Il colore del suono

Vi è un altro aspetto cui fare riferimento pensando alla sfera dell'ornamentale in musica, esso, per un'abitudine di cui è responsabile il linguaggio - con la sua naturale tendenza alla produzion#993399e metaforica-, racchiude ed esprime la cosiddetta "valenza decorativa" in modo assai più intuitivo degli "abbellimenti". Potremmo usare vari termini per esprimerlo e, in verità, dobbiamo farlo, perché sfugge a una definizione univoca. Riferendoci alla ripartizione delle qualità oggettuali in "primarie" e "secondarie", topos del pensiero occidentale, possiamo tranquillamente affermare che qui si parla delle qualità secondarie della musica. Caldo, freddo, forte, colorato (Messiaen), ruvido, aspro, dolce, secco, duro, morbido, pesante, leggero, appannato, ovattato, luminoso, chiaro, scuro, asciutto, nitido, ed anche staccato e legato...ecc. il suono da sempre nasce accompagnato da una nuvola di determinazioni prese dal mondo della materia, quelle determinazioni che Cartesio escludeva dalla realtà oggettiva perché su di esse era impossibile costruire una scienza.

Il mondo del timbro, dei modi d'attacco, delle variazioni dinamiche, delle accentuazioni articolative, delle pressioni agogiche, della texture, del fraseggio, -in una parola, della "qualità" del suono- si presenta a un tempo complesso e sfuggente. L'espressione grafica di questi caratteri "secondari" è entrata tardi nella storia dei segni musicali: i segni che li esprimono non denotano sostanze in qualche modo oggettualizzabili, ma connotano azioni, suggeriscono intenzioni [47] . E' subito evidente che questo mondo condivide con l'ornamento alcuni tratti essenziali. Si tratta di determinazioni di norma considerate "non strutturali"; i segni che li esprimono hanno un carattere allusivo e impreciso; la loro traduzione passa attraverso la dinamica tradizione/tradimento di cui è centro l'interprete.

In effetti queste determinazioni investono aspetti del suono che, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, sono eliminabili senza che venga compromessa la riconoscibilità. La riconoscibilità di cosa? di quel complesso ritmico-diastematico che chiamiamo "melodia", naturalmente, che (quando esiste) consente senz'altro di dire del pezzo A, suonato in due modi completamente diversi, o della frase X, intonata da differenti strumenti con caratteristiche espressive opposte, che è lo stesso pezzo, è proprio la stessa frase. Da una parte troviamo quindi le determinazioni "primarie" legate agli eventi codificatamente misurabili (durate, altezze), rappresentabili sugli assi "cartesiani" di spazio e tempo, sui quali è fondato il concetto stesso di partitura. Esse costituiscono il nocciolo di quella sostanza musicale, ricettacolo del principium individuationis, protagonista di quel lavorio, basato su quantità e calcolo, attraverso il quale si svolge una buona parte del processo di elaborazione motivico-tematica e contrappuntistica. Dall'altra parte abbiamo, invece, tutte quelle determinazioni "secondarie" che danno colore e vita al suono, possono stravolgerne il carattere, mutarne il segno psicologico, accentuarne il rilievo o farlo sprofondare nell'ombra, ma sono soggette a quel tipo di variabilità spesso avvicinata al "rivestimento" di una struttura architettonica.

Detto questo va subito aggiunto che le cose in realtà non sono affatto così semplici e nulla sarebbe più lontano dalla realtà musicale quanto una rigida relazione del tipo:

sostanza -> qualità "primarie" / accidente-> qualità "secondarie"

All'interno dello stesso pezzo, infatti, il lavoro compositivo sui materiali, pur muovendosi effettivamente tra permanenza e varianza, assume però come protagonisti del processo - come elementi compositivi- indifferentemente aspetti "primari" e/o "secondari".

