Vi è un altro aspetto cui fare
riferimento pensando alla sfera dell'ornamentale in musica, esso, per
un'abitudine di cui è responsabile il linguaggio - con la sua naturale
tendenza alla produzion#993399e metaforica-, racchiude ed esprime la cosiddetta
"valenza decorativa" in modo assai più intuitivo degli "abbellimenti". Potremmo
usare vari termini per esprimerlo e, in verità,
dobbiamo farlo, perché sfugge a una definizione univoca. Riferendoci
alla ripartizione delle qualità oggettuali in "primarie" e "secondarie",
topos del pensiero occidentale, possiamo tranquillamente affermare che
qui si parla delle qualità secondarie della musica. Caldo, freddo, forte,
colorato (Messiaen), ruvido, aspro, dolce, secco, duro, morbido, pesante,
leggero, appannato, ovattato, luminoso, chiaro, scuro, asciutto, nitido, ed
anche staccato e legato...ecc. il suono da sempre nasce
accompagnato da una nuvola di determinazioni prese dal mondo della materia,
quelle determinazioni che Cartesio escludeva dalla realtà oggettiva perché su di
esse era impossibile costruire una scienza.
Il mondo del timbro, dei modi d'attacco, delle variazioni
dinamiche, delle accentuazioni articolative, delle pressioni agogiche, della
texture, del fraseggio, -in una parola, della "qualità" del suono-
si presenta a un tempo complesso e sfuggente. L'espressione grafica di questi
caratteri "secondari" è entrata tardi nella storia dei segni musicali: i segni
che li esprimono non denotano sostanze in qualche modo oggettualizzabili, ma
connotano azioni,
suggeriscono intenzioni [47] . E'
subito evidente che questo mondo condivide con l'ornamento alcuni tratti
essenziali. Si tratta di determinazioni di norma considerate "non strutturali";
i segni che li esprimono hanno un carattere allusivo e impreciso; la loro
traduzione
passa attraverso la dinamica tradizione/tradimento di cui
è centro l'interprete.
In effetti queste determinazioni investono aspetti
del suono che, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, sono eliminabili
senza che venga compromessa la riconoscibilità. La riconoscibilità di cosa? di
quel complesso ritmico-diastematico che chiamiamo "melodia", naturalmente, che
(quando esiste) consente senz'altro di dire del pezzo A, suonato in due modi
completamente diversi, o della frase X, intonata da differenti strumenti con
caratteristiche espressive opposte,
che è lo stesso pezzo, è proprio la stessa frase. Da una parte
troviamo quindi le determinazioni "primarie" legate agli eventi codificatamente
misurabili (durate, altezze), rappresentabili sugli assi "cartesiani" di spazio
e tempo, sui quali è fondato il concetto stesso di partitura. Esse costituiscono
il nocciolo di quella sostanza musicale, ricettacolo del principium
individuationis, protagonista di quel lavorio, basato su quantità e calcolo,
attraverso il quale si svolge una buona parte del processo di elaborazione
motivico-tematica e contrappuntistica. Dall'altra parte abbiamo, invece, tutte
quelle determinazioni "secondarie" che danno colore e vita al suono, possono
stravolgerne il carattere, mutarne il segno psicologico, accentuarne il rilievo
o farlo sprofondare nell'ombra, ma sono soggette a quel tipo di variabilità
spesso avvicinata al "rivestimento" di una struttura architettonica.
Detto questo va subito aggiunto che le cose in realtà non
sono affatto così semplici e nulla sarebbe più lontano dalla realtà musicale
quanto una rigida relazione del tipo:
sostanza -> qualità "primarie" / accidente-> qualità
"secondarie"
All'interno dello stesso pezzo, infatti, il lavoro
compositivo sui materiali, pur muovendosi effettivamente tra permanenza e
varianza, assume però come protagonisti del processo - come elementi
compositivi- indifferentemente aspetti "primari" e/o "secondari".
