Nel testo già citato Gombrich riprende in più punti
l'idea di un apparentamento stretto tra musica e arte decorativa, cosa per altro
sostenuta da vari teorici [31].
Essa si fonda sostanzialmente sull'osservazione che l'elaborazione di
patterns
decorativi mostra come principio costruttivo ordinatore interno il ritmo.
Il concetto di ritmo che, nella usa esibizione più elementare - e quindi più
forte-, rimanda ad un'azione ripetitiva ma anche ad uno scorrere (dal greco
rhein) interrotto, si potrebbe dire una reiterata soluzione di continuità,
si fonda a sua volta sulla presenza di uno schema regolare (anche se potremmo
ugualmente dire che un ritmo elementare fonda
uno schema, lo costruisce nel tempo). L'esibizione di questo schema
regolare è effettivamente riscontrabile, e con tutta evidenza, sia
nell'iterazione di patterns decorativi (greche, onde, palmette o
foglioline), sia nell'iterazione di figure melodiche simili, di veri e propri
"patterns melodici". [32]
Il testo di Gombrich apre poi un altro interessante fronte analogico con il
discorso sulla combinatoria.
Essa appare subito come un terreno fertile di confronto: permutazioni,
disposizioni, combinazioni, si possono interpretare come strategie di dominio
dell'ordinamento di varianti e questo su un puro piano costruttivo logico, prima
cioè di tradursi in termini visivi o acustici. La figura seguente (9) è tratta
da uno dei primi trattati sulla teoria del disegno (1722) che pone alla base uno
studio sistematico delle possibilità combinatorie.
Anche qui però Gombich manca un paragone che mi sembra di
assoluta pertinenza: l'assimilazione, cioè, di queste strategie ad altre
analoghe in uso a partire dal contrappunto fiammingo e poi ampiamente recuperate
e sfruttate dalla serialità, come l'uso delle forme "a specchio", che rovesciano
e invertono una successione di note secondo i due assi di simmetria e sono
variamente combinabili (es.20).
fig. 9
es. 21
Nell'esempio seguente ho preso l'es.21 e l'ho
"moltiplicato" per mostrare quanto facilmente si possa assimilare un simile
"disegno" ad un pattern decorativo:
es. 22
Naturalmente è solo un gioco, di ben scarsa efficacia dal
punto di vista musicale data l'inadeguatezza di una simmetria geometrica "troppo
simmetrica" nel dominio musicale (cfr. quanto detto a proposito del frattale).
Anche la Sinfonia a 3 voci n°15 di Bach, mostrata nell'es.4, ha ampie
parti che possono rientrare in questo discorso, tuttavia l'esempio successivo,
tratto dall'inizio del Preludio n°2 dal I volume del "Clavicembalo ben
temperato" (pezzo che invito a considerare nella sua totalità) aiuterà a
comprendere, meglio di altri, come, anche con gli "aggiustamenti" tonali del
caso, il carattere di costruzione fondata su ripetizione, combinazione
di forme geometriche e varianti del pattern, appartiene al pensiero
musicale non meno che a quello decorativo:
es. 23
Ripetizione, combinazioni e varianti sono
caratteristiche costruttive largamente presenti nella musica - come è noto- ma
la loro simultanea e sinergica combinazione interviene soltanto in quel tipo di
brani in cui l'autore pone in primo piano l'intenzione di esibire una texture
[33] particolare, più che altri
aspetti della composizione pure importanti come l'armonia o il timbro. La
texture, potremmo dire, "intrappola" melodia e ritmo in una trama a rete che
tollera solo "trasformazioni topologiche" ovvero deformazioni continue della
figura, senza "strappi". La continuità
è infatti una caratteristica essenziale di questo genere di pezzi, così come
l'occultamento o la totale sparizione di un dato melodico distinto. Nell'esempio
seguente ho ridotto le prime 6 battute del preludio bachiano alla loro scarna
figuralità, eliminando la duplicazione interna alla battuta, per mostrare
l'evolversi nel tempo delle trasformazioni continue di questa figura:
Es. 24
Di cosa ci sta parlando Bach in questo preludio? Forse
della successione armonica 't iv D t ....' che ha già usato tante volte? O forse
del profilo melodico do4-lab3-sibeq3-do4.....?
