All’interno di un programma di ricerca nazionale, coordinato da Michele Nicoletti e svolto nell’ambito del PRIN 2008, il PTP ha svolto il seguente progetto:
Verità, politica, giustizia: teorie e pratiche
Riflettere sulla relazione tra verità e politica richiede di muoversi a vari livelli e di adottare diverse prospettive. Su un piano metafilosofico, è necessario rintracciare le ragioni della diffusa diffidenza teorica verso la verità e valutarne la persuasività. La verità è considerata politicamente inadeguata perché ostacola l’accordo e perché risulta autoritaria in quanto pretende di valere come standard indipendente dal consenso. Di conseguenza, credenze di ordine metafisico sono espulse dallo spazio pubblico perché intrattabili e standard politici presentati come veri e non negoziabili sono ritenuti inaccettabili. Simili argomenti si fondano sull’equazione tra verità e attitudini fondamentalistiche, un assunto che deve essere meglio esaminato, e su un ideale di verità che fa coincidere verità e certezza. È però il caso di verificare se sciogliere il nesso verità-certezza permetta di pensare il riferimento alla verità come indispensabile proprio quando, in assenza di accordo, si cerchino criteri affidabili per valutare stati del mondo o scelte individuali. Inoltre, si ritiene che la verità sia politicamente irrilevante e che la sua ricerca impedisca di conseguire risultati pratici. Tuttavia, sembra che la filosofia politica non possa giustificare adeguatamente i propri criteri senza riferimento alla verità ed è dunque necessario appurare se la ricerca di criteri veri, quando intesi come criteri teoricamente adeguati, conduca inevitabilmente a risultati irrilevanti sul piano pratico o politico. Si tratta di capire quali compiti pratici possa svolgere una filosofia politica che, perseguendo l’adeguatezza teorica delle proprie tesi, sospende considerazioni di praticabilità e assume una prospettiva ed una logica estranee alla politica. Abbandonando la riflessione metafilosofica e concentrandosi sul paradigma liberale, il nesso tra verità e politica può essere esaminato con riferimento alle nozioni di oggettività e di neutralità. Nel primo caso, è interessante notare che la nozione di oggettività propria del liberalismo politico, nel tentativo di individuare una via intermedia tra realismo e relativismo, mette da parte la verità senza però risultare efficace. Un simile approccio rischia infatti di fondare principi normativi su accordi politici contingenti. È quindi utile tornare a riflettere sul legame tra oggettività e verità. Inoltre, è necessario valutare se sia possibile fondare principi politici a partire da assunzioni metafisiche in merito all’autonomia o all’eguaglianza senza mettere in pericolo forme di vita liberali. L’ipotesi è che il riferimento all’oggettività e alla verità non solo non comporti nessun dogmatismo, ma che esso permetta alla filosofia politica liberale di riappropriarsi dei propri compiti normativi. La neutralità può intendersi come vuoto morale o come astinenza epistemica. Può designare, d’altra parte, una morale politica condivisibile da individui che asseriscono verità differenti. Il liberalismo politico si presenta come una teoria morale, anche se parziale e non comprensiva, che concepisce la neutralità come politicità. Si intende mostrare, da un lato, che il punto di forza di una simile teoria parziale consiste nella sua capacità di ospitare diverse credenze presentate come vere e, dall’altro, che la neutralità può essere rivendicata, più che attraverso una giustificazione valida a priori, facendo appello all’efficacia di pratiche liberali neutrali nel gestire conflitti e nel fare fronte ad ingiustizie. Per completare il quadro è necessario esaminare anche la relazione tra verità e giustizia. Due sono le linee di ricerca che saranno sviluppate. La prima affronta le difficoltà di bilanciare giustizia e verità e riflette sui fini della giustizia transizionale. L’intento consiste nel formulare, a partire da casi concreti e dalle esperienze delle Truth Commissions, un modello di giustizia di transizione che esemplifichi possibili tensioni e ricomposizioni tra verità e giustizia. È quindi opportuno chiarire cosa accade alla verità quando viene pubblicamente riconosciuta, quando diventa parte della scena pubblica cognitiva, e cosa accade alla politica per effetto di questo riconoscimento. La seconda linea di ricerca si interroga, invece, sul rapporto del procedimento giudiziario con la verità facendo riferimento, da un lato, alla letteratura di antropologia e storia del diritto, dall’altro, a sentenze che discutono la verità di visioni del mondo o di teorie scientifiche, come le sentenze del Tribunale Costituzionale Tedesco in merito alle tesi negazionistiche sulla Shoah. In termini normativi, questo suggerisce di verificare la possibilità di individuare criteri per definire se e quando, in società pluraliste e liberali, sia necessario affidarsi al potere giudiziario per stabilire determinate verità e di valutare quanto e quale consenso sia necessario alla conservazione di un ordine politico e quanto e quale dissenso circa la verità di sistemi di credenze sia ammissibile.
