testata Uomo Nero 13



Materiali per una storia delle arti della modernità


anno XV, nn. 14-15    marzo 2018

Camouflage



L’Uomo Nero camouflage
Editoriale


di Antonello Negrii
















Questo numero dell’“Uomo Nero” dedicato al camouflage nasce da un’idea di Yves Chevrefils Desbiolles, che della rivista
è colonna internazionale. Gli scambi di propositi e intenzioni di ricerca con lo studioso franco-canadese – responsabile
dei fondi artistici dell’IMEC (Institut Mémoires de l’édition contemporaine) di Caen – si sono periodicamente ripetuti,
negli ultimi anni, in occasione di incontri e colloques tra Parigi, Nizza, Aix-en-Provence e Milano, dove infine la sua idea
di raccogliere testi diversi sulla questione del camouflage – intorno a un particolare aspetto del quale egli stava sviluppando
una propria indagine – ha incontrato l’adesione unanime e convinta del comitato di redazione.
Quando concretamente ci si è dedicati alla questione, cominciando a raccogliere i primi contributi, si è vieppiù messa a fuoco la presenza non irrilevante del camouflage nel fare artistico, dove la dissimulazione, il dar forma a qualcosa che nasconde qualcos’altro, parrebbe un procedimento più interessante di quello puramente mimetico.
In tal senso, i confini con la vecchia figura retorica della metafora sono subito apparsi molto permeabili. Ma essendo il
tema della metafora impraticabile per la sua ampiezza (e genericità) si è trattato di stringere il campo, accogliendo le proposte che sono sembrate più puntualmente attinenti al tema come si era inizialmente configurato nelle discussioni con Chevrefils Desbiolles, cui di conseguenza tocca di aprire il fascicolo.
Nel suo contributo, il punto di partenza è l’incontro tra la moderna arte della guerra e le arti del disegno e della pittura, con quest’ultima naturalmente in posizione ancillare. Un incontro che di per sé dà da pensare. Il caso studiato da Chevrefils Desbiolles riguarda il pittore cubista André Mare – importante, benché minore rispetto a nomi più comunemente frequentati – che mise le sue capacità di manipolatore di forme e colori anche al servizio della dissimulazione bellica di posizioni e armamenti sul campo di battaglia. Un fenomeno cominciato con la Prima guerra mondiale su tutti i fronti, in Francia inizialmente ispirato da Lucien-Victor Guirand de Scévola, pittore d’impronta naturalista-simbolista, e avviato poi anche in Italia con un “laboratorio di mascheramento” ricordato dall’autore in apertura del suo articolo. Il tema più ampio – di particolare interesse in relazione a un tipo di committenza, diretta e indiretta, ancora poco considerata, soprattutto per l’età contemporanea – è quello dei rapporti tra artisti e potere e strategie militari, a prescindere dal tema pittorico della guerra che è altra questione. Un tema, quest’ultimo, che può essere scelto autonomamente – nei casi, per ricordarne alcuni, degli Induno o di Fattori, o di Aldo Carpi che disegna la ritirata dei Serbi durante la Prima guerra mondiale – o essere direttamente commissionato a official artists, come si chiamavano in Gran Bretagna durante entrambe le guerre mondiali e ancora nella guerra delle Falkland, o Malvine, appositamente arruolati per rappresentare con intenti di propaganda il conflitto in atto .
Nonostante la stessa committenza, il caso del cubismo al servizio del camouflage è diverso, più sottile; si può ricordare come secoli prima con analogo inganno – questa volta non ottico – abbiano operato artistispia che, facendosi passare per pittori interessati a certi aspri paesaggi montani del centro Europa, ricchi di minerali e pozzi d’estrazione, ne raffiguravano gli impianti destinati alla produzione di armamenti, strategicamente tenuti lontani da occhi indiscreti .
Nessuna innocenza, naturalmente, e nessuna purezza in tali attuazioni del saper fare artistico. D’altra parte, l’uso della texture del camouflage da parte, per esempio, di Andy Warhol o Alighiero Boetti – o della moda – non soltanto ne svaluta il significato originario con un ulteriore travisamento, quello della bellezza dell’arte, pura o applicata che sia, ma conferma il carattere servile di forme artistiche o para-artistiche del genere, modesti cascami di altro .
Dopo la guerra, nel pieno del fascismo in Italia, il futurista Tato firma con Filippo Tommaso Marinetti quel Manifesto della fotografia futurista che nella redazione definitiva, 1931, “contiene un riferimento esplicito alle possibili applicazioni belliche delle conoscenze sperimentate col camuffamento fotografico”. Claudio Marra – che scrive appunto di Fotografia e camouflage nell’esperienza futurista – sposta il discorso dalla committenza militare ad artisti in grado di soddisfare le sue richieste, per impieghi esplicitamente bellici, a una scelta militante, da parte di un artista e del gruppo cui appartiene, di svolgere un ruolo politico, tra l’altro, attraverso la messa a punto della tecnica fotografica del camuffamento, nel generale contesto di un’arte e di una sperimentazione artistica dichiaratamente di stato, funzionali alle necessità anche militari dello stato stesso. D’altronde, il punto 16 del citato Manifesto – il tema è “l’arte fotografica degli oggetti camuffati, intesa a sviluppare l’arte dei camuffamenti di guerra che ha lo scopo di illudere gli osservatori aerei” – diventa per Marra, che individua in affermazioni di Tato dalle esplicite connotazioni belliche un importante “contributo alla delineazione dell’identità teorica del mezzo”, il possibile punto di partenza di una “meta-riflessione sullo statuto linguistico di tutta la fotografia, travalicando i confini del discorso futurista”. Tato applicherà le sue idee ai “camuffamenti di oggetti”, alcuni dei quali – conservati al MART di Rovereto nel Fondo Mino Somenzi – erano stati analiticamente descritti da Irene Zucca nella tesi di laurea Tato, fotografia e fotocollage (1930-1938), elaborata nel vecchio Dipartimento di Storia dell’arte, della musica e dello spettacolo della nostra università e discussa nell’anno accademico 2003-2004 .
Un quadro di Paul Klee studiato da Claudia Negri pone una questione opposta e piuttosto singolare, quando si pensi alla poetica del pittore svizzero e alle sue ricerche eminentemente formali. Il presupposto, nel caso, è un’indipendenza assoluta da una committenza – imposta o sollecitata – definibile con precisione; dunque una libertà d’azione che nella fattispecie si manifesta attraverso una sintassi e una grammatica formali criptiche per camuffare affermazioni, per Klee, inconsuete, piuttosto forti e partigiane su problemi d’attualità alla vigilia della Seconda guerra mondiale. A far da paravento a quanto l’artista con questo quadro parrebbe intendere è proprio una scena bellica – riconducibile alla Guerra di secessione americana – già di per sé non immediatamente decifrabile, nascosta com’è dietro segni in apparenza elementari e di significato oscuro, soprattutto nelle reciproche relazioni. La parte dedicata al periodo tra le due guerre è completata da un articolato intervento di Anna Mazzanti intorno al tema del manichino, con notevoli e problematici slittamenti di prospettiva dall’ambito tradizionalmente artistico, metafisicosurrealista, a quello delle arti applicate e di sperimentali camuffamenti di certe messe in scena allestitive nelle esposizioni monzesi degli anni Venti.