Nell'es. 26 vediamo il tema di 3 piccole variazioni che costituiscono il II tempo della sonata op.14/2 di Beethoven. La parte iniziale (A) è, come si vede, nettamente caratterizzata dallo "staccato", esaltato da una scrittura a due mani coerente e convergente. La seconda parte (B) è invece caratterizzata da un ampio "legato" di frase

es. 26 tempo della sonata op.14/2 di Beethoven

 

tempo della sonata op.14/2 di Beethoven

 

 

Normalmente nella forma "Variazioni su tema" il tema viene appunto variato sostanzialmente sul piano intervallare, fino allo stravolgimento totale con conseguente annullamento di quel principium individuationis menzionato prima. La variazione contemporanea dei caratteri "secondari", che tessono scenari assai diversificati, rappresenta quindi null'altro che un prezioso elemento accompagnatore [48] . Nella sonata in questione, invece, le tre variazioni che seguono lasciano assolutamente inalterata la melodia del tema, e pressocché intatta l'armonia: il lavoro è tutto sul ritmo, su alcuni scambi negli strati della texture e sull'articolazione staccato/legato. Quest'ultima, da elemento contrastivo interno al tema, diventa elemento di contrasto macrostrutturale tra le variazioni. La forma complessiva vede così succedersi:

 

Alla sostanziale invarianza della melodia fa dunque riscontro la variazione articolativa ma, all'interno di ciascuna variazione, si crea un ambiente omogeneo di texture e articolazione d'attacco che filtra per intero il tema diventando una sorta di "costante cromatica".

Quest'esempio - e se ne possono trovare decine- serve semplicemente a togliere un po' di sicurezza all'associazione: caratteri "secondari"= rivestimento esterno di una struttura, pensando a qualcosa che, nell'atto compositivo, debba necessariamente seguire in un secondo tempo l'inventio melodica, come accade, appunto, con l'atto del rivestimento.

Certo, vi è una tradizione che vede il compositore scrivere una sinfonia stendendo dapprima l'opera in una forma sintetica, con pochi pentagrammi leggibili al pianoforte, per passare successivamente alla sua orchestrazione. Questo tipo di gerarchia di ordine temporale, e quindi di importanza, ha certamente dominato l'epoca tonale e - proprio per questo- il tramonto di quella stagione ha significativamente visto un protagonismo e un investimento di senso di quei "caratteri secondari" del tutto nuovo. Così Boulez a proposito di Debussy può affermare: «L'orchestrazione come veste, in quanto nozione primaria, scompare a beneficio di una orchestrazione inventiva; l'immaginazione del compositore non si limita, successivamente, a comporre il testo musicale e poi ad agghindarlo del prestigio strumentale; il fatto stesso di orchestrare influirà non soltanto sulle idee musicali ma anche sul modo di scrittura destinato a renderne conto: alchimia originale e non chimica ulteriore» [49] .

Non occorre tuttavia attendere il Moderno - come abbiamo visto prima- per trovare "controesempi" che dimostrano come il compositore non trovi sempre il proprio movente, la ragione profonda per scrivere un certo pezzo proprio come lo scrive, nell'invenzione melodico-armonica. Questo è già emerso a proposito del preludio di Bach dell'es.18: lì era in gioco un'immagine dell'arabesco evocata dall'uso di una texture così particolare. Poiché l'impressione della texture rientra perfettamente nell'alveo di queste determinazioni "secondarie", quell'esempio riesce, ovviamente, anche qui pertinente. Possiamo anzi dire che tutto il discorso fatto sull'arabesco trova ora una sua giusta collocazione nella più ampia cornice di queste determinazioni.

In verità, anche quando il cuore dell'invenzione è saldamente ancorato a dati melodico-ritmici, non ci sentiamo di considerare il modo in cui un'idea musicale viene concepita, come qualcosa di esterno, separato, successivo all'idea stessa [50] .

