1.  L’idea di scala naturale e la critica di una fondazione negli armonici  


Non vi è dubbio che uno degli argomenti considerati immediatamente probanti contro le istanze di fondazione naturalistica possa essere rappresentato dalla semplice esibizione della molteplicità di strutture intervallari che possiamo trovare in culture musicali evolute lontane dalla tradizione musicale europea - come quella indiana, cinese, giapponese o araba. Si potrà allora subito porre l’accento sul relativismo culturale e sulla necessità di adottare un punto di vista convenzionalistico in rapporto al problema delle possibili suddivisioni dell’ottava. Un simile punto di vista è dato spesso per scontato proprio su questa base. Sembra che si debba dare come altrettanto scontato il nesso tra linguaggio tonale e fondazione naturalistica, cosicché se il linguaggio tonale cessa di essere difeso come il linguaggio «migliore», verrebbe a cadere ogni problema di fondazione naturalistica, o più in generale oggettivistica. Eppure proprio la teoria novecentesca della musica non conferma ovunque e in modo unanime questi luoghi comuni - la controversia sulla «naturalità» va ben oltre le soglie del secolo ventesimo e arriva a ricomprendere anche la molteplicità linguistica che può essere considerata uno dei punti solidamente acquisiti [1] . Così, se andiamo a vedere come stanno le cose presso uno studioso come Alain Daniélou, che si è guadagnato grandissimi meriti come critico di una concezione eurocentrica della musica e come promotore della musica orientale in genere e indiana in particolare, troviamo una posizione assai diversa, assai più articolata. Certamente ci tratta di un autore che può suscitare accese idiosincrasie - ed è facile disfarsi di lui con un’alzata di spalle: tuttavia forse è tempo, proprio ora che guardiamo al novecento come al nostro passato, di disfarsi invece proprio delle nostre idiosincrasie per tentare pacatamente di comprendere quali siano i pensieri e gli umori che hanno attraversato la ricchissima vicenda della musicalità novecentesca.

Anzitutto per Daniélou non vi è alcun problema nell’ammissione della molteplicità delle scale. Basta, egli dice ad un certo punto nel suo volume Introduction to the study of musical Scales [2] con la storia del buon selvaggio che raccoglie la canna da terra e che scopre così la scala diatonica che Zarlino supponeva fosse «la scala naturale». Invece bisogna rendersi conto che vi sono «migliaia di scale che sono possibili, espressive, piacevoli all’orecchio e perfettamente naturali e legittime» [3]. Ma questa affermazione non è orientata in senso relativistico e prepara anzi una complicata elaborazione per mostrare che vi è una unica possibile suddivisione dello spazio sonoro dell’ottava che possa essere chiamata «naturale»: essa rappresenta una sorta di trama fondamentale di intervalli che vengono variamente selezionati dando luogo appunto ad un’amplissima molteplicità di scale, che sono «piacevoli all’orecchio e perfettamente naturali e legittime» proprio per il fatto che poggiano su di essa. Da queste scale si distingueranno poi strutture scalari «artificiali» - dipendenti da suddivisione arbitrarie (innaturali) - che saranno appunto prive di giustificazioni, ed assai dubbie dal punto di vista musicale.

L’idea guida piuttosto semplice è la seguente: quanto più è fine una suddivisione dell’ottava che si possa chiamare naturale, tanto più numerosi saranno i sistemi linguistici che, fondandosi su di essa, potranno essere caratterizzati a loro volta come naturali. Così come assumendo un’ottava divisa in dodici parti potremmo rendere conto di un numero molto ampio di sistemi scalari possibili, molto al di là dei modi maggiore e minore, questa possibilità di giustificazione si estenderà a dismisura, aumentando la finezza della suddivisione. In questo modo si toglie subito di mezzo l’equivoco che considera immediato il passaggio da una molteplicità di sistemi musicali ad una posizione accentuata di relativismo culturale. Sullo sfondo vi è l’idea dell’unità profonda soggiacente alla molteplicità dei linguaggi della musica. La tesi di Daniélou è infatti che «i differenti sistemi musicali non si oppongono l’un l’altro, ma al contrario si completano vicendevolmente, in quanto essi scaturiscono necessariamente dalle stesse leggi fondamentali di cui sfruttano aspetti differenti» [4].