Una parte consistente della sezione monografica di questo fascicolo riguarda l’opera di artisti operanti nel clima contestativo di media e linguaggi più comunemente usati sino alla metà circa degli anni Sessanta. Maria De Vivo si concentra sulla fase iniziale dell’itinerario creativo di Piero Gilardi utilizzando il concetto di camouflage come “cornice tematico-critica” particolarmente adatta per un’operatività dalle suggestive implicazioni con le idee di Roger Caillois intorno alle “scienze diagonali”. Nel suo saggio, Silvia Bignami analizza il “trasformismo” di Vito Acconci nelle “selferecting houses” dei primi anni Ottanta, il cui sviluppo nel 1988 è la fondazione dell’atelier di progettazione architettonica Acconci Studio. Bisogna qui ricordare – aprendo una piccola parentesi molto concretamente metodologica – come alla base dell’articolo su Acconci “chameleon” ci siano i materiali dell’Archivio del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e dell’Archivio Zeno Birolli, curatore nel 1981 della mostra dedicata all’artista americano, scandagliati dalla Bignami con la collaborazione di Valeria Baronchelli – laureanda magistrale del nostro Dipartimento – per il Flashback su Acconci in occasione di Performing PAC, le tre giornate consacrate alla performatività svoltesi all’inizio di marzo 2018. L’archivio di un’istituzione come il PAC conserva infatti una quantità di cartelle con la memoria del concreto lavoro del suo staff: atti amministrativi densi di pedanterie burocratiche, lettere di servizio, corrispondenza con gli artisti, inviti, comunicati stampa, piantine con la disposizione delle opere, cataloghi-taccuini, fotografie di opere e allestimenti e molti altri materiali di documentazione. A uno sguardo attento non sfuggono dettagli e informazioni che permettono, da una parte, di restituire una dimensione più reale alle mostre e, dall’altra, di riscoprire idee e desideri degli artisti rispetto allo spazio, alle istituzioni, all’allestimento, al catalogo. Diventa così possibile ricomporre tracce del passato come utili strumenti di lettura dell’oggi e di ridefinizione della contemporaneità, inserendosi nel dibattito attuale sull’importanza storiografica degli archivi come luogo di deposito di reperti non di rado effimeri. A seguire, un breve intervento di Viviana Pozzoli mette a fuoco il ruolo significativo di Birolli nella ridefinizione dello spazio espositivo dopo il 1977 .
Riprendendo il filo del camouflage, il peso della fotografia nelle sue pratiche attraversa l’intero ventesimo secolo. Marra ha trattato delle teorizzazioni del futurista Tato, concretizzatesi – si è accennato – in fotografici “camuffamenti di oggetti”; con un salto di oltre un quarantennio, Caterina Toschi mette a fuoco il procedimento e il senso dei lavori fotografici Falso/Vero e Mimetizzazioni di Massimo Nannucci realizzati negli anni Settanta, fortemente legati all’idea di reinvenzione e rivisitazione della città (nel caso, Firenze), dei suoi spazi e dei suoi monumenti, secondo un interesse diffuso e tipico di quel periodo rivolto a una varietà di “riappropriazioni” e interventi urbani, come ha esemplarmente dimostrato la mostra del 2011 Fuori! Arte e spazio urbano 1968-1976, allestita nel Museo del Novecento di Milano. La fotografia, nel caso di Nannucci, diventa disvelamento di camuffamenti stratificati, ma anche riscrizione cartografica, dove una certa componente “irritante”, largamente basata sulla dialettica di vero e falso, finisce per assumere la funzione dell’esercizio didattico intorno al guardare e ai meccanismi della conoscenza visiva .
Anne Brigman – nata alle Hawaii, poi operante nella West Coast degli Stati Uniti – ci riporta all’inizio del Novecento. Ma le componenti proto-comportamentiste e concettuali del suo essere fotografa, ricche di travisamenti, mimetismi e ambiguità percettive, puntualmente indagate in chiave gender al di là dell’impronta pittorialista dei lavori, hanno suggerito una forzatura cronologica, facendo collocare il contributo di Federica Muzzarelli in chiusura di questa parte del fascicolo, insieme a un album da me stesso commentato. Soggetto di quest’ultimo è Nike, recente lavoro dello scultore Paolo Gallerani che, da autentico artista engagé nella migliore e vecchia tradizione del termine, chiude il cerchio del nostro camouflage ritornando a temi – e ricorrendo a oggetti – esplicitamente bellici. Il punto di vista è ovviamente capovolto rispetto a quello della committenza del cubista Mare.