Dal testo di Epstein prendo una citazione di Stravinskij molto significativa a questo riguardo, svolta commentando la Grande Fuga di Beethoven: «L'importanza del progetto pare evidente nella Overtura, una sorta di indice tematico che, da un lato presenta le differenti versioni del soggetto, dall'altro anticipa e innesca le più ampie componenti della forma. Ogni versione tematica è dotata di peculiari attributi secondari (considerando elementi primari l'altezza e il ritmo): ad esempio un trillo e un'appoggiatura nella versione destinata al trattamento di maggiore complessità, un andamento lento e una tenue dinamica nella versione che preannuncia un episodio con la stessa velocità e lo stesso volume...» [51]Ritroviamo qui abbondanti agganci per nostro discorso: dalla messa su un unico piano di "abbellimenti" ed elementi come "andamento" e "dinamica", alla loro chiamata in causa a livello formale, al riferimento classico degli attributi primari/secondari.

Il discorso di Epstein, che condividiamo in gran parte, non è però esente da alcune zone d'ombra teoriche, probabilmente dovute al suo trovarsi in mezzo al guado: appartiene ad una tradizione teorica schenkeriana di cui misura i limiti ma getta infine uno sguardo ad un futuro metodologico - eventualmente illuminato dalla linguistica-. Il suo discorso tuttavia fa difficoltà ad uscire dalla prospettiva strutturalista. Egli riconosce che «l'affetto - comunque lo si possa descrivere- e la struttura sono in realtà due facce della stessa medaglia» ma lamenta che «il nostro trattamento teorico non dispone ancora di una metodologia in grado di quantizzare queste proprietà musicali con adeguata precisione» (corsivo mio) [52]. Questo è un limite perché non è assorbendo l'ambito sfuggente dell'espressione nell'universo della precisione quantitativa che si potrà realizzare quel "mutamento di prospettiva" da lui stesso poco oltre auspicato (negli anni successivi altri americani hanno provato a "misurare", ad esempio, piccoli scarti temporali o microscopiche variazioni del picco dinamico tra un'esecuzione e l'altra inaugurando una saldatura tra tecnologia e analisi che, a mio parere, non sposta di un millimetro i dati del problema).

Poco oltre egli si riferisce alla componente affettiva considerando «l'area dell'espressione, del significato, dell'emozione, o di qualsiasi altro termine possa essere invocato nell'onesto ma spesso vano tentativo di venire alle prese con l'elusivo aspetto non verbale della musica». E' curiosa quest'affermazione perché l'area dell'"espressione" sembra essere, al contrario, proprio quella che - legittimamente- ha caratterizzato l'aspetto verbale della musica. Il problema dell'elusività o meno di quest'aspetto andrebbe forse spostato sulla capacità di evolvere un linguaggio sufficientemente perspicuo e rigoroso, che non smorzi ma anzi sviluppi tutta la potenza metaforica che gli è propria, sorvegliandola e guidandola sul piano teorico. "L'aspetto non verbale della musica" è piuttosto quello che si riferisce ad altezze e ritmi che trova infatti spesso in tabelle e schemi basati ancora su segni musicali, il più valido sostegno all'analisi.

Vediamo ora di capire perché e come un fattore tipicamente "accessorio" come la dinamica possa diventare centrale in un pensiero compositivo.

Sembra abbastanza chiara un'origine fisiologica del crescendo/diminuendo: essa va cercata nella pressione di fiato che deve dare la voce per sostenere le note di una linea melodica rispettivamente ascendente/discendente. Ciononostante le "forcelle" (< >) appaiono molto dopo indicazioni come 'p' e 'f', la cui comparsa si fa risalire alla Sonata pian e forte a 8 voci di Giovanni Gabrieli (inizio XVII sec.). I segni dinamici - comunque rari fino alla seconda metà del '700 - si sono poi storicamente moltiplicati ed intensificati nella quantità e qualità attraverso l'800 e il '900 aumentando progressivamente lo "spazio sonoro" gestito dal compositore attraverso una scala delle gradazioni che ne ha dilatato gli estremi:

(p - f) (pp - ff) (ppp - fff) (pppp -ffff) (ppppp - fffff) (+f poss - +p poss.)