La tesi di John Rawls sul fatto del pluralismo, secondo cui dato il conflitto insuperabile tra metafisiche divergenti che segna le società liberali mature non è possibile né desiderabile pensare a una difesa metafisica di principi politici, o d’altra parte legittimare la pubblicità di credenze vere, sembra un punto fermo paradigmatico nella filosofia politica contemporanea. Le implicazioni di questa tesi in merito all’infondatezza e infondabilità dei principi politici, se non tutte le sue premesse, sono condivise oltre i confini del liberalismo politico, da altre prospettive, che operano con vocabolari e metodi diversi. Lo sono in quanto riconducibili a una diffidenza verso il ricorso alla verità nello spazio politico che percorre tutto il pensiero post-metafisico, confermando l’osservazione di Hannah Arendt secondo cui “nessuno ha mai dubitato che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra”. (Arendt 1995, p.29) Nella filosofia politica della seconda metà del novecento, è possibile rintracciare tre linee interpretative rispetto alla relazione tra verità e politica. 1) La verità è estranea alla politica e intrinsecamente coercitiva (Arendt 1995). Appellandosi alla verità, la filosofia politica rischia di assumere un’attitudine dispotica nei confronti della politica stessa. 2) La verità è fonte di divisioni e rappresenta un ostacolo ai compiti pratici della filosofia politica, che consistono nel proporre criteri condivisibili volti ad orientare la scelta e l’attuazione di politiche (Rawls 1993). 3) La verità è irrilevante in ambito politico: la filosofia politica deve mettere da parte la verità e concentrarsi sulla ridescrizione di principi e pratiche contastualmente ritenute desiderabili, in modo da favorire la loro accettazione (Rorty 1991). Le tre linee interpretative puntano nella stessa direzione: la filosofia politica deve garantire la rilevanza pratica e l’adeguatezza politica delle proprie tesi non ricorrendo a criteri di verità che trascendano l’ambito politico. L’oggettività politica è intesa come indipendenza dei principi politici da punti di vista contingenti. Rawls propone una versione di oggettività politica attenta a non sconfinare nella verità. Se l’obiettivo del liberalismo politico è l’accordo, la verità deve essere tenuta fuori dalla decisione sui principi poiché divide. L’oggettività viene da Rawls intesa come scelta dei principi politici in condizioni ideali. Le condizioni ideali sono assicurate, tra le altre cose, dalla “ignoranza metafisica” che consente la condivisione di principi politici a chi è diviso sulla verità. Questa oggettività moderata è una via media tra consenso sui principi motivato dal loro valore oggettivo e adesione motivata dall’autointeresse. Ma la praticabilità di questa via è incerta: può esserci impegno morale autentico a principi politici che non si credono veri? Più nello specifico: si può colmare questa incertezza tramite la nozione di neutralità? Resta incerto, infatti, se il liberalismo sia una prospettiva neutrale nei confronti delle concezioni di vita buona adottate dai singoli, o se non sia invece una dottrina comprensiva che include una teoria del valore, un’epistemologia, una metafisica controversa. La verità risulta problematica anche quando ci si sposti sul piano delle pratiche di giudizio. La tensione giustizia-verità emerge, da un lato, dal confronto tra paradigmi diversi di giustizia in circostanze emergenziali, dall’altro, in relazione al nesso verità-procedimento giudiziario. Il caso delle Truth Commissions articola in modo innovativo (e controverso) il rapporto tra giustizia e processo di costruzione di un nuovo ordinamento costituzionale democratico. Il confronto tra paradigma retributivo, che prevede l’obbligo di punire i responsabili di violazioni, e paradigma restaurativo di giustizia, centrato su dinamiche terapeutiche e riparatorie per scopi di riconciliazione, lascia aperte questioni teoriche e normative che investono il significato stesso della giustizia retributiva e la sua possibile, o desiderabile, negoziabilità. (Rotberg & Thompson 2003) D’altra parte, come emerge dalle indagini sulla cultura giuridica interna e dalla teoria del diritto di stampo giusrealistico, la verità giudiziaria tende ad apparire più il prodotto di una costruzione che quello di un accertamento, e dunque verosimile più che veritiera in senso proprio. Ciononostante, è condizione della legittimazione sociale delle decisioni giudiziarie e della loro limitata capacità di comporre i conflitti interpersonali la credenza che esse siano basate su di un accertamento dei fatti, dunque su di una verità in senso proprio. (Habermas 2001) Resta tuttavia relativamente inesplorato il ruolo del procedimento giudiziario nella produzione di una verità indipendente dalla realtà di stati di cose e capace di resistere a smentite di tipo empirico. Riferimenti bibliografici Allen J., (1999), «Balancing Justice and Social Unity: Political Theory and the Idea of a Truth and Reconciliation Commission», Univ. of Toronto Law Journal, Vol. 49, n. 3, Summer.
Arendt H., (2004), Responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi.
Arendt H., (1995), Verità e politica, Torino, Bollati Boringhieri.
Audi R., Wolterstorff N., (1996), Religion in the Public Square: The Place of Religious Convictions in Political Debate, NY, Rowman & Littlefield.
Aukerman M. J., (2002), «Extraordinary Evil, Ordinary Crime: A Framework for Understanding Transitional Justice», Harvard Human Rights Journal, vol. 15, Spring.
Beiner R., (2008), «Re-reading ‘Truth and Politics’», Philosophy & Social Criticism, vol. 34, n.1-2.
Butler J., Scott J.W. (eds), (1992), Feminists Theorize the Political, NY & London, Routledge.
Button M., (2005), «Arendt, Rawls and Public Reason», Social Theory and Practice vol. 31, part II.
Cohen J., (1997), «The Arc of the Moral Universe», Philosophy & Public Affairs, vol. 26, Spring.
Cohen, G. A., (2008), Rescuing Justice and Equality, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass.
Connolly W., (1999), Why I am not a Secularist, Minneapolis, Univ. of Minnesota Press.
Dacey A., (2008), The Secular Conscience. Why Belief Belongs in Public Life, NY, Prometheus Books.
Davidson D., (2003), Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Milano, Cortina.
Davis C., Milbank J., Žižek S. (eds)., (2005), Theology and the Political: The New Debate, Durham, Duke Univ. Press.
Derrida J., (2003), Forza di legge. ‘Il fondamento mistico dell’autorità’, Torino, Bollati Boringhieri.
Dewey J., (1966), La ricerca della certezza, Firenze, La Nuova Italia.
Dyzenhaus D., (1998), Judging the Judges, Judging Ourselves. Truth, Reconciliation and The Apartheid Legal Order, Hart Publishing, Oxford.
Eberle C., (2002), Religious Conviction in Liberal Politics, Cambridge, Cambr. Univ. Press.
Elster J., (2004), Closing the Books: Transitional Justice in Historical Perspective, NY, Cambridge Univ. Press.
Estlund D., (1998), «The Insularity of the Reasonable: Why Political Liberalism Must Admit the Truth», Ethics, vol. 108, n.2.
Ferrajoli L., (1989), Diritto e ragione: Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza.
Ferrer B., (2004), Prova e verità nel diritto, Bologna, Il Mulino.
Frankel P.E., Miller F.D., Paul J., (eds.), (2007), Liberalism: Old and New. NY, Cambridge Univ. Press.