Possono mai essere questi i moventi per scrivere un pezzo simile? Non
credo; credo piuttosto che alla radice di una simile scrittura vi sia un
compiaciuto
cesellare, un lavoro di intaglio simile a quello prodotto dagli
artigiani alle prese col traforo di arabeschi. Questo gusto per la
curva geometrica
che non concede altro al di fuori di se stessa - e si contrappone ad una
scrittura più espressiva dove invece riconosciamo nel melos
armonizzato
il portatore del senso principale-, questo doveva avere in mente Debussy
quando attibuiva a Bach "l'adorabile arabesco":«Il vecchio Bach che contiene
tutta la musica, se ne infischiava, credetemi, delle formule armoniche.
Preferiva il gioco libero delle sonorità, le cui curve, parallele o contrarie,
preparavano l'espandersi insperato che orna di una bellezza imperitura anche il
minore dei suoi innumerevoli quaderni. Era l'epoca in cui fioriva "l'adorabile
arabesco", e la musica partecipava così a leggi di bellezza inscritte nel
movimento totale della natura. [34]»
"L'arabesco" si considera originato dal tabù imposto
dalla religione islamica alla rappresentazione del reale (in termini di figure
umane o animali): un tabù che spinse gli artisti decoratori ad incanalare
l'immaginazione creatrice in una direzione astratta ed autoriferita (fig.10).
Fig. 10
Anche su questo terreno si affaccia
la possibilità di un ponte analogico con la musica: questo limite esterno
alla fantasia, questa costrizione entro margini stretti che si rivela
feconda la ritroviamo simile in tutta quella letteratura "tecnica" che, con
il pretesto dell'esercizio didattico, obbligava il compositore a focalizzare
l'attenzione su una figura specifica (l'arpeggio, il moto per terze, le
ottave, la scala cromatica,...etc.) sfidandolo a trarne una costruzione
esteticamente pregnante (pensiamo gli studi di Chopin). Naturalmente, come
il campo di influenza dell'arabesco si è esteso in effetti molto al di là
dell'arte islamica, diventando assai presto sinonimo di quel tipo di
decorazione, diffusa un po' ovunque, basata su linee variamente arzigogolate
ed intrecciate, così "l'arabesco musicale" - che Debussy stesso anticipa a
Palestrina e Orlando di Lasso- è estensibile in realtà anche a tutta quella
vasta produzione musicale (toccate, preludi,...etc.) che, in luogo di una
distinta melodia, mette al centro una linea costantemente animata, ovvero,
nel caso di una polifonia, l'intreccio della texture, in ogni caso,
tutte quelle composizioni in cui prevalgono zone di monofiguralità.
Il concetto di arabesco, dal canto suo, è andato
storicamente incontro a molteplici definizioni, ma uno sembra essere l'aspetto
caratterizzante: il tratto sostanzialmente non figurativo di queste linee
non più considerabili ornamenti di qualcosa ma piuttosto bastanti a sé.
Ora siamo sul punto di riprendere - con le pinze del caso- la vecchia metafora
che vuole associare la melodia
nella musica alla figura nell'arte, consapevoli del forte rischio di
semplicismo che tali metafore portano con sé. La riprendiamo, questa metafora,
perché stiamo misurandone una nuova pertinenza in negativo,
proprio sul terreno dell'arabesco, luogo di assenza di figure e di
melodie, dove il segno si fa autosufficiente, offrendosi come gioco astratto di
forme, a metà strada tra la geometria e il caos.