Questo è interessante perché per un verso sappiamo che in realtà la musica priva o quasi di segni dinamici non era assolutamente da intendersi come "piatta" [53] , dall'altro è evidente che il bisogno di specificare l'intensità in modo sempre più dettagliato era lo specchio del crescente interesse che questo aspetto veniva ad assumere dal punto di vista compositivo. In effetti dobbiamo ritenere che, laddove si individuava la necessità dell'uso di una dinamica non più semplicemente intuibile dall'interprete, comunque esperto, lì si produceva uno "scarto" dalla convenzione e la dinamica entrava senz'altro a far parte delle risorse dell'inventio.

Dal lato dell'interprete dobbiamo poi considerare la centralità della dimensione relazionale e contestuale. Nel tentativo di tradurre l'intenzione dinamica del compositore (per es. 'p') l'interprete imprime una certa forza nel gesto esecutivo, ma lo fa misurandosi con 3 contesti diversi:

- le dinamiche della propria "parte" complessivamente considerate: quindi in relazione ai propri 'forte' e ai propri 'pianissimo' ma anche in relazione al registro (acuto, centrale o grave) in cui sta suonando;

- le dinamiche degli altri strumenti, se ve ne sono, con i quali si trova a condividere lo spazio sonoro e che, dal punto divista timbrico, potrebbero avere un grado di presenza diverso (ad esempio un legno in mezzo agli archi), facendo attenzione al ruolo svolto dalla propria "parte" in quel momento (sta accompagnando o sta cantando ?)

- l'acustica generale del luogo dove si suona. Se vi è riverbero o è "asciutta" se è "brillante" o "opaca", ad esempio, la cosa cambia molto (mancare una prova prima del concerto in una sala sconosciuta può essere fatale).

In relazione a questi 3 contesti l'interprete è in grado di dare al segno in questione ('p') un significato abbastanza preciso, ancorché non quantificabile, e valido localmente, che, se avrà interpretato correttamente, giungerà all'orecchio dell'ascoltatore come un'intensità sonora equilibrata, cioè funzionale all'intenzione espressiva della composizione.

Occorre inoltre tenere presente anche alcune caratteristiche della fenomenologia percettiva dell'ascoltatore. L'orecchio, analogamente a quanto avviene in un apparecchio registratore, subisce una certa inerzia nell'adeguamento a condizioni dinamiche improvvisamente mutate: la brusca alterazione genera un momentaneo squilibrio sia nel passaggio ff - pp, una sorta di accecamento, sia in quello inverso. D'altro canto abituare l'ascolto ad un livello basso d'intensità produce un progressivo raffinamento dell'udito basato su una tensione d'ascolto in grado di ricevere ed apprezzare differenze infinitesime, dando loro una pienezza di senso.

Dal punto di vista strutturale osserviamo due cose. Il contrapporsi simultaneo di 'forte' e 'piano' comporta il segregarsi naturale di parti in maggiore risalto ed evidenza rispetto ad altre con minore risalto, minore importanza. Ciò è analogo a quanto avviene in pittura: figure in primo piano e sullo sfondo oppure al centro e ai margini, o ancora, in chiaro o in ombra. La stratificazione in piani diversi istituisce sempre una gerarchia percettiva al servizio dell'articolazione dei contenuti narrati.