Nell'es. 26 vediamo il tema di 3 piccole variazioni che
costituiscono il II tempo della sonata op.14/2 di Beethoven. La
parte iniziale (A) è, come si vede, nettamente caratterizzata dallo "staccato",
esaltato da una scrittura a due mani coerente e convergente. La seconda parte
(B) è invece caratterizzata da un ampio "legato" di frase
es. 26
Normalmente nella forma "Variazioni su
tema" il tema viene appunto variato sostanzialmente sul piano intervallare, fino
allo stravolgimento totale con conseguente annullamento di quel principium
individuationis menzionato prima. La variazione contemporanea dei caratteri
"secondari", che tessono scenari assai diversificati, rappresenta quindi
null'altro che un prezioso elemento accompagnatore [48]
. Nella sonata in questione, invece, le tre variazioni che seguono
lasciano assolutamente inalterata la melodia del tema, e pressocché
intatta l'armonia: il lavoro è tutto sul ritmo, su alcuni scambi negli strati
della texture e sull'articolazione staccato/legato. Quest'ultima, da
elemento contrastivo interno al tema, diventa elemento di contrasto
macrostrutturale
tra le variazioni. La forma complessiva vede così succedersi:
Alla sostanziale invarianza della melodia fa dunque
riscontro la variazione articolativa ma, all'interno di ciascuna variazione, si
crea un ambiente omogeneo di texture
e articolazione d'attacco che filtra per intero il tema diventando una sorta
di "costante cromatica".
Quest'esempio - e se ne possono trovare decine- serve
semplicemente a togliere un po' di sicurezza all'associazione: caratteri
"secondari"= rivestimento esterno di una struttura, pensando a qualcosa che,
nell'atto compositivo, debba necessariamente seguire in un secondo tempo
l'inventio melodica, come accade, appunto, con l'atto del rivestimento.
Certo, vi è una tradizione che vede il compositore
scrivere una sinfonia stendendo dapprima
l'opera in una forma sintetica, con pochi pentagrammi leggibili al pianoforte,
per passare successivamente alla sua orchestrazione. Questo tipo di
gerarchia di ordine temporale, e quindi di importanza, ha certamente
dominato l'epoca tonale e - proprio per questo- il tramonto di quella stagione
ha significativamente visto un protagonismo e un investimento di senso di quei
"caratteri secondari" del tutto nuovo. Così Boulez a proposito di Debussy può
affermare: «L'orchestrazione come veste, in quanto nozione primaria, scompare a
beneficio di una orchestrazione inventiva; l'immaginazione del compositore non
si limita, successivamente, a comporre il testo musicale e poi ad agghindarlo
del prestigio strumentale; il fatto stesso di orchestrare influirà non soltanto
sulle idee musicali ma anche sul modo di scrittura destinato a renderne conto:
alchimia originale e non chimica ulteriore» [49]
.
Non occorre tuttavia attendere il Moderno - come abbiamo
visto prima- per trovare "controesempi" che dimostrano come il compositore non
trovi sempre il proprio movente, la ragione profonda per scrivere un
certo pezzo proprio come lo scrive, nell'invenzione melodico-armonica. Questo è
già emerso a proposito del preludio di Bach dell'es.18: lì era in gioco
un'immagine dell'arabesco evocata dall'uso di una texture così
particolare. Poiché l'impressione della texture rientra perfettamente
nell'alveo di queste determinazioni "secondarie", quell'esempio riesce,
ovviamente, anche qui pertinente. Possiamo anzi dire che tutto il discorso
fatto sull'arabesco trova ora una sua giusta collocazione nella più ampia
cornice di queste determinazioni.
In verità, anche quando il cuore dell'invenzione è
saldamente ancorato a dati melodico-ritmici, non ci sentiamo di considerare il
modo in cui un'idea musicale viene concepita, come qualcosa di esterno,
separato, successivo all'idea stessa [50] .
Dal testo di Epstein prendo una citazione di Stravinskij
molto significativa a questo riguardo, svolta commentando la Grande Fuga di
Beethoven: «L'importanza del progetto pare evidente nella Overtura, una
sorta di indice tematico che, da un lato presenta le differenti versioni del
soggetto, dall'altro anticipa e innesca le più ampie componenti della forma.