Non è un caso, evidentemente, che l'immagine
dell'arabesco ricorra in quel manifesto del formalismo musicale rappresentato
dal saggio di E. Hanslick "Il bello musicale": «Contenuto della musica
sono forme sonore in movimento. In qual modo la musica possa darci belle forme
senza il contenuto di un determinato sentimento, ce lo mostra alla lontana già
un ramo dell'ornamentazione nell'arte figurativa: l'arabesco (....) Ora
immaginiamo un arabesco non morto ed immobile, ma che nasca davanti ai nostri
occhi in una continua autoformazione....»
[35] .
L'immagine di Hanslick coglieva senz'altro nel segno, e tuttavia non si può fare
a meno di osservare che essa comprende solo metà della verità: se è vero, come
sostengo, che l'arabesco musicale è caratterizzato dalla amelodicità, resta
logicamente fuori da questo discorso tutta la musica che mette in primo piano
quell'istanza retoricamente "parlante", che cioè si pone come un tipo di
linguaggio "simbolico", pur con tutte le virgolette del caso, comunque
non autoreferenziale. Da questo punto di vista è comprensibile come Debussy,
"l'antiromantico", il fondatore di un linguaggio originale derivato
per sottrazione di senso dalla tonalità, attraverso una calcolata
deprivazione di tensioni e una defunzionalizzazione armonica, forzasse un
tantino la mano su Bach, assolutizzando quell'aspetto geometrizzante della sua
concezione musicale che sicuramente è presente, ma che è lungi dall'esaurirla.
Completamente pertinente sembra invece il riferimento alla polifonia fiamminga e
rinascimentale in cui proprio la mancanza di una prospettiva armonica rende le
voci all'interno dell'intreccio sostanzialmente equivalenti, in virtù
dell'impossibilità di assegnare ad una voce particolare un'informazione melodica
più pregnante, dotata cioè di quelle caratteristiche di discontinuità ritmico
intervallare che ne esalterebbero l'individuabilità attraverso un'originalità
icastica (instaurando quel famoso rapporto
figura/sfondo che storicamente è di là da venire).
Il recupero, la valorizzazione e la centralizzazione che
Debussy opera della melodia come parametro compositivo
lineare da esibire ed esaltare in sé, nella sua nuova e "riconquistata"
indipendendenza dall'armonia, è certamente un dato di per sé significativo
[36] . Ma
non basta a giustificare l'uso del concetto di arabesco: è - ribadisco- laddove
viene meno una cantabilità
melodica, impregnata di tensioni armoniche, storicamente legata al vicino
romanticismo, che la musica di Debussy trova lo spazio aperto e astratto, adatto
all'elaborazione di un nuovo pensiero che, a quel punto, è coerentemente
verticale-orizzontale, ovvero armonico-melodico [37]
.
es. 25 (Debussy, Preludi 12°, II libro, inizio e
bb.27-28)
Gombrich sostiene che «nella musica non meno che nel
disegno si ha una semplice transizione dalla texture al pattern ed alla
struttura architettonica, che dipende dalla nostra padronanza percettiva.
Elementi ricorrenti troppo piccoli per distinguerli
singolarmente sfoceranno nell'impressione della texture, esemplificata da
espedienti come il vibrato, il tremolo o il trillo.»