Vi è poi la doppia possibilità di guardare alla intensità dei suoni da un punto di vista statico-discreto (con simboli che marcano segmenti musicali più o meno ampi, dalla frase alla nota singola); oppure variativo-continuo (con altri segni, le "forcelle", che mimano analogicamente la variazione d'intensità nel tempo, sostituibili con la scritta in chiaro "crescendo" o "diminuendo").

a) < > b) >

L'uso simultaneo delle due notazioni consente una presa diretta sull'andamento dinamico del segmento musicale, comprensivo dei rispettivi "picchi". Nella definizione del senso di queste situazioni ha grande importanza la durata cui si applica il crescendo o diminuendo. Qui si apre un'interessante prospettiva di "sconfinamento" della dinamica verso altri aspetti della musica, che richiama in qualche modo quanto abbiamo detto dell'autosomiglianza a proposito di mordente - nota di volta - segmento armonizzato (cfr. es.5).

Considerando durate minime, riconducibili al singolo suono, i casi a) e b) sfociano allora nelle molteplici strategie di intensificazione espressiva che, a partire dal modo tipicamente "barocco" di dare espressione al singolo suono (< >)gonfiandolo con un piccolo mantice (la messa di voce), spaziano attraverso i vari segni di "accentuazione" (> - . etc.) fino a forme di "crasi" dinamica come lo "sforzato piano" (sfp) che sembrano contrarre l'idea di un passaggio brusco, in un unico gesto, che fonde lo "sforzato" (fz, sf, sfz) - intensificazione dell'accento- con un "subito piano". Interessante a questo riguardo la confusione generata dai manoscritti di Schubert che sembra non distinguano tra il segno di accento (>) e una piccola forcella in decrescendo: l'edizione critica delle sinfonie, curata dalla Bärenreiter alla fine degli anni '60, chiarisce l'equivoco (Schubert intendeva l'accento) e tuttavia in diversi punti, coincidenti con note lunghe, il dubbio rimane.

D'altronde l'attenzione alla vita del singolo suono porta la dinamica a sconfinare naturalmente nel timbro di cui, come è noto, è largamente responsabile il "modo d'attacco" della nota. La moderna fisica acustica ha indagato i complessi rapporti che legano il "transitorio d'attacco" all'"inviluppo di ampiezza" e allo spettro armonico, rivelando, in termini quantitativi e scientifici, quella complessità interna al suono, colto al suo sorgere nel giro di pochi millisecondi, di cui alcuni segni di articolazione e dinamica, sia pure in forma imprecisa e intuitiva, in qualche modo esprimono l'ingrandimento, ovvero la realizzazione su scala più ampia [54] .

Il preludio n° 20 di Chopin consiste in 3 frasi di 4 battute con pochi accordi in una formula ritmica ostinata: come si vede dallo schema esso consta di 3 frasi ( A B B ) di cui la terza è identica alla seconda, ma in pp. La battuta 13 è in più, nel senso che la cadenza sulla tonica era già contenuta nella b.12 (che riarmonizza la b.1, cfr. es.12) essa contiene solo l'accordo di tonica, ribadito, ma con l'accento (>):

 

A

ff

  cresc..... ............  

B

p

       

B

pp

     

>

 

in questo peso dato dall'accento vi è tutta la volontà di conclusione ma, si badi, al termine di una circolarità in decrescendo. E' chiaro che, di fronte ad una scelta così scarna sul piano del materiale, questa stratificazione dinamica assume un grande rilievo che l'interprete deve opportunamente investire di senso.

Non è forse inutile richiamare qui la peculiare struttura della produzione del suono del pianoforte, formato da un "attacco" percussivo seguito da un "inesorabile" diminuendo. Solo l'accordo finale tuttavia, nel caso sia un accordo tenuto (e prolungato da una corona, come nel preludio di Chopin), solo allora il suono, continuamente interrotto nel suo morire, viene finalmente lasciato spegnersi fino in fondo.

Un ultima osservazione la riserviamo alle direzioni immaginative che la dinamica porta con sé.