Garapon, A., (2007), Del giudicare: Saggio sul rituale giudiziario, Milano, Cortina.
Gaus, G. F., (1996). Justificatory Liberalism: An Essay on Epistemology and Political Theory. NY, Oxford Univ. Press.
Häberle P., (2000), Diritto e verità, Torino, Einaudi.
Habermas J., (2001), Verità e giustificazione, Bari, Laterza.
Hampton, J. (1989), «Should Political Philosophy Be Done without Metaphysics?», Ethics, vol. 99, n. 4.
Hayner P. (2001), Unspeakable Truth: Confronting State Terror and Atrocity, NY, Routledge.
Honig B., (1993), Political Theory and the Displacement of Politics, Ithaca, Cornell Univ. Press.
Kelsen H., (1948), «Absolutism and Relativism in Philosophy and Politics», The American Political Science Review, vol.42, n.5.
Lafont C., (2004), Moral Objectivity and Reasonable Agreement: Can Realism Be Reconcilied With Kantian Constructivism?, Ratio Juris, vol. 17, n.1.
Larmore C., (2008), The Autonomy of Morality, Cambridge, Cambridge Univ. Press.
Lynch M. P., (2007), La verità e i suoi nemici, Cortina, Milano.
Lyotard F., (1982), «Presenting the Unpresentable», Art Forum, March.
Marconi D., (2007), Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino, Einaudi.
Martin R., Reidy D.A (eds), (2006), Rawls’s Law of peoples: a realistic utopia?, Oxford, Blackwell.
Minow M. (1998), Between Vengeance and Forgiveness: Facing History after Genocide and Mass Violence, Boston, Beacon Press.
Nagel, T. (1986), The View from Nowhere, NY, Oxford Univ. Press.
Nozick, R., (2003), Invarianze. La struttura del mondo oggettivo, Roma, Fazi.
Nussbaum, M. (2001), «Political Objectivity», New History, vol. 32, n. 4.
Phillips A., (2007), Multiculturalism without Culture, Princeton, Princeton Univ. Press.
Putnam H. (1995), Realismo dal volto umano, Bologna, Il Mulino.
Rawls J., (1994), Liberalismo politico, Milano, Comunità.
Rawls J., (2001), Il diritto dei popoli. Torino, Comunità.
Rawls J., (2001), Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, Milano, Comunità.
Raz J., (1990), «Facing Diversity: The Case of Epistemic Abstinence», Philosophy & Public Affairs, n. 19.
Rorty R., (1993), Scritti filosofici I, Bari, Laterza.
Rorty R., (1994), Scritti filosofici II, Bari, Laterza.
Rorty R., (2000), «Universality and truth» in R. B. Brandom (ed.), Rorty and his Critics, Oxford, Blackwell.
Ross, A., (1965), Diritto e giustizia, Torino, Einaudi.
Rotberg R. I. & Thompson D. (eds), (2003), Truth v. Justice: The Morality of Truth Commissions, Princeton Univ. Press.
Sandel M., (2005), «Political Liberalism», in Public Philosophy: Essays on Morality in Politics, Cambridge Mass., Harvard Univ. Press.
Shriver D. W. (1995), An Ethic For Enemies: Forgiveness in Politics, Oxford Univ. Press.
Usberti (Ed.), (2000), I modi dell’oggettività, Milano, Bompiani.
Veca S., (1997), Sull’incertezza: tre meditazioni filosofiche, Milano, Feltrinelli.
Williams B., (2005), Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Roma, Fazi.
Wittgenstein L., (1978), Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Torino, Einaudi.
Zerilli L., (2006), «Truth and Politics», Theory & Event, vol. 9, n.4.
Ipotesi di ricerca Si può, e a quali condizioni, considerare la verità come una nozione filosoficamente e politicamente produttiva? Per rispondere alla domanda – che il progetto articola sul piano normativo, sul piano meta-filosofico e sul piano delle pratiche del giudizio che attribuiscono valore alla verità con intenti politici e giuridici – si dovranno anzitutto esaminare i motivi profondi che sono all’origine di una diffusa propensione teorica alla “drammatizzazione della verità”. Si cercherà anzitutto di stabilire se il desiderio di verità sia un desiderio allo stesso tempo futile e pericoloso da parte della politica e se, quindi, il compito della filosofia politica consista nel rimuoverlo; o se, invece, non si tratti di un desiderio inevitabile e fecondo, che richiede alla filosofia politica di accettare il rischio di riconoscerlo. Approfondire le ragioni per cui si ritiene che la verità delle diverse credenze e opinioni debba rimanere pubblicamente invisibile, per un verso, e indagare, d’altra parte, la possibilità di attribuire a standard politici un carattere di non negoziabilità capace di smentirne la relatività contingente, significa fare i conti con il carattere assolutistico che il richiamo alla verità tende a assumere. L’anti-assolutismo sembra in effetti un impegno cruciale della filosofia politica post-metafisica, che, seguendo le indicazioni del suo esponente più radicale, Richard Rorty, deve finalmente rinunciare alla “divinizzazione compulsiva” dei suoi impegni, arrendendosi a considerarli soltanto e pienamente umani. La posizione di Rorty, crossing-philosopher tra analitici e continentali per eccellenza, è rappresentativa di una tendenza che va ben oltre i confini del paradigma liberale. Ci si dovrà chiedere, dunque, se tale richiesta sia ricevibile da parte di una filosofia politica che non intenda solo essere spettatrice del dissenso valutativo e non voglia rinunciare all’idea che ci sono modi giusti e sbagliati di rispondere a questioni fondamentali, che non tutte le risposte sono equivalenti, che alcune risposte sono non negoziabili. Ma la tendenza a ripensare la relazione tra politica e verità, e a metterne in questione la drammatizzazione, la tendenza a fare della verità un fatto produttivo, che può essere considerata lo scopo della ricerca nel suo complesso, non è articolata dal progetto soltanto nella sua dimensione teorica più incentrata sugli impegni meta-filosofici e normativi della filosofia politica e sul confronto critico con alcuni suoi paradigmi rilevanti. Si cerca infatti di guardare anche a pratiche che mettano in gioco esplicitamente la relazione tra politica e verità, esemplificandone specifiche modalità e aprendo quindi nuove piste di riflessione sul tema. Il caso delle Truth Commissions solleva la questione del nesso tra verità, giustizia e riconciliazione mostrando diverse possibili tensioni e diverse possibili ricomposizioni tra