[38]Questa
pertinente osservazione ci riporta al parametro velocità come segregatore
naturale di costrutti musicali: più rapide le note in gioco, più fine la grana e
l'esempio precedente di Debussy, soprattutto le battute iniziali, sembra una
buona dimostrazione di questo. Quanto all'idea che questi costrutti possano
"sfociare" l'uno nell'altro -espressione che sembra implicare una certa
continuità e unità temporale- cambiando quindi scala percettiva, su questo
occorre fare attenzione. Questa transizione c'è, e l'abbiamo mostrata con
l'es.5, parlando del "mordente", ma si pone su un livello concettuale, non
percettivo: gli "abbellimenti" trovano in musica una loro collocazione
grammaticale che li fa percepire come tali, certamente anche in virtù della
loro velocità. Tuttavia la percezione di un passaggio continuo tra un
livello-pattern, cioè figura, e un livello-texture, cioè grana, se avviene, non
sarà tanto per la nostra minore o maggiore "padronanza percettiva" ma piuttosto
per una precisa direzione di senso imposta dal compositore. Per quanto riguarda
l'estensione alla struttura architettonica, invece, mi sembra che il paragone
cada. Questa estensione mette in gioco nella musica una discontinuità
qualitativa che non è facilmente ammissibile: a meno di non considerare brani
brevissimi di struttura assai elementare come il minuetto: al livello della
struttura architettonica, ovvero della forma, non si arriva se non al prezzo di
uscire fuori dal pezzo, cioè fuori dal tempo. Ma su questo torneremo.
Proviamo ora a guardare la cosa da un altro punto di
vista. Consideriamo il nostro sguardo di fronte a l'intreccio che si infittisce,
a una linea irregolare che si contorce, a uno spazio che sembra saturarsi
attraverso l'emergere di una foresta di segni asimmetrici: l'oggetto ornato, se
esiste, passa in secondo piano, viene riassorbito dalla
texture. La prossima immagine (fig.11) mostra un particolare della
croce dall'Evangeliario di Lindsfarne (700d.C.)
fig.11
Lasciamo a Gombrich il commento di questa figura:
«vediamo la croce composta da una trina incredibilmente ricca di draghi e
serpenti allacciati, sullo sfondo di un disegno ancor più complicato. E' impresa
quanto mai piacevole aprirsi la strada in questo sconcertante dedalo di forme
contorte, e seguire le spire dei corpi intrecciati» [39]
.
Confrontiamolo con il seguente passo di William Hogarth,
pittore e teorico inglese, amico di L. Sterne, che, nel capitolo
sull'intreccio del suo testo L'analisi della bellezza (1753), afferma
«Ogni nascente difficoltà che per un tratto interrompa la traccia, dà una specie
di risalto alla mente, rincara il piacere,...L'intrico nelle forme, dunque, lo
definirò essere quella particolarità nelle linee che lo compongono, che conduce
l'occhio ad una ghiotta specie di caccia e dal piacere che dà alla mente, gli da
diritto al nome di bello» [40]
Entrambe queste citazioni mettono a fuoco un aspetto
assai interessante della fenomenologia della percezione estetica. Esiste un
particolare piacere che ha in qualche modo a che fare con la difficoltà
(pur non essendo sostenibile che esso aumenti necessariamente in modo
proporzionale ad essa). La piacevole difficoltà di seguire una linea contorta,
di sentirsi catturato da una trama complessa, questa "ghiotta specie di caccia"
che compie l'occhio è in effetti assai simile all'esperienza del labirinto:
entrare, perdersi, ritrovare o meno il filo per uscire. Giungiamo così ad
un'altra dicotomia, centrale per il discorso intorno all'ornamento, che oppone
semplicità a complicazione
e diventa evidente che il piacere che stiamo considerando, che Gombrich
colloca «in qualche punto intermedio fra la noia e la confusione»
[41] , si
trova fortemente sbilanciato verso quest'ultima.
E' evidente che non tutte le forme di complicazione della
linea sono, nelle intenzioni dell'autore (eventuale), ornamenti, mi sembra
altrettanto inconfutabile però che, in determinate condizioni contestuali,
esista un'irresistibile tendenza a percepire come ornamentali configurazioni
nate con tutt'altro scopo, ma che mostrano quelle caratteristiche iconiche che
invitano alla "ghiotta caccia". Il labirinto stesso ne è un esempio. Nelle
immagini che seguono troviamo alla fig.12 il labirinto che orna un soffitto
ligneo del Palazzo Ducale di Mantova, alla fig.13 la gigantografia di un
circuito integrato, alla fig.14 un particolare di pannello islamico con i tipici
caratteri arabi di tipo kufico e alla fig.15 un cervello.
fig.12 fig.13
fig.14 fig.15
Tutte e quattro queste immagini, a dispetto della loro
origine radicalmente differente, inducono una medesima fascinazione che
scaturisce dalla natura labirintico-ornamentale che le caratterizza. La
complessità che vi emerge la cogliamo rispettivamente come percorso spaziale,
come interconnessione di collegamenti elettrici, come pervasività della parola
divina e come tortuosità delle circonvoluzioni.