Il contrasto tra 'piano' e 'forte' (nell'ambito di idee principali, non quindi riferito alla segregazione sfondo/figura) ha visto spesso associato il contrasto chiaroscurale tra il "mondo interiore", con tutte le sue possibili connotazioni in termini di intimità, delicatezza, malinconia, debolezza, profondità; e il "modo esteriore", cui si possono associare facilmente idee di forza, affermazione vitale, espressioni violente, dimensione tragica e drammatica. Il rischio di una semantica a buon mercato e stereotipa - sempre in agguato in simili traduzioni nella sfera del sentimento- non deve però impedirci di considerare questo contrasto, pur senza enfatizzarlo, come uno sfondo di senso con il quale la musica si confronta costantemente, per arricchirlo o anche contraddirlo.

Così se al 'forte' possiamo associare anche una vicinanza che, metaforicamente, significa importanza, gravità, urgenza, (si confronti pure la necessità del crescendo nell'ars retorica: il disporre gli aggettivi -come gli argomenti- in ordine di importanza crescente); alla sfera del 'piano', afferisce l'idea di lontananza, sia spaziale sia temporale. Quest'ultima segue la fenomenologia del ricordo, che presenta un'attenuazione dovuta al trascorrere del tempo e quasi all'invecchiamento delle idee, grazie alla capacità della musica di comprimere in pochi minuti l'impressione di un lungo trascorrere, di un lungo vissuto. Così è facile incontrare -da Beethoven in avanti- nella fase finale di un brano, dopo ampia elaborazione, un tema, fatto a brandelli e attenuato nella sua presenza. Cionodimeno se il ricordare è rendersi presente ciò che è passato (lontano) vi è anche il ricordo caratterizzato da una presenza appassionata, dunque forte: [55] Così, al termine del II tempo della 3a sinfonia di Beethoven, il grande Adagio assai caratterizzato dalla "Marcia funebre", troviamo il tema "sotto voce" e "sempre più p" ma, alla penultima battuta, dopo che anche l'ultima cadenza è stata consumata (iv t) ecco lo sf in diminuendo di legni e ottoni e il 'f' dei bassi che riaccende improvvisamente, come da una brace ormai sopita, il gesto iniziale, o meglio, la sua dolorosa memoria (es.27 pag. seg.).

Nella "Musica per Achi Percussioni e Celesta" di Bartòk il primo dei quattro tempi è un lungo fugato che occupa più della metà del movimento. E' costruito con una elementare ma efficacissima logica dell'accumulo in parte tipica dell'esposizione della fuga, ma che qui trova una peculiare espressività in virtù di un dosatissimo crescendo che parte dal 'pp' per sfociare nel 'fff'. E' solo uno dei tanti esempi di uso della dinamica per esprimere il momento dell'insorgenza del suono, inteso come suono globale, che crea una presenza dal nulla del silenzio che lo precede ed esprime quindi, creando il proprio spazio-tempo, una piccola "cosmogonia" (pensiamo anche al lento decollo di La Mer di Debussy, dove nelle prime 30 battute la dinamica più forte è il 'p' da cui partono forcelle di indefinito crescendo che sboccano nel 'f' solo in coincidenza con il cambio totale di scena).

In Mahler troviamo invece un interessante esempio di lentissimo diminuendo e poi 'pianissimo' portato alle estreme conseguenze, nell'Adagio finale della 9a sinfonia. Quasi un quarto del pezzo è impiegato per declinare l'azione del finire. Certo, con Mahler stiamo parlando di macroorganici orchestrali e macroforme, ma sappiamo che il lato quantitativo non giustifica affatto, da solo, scelte simili. Vi è invece l'espressione di un lento

es. 27 Beethoven, 3a sinfonia, II tempo Beethoven, 3a sinfonia, II tempo

 

Beethoven, 3a sinfonia, II tempo

 

consumarsi, quasi per erosione, potremmo parlare di fatica del morire : l'ultimo respiro che tarda ad arrivare perché continuamente procrastinato dall'insorgenza di afflati vitali, dall'affiorare di ricordi, sempre più fiochi e attenuati.