le nozioni in gioco e evidenziando la rilevanza di una concezione di giustizia che sembra richiedere la verità piuttosto che volerne prescindere. In effetti, e più in generale, ci si rivolge al potere giudiziario per ottenere un giudizio di verità relativo a un evento di cui è necessario accertare se esso sia o meno accaduto. Si tratterà quindi di ipotizzare che il rapporto del procedimento giudiziario con la verità sia una costante nella storia delle società umane, concentrando in particolare l’attenzione sull’accertamento di verità in merito a determinate credenze o sistemi di credenze (teorici, metafisici e scientifici). Gli obiettivi teorici dell’unità di ricerca saranno perseguiti attraverso le seguenti strategie: - organizzazione di seminari lungo l’arco temporale dell’intero progetto sui seguenti temi: Verità e politica: analitici e continentali a confronto; Giustizia, verità, riconciliazione nell’esperienza delle Truth Commissions; Verità giudiziaria? Le sentenze contro il negazionismo; Può il liberalismo essere solo politico? Articolazione e passaggi teorici In prima battuta sarà necessario esaminare le ragioni all’origine della drammatizzazione politica della verità, ragioni che l’argomento liberale presenta con una chiarezza esemplare. L’argomento espelle la verità dalla politica perché la considera inadeguata alla pacificazione. Non a caso sono le guerre di religione e l’interiorizzazione della credenza religiosa favorita dalla Riforma a fare da sfondo storico ideale. In che senso un’interpretazione privatistica della credenza valga a attenuare lo zelo fondamentalistico dei credenti sullo sfondo delle guerre di religione è piuttosto chiaro. Meno chiara, e quindi interessante da esplorare, è l’equazione stabilita tra passione metafisica e zelo fondamentalistico, che autorizza un veto alla pubblica espressione della verità in quanto incongruente a risolvere il problema dell’accordo politico. La canonizzazione di questa strategia tende a sottovalutare che servono almeno due postulati per affermarla, e che di postulati si tratta, vale a dire di tesi indiscusse e non dimostrate. Il primo stabilisce l’inconciliabilità delle differenze morali, considerandole separate da un dissenso insopprimibile ma insuperabile produttivamente, il che favorisce una interpretazione del pluralismo come fatto statico e politicamente opaco; il secondo stabilisce invece la rinunciabilità politica della verità considerandola in se stessa responsabile di conflitti “mortali”. A restare implicita, e quindi non adeguatamente indagata, è una tesi sul congenito carattere prevaricatorio dell’interesse a discutere pubblicamente sia la verità morale di credenze conflittuali sia quella dei principi politici che credenze conflittuali possono sottoscrivere. Senza trascurare che l’intento di immunizzare la politica alla verità non è caratteristico solo dell’argomento liberale (la convergenza su questo punto da parte dei due più importanti filosofi politici del Novecento, John Rawls e Hannah Arendt, è significativa e dovrà essere meglio esaminata) è anzitutto della strategia di immunizzazione praticata dal liberalismo politico che si voglionosottolineare i tratti di criticità. In particolare, si dovrà mettere in questione la tesi secondo cui ragioni per credere, in quanto ragioni per credere di aver ragione, rispondano automaticamente a una logica prevaricatoria, che apparirebbe quindi connaturata a un impegno alla verità in quanto tale, modellato sull’impegno potenzialmente irragionevole a una fede religiosa. Proprio perché la propensione a escludere che credenze controverse possano far valere le proprie ragioni nello spazio della deliberazione politica è modellata dall’argomento liberale in riferimento al caso-tipo di credenza politicamente inaffidabile perché assolutisticamente orientata che la credenza religiosa rappresenta, e dato che la religione ha giocato esemplarmente il ruolo dell’ “altro” nella disputa che inaugura politica e filosofia politica moderna, l’uscita post-secolare delle credenze religiose dalla privatizzazione motiva anche uno specifico ritorno di interesse per l’obiezione metafisica cheesse avanzano secondo diverse modalità alla tesi del discorso pubblico neutrale. A partire dalla discussione critica intorno alla pretesa rawlsiana di riformulare il requisito di neutralità attraverso una versione politica del liberalismo si cercherà poi di chiarire se il liberalismo politico sia sostanzialmente una teoria morale, anche se parziale; se la neutralità debba essere intesa come politicità; se il valore di tale teoria parziale del bene pubblico consista nella sua capacità intrinseca di ospitare le diversità. Si dovrà stabilire se il liberalismo possa ancora essere difeso come la migliore soluzione disponibile al disaccordo morale, e al potenziale conflitto che tale disaccordo comporta. Le ragioni interne per essere liberali si possono gradualmente trasformare in ragioni esterne per diventare liberali? La pretesa di universalità dei valori liberali può essere difesa oltre i confini delle forme di vita liberali non in quanto pretesa astratta e aprioristica, ma sulla base delle capacità pratiche che la strategia liberale esibisce nel gestire conflitti e nell’affrontare questioni di ingiustizia? La domanda sul tipo di pretesa universalistica cui la teoria liberale può legittimamente aspirare richiede anche di verificare se l’accettabilità del liberalismo debba essere misurata su un uditorio specifico e congeniale o se invece non sia opportuno ridefinirla in modo da favorire la sua rispondenza a diversi uditori possibili. La risposta deve essere cercata anzitutto all’interno di società liberali, attraverso il confronto tra varianti inclusivistiche e esclusivistiche del discorso pubblico. Tale confronto diventa anche occasione per riflettere sulla presunta vocazione fondamentalistica della verità, e sui presunti rischi associati alla scelta di rendere politicamente visibile la diversità cognitiva all’origine di divergenti credenze e ragioni