Ogni versione tematica è dotata di peculiari attributi secondari (considerando
elementi primari l'altezza e il ritmo): ad esempio un trillo e un'appoggiatura
nella versione destinata al trattamento di maggiore complessità, un andamento
lento e una tenue dinamica nella versione che preannuncia un episodio con la
stessa velocità e lo stesso volume...» [51]Ritroviamo
qui abbondanti agganci per nostro discorso: dalla messa su un unico piano di
"abbellimenti" ed elementi come "andamento" e "dinamica", alla loro chiamata in
causa a livello formale, al riferimento classico degli attributi
primari/secondari.
Il discorso di Epstein, che condividiamo in gran parte,
non è però esente da alcune zone d'ombra teoriche, probabilmente dovute al suo
trovarsi in mezzo al guado: appartiene ad una tradizione teorica schenkeriana di
cui misura i limiti ma getta infine uno sguardo ad un futuro metodologico -
eventualmente illuminato dalla linguistica-. Il suo discorso tuttavia fa
difficoltà ad uscire dalla prospettiva strutturalista. Egli riconosce che
«l'affetto - comunque lo si possa descrivere- e la struttura sono in realtà due
facce della stessa medaglia» ma lamenta che «il nostro trattamento teorico non
dispone ancora di una metodologia in grado di
quantizzare queste proprietà musicali con adeguata precisione» (corsivo
mio) [52]. Questo è un limite perché non è
assorbendo l'ambito sfuggente dell'espressione nell'universo della precisione
quantitativa che si potrà realizzare quel "mutamento di prospettiva" da lui
stesso poco oltre auspicato (negli anni successivi altri americani hanno provato
a "misurare", ad esempio, piccoli scarti temporali o microscopiche variazioni
del picco dinamico tra un'esecuzione e l'altra inaugurando una saldatura tra
tecnologia e analisi che, a mio parere, non sposta di un millimetro i dati del
problema).
Poco oltre egli si riferisce alla componente affettiva
considerando «l'area dell'espressione, del significato, dell'emozione, o di
qualsiasi altro termine possa essere invocato nell'onesto ma spesso vano
tentativo di venire alle prese con l'elusivo aspetto non verbale della musica».
E' curiosa quest'affermazione perché l'area dell'"espressione" sembra essere, al
contrario, proprio quella che - legittimamente- ha caratterizzato l'aspetto
verbale della musica. Il problema dell'elusività o meno di quest'aspetto
andrebbe forse spostato sulla capacità di evolvere un linguaggio
sufficientemente perspicuo e rigoroso, che non smorzi ma anzi sviluppi tutta la
potenza metaforica che gli è propria, sorvegliandola e guidandola sul piano
teorico. "L'aspetto non verbale della musica" è piuttosto quello che si
riferisce ad altezze e ritmi che trova infatti spesso in tabelle e schemi basati
ancora su segni musicali, il più valido sostegno all'analisi.
Vediamo ora di capire perché e come un fattore
tipicamente "accessorio" come la dinamica possa diventare centrale in un
pensiero compositivo.
Sembra abbastanza chiara un'origine fisiologica
del crescendo/diminuendo: essa va cercata nella pressione di fiato che deve dare
la voce per sostenere le note di una linea melodica rispettivamente
ascendente/discendente. Ciononostante le "forcelle" (< >) appaiono molto dopo
indicazioni come 'p' e 'f',
la cui comparsa si fa risalire alla Sonata pian e forte a 8 voci di
Giovanni Gabrieli (inizio XVII sec.). I segni dinamici - comunque rari fino alla
seconda metà del '700 - si sono poi storicamente moltiplicati ed intensificati
nella quantità e qualità attraverso l'800 e il '900 aumentando progressivamente
lo "spazio sonoro" gestito dal compositore attraverso una scala delle gradazioni
che ne ha dilatato gli estremi:
(p - f) (pp - ff) (ppp - fff) (pppp
-ffff) (ppppp - fffff) (+f poss - +p poss.)
