l’idea dell’unità profonda soggiacente alla molteplicità
dei linguaggi della musica. La tesi di Daniélou è infatti che
«i differenti sistemi musicali non si oppongono l’un l’altro, ma al contrario
si completano vicendevolmente, in quanto essi scaturiscono necessariamente dalle
stesse leggi fondamentali di cui sfruttano aspetti differenti» [4].
Ma il problema è evidentemente: secondo quale procedura
potremo aumentare la finezza della suddivisione tenendo conto della condizione
essenziale che qualunque proposta debba essere non-arbitraria, e quindi debba
essere realizzata secondo un metodo che ne garantisca la «naturalità»?
Forse in luogo di «naturalità» si potrebbe anche dire «naturalezza»
- che certamente presenta una diversa inclinazione di senso. La prima la potremmo
riservare per un richiamo alla natura fisica in senso forte, mentre la seconda,
come nell’uso comune, riguarda piuttosto l’assenza di forzature, come
quando parliamo di una posizione naturale del corpo contrapponendola
ad una posizione forzata. Nel caso di Daniélou, potrebbero essere
impiegati entrambi i termini, tenendo conto tuttavia che parlando di naturalità
e dunque anche di naturalismo ci si orienta verso un tentativo di fondazione
psico-fisiologica, piuttosto che fisicalistica.
Da questo punto di vista è significativa la presa di posizione
molto chiara da parte di Daniélou contro l’idea ogni tematica fondativa
debba ricorrere agli armonici dei suoni, e in particolare che essi siano da
chiamare in causa per fornire una partizione «valida» dello spazio
sonoro. Già per questo motivo la sua posizione assume un proprio inconsueto
profilo.
Partecipando ad un Colloquio
intitolato «Gli elementi
della formazione delle scale al di fuori della ’risonanza’ - le deformazioni
espressive» [5] - dove il termine
«résonance» sta appunto ad indicare il fenomeno degli armonici,
in apertura del proprio intervento, egli protesta vivacemente nei confronti
del titolo, proposto da Chailley, organizzatore del colloquio. In esso - e su
questo Daniélou ha perfettamente ragione - vi è una tesi implicita
secondo la quale esisterebbe uno schema intervallare «normale», «naturale»,
che è quello fondato negli armonici, e tutte le altre scale dovrebbero
essere interpretate come deviazioni da quello schema, come sue «deformazioni»
dovute ad intenzioni di enfatizzazione, di accentuazione e di esasperazione
espressiva. Ho la sensazione di trovarmi - comincia a dire Daniélou -
all’interno di un «coro di virtuosi omaggi agli armonici» (dans
un concert des vertueux hommages aux harmoniques), ma nei panni di un accusato
sospettato di deviare l’attenzione verso intervalli minori - forse si può
tradurre in questo modo il vivace gioco di parole dell’espressione
Détournements
d’intervalles mineurs, essendo détournement des mineurs la
«corruzione di minorenni». In altri termini: non mi adeguo ad una
interpretazione nella quale la virtù della musica sta nella virtù
degli armonici, e di fronte a ciò preferisco fare la parte del corruttore,
attirando l’attenzione proprio verso quegli intervalli che negli armonici non
hanno necessariamente una giustificazione, mentre la hanno nella pratica musicale.
Non vi è dubbio infatti che la posizione di Daniélou
voglia essere una posizione che comincia a mettersi
dalla parte dei
musicisti, con un certo scetticismo per le fondazioni fisiche ed aritmetiche
quando queste siano puramente «speculative» e lontane dalla pratica
musicale.
Ricollegandosi al titolo del colloquio egli osserva ancora che
«Il termine di deformazioni espressive fa pensare a vecchie accuse contro
i musicisti che si ostinano a tirare le corde per ottenere suoni differenti
dalle giuste intonazioni» [6]. Nello
studio degli intervalli musicali - continua Daniélou - si sono per lo
più cercate giustificazioni fisico-aritmetiche proponendo sistemi per
rendere conto delle pratiche musicali sugli intervalli, e «tuttavia noi
osserviamo sempre presso i teorici la stessa irritazione davanti al fatto che
i musicisti, e soprattutto i migliori, non sembra si conformino esattamente
agli intervalli di alcun sistema». Non è il caso allora di chiedersi
se queste variazioni possano essere realmente caratterizzate come «deformazioni»
oppure esse non siano «al contrario degli elementi fondamentali del vocabolario
musicale»? [7].
Vi sono del resto dei motivi strettamente musicali alla base di
questa presa di posizione di Daniélou che riguardano proprio la sua attenzione
verso la musica orientale e verso la musica indiana. Una delle differenze particolarmente
importanti rispetto alla tradizione del linguaggio tonale europeo sta nell’elemento
armonico, nel senso particolare che questo termine detiene in riferimento
a questo linguaggio: armonia vuol dire armonia triadica, vuol dire
rilevanza
della relazione con la quinta e suo speciale uso, vuol dire tendenziale
compressione dell’elemento melodico, riduzione e restrizione del modo
a favore del tono, vuol dire dominio del modo maggiore. Le propensioni
musicali di Daniélou sono invece dirette verso una rivalutazione della
modalità - e quindi verso una considerazione che mette l’accento sulla
libertà e sulla varietà del melos. In questa prospettiva è
semmai l’elemento verticale che deve subordinarsi a quello orizzontale piuttosto
che inversamente. L’idea che siano le figure melodiche - e quindi un determinato
schema intervallare - a determinare l’armonia, è esplicitamente formulata
da Daniélou [8] .