I fuori tema del fascicolo testimoniano la vivacità degli studiosi delle ultime generazioni con la considerevole ampiezza dei loro interessi e metodologie, sempre in un quadro di ammirevole accuratezza storicofilologica, come nel caso – nella rubrica Rarità e riscoperte – del contributo di Irene Boyer su Francesco Sapori e la sua bibliografia. Gli argomenti spaziano dagli anni delle prime avanguardie – indagate in due loro protagonisti (Boccioni e Archipenko nell’articolo di Ilaria Cicali) e in un “apostolo del bello” della moderna critica d’arte (Vittorio Pica nel contributo di Amanda Russo) – alla scultura degli anni centrali del Novecento, come fenomeno di arte pubblica (i “santi” e gli “angeli” del Duomo di Milano studiati da Michele Aversa) e di fortuna internazionale di un protagonista della scuola italiana (il Manzù londinese di Andrea Lanzafame); dai contatti in chiave ideogrammatica tra il pittore cinese Li Yuan-chia e Giuseppe Capogrossi (fatti emergere da Valentina Di Prospero) a certe fonti meno studiate del concettualismo italiano degli anni Settanta, con significativi riflessi nell’opera di Giuseppe Penone (messi in luce e commentati da Francesco Guzzetti) .
Infine, ancora gli anni Settanta – sui quali si sta ormai da tempo concentrando l’attenzione non solo degli studiosi più giovani, ma della critica che ne fu diretta testimone – sono al centro del contributo di Francesca Gallo, sui videogiornali d’autore della decima Quadriennale romana.

 



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