Questo è interessante perché per un verso sappiamo che in
realtà la musica priva o quasi di segni dinamici non era assolutamente da
intendersi come "piatta"
[53] , dall'altro è evidente che il
bisogno di specificare l'intensità in modo sempre più dettagliato era lo
specchio del crescente interesse che questo aspetto veniva ad assumere dal punto
di vista compositivo. In effetti dobbiamo ritenere che, laddove si individuava
la necessità dell'uso di una dinamica non più semplicemente intuibile
dall'interprete, comunque esperto, lì si produceva uno "scarto" dalla
convenzione e la dinamica entrava senz'altro a far parte delle risorse dell'inventio.
Dal lato dell'interprete dobbiamo poi considerare la
centralità della dimensione relazionale
e contestuale. Nel tentativo di tradurre l'intenzione dinamica del
compositore (per es. 'p') l'interprete imprime una certa forza nel
gesto esecutivo, ma lo fa misurandosi con 3 contesti diversi:
- le dinamiche della propria "parte" complessivamente
considerate: quindi in relazione ai propri 'forte' e ai propri 'pianissimo' ma
anche in relazione al registro (acuto, centrale o grave) in cui sta suonando;
- le dinamiche degli altri strumenti, se ve ne sono, con
i quali si trova a condividere lo spazio sonoro e che, dal punto divista
timbrico, potrebbero avere un grado di presenza
diverso (ad esempio un legno in mezzo agli archi), facendo attenzione al ruolo
svolto dalla propria "parte" in quel momento (sta accompagnando o sta
cantando
?)
- l'acustica generale del luogo dove si suona. Se vi è
riverbero o è "asciutta" se è "brillante" o "opaca", ad esempio, la cosa cambia
molto (mancare una prova prima del concerto in una sala sconosciuta può essere
fatale).
In relazione a questi 3 contesti l'interprete è in
grado di dare al segno in questione ('p') un significato
abbastanza preciso, ancorché non quantificabile, e valido localmente,
che, se avrà interpretato correttamente, giungerà all'orecchio dell'ascoltatore
come un'intensità sonora
equilibrata, cioè funzionale all'intenzione espressiva della
composizione.
Occorre inoltre tenere presente anche alcune
caratteristiche della fenomenologia percettiva dell'ascoltatore. L'orecchio,
analogamente a quanto avviene in un apparecchio registratore, subisce una certa
inerzia nell'adeguamento a condizioni dinamiche improvvisamente mutate: la
brusca alterazione genera un momentaneo squilibrio sia nel passaggio ff -
pp, una sorta di accecamento, sia in quello inverso. D'altro
canto abituare l'ascolto ad un livello basso d'intensità produce un progressivo
raffinamento dell'udito basato su una tensione d'ascolto
in grado di ricevere ed apprezzare differenze infinitesime, dando loro una
pienezza di senso.
Dal punto di vista strutturale osserviamo due cose.
Il contrapporsi simultaneo di 'forte' e 'piano' comporta il segregarsi naturale
di parti in maggiore risalto ed evidenza rispetto ad altre con minore risalto,
minore importanza. Ciò è analogo a quanto avviene in pittura: figure in primo
piano e sullo sfondo oppure al centro e ai margini, o ancora, in chiaro o in
ombra. La stratificazione in piani diversi istituisce sempre una
gerarchia percettiva al servizio dell'articolazione dei contenuti narrati.
Vi è poi la doppia possibilità di guardare alla intensità
dei suoni da un punto di vista statico-discreto (con simboli che marcano
segmenti musicali più o meno ampi, dalla frase alla nota singola); oppure
variativo-continuo (con altri segni, le "forcelle", che mimano analogicamente
la variazione d'intensità nel tempo, sostituibili con la scritta in chiaro
"crescendo" o "diminuendo").
a) < > b) >
L'uso simultaneo delle due notazioni consente una presa
diretta sull'andamento dinamico del segmento musicale, comprensivo dei
rispettivi "picchi". Nella definizione del senso di queste situazioni ha grande
importanza la durata cui si applica il crescendo o diminuendo. Qui si apre
un'interessante prospettiva di "sconfinamento" della dinamica verso altri
aspetti della musica, che richiama in qualche modo quanto abbiamo detto
dell'autosomiglianza a proposito di mordente - nota di volta - segmento
armonizzato (cfr. es.5).