Ora una concezione tutta puntata sugli armonici porterebbe indubbiamente
ad una valorizzazione indebita dell’armonia tonale e del modo di configurare
il rapporto armonia-melodia tipico del linguaggio tonale. Proprio su questo
punto si può notare quanto sia mutato, nella sua ripresa novecentesca,
il problema di una fondazione oggettiva, che nelle sue formulazioni ottocentesche
difficilmente riusciva a liberarsi da una relazione intrinseca con il linguaggio
tonale. Possiamo dare per incontestabile il fatto che l’armonia tonale abbia
come architettura fondamentale la triade maggiore; ed altrettanto incontestabile
è il fatto fisico che i primi armonici del suono singolo diano evidenza
ad essa. Ma non necessariamente questi due fatti si trovano in connessione tale
per cui il secondo - il dato di fatto fisico-acustico -
stia a fondamento
e quindi a giustificazione del dato di fatto musicale. Daniélou propone
invece un geniale rovesciamento di punto di vista. È possibile infatti
interpretare la semplificazione dei modi nella musica occidentale e il prevalere
del modo maggiore come una scelta anzitutto di ordine musicale: questa
scelta tuttavia attrae l’attenzione uditiva sugli armonici del suono e viene
al tempo stesso da essi accentuata, stimolata e promossa. Fatto fisico e fatto
linguistico interagiscono tra loro e si rafforzano l’un l’altro. Man mano che
si attenua la sensibilità per l’afferramento delle strutture modali,
l’orecchio musicale tende in certo senso a fisicalizzarsi: e ciò
significa corrispondentemente che si rafforza la sensibilità verso i
primi armonici del suono con la formazione di attese conseguenti sul piano musicale.
Ora è chiaro che se interpretiamo le cose in questo modo la funzione
fondazionale della teoria degli armonici rispetto alla teoria della tonalità
viene quasi completamente meno, e il momento fisico-acustico diventa un momento
interno ad una scelta linguistica. In breve potremmo dire che la tonalità
è quel linguaggio nel quale assumono importanza i primi armonici del
suono. Da questa formulazione tuttavia non possiamo assolutamente trarre
la conseguenza che il linguaggio tonale, e la struttura scalare che sta alla
sua base, sia l’unico linguaggio fondato dal punto di vista oggettivo e «naturale».
L’orecchio è divenuto particolarmente sensibile alla struttura fisica
del suono e l’occidente, per affermare l’accordo che riproduce i primi armonici,
ha sacrificato «tutte le possibilità dei modi, tanto differenti
l’uno dall’altro nella loro struttura e nella loro possibilità quanto
lo è un quadrato da un circolo, da un triangolo o da un poligono stellato»
[9]. Purtroppo la genialità di questo
spostamento di accento è alquanto guastato dalla paccottiglia teorica
che fa dire a Daniélou non solo che il modo maggiore non è affatto
più «naturale» di altri ed è meno gradevole ed espressivo
(e fin qui si potrebbe addirittura convenire!), ma anche che «quando studiamo
il simbolismo e le corrispondenze emozionali secondo la teoria indiana, ci rendiamo
conto che gli intervalli del modo maggiore sono quelli che indicano egoismo,
vanità, materialismo e ricerca di piacere, formando così un contesto
in cui la mentalità dei nostri tempi si trova interamente a casa» [10]. Ma nell’occuparci di Daniélou,
abbiamo deciso una volta per tutte di chiudere tutti e due gli occhi su questi
aspetti, in realtà proprio nel tentativo di rendergli la massima giustizia.
Un altro spunto interessante che si può trovare formulato
chiaramente nell’intervento al Colloquio è l’importanza data anche
in rapporto a questo ordine di problemi alla distinzione tra produzione vocale
e produzione strumentale del suono, e quindi tra una riflessione che faccia
prevalentemente leva sull’una o sull’altra. Ciò che Daniélou suggerisce
è che vi è presumibilmente una differenza tra una melodia cantata
o comunque pensata vocalmente ed i suoi intervalli caratteristici e la stessa
melodia che si cerca di riportare su uno strumento che avrà un’accordatura
necessariamente standardizzata. La maggior «naturalezza» sarà
certamente dalla parte della melodia vocale perché sarà priva
di adattamenti e compromessi che si rendono necessari [11]
. Ma il senso di questa osservazione - che in se stessa appare un po’ generica
[12] - sta invece nel fatto che se la riflessione
sulla scala si orienta sugli strumenti e sui metodi di accordatura, si darà
particolare importanza a certi intervalli piuttosto che a certi altri - si pensi
solo all’intervallo di quinta, di quarta e di ottava. Se tuttavia pensiamo ad
una melodia così come si sviluppa «vocalmente» nella nostra
mente (Mélodie purement vocale ou mentale) - osserva Daniélou
- allora le cose cambiano. Alla domanda «se quegli intervalli abbiano la
stessa importanza in una melodia vocale o mentale» si risponderà
«enfaticamente: no!». «Una quinta giusta non è ad alcun
titolo un intervallo melodico più importante che una seconda maggiore
o una terza minore, e il fatto che la seconda sia una quinta della quinta non
si riflette nel carattere melodico ed espressivo proprio delle seconde» [13]. Queste considerazioni in realtà
possono essere ricongiunte a quelle sugli armonici per due ordini di ragioni:
la quinta e l’ottava sono gli armonici più forti del suono; in una pratica
di accordatura è richiesta una attenzione particolarmente tesa nei confronti
degli armonici. Come conclusione del problema potremmo assumere questa citazione
di Daniélou: «Gli armonici certo sono importanti» - ma in realtà
come «fenomeno secondario, una curiosa proprietà dei corpi sonori
tanto utile quanto lo sono i battimenti per accordare gli strumenti, ma che
non basta, senza far intervenire altre proprietà dei suoni, a giustificare
la struttura delle scale e dell’espressione melodica» [14].