Tuttavia il termine più immediato che viene alle labbra
osservando gli esempi non è complessità ma complicazione. La
complicazione costituisce l'altra faccia della complessità, quella cattiva,
che obbliga a dichiarare l'impotenza della mente, o quanto meno la difficoltà a
sciogliere i nodi, ammettendo di "non capire". Questo "scacco" lascia però come
residuo un'indubbia valenza estetica: prima della comprensione arriva
l'immagine
caotica che la complessità offre di sé, al primo impatto percettivo,
giocando in realtà un ruolo essenziale nella determinazione del fascino
esercitato dalle strutture complesse: è questa superficie complicata e caotica a
sedurre.
In pittura "l'espressionismo astratto" americano,
proseguendo sulla linea di un certo Kandinsky, aveva già chiaramente mostrato
fin dagli anni '50 la predilezione per un immaginario che, in un modo o
nell'altro, rimandava al caos. Un'organizzata caoticità cui aveva
consapevolmente assegnato un ruolo centrale - per non dire fondante-
nell'elaborazione della nuova frontiera espressiva (vedi fig.16)
fig.16: Pollock,
Enchanted Forest, (particolare),1947
L'"action painting" non è ovviamente da intendersi
come completamente irriflessa e spontanea, studi analitici hanno dimostrato che
Pollock ricorreva a precisi schemi nella sovrapposizione dei colori. E'
essenziale, tuttavia, considerare che l'impressione di complicazione resiste
anche dopo l'analisi: poiché è un risultato gestaltico, il "sapere
come" non può cancellare il vedere [42]
.
Contemporaneamente, un importante filone della ricerca
musicale del secondo dopoguerra, protrattosi fino agli anni '70, cercava nella
complessità delle strutture compositive una sorta di garanzia e legittimità
fondativa per il proprio pensiero musicale, forse anche per prendere le
distanze dall'opposto negativo, quella "semplicità" sinonimo di semplicismo,
plastificato e tenacemente eufonico che ha sempre caratterizzato la musica di
consumo. Orfano della raffinata complessità del sistema tonale che, tra
l'altro, poteva contare su una diffusa intersoggettività corroborata dalla
sedimentazione storica di codici d'ascolto, questo filone di pensiero musicale
trovava però maggiore affinità con la ricerca scientifico-matematica che con la
contigua ricerca artistica in campo pittorico. Accadeva così che alcune pagine
di Boulez, di Xenakis, di Ferneyhough mostravano con forza un tratto caotico
che non accettava però di essere colto e fruito in quanto tale, con
fenomenologica evidenza, ma esigeva piuttosto il rimando alla complessità di
rapporti sottostante, che tuttavia restava, di fatto, inattingibile. Anche nel
caso della musica l'impressione gestaltica del caos non svanisce
conoscendo analiticamente "quel che c'è dietro", l'ascolto strutturale e
avvertito non "migliora" la comprensione dell'evento che, dal punto di vista
fenomenologico, resta saldamente ancorato al senso di difficoltà, disagio,
disordine, che sono evidentemente in corrispondenza con i moventi
profondi di queste composizioni. I dipinti di Pollock, De Koonig o anche di
Vedova, al contrario, rendevano il fruitore
immediatamente complice senza il bisogno di nobilitanti "strutture".