Considerando durate minime, riconducibili al singolo
suono, i casi a) e b) sfociano allora nelle molteplici strategie di
intensificazione espressiva che, a partire dal modo tipicamente "barocco" di
dare espressione al singolo suono (< >)gonfiandolo
con un piccolo mantice (la messa di voce), spaziano attraverso i
vari segni di "accentuazione" (> - ≥ .
etc.) fino a forme di "crasi" dinamica come lo "sforzato piano" (sfp)
che sembrano contrarre l'idea di un passaggio brusco, in un unico gesto,
che fonde lo "sforzato" (fz, sf, sfz) - intensificazione
dell'accento- con un "subito piano". Interessante a questo riguardo la
confusione generata dai manoscritti di Schubert che sembra non distinguano
tra il segno di accento (>) e una piccola forcella in decrescendo: l'edizione
critica delle sinfonie, curata dalla Bärenreiter alla fine degli anni '60,
chiarisce l'equivoco (Schubert intendeva l'accento) e tuttavia in diversi punti,
coincidenti con note lunghe, il dubbio rimane.
D'altronde l'attenzione alla vita del singolo suono porta
la dinamica a sconfinare naturalmente nel
timbro di cui, come è noto, è largamente responsabile il "modo
d'attacco" della nota. La moderna fisica acustica ha indagato i complessi
rapporti che legano il "transitorio d'attacco" all'"inviluppo di ampiezza" e
allo spettro armonico, rivelando, in termini quantitativi e scientifici, quella
complessità interna al suono, colto al suo sorgere nel giro di pochi
millisecondi, di cui alcuni segni di articolazione e dinamica, sia pure in forma
imprecisa e intuitiva, in qualche modo esprimono l'ingrandimento, ovvero
la realizzazione su scala più ampia [54] .
Il preludio n° 20 di Chopin consiste in 3 frasi di 4
battute con pochi accordi in una formula ritmica ostinata:
come si vede dallo schema esso consta di 3 frasi ( A B B ) di cui la terza è
identica alla seconda, ma in pp. La battuta 13 è in più, nel senso
che la cadenza sulla tonica era già contenuta nella b.12 (che riarmonizza la
b.1, cfr. es.12) essa contiene solo l'accordo di tonica, ribadito, ma con
l'accento (>):
A
|
ff
|
|
cresc.....
|
............
|
|
B
|
p
|
|
|
|
|
B
|
pp
|
|
|
|
>
|
in questo peso
dato dall'accento vi è tutta la volontà di conclusione ma, si badi, al
termine di una circolarità in decrescendo. E' chiaro che, di fronte ad una
scelta così scarna sul piano del materiale, questa stratificazione dinamica
assume un grande rilievo che l'interprete deve opportunamente investire di
senso.
Non è forse inutile richiamare qui la peculiare struttura
della produzione del suono del pianoforte, formato da un "attacco" percussivo
seguito da un "inesorabile" diminuendo.
Solo l'accordo finale tuttavia, nel caso sia un accordo tenuto (e
prolungato da una corona, come nel preludio di Chopin), solo allora il suono,
continuamente interrotto nel suo morire, viene finalmente lasciato
spegnersi fino in fondo.
Un ultima osservazione la riserviamo alle direzioni
immaginative che la dinamica porta con sé.
Il contrasto tra 'piano' e 'forte' (nell'ambito di idee
principali, non quindi riferito alla segregazione sfondo/figura) ha visto
spesso associato il contrasto chiaroscurale tra il "mondo interiore", con tutte
le sue possibili connotazioni in termini di intimità, delicatezza, malinconia,
debolezza, profondità; e il "modo esteriore", cui si possono associare
facilmente idee di forza, affermazione vitale, espressioni violente, dimensione
tragica e drammatica. Il rischio di una semantica a buon mercato e
stereotipa - sempre in agguato in simili
traduzioni nella sfera del sentimento- non deve però impedirci di
considerare questo contrasto, pur senza enfatizzarlo, come uno sfondo di senso
con il quale la musica si confronta costantemente, per arricchirlo o anche
contraddirlo.