morali. Seguendo questo percorso si evidenzierà un requisito importante e caratteristico della strategia liberale per l’espulsione della verità dalla politica in funzione pacificatoria. Il carattere assolutistico del disaccordo tra credenze che pretendono di far valere la propria verità impedisce di chiudere tale disaccordo con una pretesa di verità, quindi bisogna giustificare la tolleranza: pur escludendo di poterla giustificare come uno standard vero, la si vuole però giustificare come uno standard oggettivo e incondizionato. Si può notare, quindi, come sia il riconoscimento condiviso della tolleranza in quanto principio politico assoluto (vale a dire costitutivo e non negoziabile) a chiudere il disaccordo assolutistico tra divergenti pretese di verità a base religiosa. La verità è espulsa dall’ambito pubblico per diventare questione di credenze che sanno riconoscere l’oggettiva irrilevanza della loro pretesa di essere vere, mentre l’esigenza assolutistica si sposta a garantire la tenuta di un principio che permette pacificazione in cambio di tale riconoscimento. Si deve notare che questo slittamento segnala un tratto caratteristico di filosofie politiche che non vogliono declinare l’anti-assolutismo in termini pragmatistici o relativistici, ma intendono conservare la possibilità di difendere l’oggettività dei principi politici o di assicurare in qualche modo la loro speciale tenuta e validità. Concentrarsi sugli aspetti meta-filosofici del rapporto tra filosofia politica e verità richiederà di misurarsi con il “bisogno di assoluto” da cui politica e filosofia politica sono, sia pure ambiguamente, segnate, per arrivare a teorizzare esplicitamente tale ambiguità, riconoscendo l’esigenza di incondizionalità che l’anti-assolutismo liberale rivendica politicamente senza tutelarla filosoficamente, e cercando di esplicitarla attraverso l’ipotesi di un quasi-assolutismo o di un fondazionalismo infondato e contestabile. Si tratterà anche di verificare per un verso se la rinuncia alla verità permetta alla filosofia politica di rivendicare l’adeguatezza teorica delle sue soluzioni e per l’altro se il ridimensionamento politico dell’aspirazione all’oggettività sia adeguato a tutelare principi con uno status normativo superiore o non rischi di affidarne la tenuta all’accordo contingente che relativizza la pretesa di verità a specifiche comunità discorsive. Sembra infatti che eludendo la domanda circa la verità, intesa come domanda sull’adeguatezza teorica dei propri criteri di desiderabilità – quei criteri che consentono di discriminare tra pratiche adeguate ed inadeguate, che permettono di individuare corsi di azione appropriati – la filosofia politica non sia all’altezza di giustificare in modo convincente i principi e i modelli che elabora: essi sono presentati come desiderabili solo perché rilevanti da un punto di vista pratico e solo se valutati sulla base di esigenze politiche. In secondo luogo, si deve chiarire se, avanzando pretese di verità, la filosofia politica non possa che condurre a risultati irrilevanti da un punto di vista pratico. Un analogo interesse a problematizzare la politicizzazione della filosofia politica è del resto all’origine anche della divaricazione che si apre tra giustificazione e verità quando si voglia mettere in questione l’oggettività procedurale dei principi normativi per suggerire un’interpretazione più robusta della loro oggettività politica. Ma anche sul piano più pratico, quello di bilanciare imperativi normativi con impegni politici è un dilemma ineludibile, come si vede nel caso in cui un nuovo regime democratico debba confrontarsi con un passato di violazioni e di abusi. Una società in transizione non potrà trovare solide fondazioni in un resoconto parziale della verità, nella stessa misura in cui è improbabile che il rispetto per la rule of law e per i diritti possa essere edificato sull’impunità di coloro che hanno abusato di entrambi. Si cercherà quindi di ipotizzare un modello di giustizia transizionale che non trovi giustificazione in un trade-off ‘espedienziale’ tra giustizia e verità. Il caso delle Truth Commissions permette infatti di verificare cosa accade alla verità quando viene pubblicamente riconosciuta, diventando parte della scena pubblica cognitiva, e cosa accade alla politica per effetto di questa intrusione. D’altra parte, se il silenzio sulla verità o il suo superamento attraverso il perdono possono diventare politicamente produttivi, generando stabilità e pacificazione, sembra ritornare qui in un’altra forma l’argomento liberale sull’espulsione della verità dalla politica in funzione pacificatoria: tuttavia, in questo caso, giustizia e verità hanno bisogno una dell’altra. La stessa tesi si conferma guardando alla verità che emerge da procedimenti giudiziari, attraverso i quali si perviene spesso alla produzione di un fatto come vero, a dotarlo di una verità peculiare, non dipendente dalla realtà di stati di cose, ma da una decisione giuridica, e capace (in certa misura) di resistere a smentite di tipo empirico. Inoltre, da sempre e ancora oggi, al potere giudiziario si chiede non solo di accertare la verità circa atti e fatti giuridicamente rilevanti, ma anche, talvolta, di esprimersi circa la verità di determinate credenze. Con riferimento all’epoca contemporanea saranno in particolare prese in considerazione sentenze delle corti costituzionali di paesi europei e nord-americani in cui è stato discusso, da diverse prospettive, il problema della verità di visioni del mondo e tesi o teorie scientifiche (ad es. le tesi negazionistiche circa la Shoah, l’ipotesi del disegno intelligente, teorie razziste ecc.).Dopo aver ricostruito il ruolo del diritto nella produzione della verità, ci si chiederà se sia possibile individuare criteri per stabilire se e quando, dati i principi liberali della libertà di opinione e del rispetto per diverse visioni del mondo, sia opportuno affidare al diritto stesso il compito di accreditare come vere o false certe opinioni e visioni del mondo.