Ma il problema è evidentemente: secondo quale procedura potremo aumentare la finezza della suddivisione tenendo conto della condizione essenziale che qualunque proposta debba essere non-arbitraria, e quindi debba essere realizzata secondo un metodo che ne garantisca la «naturalità»? Forse in luogo di «naturalità» si potrebbe anche dire «naturalezza» - che certamente presenta una diversa inclinazione di senso. La prima la potremmo riservare per un richiamo alla natura fisica in senso forte, mentre la seconda, come nell’uso comune, riguarda piuttosto l’assenza di forzature, come quando parliamo di una posizione naturale del corpo contrapponendola ad una posizione forzata. Nel caso di Daniélou, potrebbero essere impiegati entrambi i termini, tenendo conto tuttavia che parlando di naturalità e dunque anche di naturalismo ci si orienta verso un tentativo di fondazione psico-fisiologica, piuttosto che fisicalistica.

Da questo punto di vista è significativa la presa di posizione molto chiara da parte di Daniélou contro l’idea ogni tematica fondativa debba ricorrere agli armonici dei suoni, e in particolare che essi siano da chiamare in causa per fornire una partizione «valida» dello spazio sonoro. Già per questo motivo la sua posizione assume un proprio inconsueto profilo.

Partecipando ad un Colloquio intitolato «Gli elementi della formazione delle scale al di fuori della ’risonanza’ - le deformazioni espressive» [5] - dove il termine «résonance» sta appunto ad indicare il fenomeno degli armonici, in apertura del proprio intervento, egli protesta vivacemente nei confronti del titolo, proposto da Chailley, organizzatore del colloquio. In esso - e su questo Daniélou ha perfettamente ragione - vi è una tesi implicita secondo la quale esisterebbe uno schema intervallare «normale», «naturale», che è quello fondato negli armonici, e tutte le altre scale dovrebbero essere interpretate come deviazioni da quello schema, come sue «deformazioni» dovute ad intenzioni di enfatizzazione, di accentuazione e di esasperazione espressiva. Ho la sensazione di trovarmi - comincia a dire Daniélou - all’interno di un «coro di virtuosi omaggi agli armonici» (dans un concert des vertueux hommages aux harmoniques), ma nei panni di un accusato sospettato di deviare l’attenzione verso intervalli minori - forse si può tradurre in questo modo il vivace gioco di parole dell’espressione Détournements d’intervalles mineurs, essendo détournement des mineurs la «corruzione di minorenni». In altri termini: non mi adeguo ad una interpretazione nella quale la virtù della musica sta nella virtù degli armonici, e di fronte a ciò preferisco fare la parte del corruttore, attirando l’attenzione proprio verso quegli intervalli che negli armonici non hanno necessariamente una giustificazione, mentre la hanno nella pratica musicale.

Non vi è dubbio infatti che la posizione di Daniélou voglia essere una posizione che comincia a mettersi dalla parte dei musicisti, con un certo scetticismo per le fondazioni fisiche ed aritmetiche quando queste siano puramente «speculative» e lontane dalla pratica musicale.

Ricollegandosi al titolo del colloquio egli osserva ancora che «Il termine di deformazioni espressive fa pensare a vecchie accuse contro i musicisti che si ostinano a tirare le corde per ottenere suoni differenti dalle giuste intonazioni» [6]. Nello studio degli intervalli musicali - continua Daniélou - si sono per lo più cercate giustificazioni fisico-aritmetiche proponendo sistemi per rendere conto delle pratiche musicali sugli intervalli, e «tuttavia noi osserviamo sempre presso i teorici la stessa irritazione davanti al fatto che i musicisti, e soprattutto i migliori, non sembra si conformino esattamente agli intervalli di alcun sistema». Non è il caso allora di chiedersi se queste variazioni possano essere realmente caratterizzate come «deformazioni» oppure esse non siano «al contrario degli elementi fondamentali del vocabolario musicale»? [7].