Il fatto è che i pittori hanno avuto, da sempre,
un'attenzione, istintiva o studiata, per l'esito percettivo delle loro opere,
mentre i musicisti hanno iniziato a considerarlo, programmaticamente, solo negli
ultimi 30 anni, assorbendo i risultati che psicologia della percezione e
psicoacustica andavano accumulando. Naturalmente c'è una ragione per questo
ritardo, ed è nello sbilanciamento, direi necessario e quasi costitutivo,
che la musica di ricerca ha sempre avuto verso problemi di ordine teorico,
proprio affrontando i quali si è aperta, storicamente, grandi spazi di
espressività e di elaborazione linguistica. Ma, nel caso degli autori menzionati
- e di diversi altri-, si era verificata una sorta di sopraffazione della teoria
sul fenomeno, o della mente sull'orecchio. (Va detto però che quegli stessi
autori hanno successivamente corretto il tiro, recuperando, con strategie
diverse, l'orecchio alla mente).
La musica complessa del passato, tonale o modale che
fosse, non ha mai conosciuto questo problema poiché, anche nei momenti di più
complicato intreccio, la sua superficie si mostrava straordinariamente tersa:
l'ascoltatore poteva forse smarrirsi per un istante di fronte al mottetto
"Spem in alium"
di Tallis per 40 voci o all'Arte della Fuga di Bach o a certi momenti
degli ultimi quartetti di Beethoven, ma il filo di Arianna era a portata di
mano, la complessità delle strutture compositive non arrivava mai a "saturare"
l'orecchio ed esse mostravano da sole i fili per dipanare la matassa indicando,
nell'impianto armonico generale o nella chiarezza del contrappunto o in una
cantabilità melodica, almeno un ancoraggio per l'orecchio nella tempesta.
Verrebbe quasi voglia di affermare che, nel Moderno, il
labirinto prende il posto dell'arabesco. E in parte è certamente
così, ma al mosaico manca ancora un tassello: gli esiti di una ricerca musicale
battezzata negli anni '70 in California ma che ha origini ben precedenti e
ramificate (da Cage a Ligeti). Mi riferisco ai "minimalisti" e, in particolare,
alla musica di Steve Reich. Questa musica si può ben dire interamente basata
sulla costruzione di textures:
virtuamente infinite (o meglio, illimitate), costruite con un'economia di
materiale impressionante, sostanzialmente basato sull'ininterrotto trascolorare
di una medesima figura-pattern dai connotati ritmico-melodico-armonici
assolutamente elementari. A questo riguardo si è parlato di "musica ripetitiva"
ma è un termine fuorviante. La musica è fatta di ripetizioni; in questo caso,
però, data la minimalità dell'oggetto ripetuto e la contiguità
interallacciata del suo contesto, privo di buchi (ritorna
l'horror vacui o amor infiniti che dir si voglia), l'impressione
che prevale non è affatto di ripetizione ma, appunto, di texture.
Non vi è quasi oggetto perché mancano confini con un altro da sé
che possano delimitarlo. Ovviamente tutto questo ha un impatto enorme sulla
fenomenologia della fruizione che si trova ad affrontare una velocità di
cambiamento spaventosamente lenta e arriva, quindi, alle soglie della trance
ipnotica. Con questo tipo di musica che pretendeva di chiamarsi fuori dai
confini della nostra "civiltà musicale occidentale", guardando a oriente,
l'immagine dell'arabesco, con le determinazioni e le implicazioni che abbiamo
visto, sembra ritrovare una sua rinnovata pregnanza.
Es.: da Steve Reich, Music for 18 musicians (1976)
Un concetto chiave in questo contesto è costituito dalla
visione periferica che Gombrich preferisce chiamare visione
"indifferenziata" o "fuori fuoco" o "globale", assieme alla distinzione tra
vedere e osservare. «Sappiamo che raramente osserviamo i dettagli del
disegno ma, se non li vedessimo affatto, la decorazione fallirebbe lo scopo».