– organizzazione di un convegno a cura dell’unità locale su: Verità e politica: teorie e pratiche
– missioni di studio all’estero per favorire contatti internazionali connessi agli scopi del progetto con particolare interesse per le seguenti sedi accademiche: Centre for Ethics, Social and Political Philosophy, Katholike Universiteit Leuven; Karman Centre for Advanced Studies in the Humanities, Bern; Forum on Religion, European Institute, London School of Economics and Political Sciences; Cambridge Centre for Political Thought; The Political Theory Project, Brown University, Usa; University Center for Human Values, Princeton; IEP, Paris; Department of Politics, Univ. of Sheffield; School of Advanced Studies, Institute of Philosophy, London University; Bristol University, Centre for the Study of Ethnicity and Citizenship.
– pubblicazioni attese: monografia tematica; articoli su riviste italiane e straniere; sito web tematico.
La relazione tra verità e politica è stata al centro della riflessione e delle attività di ricerca organizzate nell’ambito di questo progetto. L’indagine mirava, infatti, a valutare se il desiderio di verità sia allo stesso tempo futile e pericoloso da parte della politica, e quindi il compito della filosofia politica consista nel rimuoverlo, o se, invece, non si tratti di un desiderio inevitabile e fecondo, che richiede alla filosofia politica di accettare il rischio di riconoscerlo. Come previsto dal progetto, la riflessione su questi temi si è sviluppata su diversi livelli e tenendo conto di prospettive differenti. Il ruolo della verità in politica è stato esaminato sia da un punto di vista metateorico, con l’intento di indagare le ragioni della diffusa diffidenza teorica nei confronti della verità e vagliarne la persuasività, sia da un punto di vista normativo, con particolare attenzione al paradigma liberale e con l’obiettivo di capire se l’esclusione della verità dal discorso pubblico sia funzionale a perseguire finalità liberali, quali la tolleranza e il rispetto. Inoltre, l’indagine si è concentrata su pratiche che mettono esplicitamente in gioco la relazione tra verità e giustizia. Con riferimento al caso della giustizia di transizione e delle Truth Commissions, la ricerca ha esaminato il controverso nesso tra verità, giustizia e riconciliazione, facendo emergere diverse possibili tensioni e possibili ricomposizioni tra le nozioni in questione ed evidenziando la rilevanza di una concezione di giustizia che sembra richiedere la verità piuttosto che volerne prescindere. Il ruolo della verità è stato indagato anche con riferimento al potere giudiziario al quale ci si rivolge per ottenere un giudizio di verità relativo a un evento di cui è necessario accertare se sia o meno accaduto. Particolare attenzione è stata dedicata a comprendere la specificità della verità giudiziaria e a esaminare procedimenti giudiziari in cui è in gioco l’accertamento di verità in merito a determinate credenze o sistemi di credenze. La ricerca ha preso le mosse dalla diffusa propensione teorica a ritenere che l’appello alla verità all’interno dello spazio pubblico sia, se non dannoso e pericoloso, per lo meno inutile e controproducente. Si tratta di una propensione che caratterizza larga parte della filosofia politica contemporanea e che è riconducibile, almeno in parte, alla tesi di John Rawls sul fatto del pluralismo, tesi secondo cui dato il conflitto insuperabile tra metafisiche divergenti, che segna le società liberali mature, non è possibile né desiderabile pensare a una difesa metafisica di principi politici, a una difesa che faccia appello alla verità. Questa posizione teorica ha, ed è questo a renderla particolarmente interessante, una notevole risonanza nella pratica, nel modo in cui si concepiscono le modalità appropriate per regolare il discorso pubblico. Per meglio chiarire questo aspetto, e in particolare le distorsioni della nozione di verità che si riscontrano nelle pratiche di società liberali e democratiche, i membri dell’unità di ricerca hanno organizzato un incontro con Franca D’Agostini, in occasione della pubblicazione del suo libro Verità avvelenata. Buoni e cattivi elementi nel dibattito pubblico (Bollati Boringhieri, Torino 2010). L’incontro, tenutosi il 18 maggio 2010, è stato un’occasione per fare il punto sulla fisionomia del discorso pubblico nelle società liberali e democratiche, nelle quali la verità risulta squalificata fin dall’inizio, data la cornice di generale sospetto nei confronti della verità stessa che le caratterizza. La presentazione del libro e la discussione che ne è seguita hanno permesso di chiarire i fattori che determinano una simile attitudine nei confronti della verità e le sue implicazioni, il fatto cioè che, rifiutando la verità come standard per valutare gli argomenti, la bontà degli argomenti avanzati nello spazio pubblico passa in secondo piano, così come perde cogenza la necessità di discriminare tra buoni e cattivi argomenti. È sullo sfondo di questa diffidenza diffusa nei confronti della verità che si è articolata la parte meta-teorica della ricerca. L’analisi meta-teorica, infatti, ha indagato le ragioni di una simile diffidenza, con l’intento di capire quale tipo di pericolo la verità rappresenti per la politica o, viceversa, quale pericolo la politica rappresenti per la verità, quale spazio la verità dovrebbe avere nella pratica della filosofia politica e quale peso nell’elaborazione di proposte normative. Per chiarire questi aspetti, la ricerca si è confrontata con autori la cui posizione in merito alla relazione tra verità e politica può essere considerata paradigmatica. A questo proposito, sono stati organizzati due cicli di seminari – uno per l’a.a. 2010-11, uno per l’a.a. 2011-2012 – coordinati da Antonella Besussi, dal titolo “Verità e Politica. Opzioni, metodi, stili”. Ogni incontro è stato dedicato a un classico della filosofia politica, affidando il compito di delinearne la posizione rispetto al nesso verità-politica a uno studioso competente. Organizzati con cadenza mensile lungo l’arco dell’intero progetto, questi incontri seminariali si sono rivelati un’occasione molto proficua per ripercorrere i punti di snodo fondamentali che hanno segnato lo sviluppo della riflessione filosofico-politica sul rapporto tra verità e politica. L’analisi delle diverse posizioni sul tema verità-politica degli autori selezionati ha permesso infatti di identificare con chiarezza i nodi teorici più rilevanti e controversi, le