Vi sono del resto dei motivi strettamente musicali alla base di questa presa di posizione di Daniélou che riguardano proprio la sua attenzione verso la musica orientale e verso la musica indiana. Una delle differenze particolarmente importanti rispetto alla tradizione del linguaggio tonale europeo sta nell’elemento armonico, nel senso particolare che questo termine detiene in riferimento a questo linguaggio: armonia vuol dire armonia triadica, vuol dire rilevanza della relazione con la quinta e suo speciale uso, vuol dire tendenziale compressione dell’elemento melodico, riduzione e restrizione del modo a favore del tono, vuol dire dominio del modo maggiore. Le propensioni musicali di Daniélou sono invece dirette verso una rivalutazione della modalità - e quindi verso una considerazione che mette l’accento sulla libertà e sulla varietà del melos. In questa prospettiva è semmai l’elemento verticale che deve subordinarsi a quello orizzontale piuttosto che inversamente. L’idea che siano le figure melodiche - e quindi un determinato schema intervallare - a determinare l’armonia, è esplicitamente formulata da Daniélou [8] .

Ora una concezione tutta puntata sugli armonici porterebbe indubbiamente ad una valorizzazione indebita dell’armonia tonale e del modo di configurare il rapporto armonia-melodia tipico del linguaggio tonale. Proprio su questo punto si può notare quanto sia mutato, nella sua ripresa novecentesca, il problema di una fondazione oggettiva, che nelle sue formulazioni ottocentesche difficilmente riusciva a liberarsi da una relazione intrinseca con il linguaggio tonale. Possiamo dare per incontestabile il fatto che l’armonia tonale abbia come architettura fondamentale la triade maggiore; ed altrettanto incontestabile è il fatto fisico che i primi armonici del suono singolo diano evidenza ad essa. Ma non necessariamente questi due fatti si trovano in connessione tale per cui il secondo - il dato di fatto fisico-acustico - stia a fondamento e quindi a giustificazione del dato di fatto musicale. Daniélou propone invece un geniale rovesciamento di punto di vista. È possibile infatti interpretare la semplificazione dei modi nella musica occidentale e il prevalere del modo maggiore come una scelta anzitutto di ordine musicale: questa scelta tuttavia attrae l’attenzione uditiva sugli armonici del suono e viene al tempo stesso da essi accentuata, stimolata e promossa. Fatto fisico e fatto linguistico interagiscono tra loro e si rafforzano l’un l’altro. Man mano che si attenua la sensibilità per l’afferramento delle strutture modali, l’orecchio musicale tende in certo senso a fisicalizzarsi: e ciò significa corrispondentemente che si rafforza la sensibilità verso i primi armonici del suono con la formazione di attese conseguenti sul piano musicale. Ora è chiaro che se interpretiamo le cose in questo modo la funzione fondazionale della teoria degli armonici rispetto alla teoria della tonalità viene quasi completamente meno, e il momento fisico-acustico diventa un momento interno ad una scelta linguistica. In breve potremmo dire che la tonalità è quel linguaggio nel quale assumono importanza i primi armonici del suono. Da questa formulazione tuttavia non possiamo assolutamente trarre la conseguenza che il linguaggio tonale, e la struttura scalare che sta alla sua base, sia l’unico linguaggio fondato dal punto di vista oggettivo e «naturale». L’orecchio è divenuto particolarmente sensibile alla struttura fisica del suono e l’occidente, per affermare l’accordo che riproduce i primi armonici, ha sacrificato «tutte le possibilità dei modi, tanto differenti l’uno dall’altro nella loro struttura e nella loro possibilità quanto lo è un quadrato da un circolo, da un triangolo o da un poligono stellato» [9]. Purtroppo la genialità di questo spostamento di accento è alquanto guastato dalla paccottiglia teorica che fa dire a Daniélou non solo che il modo maggiore non è affatto più «naturale» di altri ed è meno gradevole ed espressivo (e fin qui si potrebbe addirittura convenire!), ma anche che «quando studiamo il simbolismo e le corrispondenze emozionali secondo la teoria indiana, ci rendiamo conto che gli intervalli del modo maggiore sono quelli che indicano egoismo, vanità, materialismo e ricerca di piacere, formando così un contesto in cui la mentalità dei nostri tempi si trova interamente a casa» [10]. Ma nell’occuparci di Daniélou, abbiamo deciso una volta per tutte di chiudere tutti e due gli occhi su questi aspetti, in realtà proprio nel tentativo di rendergli la massima giustizia.