L'aspetto più interessante di questo discorso coincide con una "rivalutazione"
di questa forma di percezione che egli diffida dal considerare «null'altro che
una percezione incurante. Grazie al principio della complicazione progressiva
siamo in grado di assorbire una parte assai maggiore del carattere generale
di una decorazione di quanto potremmo mai consapevolmente analizzare, per non
dire descrivere» [43]
Nel modo in cui guardiamo la decorazione di norma non fissiamo ciascun motivo
singolarmente. «Siamo consapevoli, nell'Alhambra, delle delizie che ci
aspettano, ovunque il nostro occhio voglia soffermarsi, ma non ci mettiamo a
seguire o districare ogni voluta.» (p.171-172). L'impressione di texture,
abbastanza omogenea, prevale per il visitatore che non viene distolto dalla
continuità che collega gli ordini decorativi ai sovraordini strutturali. Quello
che emerge, dunque, è una sorta di specificità nella percezione
dell'arabesco.
Questa visione offre un modello interessante anche per la
musica. Si potrebbe infatti parlare di "ascolto periferico o globale"
[44] che, intuitivamente,
interviene in tutti i casi in cui si verifica un'articolazione sfondo/figura. E
non soltanto nel caso ovvio di un concerto per violino e orchestra, ma anche,
solo per un istante, solo nella dimensione soggettiva e oscillante che
caratterizza l'ascolto di una polifonia complessa, quando passiamo, più o meno
consapevolmente, da una voce all'altra lasciando che il resto si sedimenti su
uno sfondo, che non per questo resta impercepito. Nel caso dell'arabesco
musicale, tuttavia, è la costitutiva amelodicità che spinge al mutamento di
paradigma percettivo, chiamando in causa l'ascolto globale che diventa
così una modalità specifica per questo tipo di musiche, prevalente, negli
esempi mostrati di Bach o Debussy, assoluto, nel caso di Reich. La prova del
nove di questo diverso paradigma l'abbiamo a pezzo terminato: cosa ci resta in
mente di tutte quelle note ascoltate? La texture.
Nel saggio Casualità e necessità nell'arte, del
1957 (incluso in Verso una psicologia dell'Arte, Einaudi 1969) R. Arnheim
-altra grande figura, come Gombrich, tra la Gestaltpsychologie e la Storia
dell'Arte- indaga l'emersione del casuale nell'arte risalendo a radici assai
lontane per giungere al suo contemporaneo Pollock. Anche qui vi è il richiamo al
concetto di tessitura (texture), definita «il risultato di quanto accade quando
il livello della comprensione percettiva passa dall'esame particolare di singole
relazioni strutturali entro il loro contesto generale, a quella di costanti
strutturali generali». Questa efficace messa a fuoco gli serve però per
assimilare gli esiti dell'Espressionismo Astratto a quelli di un esperimento di
psicologia visiva volto alla costruzione di un'immagine di "rumore" casuale,
fatta da punti bianchi e neri, in altre parole per negare, sostanzanzialmente,
alle opere di Pollock, che pure dovevano interessarlo, un autentico valore
artistico. E' interessante il fatto che egli coinvolga anche la musica moderna
facendo parlare un Fedele d'Amico che rileva, in modo analogo, nei confronti dei
Canti di liberazione
di Dallapiccola (del '55), un brulicare entropico sostanzialmente
ermetico. In sostanza Arnheim rimprovera ad un certo tipo di arte moderna (dai
cubisti a Pollock) di restare al di sotto del necessario livello di complessità
che l'Arte richiede, ovvero, potremmo dire, di esibire una complicazione che non
cela alcuna vera complessità. E' abbastanza evidente una certa "censura morale"
di fronte a un artista che, dipingendo «il caos standardizzato» dimostra di
«condividere l'atteggiamento che illustra» (op. cit.