varie opzioni in campo, così come le loro premesse teoriche e le loro implicazioni normative e pratiche. Gli incontri hanno inoltre consentito di evidenziare differenze e somiglianze, punti di contatto e divergenze tra le posizioni degli autori selezionati, autori che sono raramente messi a confronto, in quanto riconducibili a tradizioni e prospettive teoriche distanti. Inoltre, nel corso dei seminari, sono emerse interpretazioni interessanti degli autori affrontati, interpretazioni che offrono anche spunti teorici originali funzionali ad animare il dibattito sul tema del ruolo della verità in politica. Alla luce di questi elementi, i membri dell’unità di ricerca hanno ritenuto opportuno lavorare a un progetto editoriale nel quale è confluito il materiale elaborato per i seminari. È infatti uscito, nel 2013, per i tipi di Carocci e curato da Antonella Besussi, un volume intitolato “Verità e politica. Filosofie contemporanee”, che raccoglie 14 saggi dedicati agli autori contemporanei presentati e discussi durante i seminari (William James, Hans Kelsen, Max Weber, Leo Strauss, Jürgen Habermas, John Rawls, Donald Davidson, Hilary Putnam, Richard Rorty, Ronald Dworkin, Hannah Arendt, Michel Foucault, Bernard Williams e David Lewis). Il volume include anche una nota introduttiva che offre uno sguardo d’insieme sul tema del rapporto tra verità e politica, fornendo così le coordinate necessarie per orientarsi nell’attuale dibattito su questo tema. Sempre con l’intento di vagliare le ragioni della diffidenza verso la verità, l’indagine svolta dai membri dell’unità di ricerca si è concentrata su diverse opzioni metaetiche, quali realismo e costruttivismo, che implicano diverse posizioni rispetto alla verità, e al ruolo della verità in politica, e prevedono strategie diverse per escludere, neutralizzare, disciplinare la verità o, al contrario, per rivalutarne il ruolo come standard valutativo o come fondamento per principi politici normativamente appropriati. Su questi temi, si è concentrata in particolare Antonella Besussi che ha recentemente pubblicato un libro dal titolo Disputandum est. La passione per la verità nel discorso pubblico (Bollati Boringhieri, Torino 2012). Il libro si interroga sulle implicazioni dell’esclusione dal discorso pubblico di dispute su cose prime e ultime, vale a dire di disaccordi che chiamano in causa credenze metafisiche su come sia bene o male nascere, vivere e morire, e quindi su quali soluzioni pratiche in merito a buona vita e buona morte sono apprezzabili o disprezzabili. Si tratta di un’esclusione tipica di regimi liberal-democratici e giustificata con riferimento al timore che disaccordi di principio su questioni controverse come quelle richiamate abbiano esiti conflittuali e destabilizzanti o che l’appello alla verità abbia carattere prevaricatorio. Questi timori danno vita a una strategia agnostica, che rimuove la verità dal discorso pubblico, ammettendovi solo ragioni e argomenti condivisibili, se non già condivisi, e silenziando così argomenti e ragioni che si richiamano alla verità o si fondano su credenze metafisiche. Il libro esamina i limiti di un simile approccio e sottolinea l’esigenza di garantire accesso allo spazio pubblico a disaccordi di principio e alle credenze che li accompagnano, in modo tale che, attraverso lo scambio argomentativo e il confronto aperto, le credenze in campo siano sottratte a un’involuzione dogmatica. Il confronto aperto, infatti, richiede ai contendenti di impegnarsi a convincersi reciprocamente della preferibilità delle loro tesi: dovendosi misurare nella discussione razionale, le opzioni fondamentali che producono credenze su cose prime e ultime si esplicitano, articolando le loro assunzioni più profonde e disponendosi a soppesarle. Nella disputa, il linguaggio argomentativo persiste e le condizioni di possibilità per lo scambio di ragioni sono assicurate dal valore intrinseco attribuito alla norma della verità, sia come standard epistemico sul quale misurare l’accuratezza delle evidenze sia come standard metafisico sul quale misurare l’attendibilità di tesi ontologiche. Il secondo filone di indagine perseguito dai membri dell’unità di ricerca è rivolto al paradigma liberale. La ricerca si è focalizzata in particolare sul modello rawlsiano di liberalismo politico, all’interno del quale la diffidenza nei confronti della verità assume una particolare enfasi e una specifica articolazione. La verità è infatti concepita come una vocazione fondamentalistica che tende ad alimentare il disaccordo, trovandosi così in contrasto con gli obiettivi pacificatori che il liberalismo politico persegue. Enfatizzando il carattere assolutistico del disaccordo tra credenze che pretendono di far valere la propria verità, il liberalismo politico scarta la possibilità di chiudere tale disaccordo con una pretesa di verità. Tuttavia, il liberalismo politico non intende declinare l’anti-assolutismo in termini pragmatistici o relativistici, quanto piuttosto conservare la possibilità di difendere l’oggettività di principi politici e di assicurare in qualche modo la loro speciale tenuta e validità. La riflessione si è misurata con questa tesi, al fine di valutare la plausibilità di conciliare il rifiuto della verità con l’intento di rivendicare l’oggettività di principi politici non negoziabili, quali la tolleranza. In effetti, il liberalismo politico s’impegna a giustificare la tolleranza, non come uno standard vero, ma come uno standard oggettivo e non negoziabile. La verità è espulsa dall’ambito pubblico per diventare questione di credenze che sanno riconoscere l’oggettiva irrilevanza della loro pretesa di essere vere, mentre l’esigenza assolutistica si sposta a garantire la tenuta di un principio che permette pacificazione in cambio di tale riconoscimento. È proprio il riconoscimento condiviso della tolleranza in quanto principio politico costitutivo a chiudere il disaccordo assolutistico tra divergenti pretese di verità. Per approfondire questa riflessione, è stato organizzato un workshop internazionale sul rapporto tra tolleranza e verità. Promosso da Roberta Sala, il workshop, intitolato “Toleration and Truth”, si è tenuto il 21 ottobre 2011. Il workshop è stato un’occasione per valutare la tenuta e i limiti del modello di tolleranza promosso all’interno del liberalismo. Inoltre, il workshop ha fornito spunti di riflessione importanti per rivedere in modo critico la pretesa rawlsiana di riformulare il requisito di neutralità e il