Un altro spunto interessante che si può trovare formulato chiaramente nell’intervento al Colloquio è l’importanza data anche in rapporto a questo ordine di problemi alla distinzione tra produzione vocale e produzione strumentale del suono, e quindi tra una riflessione che faccia prevalentemente leva sull’una o sull’altra. Ciò che Daniélou suggerisce è che vi è presumibilmente una differenza tra una melodia cantata o comunque pensata vocalmente ed i suoi intervalli caratteristici e la stessa melodia che si cerca di riportare su uno strumento che avrà un’accordatura necessariamente standardizzata. La maggior «naturalezza» sarà certamente dalla parte della melodia vocale perché sarà priva di adattamenti e compromessi che si rendono necessari [11] . Ma il senso di questa osservazione - che in se stessa appare un po’ generica [12] - sta invece nel fatto che se la riflessione sulla scala si orienta sugli strumenti e sui metodi di accordatura, si darà particolare importanza a certi intervalli piuttosto che a certi altri - si pensi solo all’intervallo di quinta, di quarta e di ottava. Se tuttavia pensiamo ad una melodia così come si sviluppa «vocalmente» nella nostra mente (Mélodie purement vocale ou mentale) - osserva Daniélou - allora le cose cambiano. Alla domanda «se quegli intervalli abbiano la stessa importanza in una melodia vocale o mentale» si risponderà «enfaticamente: no!». «Una quinta giusta non è ad alcun titolo un intervallo melodico più importante che una seconda maggiore o una terza minore, e il fatto che la seconda sia una quinta della quinta non si riflette nel carattere melodico ed espressivo proprio delle seconde» [13]. Queste considerazioni in realtà possono essere ricongiunte a quelle sugli armonici per due ordini di ragioni: la quinta e l’ottava sono gli armonici più forti del suono; in una pratica di accordatura è richiesta una attenzione particolarmente tesa nei confronti degli armonici. Come conclusione del problema potremmo assumere questa citazione di Daniélou: «Gli armonici certo sono importanti» - ma in realtà come «fenomeno secondario, una curiosa proprietà dei corpi sonori tanto utile quanto lo sono i battimenti per accordare gli strumenti, ma che non basta, senza far intervenire altre proprietà dei suoni, a giustificare la struttura delle scale e dell’espressione melodica» [14].

 


Note

[1] Le cose dette nell’Introduzione al mio saggio La composizione armonica del suono e la serie delle affinità tonali in Hindemith, De Musica, Internet 2002, possono valere come premessa generale anche per il presente lavoro.
[2] Il volume è stato pubblicato da The India Society, London 1943. In seguito indicato come Introduction.[3] ivi, p. 6.
[4] ivi, p. 22.
[5] Colloque La Resonance dans les échelles Musicales. Paris 9 -14 Mai 1960, éd. C.N.R.S. 1963: études rèunies et présentées par Edith Weber.
[6] ivi, p. 208
[7] ivi.
[8]
Introduction, p. 23.
[9] ivi, p. 216.
[10] ivi.
[11] Secondo Daniélou il compositore spesso tenderà a «pensare vocalmente", cioè a cantare mentalmente il movimento melodico che poi "cercherà di trascrivere in una scala riferendosi a intervalli strumentali che sembrano loro essere approssimativamente gli stessi di quelli pensati vocalmente", ivi, p. 208.
[12] Che la voce tenda cantare su intervalli «naturali»è in realtà di un luogo comune, in rapporto al quale sembra difficile escogitare un metodo attendibile di verifica, spesso ripetuto dai sostenitori dell’esistenza di una scala naturale.
[13] ivi, p. 209.
[14] ivi.

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