p.220). Questa «volontà di accettare la facciata dell'informe come
sostanza intrinseca, natura stessa del nostro mondo» non viene ancora accettata,
nel '57, come possibile nuovo movente dell'Arte: Arnheim chiede struttura,
valori positivi, (ri)costruzione. Nel '71, tuttavia, egli rivedrà in positivo la
sua posizione e i quadri di Pollock diventano «una distribuzione spaziale di
pigmento spruzzato e spalmato controllato dal senso di ordine visuale
dell'artista» (corsivo mio, in Entropia e Arte, Einaudi 1974-2001,
p.34). La differenza con Gombrich è evidente: l'interesse di quest'ultimo per
l'arte decorativa gli ha permesso di valutare l'impressione di texture
sotto un profilo esteticamente significativo, Arnheim ha però il merito di aver
messo il dito nella piaga centrando il nesso problematico tra complessità,
casualità e formazione del senso.
Questo excursus sull'arabesco, che ha al suo centro la
caratteristica della amelodicità, può sembrare collocarsi su un fronte lontano,
addirittura opposto a quello dell'ornamentazione così come l'abbiamo vista in
precedenza, fondarsi proprio nella radice espressiva della melodia. Questa
apparente contraddizione è significativa: essa misura in realtà tutta la
ricchezza e pluralità di sensi racchiusa nel concetto di ornamento che, operando
in contesti differenti, è in grado di generare differenti, anche opposte,
prospettive.
Riprendendo ora la tematica, già emersa a più riprese,
del rapporto tra ornamento e temporalità scorgiamo subito una differenza
caraterizzante che intercorre tra la percezione di una decorazione arabescata e
quella di un ornamento che
interrompe piacevolmente una linea - nel senso espresso prima da
Hogarth-.
La percezione della texture, quest'impressione di
totalità fatta di minuti particolari, di
grana, dove continuità e omogeneità mediamente prevalgono, conducono
verso un'idea di tempo "liscio" (per usare l'espressione di Boulez) che
naturalmente "allontana" il fruitore dall'oggetto per collocarlo nella
prospettiva più opportuna a coglierlo, appunto quella visione/ascolto sintetica,
globale, "dall'alto".
L'altro tipo di ornamento sembra invece portare il
fruitore ad un maggiore indugio presso la superficie dell'opera.
Esso, infatti, con la cancellazione della semplicità,
inibisce al tempo stesso la rapidità dell'apprensione. (Lo abbiamo già visto
nel caso delle Suites di Bach e i Notturni di Chopin.) Lavorando contro la
sintesi, gli elementi ornamentali per un certo tempo/spazio distolgono
l'attenzione del fruitore dalla struttura del discorso principale, di fatto
ritardandone l'aquisizione globale e immediata. E' un'attrazione verso
il particolare che contemporaneamente distoglie dal globale perchè
impedisce una visione d'insieme, "da lontano". Osservando, poniamo, quel Duomo
di Siena (fig.17) di cui la fig.5 mostrava un particolare,
fig.17: Duomo di Siena (XI-XIII sec.)
si viene catturati subito da tali e tanti fregi e
decorazioni, che una valutazione d'insieme della sua struttura, ancora
prevalentemente romanica, può emergere solo allontanandosi molto dalla facciata
per assumerla nella sua interezza sintetica, sciogliendosi dalla malia
che incatena l'occhio ai molti ornamenti (testimonianza del nascente gotico
fiorito). Il lettore di romanzo, a sua volta, si trova immerso in digressioni di
varia dimensione e natura, momentaneamente smarrendo il filo del discorso.
Analogamente possiamo affermare che l'ascoltatore di un brano musicale, preso
dal melisma, dalla fioritura, dalla "nota estranea" ovvero dalla digressione
armonica, difficilmente coglie al primo ascolto, come abbiamo già osservato,
l'architettura di un brano [45]
.
Entrambe queste prospettive, però, contribuiscono a
determinare quella che sembra essere una recondita "funzione profonda"
dell'ornamento che ne fa uno strumento fondamentale di metamorfosi del tempo.
[46]