principio di tolleranza attraverso una versione politica del liberalismo e per identificare con maggiore chiarezza i meriti e limiti di questa posizione. Il paradigma del liberalismo politico è al centro di un libro pubblicato da Roberta Sala dal titolo La verità sospesa. Ragionevolezza e irragionevolezza nella filosofia politica di John Rawls (Liguori, Napoli 2012). Il libro prende le mosse dall’interrogativo circa la possibilità di escludere la verità dalla riflessione filosofico-politica sostituendola con la nozione di ragionevolezza. Il libro indaga la nozione di ragionevolezza per valutare se sia sufficiente a promuovere le finalità proprie del liberalismo politico, vale a dire finalità pratiche che coincidono con la composizione dei conflitti. Il libro segnala la necessità di ripensare, non solo la nozione di ragionevolezza, ma anche e soprattutto quella di irragionevolezza. È proprio attraverso un processo di revisione della categoria di irragionevolezza che è possibile prendere maggiormente sul serio la varietà dei resoconti di verità presenti in concreto nelle società contemporanee. Infatti, il consenso per intersezione, unica soluzione ritenuta da Rawls all’altezza di contrastare la precarietà del modus vivendi, non esaurisce le opzioni disponibili e adeguate per garantire la convivenza pacifica e stabile. Il libro sottolinea, per contrasto, i meriti di una partecipazione all’impresa cooperativa nel segno di uno stabile modus vivendi, che risulta ospitale anche nei confronti dei “non-ragionevoli”, ovvero di coloro che non aderiscono agli standard della ragione pubblica, che non condividono i fondamenti della società liberale, ma che non rappresentano per questo una minaccia all’ordine e alla stabilità. Rispetto ai primi due, il terzo filone d’indagine ha avuto un taglio meno teorico, prefiggendosi di esaminare pratiche che mettono in campo in modo concreto la relazione tra verità e giustizia. In primo luogo, a partire da casi concreti e dalle esperienze delle Truth Commissions, tale relazione è stata indagata con l’intento di capire cosa accade alla verità quando viene pubblicamente riconosciuta, quando diventa parte della scena pubblica cognitiva, e cosa accade alla politica per effetto di tale riconoscimento. Inoltre, il confronto tra paradigma retributivo, che prevede l’obbligo di punire i responsabili di violazioni, e paradigma restaurativo di giustizia, centrato su dinamiche terapeutiche e riparatorie per scopi di riconciliazione, che caratterizza il caso delle Truth Commissions e casi simili, solleva teoriche e normative che investono il significato stesso della giustizia retributiva e la sua possibile, o desiderabile, negoziabilità. Per approfondire la riflessione su simili questioni, è stata organizzata, a cura di Antonella Besussi, Beatrice Magni e Francesca Pasquali, una conferenza internazionale di due giorni, dal titolo “Truth and Justice. Normative Questions, Political Practices”. La conferenza, promossa in collaborazione con la Fondazione – Compagnia di San Paolo, si è tenuta il 13 e 14 aprile 2011.La conferenza ha messo in luce gli aspetti più controversi della relazione tra verità e giustizia. Tali aspetti emergono infatti con estrema chiarezza quando, sullo sfondo di situazioni conflittuali o situazioni in cui sono stati perpetuati abusi e violazioni, aspirazioni riconciliatorie o pacificatorie si confrontano con la richiesta di accertare quanto accaduto, individuandone i responsabili, e di fare giustizia, comminando pene adeguate ai responsabili stessi. È su questo sfondo che la ricerca si è mossa per esaminare le tensioni tra impegni normativi diversi, l’impegno verso la giustizia e l’impegno verso la verità, con l’intento di valutare se, e fino a punto, si tratti di impegni inconciliabili o di impegni che si implicano reciprocamente, se si tratti di impegni semplicemente compatibili o di impegni che si rafforzano a vicenda. La relazione tra verità e giustizia è stata esaminata anche con riferimento, da un lato, alla letteratura di antropologia e storia del diritto e, dall’altro, a sentenze che discutono la verità di visioni del mondo o di teorie scientifiche. Innanzitutto, dato che, come emerge dalla teoria del diritto di stampo giusrealistico, la verità giudiziaria tende ad apparire più il prodotto di una costruzione che quello di un accertamento, e dunque verosimile più che veritiera in senso proprio, la ricerca si è interrogata sulle condizioni della legittimazione sociale delle decisioni giudiziarie e sulla fonte della loro capacità di dirimere conflitti interpersonali. Per approfondire questo aspetto, è stata organizzata, a cura di Alessandra Facchi e Nicola Riva una conferenza internazionale, dal titolo “Giustizia e verità. Una ricogniszione della funzione di verità del diritto”, tenutasi il 27 febbraio 2012, La conferenza è stata un’utile occasione per mettere meglio a fuoco il ruolo della verità, e la sua specifica fisionomia, all’interno dei procedimenti giudiziari. Questo approfondimento si è rivelato essenziale per indagare in modo più puntuale casi nei quali alle corti è stato affidato il compito di pronunciarsi in merito a credenze o teorie scientifiche, come nel caso delle sentenze del Tribunale Costituzionale tedesco sulle tesi negazionistiche relative alla Shoah. In termini normativi, si è trattato di valutare la possibilità di mettere a punto criteri che definiscano se e quando, in società pluraliste e liberali, è necessario affidarsi al potere giudiziario per stabilire determinate verità. Più in generale, questo tipo di riflessione si è confrontata anche con la necessità di esaminare quale consenso sia necessario alla conservazione di un ordine politico e quanto e quale dissenso circa la verità di sistemi di credenze sia ammissibile. The main result of the research project the elaboration of a punctual framework about the various positions on and approaches to relationship between truth and politics. The initiatives organized involved scholars with trainings and disciplinary competences very different from those of the members of the research unit, this being functional to investigate the notion of truth and its relationship with politics from multiple perspectives. The analysis of truth in its connection to politics and to justice requires indeed to take into account clues from several different disciplines, such as logic, history, sociology and law, which allow to acquire more precise awareness about the complexity of the theme.