In entrambi i casi -il momento di insorgenza del suono e quello della sua progressiva dissoluzione e scomparsa- la dinamica gioca un ruolo fondamentale che la proietta verso un altro "sconfinamento", verso il territorio della forma. La doppia forcella, così come la troviamo nella stragrande maggioranza dei casi, viene dunque a collocarsi in una posizione intermedia tra l'immagine del "mantice", che abbiamo visto operare al microlivello del singolo suono (< >) -di cui costituisce un'articolazione dell'attacco/decadimento- e l'immagine dell'arco formale generale (ancora una volta verificando una compresenza su scala diversa dei medesimi tratti strutturali). In tutti i casi viene riverberata quell'organicità fisiologica della musica che la lega all'idea del respiro, che resta forse la metafora più originaria e radicale.

 

Note

[47] In realtà verso la metà del IX secolo, quando si pose il problema della notazione, emersero chiaramente due approcci diversi: la notazione paleofranca assegnò maggiore importanza al dato diastematico, mentre quella di Laon e San Gallo riteneva di dover notare tutta una serie di caratteristiche -gli appoggi ritmici, le note staccate e leggere, l'agogica- che vitalizzavano la monodia gregoriana. Nei due secoli successivi, come sappiamo, la consapevolezza della maggiore importanza dell'intervallo per la recordatio finì per per far convergere gli sforzi in un unica direzione.

[48] Una messa a fuoco ben documentata, e incastonata in un quadro teorico originale, dell'importanza che queste determinazioni (chiamate "rilievi non strutturali") possono arrivare ad avere nella musica classico-romantica, la troviamo nel libro già citato di D. Epstein Al di là di Orfeo. In un capitolo dedicato a "fraseggio e nuance" si richiama l'attenzione sulla possibilità di raggruppare le Variazioni op.56 per orchestra di Brahms sulla base di due tipi di nuance caratterizzate ciascuna da un proprio fraseggio, articolazione, timbro e dinamica. L'operazione è interessante perché suggerisce implicitamente un percorso di lettura della forma che arricchisce -senza contraddirla- la lettura analitica più standard, basata sull'esame delle trasformazioni subite dal materiale melodico-armonico.

[49] Pierre Boulez, Encyclopédie de la Musique, Fasquelle, 1958, testo raccolto in Note d'apprendistato, Torino, Einaudi 1966, p.302

[50] "In realtà le proprietà materiche del sonor venivano osservate nello stesso momento in cui se ne provava l'idoneità e se ne decideva l'uso operativo" (M. de Natale, Strutture e forme della musica come processi simbolici, Morano Ed. Napoli 1978, p.330, ma si veda tutta la Parte Quinta dove viene messo a fuoco il concetto di sonor e tutto "l'universo timbrico-dinamico").

[51] David Epstein, op.cit., p.122. La citazione è presa da Kerman "The Beethoven Quartets", New York Review of Books, 26 sett. 1968, p.4

[52] D. Epstein, op. cit. p. 230 (anche la successiva citazione)

[53] La dinamica segue in questo coerentemente il disvelamento che i filologi hanno compiuto, rivelando la vitalità enorme che animava l'esecuzione della musica antica a cominciare dall'interpretazione degli "abbellimenti" fino al problema dell'inegualité ritmica (cfr. A. Geoffroy-Dechaume, op. cit. alla nota

[54] Una panoramica ricca e attenta anche ad aspetti di fenomenologia del suono si trova in John R. Pierce La scienza del suono, Zanichelli, Bologna 1987

[55] Cfr. Agostino Confessioni: "La memoria è il presente di ciò che è passato" (libro XI, 20.26) "E la mia infanzia, che non è più, è nel passato, che non è più: ma nel rievocarla e narrarla è nel presente che io vedo la sua immagine, ancora viva nella mia memoria" (18.23) Ma nei "vasti palazzi della memoria" i ricordi vengono alterati " amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi" (libro X, 8.12).

 

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