Così se al 'forte' possiamo associare anche una
vicinanza che, metaforicamente, significa importanza, gravità, urgenza, (si
confronti pure la necessità del crescendo nell'ars retorica: il disporre gli
aggettivi -come gli argomenti- in ordine di importanza crescente); alla sfera
del 'piano', afferisce l'idea di lontananza, sia spaziale sia temporale.
Quest'ultima segue la fenomenologia del ricordo, che presenta un'attenuazione
dovuta al trascorrere del tempo e quasi all'invecchiamento delle idee,
grazie alla capacità della musica di comprimere in pochi minuti l'impressione di
un lungo trascorrere, di un lungo vissuto. Così è facile incontrare -da
Beethoven in avanti- nella fase finale di un brano, dopo ampia elaborazione, un
tema, fatto a brandelli e attenuato nella sua presenza. Cionodimeno se il
ricordare è rendersi presente ciò che è passato (lontano) vi è anche il ricordo
caratterizzato da una presenza appassionata, dunque forte:
[55] Così, al termine del II tempo
della 3a sinfonia di Beethoven, il grande Adagio assai
caratterizzato dalla "Marcia funebre", troviamo il tema "sotto voce" e
"sempre più p" ma, alla penultima battuta, dopo che anche l'ultima
cadenza è stata consumata (iv t) ecco lo sf in diminuendo di legni
e ottoni e il 'f' dei bassi che riaccende improvvisamente, come da
una brace ormai sopita, il gesto iniziale, o meglio, la sua dolorosa memoria
(es.27 pag. seg.).
Nella "Musica per Achi Percussioni e Celesta" di Bartòk
il primo dei quattro tempi è un lungo fugato che occupa più della metà del
movimento. E' costruito con una elementare ma efficacissima logica dell'accumulo
in parte tipica dell'esposizione della fuga, ma che qui trova una peculiare
espressività in virtù di un dosatissimo crescendo che parte dal 'pp'
per sfociare nel
'fff'. E' solo uno dei tanti esempi di uso della dinamica per
esprimere il momento dell'insorgenza del suono, inteso come suono globale, che
crea una presenza dal nulla del silenzio che lo precede ed esprime quindi,
creando il proprio spazio-tempo, una piccola "cosmogonia" (pensiamo anche al
lento decollo di La Mer di Debussy, dove nelle prime 30 battute la
dinamica più forte è il 'p' da cui partono forcelle di indefinito
crescendo che sboccano nel 'f' solo in coincidenza con il cambio
totale di scena).
In Mahler troviamo invece un interessante esempio di
lentissimo diminuendo e poi 'pianissimo' portato alle estreme conseguenze,
nell'Adagio finale della 9a sinfonia. Quasi un quarto del pezzo è
impiegato per declinare l'azione del finire.
Certo, con Mahler stiamo parlando di macroorganici orchestrali e macroforme,
ma sappiamo che il lato quantitativo non giustifica affatto, da solo, scelte
simili. Vi è invece l'espressione di un lento
es. 27 Beethoven, 3a sinfonia,
II tempo
consumarsi, quasi per erosione, potremmo parlare di
fatica del morire : l'ultimo respiro che tarda ad arrivare perché
continuamente procrastinato dall'insorgenza di afflati vitali, dall'affiorare di
ricordi, sempre più fiochi e attenuati.
In entrambi i casi -il momento di insorgenza del suono e
quello della sua progressiva dissoluzione e scomparsa- la dinamica gioca un
ruolo fondamentale che la proietta verso un altro "sconfinamento", verso il
territorio della forma. La doppia forcella, così come la troviamo nella
stragrande maggioranza dei casi, viene dunque a collocarsi in una posizione
intermedia tra l'immagine del "mantice", che abbiamo visto operare al
microlivello del singolo suono (< >) -di cui costituisce un'articolazione
dell'attacco/decadimento- e l'immagine dell'arco formale
generale (ancora una volta verificando una compresenza su scala diversa dei
medesimi tratti strutturali). In tutti i casi viene riverberata
quell'organicità fisiologica della musica che la lega all'idea del respiro, che
resta forse la metafora più originaria e radicale.